mercoledì 7 febbraio 2018

Fotograzia: “Sul lettino del fotoanalista”




Malattia o medicina, patologia o terapia? Forse entrambe le cose. La fotografia abita da centosettant'anni le angosce dell'Occidente, le nutre e le lenisce alternativamente. La fotografia è omeopatica. E se invece fosse patogena?

La fotografia ha molto a che fare con la scena psichica, rimesta le profondità dell'anima umana. Lo aveva intuito Italo Calvino in un suo famoso racconto: la fotografia, se obbedisci fino in fondo ai suoi silenziosi ma perentori ordini, ti può condurre all'insanità mentale. E non credo sia un caso se fotografia e malattia sono concetti centrali e paralleli nell'opera di Susan Sontag.

Ricordo un curioso interessante libro che raccomandava l'uso delle fotografie di Luigi Ghirri come esercizio di esegesi emotiva, le prendeva come spunti di introspezione terapeutica capaci di contrastare l'ansia: quasi fossero benzodiazepine visuali. Era in realtà un pretesto per una passeggiata letteraria fra le immagini, per una critica fotografica un po' eccentrica.

Ora ho fra le mani un libro più ardito. Un libro che mi ha fatto sentire in personale imbarazzo. Conosco Simona Guerra da qualche anno, l'ho sempre apprezzata come professionista dell'archiviazione fotografica e studiosa di fotografia. Non sapevo nulla della sua battaglia contro quello che chiama "il mantello oscuro".

Bianco e oscuro è un romanzo, ma il velo è sottile. La protagonista è un'archivista specializzata in fondi fotografici, assediata da ricorrenti e devastanti crisi di panico. Bianco e oscuro è un romanzo, ma anche il resoconto narrato di una storia vera, in cui si inserisce l'incontro con un'altra storia vera.

Un libro composito, divergente, più volte piegato su se stesso, centripeto come un vortice. Alterna la forma dialogo (via email) tra l'Archivista impegnata in un normale lavoro di risistemazione e un Fotografo in difficile missione fra gli ospedali psichiatrici albanesi, alla narrazione introspettiva (e retrospettiva) delle angosce della protagonista-natratrice, al plot quasi investigativo che conduce l'Archivista, mentre si arrabatta sulle carte di un ex ospedale psichiatrico, sulle tracce di un'esistenza svanita nel nulla, la sfortunata vita di un'attrice del secolo scorso, per scoprirne la terribile sorte di reclusa non volontaria in un manicomio.

Le fotografie attraversano il racconto di Simona in molti modi. Quelle reali e mostrate, che fanno di questo libro un album, sono di Giovanni Marrozzini; anche su di lui, il non dichiarato interlocutore della protagonista, il velo narrativo è trasparente. Quelle immaginate e non mostrate, invece, sono foto perdute e ritrovate, ritratti di pazienti, foto di famiglia. Simona le tratta con i guanti, conoscendone il peso simbolico, degna nipote di Mario Giacomelli.

Non svelo nulla di inatteso dicendo che alla fine l'Archivista troverà la chiave per affrontare il suo terribile antagonista interiore, e il libro si chiude sull'arcobaleno ottimista di otto pagine di uniformi colori pastello, senza più parole né immagini.

Ma possono davvero le fotografie salvarci dal "mantello nero"? Il dubbio resta. In fondo, anche in questo libro, sono le parole a fare il grosso del lavoro. I diari dell'attrice, le lettere, il dialogo con il Fotografo inquieto e stressato e i suoi sfoghi. Le fotografie sembrano piuttosto la materializzazione delle angosce: nascondono orrori che non mostrano, o cercano di raccontare gli orrori visti. Sono oggetti transizionali, non strumenti terapeutici. Hanno a che fare più col il cosa che con il come.

Le foto curano? O piuttosto fanno ammalare? O invece sono solo attrezzi neutri ma operativi della terapia, come il lettino dello psicanalista?

La Photo Therapy (da non confondere con la fototerapia come impiego di raggi luminosi in determinate applicazioni dermatologiche) del resto è una pratica ormai ammessa a diversi livelli di supporto psicologico, dal counseling familiare alla psicanalisi in senso stretto.

Ha elaborato protocolli e metodiche, è oggetto di convegni e possiede una bibliografia sorprendentemente nutrita.

La fotografia si presenta oggi come amica dell'inconscio e del subconscio, stimolo e accompagnatrice di un percorso di riconquista dell'io: solitamente la Photo Therapy fa uso, infatti, di foto private, di album familiari. Fotografie come relais per la coscienza, come sonde gettate nel profondo del rimosso.

Del resto, la nascita della psicanalisi moderna e della fotografia moderna sono cronologicamente parallele. Noto è il paragone che Freud tracciò fra funzionamento del subconscio e apparecchio fotografico. Del resto il concetto stesso di introspezione viene popolarizzato nel senso comune dall'apparizione dirompente del ritratto fotografico, "specchio dell'anima".

Ma la fotografia non ha sempre avuto questo volto rassicurante e positivo. Nelle mani dei pionieri eclettici e incontrollabili della scienza dell'anima, la fotografia è stata spesso uno strumento di controllo pseudosceintifico del corpo e della mente, apparecchio contenitivo e mesmerizzante in funzione della subordinazione del paziente al medico, attrezzo di imposizione, persino di tortura. Un curioso bisturi che crea la malattia, come nel caso di Charcot e delle sue povere isteriche della Salpetrière. L'isteria fu una pseudo-malattia foto-genica e foto-generata che la fotocamera del medico spinse a diventare spettacolo di se stessa.

Forse per riscattarsi da questo peccato originale, un secolo dopo, la fotografia si è svincolata dalla camicia di forza e si è ribellata ai camici bianchi, e nell'era di Basaglia ha aiutato a liberare i matti e a chiudere i manicomi. Al prezzo, non preventivato dalla buona fede di quei fotografi antipsichiatri, di fissare uno stereotipo visuale del "matto da slegare".

Allora qual è davvero il posto della fotografia, nello studio dello strizzacervelli? Un posto non definito e non sempre innocente.

Del resto, la fotografia è isterica. La fotografia sfiora il regno dell'allucinazione: rende presente l'assenza, vivente il morto. La fotografia è il perturbante per eccellenza, inquieta chi si illude di dominarla: il fotografo è il super-Io vanesio e debole della sua fotocamera.

La fotografia non è l'assistente dello psicanalista. Non è il suo taccuino, né il suo lettino. Se proprio entra in quello studio, lo fa da paziente.



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commenti all'articolo e presenti nel portale web:

Grazie Francesca per questi spunti messi a disposizione dei lettori di Fotocrazia.
Il Fotocrate

buongiorno Michele, sono una sua fedele lettrice e non sa che piacere mi ha fatto leggere nel suo blog dell'utilizzo della foto nella pratica clinica. Io sono psicologa, psicoterapeuta appassionata di fotografia, e da due anni ho aperto con 3 colleghe uno studio a Milano che si occupa delle interazioni possibili fra psico e foto: dal laboratorio espressivo per adolescenti all'utilizzo delle PhotoTherapy Techniques che proponiamo a diverse tipologie di pazienti. Ultimamente anche i fotografi ci hanno contattato, attratti dalla possibilità di lavorare psicologicamente su di sé, e sul proprio lavoro, attraverso la mediazione dell'immagine. Usiamo molto anche il photolangage che permette l'uso della fotografia come strumento di mediazione nel gruppo. Utilizziamo fotografie d'autore ed è in questa tecnica che la foto "non è paziente": il punto di vista del fotografo viene ignorato e il gruppo si confronta sull'immagine rendendosi consapevole di quante diverse letture possono essere date ad una fotografia senza didascalia. Qui può trovare un testo che racconta una nostra esperienza con un gruppo di pazienti psichiatrici che si sono confrontati intrecciando deliri e ricordi davanti alle immagini da noi proposte.
spero le interessi! grazie mille ancora. francesca belgiojoso

Simone Lomuoio mi piacerebbe sapere quali sono le tue strategie d'attacco. Molto.

Buongiorno a tutti. Anche io ho combattuto e combatto ancora le crisi di panico con la fotografia. E' uno dei modi per riuscire a "capire" il mondo. Un po' quello che diceva Avedon con la morte. Saluti.

è che si pensa per immagini

Simona: Austerlitz di Winfrid Georg Sebald (Adelphi). Il Fotocrate

Ciao Luciana! Le foto non sovrastano il testo, in “Istambul”, ma non c'è parità dei diritti tra fotografia e parole. Non credi? La fotografia è per tutto il tempo al servizio della scrittura. Idealmente, se le coprissimo, il racconto andrebbe avanti ugualmente. Invece la mia ricerca verte proprio su testi che trattano le due espressioni alla pari. Libri in cui se togli le foto casca giù tutto come un castello di carte oppure cambia il senso delle cose. Colgo l'occasione per chiedere a chi legge di segnalarmi/ci altri libri del genere.

Cara Simona, nel libro "Istambul" le immagini sovrastano il testo in quantità, ma non mi sembra che il testo di Pamuck ne sminuisca il valore. Un piccolo ricordo d'infanzia racchiude migliaia di immagini, non l'arte di un fotografo, ma la vita dei protagonisti. Probabilmente in questo "racchiudere" è insita la capacità terapeutica della fotografia. Saluti.

Errore: il libro comprato da poco è "L'innocenza degli oggetti" (Einaudi) e non “Il museo dell’innocenza”.

A dire il vero mi spiace un po’ che tu Michele scriva che qui le parole fanno il grosso del lavoro, perché da tempo ho intrapreso (così come Giovanni, mi sento di dire, seppure con le sue forme) un cammino di studio sul rapporto PARITARIO tra parola e immagine nei racconti (non poesia, cosa già fatta). Sarà per via dell’aria buona di mare che si respira nelle Marche, ma credo che il filo mio, come di Giovanni, con la scuola di Luigi Crocenzi non si sia rotto. Anzi. Da tempo sono a caccia di libri e racconti che trattino la fotografia come la scrittura ovvero dove la gelatina valga quanto l’inchiostro. Sulla mia scrivania è passato, tra gli altri, "Istanbul" di Orhan Pamuk, ma non mi ha soddisfatta perché le foto sono a servizio del testo. Poi c’è passato “Doppia negazione” di Ivan Vladislavic ma nemmeno lui mi ha convinta. Ora (suggerito dall’amico Lorenzo Amaduzzi) ho comprato da poco di nuovo Pamuk. Il suo “Il museo dell'innocenza” mi si è letteralmente attaccato alle mani seppure, in una libreria di Bologna, era rimasta solo un’ultima copia strappata.
Ma non importava! Ora, io che sono l’ultima arrivata e che mai arriverò, in questo libro ho voluto mettere la metà. Così mi sento e così lo propongo; così vorrei tanto che gli altri lo accettassero. Un lavoro figlio di due genitori, che hanno messo quel che era naturale e possibile mettere, ognuno con i propri mezzi, in un libro. E poi vorrei aggiungere che… sì, le fotografie salvano! Il panico è un capitolo passato della mia vita, un parente che potrebbe sempre decidere un giorno di tornare a trovarmi, ma a liberarmi dai parenti serpenti ci sarà e c’è stata sempre la Fotografia. Fotografia abitata, come modo di vivere, come modo per respirare, come motivo per alzarsi la mattina; per conoscere il mondo, per partecipare al tuo blog ed avere qualcosa che ci leghi. Si può usare in tanti modi la fotografia, non sempre e necessariamente scattando.

Cesare Colombo 7 gennaio 2013 alle 17:58
Come Michele, conosco anch'io Simona da diversi anni... ho collaborato alle sue iniziative nella cultura fotografica marchigiana, ho conversato e discusso con lei cento volte. Leggendo il suo libro, ho pensato che le parti letterariamente più riuscite siano quelle delle riflessioni personali (come Archivista) sulle immagini che esamina alla casa di riposo delle antiche star provinciali, protagoniste di diversi settori dello spettacolo. Inseguendo le tracce di un personaggio, Simona si avventura dentro un lontano dramma che è familiare, prima che psico-patologico. E anche di Giovanni Marozzini, trovo più originali, e folgoranti, le vere immagini inviate dall' Albania che non le ipotizzate confessioni per e-mail. Cosi Simona guida e controlla con indubbia lucidità - nel suo racconto - più il linguaggio visivo che le ipotesi sulla sua privata patologia. Gettato il mantello, però, Simona continua per pagine a parlarci di fotografie : quelle nascoste nelle scatole dell' ospizio e quelle che le arrivano sul monitor. Solo queste vediamo riprodotte, le prime sono descritte... E nel resoconto - cioè nella cultura visiva dell' autrice - scopriamo i legami misteriosi che da sempre collegano le immagini alle parole, ai sentimenti, alle nevrosi, alle memorie e alle illusioni che ognuno di noi coltiva inconsciamente. Il mantello nero è forse di tutti, vorrei dirle. E' la camera oscura in cui ci muoviamo tutti a stento, ci urtiamo, talvolta ci abbracciamo.

A me piace pensare che la fotografia sia un potente modulatore delle emozioni: può suscitarle ma anche renderle controllabili. Come Perseo, guardando nello specchio, il fotografo può sconfiggere Medusa.

Non ci sono dubbi, l'atto fotografico è una mirabile esperienza della psiche e nobile sublimazione delle più profonde pulsioni libidiche. Come esorcismo consolatorio, lasciamo c'illuda la morte sia degli altri.

Dimenticavo, io tra il 1998 e il 1999 mi sono occupato per più di sei mesi di documentare la situazione del manicomio di Agrigento dopo l'approvazione della legge Basaglia "180", per me è stata una esperienza molto forte visto che stavo li dentro con i "matti" più 12 ore al giorno. Voglio dire che il "disagio mentale" lo vivevo sulla mia pelle. Tutto questo non mi ha impedito però di fotografare e soprattutto di entrare in empatia con i "Matti" incuriositi dall'apparecchio fotografico ma soprattutto dalle foto che due tre giorni dopo gli mostravo. Grazie a quelle foto l'ospedale venne chiuso. Per concludere i "Matti" mi hanno insegnato molto, che il vero disagio mentale stava fuori dai manicomi, cioè nelle persone che non volevano vedere e nascosere all'interno di una struttura chiamata "manicomio". Questo brano di Basaglia è stato per me illuminante: Follia, ovvero il pianeta degli uomini invisibili.
[ ...riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita ]
«Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. E’ una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l’irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.»
Franco Basaglia

I primi amici del subconscio credo che possiamo essere noi e il nostro coraggio di volerlo andare a ripescare, sconfiggendo la paura atavica che ce lo ha fatto nascondere laggiù. Forse si, una foto può stimolare la mente a ripescarne un pezzetto, ci credo, ma solo dopo la predisposizione mentale a farlo. Però vedo dove ti intriga l’argomento, Michele, dal momento che il subconscio è la più impalpabile delle regioni della mente umana, un territorio al limite tra il reale e il sogno, una zona che fatica ad emergere ma che contiene elementi preziosi della nostra personalità. Così la fotografia, mi insegni, naviga sul fiume che separa la realtà dall’interpretazione, va a rivelare quello che vede ma lo rielabora attraverso il filtro mentale di chi lo vede. Forse potrei scriverlo meglio ma ci vedo un legame anch’io con l’inconscio. Mi ha anche colpito l’ultima frase di Fabiano, non so se e’ un, ops, lapsus. Michele scrive di fotografia e controllo della mente, mentre tu di controllo delle masse (argomento non toccato). Per anni, una certa critica vetero-comunista ha osteggiato la psicoanalisi proprio perchè vista come uno strumento di “controllo delle masse”, anzichè l’esatto contrario che invece è. Altro curioso sillogismo che potrebbe mettere insieme fotografia e psicoanalisi. Non è una critica, solo un’associazione di idee generata da questo post. Buon anno a tutti! Vale

Coplimenti bel articolo, volevo semplicemtente segnalare questo link: http://jcom.sissa.it/archive/03/02/A030203/jcom0302%282004%29A03_it.pdf

Ha ha! Matti da slegare! I matti erano fuori anche prima che chiudessero i manicomi! La vicinanza della fotografia, delle immagini e di tutto l'apparato visivo al subconscio e all'inconscio credo siano state sottovalutate. Attraverso le foto, e la tv, la società dell'immagine, la televisione (i vari Amici, che poi tanto amici non sono) hanno impostato e definito l'immaginario di una intera generazione. Dai troisti alle troiste abbiamo una generazione di giovani cui è stata rimossa, per sostituzione con immagini patinate, leccate, di un successo squallido, la capacità di immaginare. La capacità di sognare e di conseguenza crearsi un futuro. Nessuna rivolta, quindi. L'immagine sappiamo è uno degli strumenti per il controllo delle masse, veniamo da anni politici non di follia ma di demenza vera, dove un nano s'inalbera appena si parla di statura (morale?), e subito gli fa eco il nano che l'ha messo alla ribalta per non essere il più piccolo: dei poveracci. Che creano poveracci, purtroppo.

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