Su
Youtube si assiste a un fenomeno curioso, interessante e anche
vagamente inquietante. Un certo Gab Loter, nome chiaramente di fantasia,
che preferisce restare nell’anonimato (si sa solo che ha una trentina
d’anni), ha la stessa, identica, voce, lo stesso timbro, le stesse lente
cadenze, le stesse pause di Fabrizio De André. Ma non canta i brani del
celeberrimo aedo (che Paolo Villaggio, esagerando un po’ come suo
solito, definiva “il più grande poeta del Novecento”) ma dei rapper oggi
in voga, da Fedez in giù. Ora, i versi dei rapper paiono non solo a
noi, che siamo del pleistocene, ma anche a un sessantenne, a un
cinquantenne, a un quarantenne, di una banalità sconcertante (“Tu sei
come il mare/ volevo dirtelo” di Ermal Meta, ma che roba è?). Cantate
però dallo pseudo De André acquistano se non un’abissale profondità
certamente un senso che a noi ‘vegi’ (intendo le persone dai quaranta in
su) senza l’intermediazione di Gab Loter sfugge. Evidentemente
riportati su codici musicali che conosciamo o riconosciamo, quelli di De
André, riusciamo a capirne anche i testi. Per i ventenni e i trentenni
invece la comprensione è immediata. Non hanno bisogno di codici. Li
hanno già dentro di sé.
Bravo,
dirà il lettore, hai scoperto l’acqua calda: il gap generazionale, che è
sempre esistito. Fino a un certo punto. Un tempo, non poi così lontano,
diciamo nei Cinquanta, i sociologi e la gente comune misuravano il gap
generazionale in vent’anni. Se andiamo solo un po’ più indietro, i
valori della generazione di mio padre, che era del 1901, restavano
ottocenteschi, non molto dissimili quindi da quelli delle generazioni
precedenti. Il gap c’era, ma molto più dilatato nel tempo. Andando
ancora più indietro, scavalcando a ritroso la Rivoluzione industriale,
nella società statica medioevale il gap era praticamente inesistente.
Una
ventina di anni fa ho assistito a un divertente siparietto fra mio
figlio, che aveva allora 22 anni, e un ragazzetto di 17 che c’era
capitato in casa. Naturalmente per mio figlio, che era allora
appassionato, mi pare, di R&B (anche se c’era una fondamentale
distinzione fra l’R&B classico e quello contemporaneo) io non capivo
nulla di musica moderna, e non solo, ero un uomo del pleistocene. I due
si misero a discutere: secondo il piccolo ospite era mio figlio a non
capire un cacchio di musica, era lui il pleistocenico. Eppure fra i due
correvano solo cinque anni di differenza (se mio figlio legge queste
righe anticipa l’eutanasia cui gli ho dato diritto).
Ritorniamo
a Gab Loter. Mi pare che il suo esperimento metta il dito, non so
quanto coscientemente, su uno degli ‘idola’ della nostra società: la
velocità. Il ritmo di Gab Loter è lento e quindi il suo dire
comprensibile a tutti, quello dei rapper precipitoso e quindi ciò che
vogliono comunicare incomprensibile se non ai loro adepti.
Usciamo
dal campo della musica. Sono le violente e continue accelerazioni cui
ci costringe la società tecnologica a farci viver male. Negli Stati
Uniti, soprattutto in campo digitale, si è obsoleti già a quarant’anni.
Se in Italia i cinquantenni non trovano lavoro non è solo perché non c’è
ma anche perché il loro know-how è superato (qualcuno ricorderà, forse,
il bel film di Soldini “Giorni e nuvole”). E’ difficile, logorante,
sfibrante tener dietro ai continui cambiamenti.
Ma
c’è qualcosa di più profondo e di più grave. La velocità ci impedisce
di riflettere. C’è un bel libro, “La scoperta della lentezza” di Sten
Nadolny. Racconta la storia di un ragazzo che, rispetto ai suoi
coetanei, è lento di riflessi, quasi torpido, sempre ultimo nei giochi.
Si chiama John Franklin. Diventerà un grande esploratore polare e lo
scopritore del leggendario passaggio a nord-ovest nell’Artico. Cos’era
successo? Mentre i suoi compagni si sfrenavano nei giochi lui
rimuginava, osservava, incamerava, assimilava.
Sì,
dovremmo andare più lenti, molto più lenti. Perché la velocità ci
impedisce di riflettere e finisce per offuscare l’intelligenza e la
sensibilità. Non è un caso che non nascano più, almeno
nell’ultradinamico Occidente, scrittori del livello di Proust, di
Céline, di Kafka, di Dostoevskij e di tutta la straordinaria filiera dei
grandi autori russi. Non è certamente un caso che l’ultimo filosofo
degno di questo nome sia stato Martin Heidegger, attivo negli anni
Trenta del Novecento, che pose al centro della sua riflessione proprio
la Tecnica. E mi rifiuto di pensare che se, imitando Gab Loter in altro
campo, leggessimo Massimo Cacciari con i ritmi della scrittura
heideggeriana il pensiero del filosofo veneziano risulterebbe diverso da
quello che appare: privo di senso.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2018)
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