Trump
è inquietante non per gli impegni della sua campagna elettorale che
rispetta, ma per quelli che non rispetta. Trump, da buon imprenditore,
sembrava impegnato a ridimensionare quelle politiche aggressive,
militari e non militari, che fan spendere un mucchio di quattrini agli
Stati Uniti senza trarne alcun vantaggio. Invece, da questo punto di
vista, ha cominciato malissimo. A fine gennaio col pretesto di
combattere l’Isis ha ordinato un raid disastroso in Yemen con grande
dispiegamento di forze, droni, Apaches, velivoli speciali Osprey, navi
da guerra che appoggiavano Navy Seal 6 scesi sul terreno. Risultato: un
soldato americano morto, tre feriti e almeno 16 civili uccisi fra cui 8
bambini. Sono stati eliminati anche 14 jihadisti, ma non era questo il
vero obbiettivo della missione. L’obbiettivo era inserirsi, per
l’ennesima volta, nella guerra civile in Yemen fra gli sciiti houti e il
governo centrale sostenuto dalla loro grande e ambigua alleata nella
regione, l’Arabia Saudita.
Trump
sta cercando anche di smontare una delle poche mosse utili fatte da
Barack Obama, la sostanziale pace con l’Iran, sia con nuove misure di
embargo economico, sia col divieto esteso anche agli iraniani di
entrare, pur se provvisti di legittimi visti, negli Stati Uniti. L’Iran
invece, uscito dal grottesco ‘Asse del Male’ in cui era stato inserito
perché pretendeva, oh bella, e pretende di avere il nucleare per usi
civili e medici, è oggi un alleato indispensabile nella lotta contro
l’Isis. A Mosul i pasdaran iraniani sono quelli maggiormente in grado,
insieme ai peshmerga curdi, di fronteggiare gli uomini di Al Baghdadi.
Se si dovesse contare sul ridicolo esercito dell’Iraq, guidato dal
quisling missirizi Al Abadi, finirebbe come nel giugno del 2014 quando
poche centinaia di jihadisti conquistarono Mosul mettendo in fuga 34
mila soldati iracheni. I soldati dell’esercito iracheno assomigliano
molto a quelli dell’esercito ‘regolare’ afgano: ragazzi che si arruolano
non per vocazione, ma per sfuggire alla povertà guadagnando uno
stipendio, “scarpe leggere” come si diceva un tempo in gergo militare.
Trump
insomma non sembra aver abbandonato, come si poteva sperare dalle sue
dichiarazioni elettorali, il ruolo degli Usa come ‘gendarme del mondo’.
Cosa ci stanno a fare, ancora, gli americani dopo quindici anni di una
guerra non solo dispendiosa ma del tutto controproducente, in
Afghanistan? Una guerra già da tempo perduta, se è vero, com’è vero, che
i Talebani stanno riconquistando porzioni sempre più vaste di quel
Paese? Solo nel 2016 sono stati uccisi 6.785 agenti delle forze di
sicurezza afgane, cioè quelle del governo fantoccio di Ashraf Ghani, con
un aumento del 35 per cento rispetto al 2015. Anche qui, come in Iraq, i
soldati del cosiddetto esercito regolare sono dei poveracci, giovani
che si arruolano per sfuggire a una disoccupazione che con i
‘liberatori’ occidentali è arrivata al 40 per cento (durante i sei anni
di governo del Mullah Omar era dell’8 per cento). Ma la guerra afgana,
la più lunga in epoca moderna, è una guerra volutamente dimenticata. La
tragedia afgana, perché di questo si tratta con circa 200 mila civili
morti e la distruzione materiale, economica, sociale, culturale del
Paese, non viene ricordata se non di sfuggita e con molto imbarazzo. Da
tutti. Non ho sentito una sola voce levarsi contro questa guerra, non ho
sentito un solo Papa, né Wojtyla né Ratzinger né Bergoglio, sempre
pronti a inumidirsi di lacrime per la morte di uomini, donne e bambini
in ogni parte del mondo, spendere una sola parola per le 200 mila
vittime civili della guerra afgana. C’è un’unica eccezione: Gheddafi.
Come abbiamo ricordato nel nostro precedente articolo fu Gheddafi, che
con gli afgani non aveva nessun legame, nessun rapporto, nessun
interesse, a levarsi in un discorso all’Onu del 2009, contro le
ingiustizie perpetrate su quello che viene definito dagli organi si
stampa occidentali, “questo martoriato Paese”. Come se l’Afghanistan se
lo fossero ‘martoriato’ loro, gli afgani, e non i dieci anni di guerra
dei sovietici e poi i quindici della Nato. Gheddafi aveva anche capito
che i Talebani costituiscono un argine contro l’Isis. Più
pragmatici degli americani, sempre in bilico fra moralismo e cinismo,
questo lo hanno capito i russi che recentemente hanno riconosciuto i
Talebani come “forza militare e politica” e con essi stanno trattando,
passando sopra la testa del governo di Ashraf Ghani e di quello
americano. Del resto si capisce il loro interesse. Se l’Isis penetra
ulteriormente in Afghanistan e lo può fare se i Talebani sono stretti
nella morsa degli jihadisti e degli occupanti occidentali, può poi
dilagare in Turkmenistan, in Tagikistan, in Uzbekistan dove le
componenti musulmane sono se non maggioritarie certamente molto forti e
pronte a radicalizzarsi. In questo caso la jihad diventerebbe un
pericolo concreto anche per la Russia.
Se
Trump vuol spazzar via dalla faccia della terra l’Isis, come ha
dichiarato, sta facendo male i suoi conti. Però in questo groviglio di
contraddizioni Donald Trump una cosa onesta e sorprendente l’ha detta.
Rispondendo al più famoso conduttore della tv Fox News che a
proposito del suo strizzar l’occhio a Vladimir Putin gli faceva notare
che costui è un killer ha replicato: “Pensi che l’America sia così
innocente?... Anche noi abbiamo fatto tanti errori. Pensa solo alla
guerra all’Iraq. Quanta gente è morta”. Insomma anche Trump ammette
quello che sosteneva Muammar Gheddafi: non esiste solo il terrorismo
propriamente detto, esistono anche i terrorismi di Stato.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2017)
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