giovedì 2 aprile 2020

“QUID NOCTIS?” (Isaia) - “forse, di ciò che non sappiamo spiegare, possiamo solo narrare” – (L. Wittgenstein)



Nella piccola valle della riserva indiana, sui Monti della Luna, tra l’Arizona e il Nuovo Messico, gli anziani della tribù del “popolo delle piccole ombre” si erano riuniti intorno al sacro totem della memoria.
Durante il giorno, i tam tam dei fratelli rossi, prossimi al loro campo, anche loro rinchiusi nella riserva, avevano scandito messaggi inquieti.
A lungo, e reciprocamente, gli anziani si chiesero le ragioni, le cause, le origini di quello strano morbo che tanta paura e tanto malessere stava seminando tra la loro gente.
Ognuno parlò con saggezza e lingua dritta ma nessuna certezza venne fuori.
Occorreva prendere una decisione; magari, era opportuno parlare con i visi pallidi e comunicare loro i disagi imminenti e i pericoli che “correva” la tribù.
Gli anziani si ritirarono nei loro tepee rimandando ogni decisione al ritorno dei giovani guerrieri che stavano cacciando lungo gli altipiani della Mesa ignari, ancora, del pericolo incombente.
Accovacciati per terra, accanto al fuoco morente, due anziani si trattennero ancora a discutere; erano il gran capo Capelli Argentati e lo stregone Giuseppe, “uomo della medicina” riconosciuto e stimato da tutti, onorato in tutte le tribù del popolo indiano.
“Il sole è tramontato Giuseppe, le ombre s’infittiscono. Riesci a comprendere i segni degli antichi spiriti?”.
“Non dormo più bene. Da qualche tempo, il mio riposo è disturbato da incubi, da voci indistinte, da bagliori, da riflessi senza logica e senza causa. Nel sonno la visione è sfocata e disturbata. Ho chiesto agli spiriti dei nostri morti un aiuto per meglio vedere, comprendere, capire. Quando ci provo, sento solo la voce di un bambino che mi prende in giro e, scherzando, m’invita a giocare”.
“Un bambino? Cosa significherà mai?”
“Non riesco a capirlo. Ho chiesto alla squaw Girasole Scortese di mandare, alle altre tribù, segnali di fumo per stabilire un contatto, una comunicazione; ma, ancora, non giungono risposte”.
“ Ma quel bambino di cui parli? E’ uno spirito? E’ un’ombra?”
“No, affatto. E’ un birbantello, un ladruncolo goloso di miele, che non vede l’ora di cavalcare e andare a caccia di bisonti. Quando, però, mi ritiro a studiare i segni di questi tristi giorni, lui mi segue sempre e prende in giro ogni mia riflessione, anche la mia stessa silenziosa meditazione. E fa stancare le mie vecchie meningi, e gli occhi pure”.
“Voglio conoscerlo. Gli ordinerò di portar più rispetto agli anziani”.
“Lo sta educando Pettirosso Fumante, una squaw che spiega ai nostri giovani gli strumenti per guardare i segni della natura che li circonda. Quel monello, però, inventa un “come” sempre diverso e sempre nuovo”.
“Ma tu, Giuseppe, che sei stato saggio e prudente, di veramente nuovo, cosa hai sperimentato per capire cosa ci sta accadendo?”
“Assolutamente niente: mi pongo ogni volta le stesse domande ‘Cosa, come, perché?’, così come m’insegnarono quand’ero bambino; ma questi interrogativi non bastano più. Adesso occorre porre  domande ‘giuste’ per ricevere, da ciò e da chi ci sta accanto, risposte ‘responsabili’”.
“Hai provato a chiedere alle ombre parlanti? Hai gettato i sacri ossicini nelle ceneri del nostro fuoco sacrificale? Hai guardato i riflessi dell’acqua? Provaci ancora vecchio Giuseppe. La Luna è alta, la notte avanzata e comincia a far freddo; ma tu provaci. Io mi ritiro e ti lascio in ascolto dei nostri spiriti”.
Rimase solo Giuseppe con i suoi pensieri. Intorno, oscure presenze lo agitavano rendendolo più triste e privo di ogni volontà risolutiva.
Sentì un passo leggero che si avvicinava; i suoi occhi stanchi frugarono ancora nel buio e fecero in tempo a riconoscere il ragazzo dei suoi sogni che, adesso, sorridendo, gli porgeva una pipa.
“Dove l’hai presa, figliolo?”
“L’ho rubata a Pettirosso Fumante. Lei ne ha tante. Non è corretto, lo so. Ma tu stasera hai bisogno di scrutare le tue immagini oscure e prive di senso; devi rimanere assai sveglio”.
Da molti anni non fumava il calumet ma il gesto innocente di quel bambino gli fece capire che il tempo, in quel preciso istante, si stava strutturando intorno a loro perché lui, loro, dovevano percepire qualcosa, dovevano sciogliere un enigma, dovevano risolvere una misteriosa agnizione. E tutto questo riguardava l’atmosfera malata nella quale era caduta la tribù che li ospitava.
“Facciamo ancora il gioco delle domande?” - chiese il ragazzo.
“Non so più formularne” - rispose mestamente Giuseppe.
“Allora sei rincitrullito oltre che vecchio. Per fortuna ci sono io. Ti ricordi quelle domande intorno al “cosa, come e perché”? E quelle altre della “tematica, della poetica, dello stile”? Non ti ricordi la sequenza con la quale ci hai tormentato l’inverno passato e cioè “guardare, vedere, osservare, riflettere, condividere?" E quell’altra “dell’impressione che si fa emozione per divenire espressione e finire come rappresentazione”? E la tiritera sulla “forma che ha bisogno di una superficie, di un volume, di un colore” per essere compresa. Ti risparmio “il quadrato” dell’ermeneutica. Vuoi che te ne ricordi altre?”
“No, non tormentarmi. Vuoi dirmi, forse, che è stato tutto inutile? Che era solo aria fritta nella mia bocca sdentata?”
“Non ti offendere, ma guardando i colori delle tende del villaggio, i disegni dei totem, i tatuaggi sulla pelle dei guerrieri nei pow-wow di festa o le penne dei copricapo dei nostri sachem, io ho provato a utilizzare le domande che mi hai insegnato ma non ho cavato un ragno dal buco. Ora voglio proprio vedere cosa sarai capace di trarre tu, uomo della medicina, dai segni nascosti in quest’oscurità assoluta”.
Lontano, il sofferto ululato di un coyote sembrò fare eco alle parole del ragazzo.
“Ascolta. Getterò le ceneri in aria e tu, presuntuoso puledro non ancora domato, cerca di comprendere ciò che vedi oltre le ombre; e prova, anche, a capire ciò che chiedo alle immagini”
Alla luce dell’esile fiamma Giuseppe gettò le ceneri in aria.
“Cosa hai visto?” - chiese al ragazzo.
“Niente” - fu la sua onesta risposta.
Giuseppe, tristemente, convenne su quell’evidenza. 
Deluso ma non rassegnato prese allora il vecchio sacchetto che stava legato alla cintura. Era la sua ultima risorsa. Non l’aveva mai aperto.
Racchiusi, vi conservava gli ossicini dei corpi animati che aveva avuto più sacri.
Con gli occhi lacrimanti scagliò per terra quelle reliquie, cercando di capire, dalla forma che avrebbero assunto, se partecipavano qualche messaggio. Poi chiese al ragazzo:
“ E adesso?”
“Idem con patate” - fu l’impertinente risposta.
Disperato, allora, provò a mescolare le ceneri, le reliquie, le ombre, i pensieri e le lacrime; tutto in vecchio tegame di coccio. Poi ne guardò il fondo e rivolse gli occhi interrogativamente al ragazzo.
“Questa schifezza te la bevi tu” – fu la sua pronta reazione.
Una civetta, intanto, fece sentire la sua presenza nelle tenebre.
“Vedi, non siamo soli” – disse, pensieroso, il ragazzo.
“Già, non siamo soli” – rispose, meditabondo, Giuseppe.
Un reciproco sorriso, improvvisamente, si incontrò e si confrontò nei loro sguardi: avevano sorpreso uno spirito buono e, insieme, avevano afferrato che quel qualcosa che cercavano di capire, interessava tutti, e tutti, pertanto, erano in consonanza con la tensione di quella notte.
“Non siamo soli: questo mi conforta. È un buon dato di partenza. Sei stato bravo ragazzo”
“Niente di antico sotto il sole, caro Giuseppe; è stato sempre così”.
“Cosa hai detto? Il Grande Spirito parla in te. La luce del sole farebbe nuova ogni cosa? Quindi le forme che non vediamo in questa notte buia, all’alba ci appariranno assolutamente evidenti?”
“Certo, perché le riconosceremo per quello che sono. Io, per adesso, caro Giuseppe, so solo che le luci dell’alba mi fanno vedere solo le creste delle colline dei nostri canyon. Domani invece scruterò il profilo delle nuvole che mi rivelerà”  …………………..

Fu a questo punto che strappai il giornalino al corsista che stava, di soppiatto e irrispettosamente, leggendo questa storia impipandosene del seminario di fotografia di base. Nello strappo, l’ultima (?) pagina rimase nelle sue mani.
Ed ora, rileggendo quel che ho provato a raccontarti, non ricordo  più nulla; qualcosa dentro di me mi dice che il ragazzo, quel piccolo principe, aveva trovato un bandolo della matassa.
Cosa avrebbe rivelato il profilo delle nuvole?

Se qualcuno ritrova l’ultima (?) pagina, magari …………………………

© Pippo Pappalardo


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