Nella piccola valle della riserva
indiana, sui Monti della Luna, tra l’Arizona e il Nuovo Messico, gli anziani
della tribù del “popolo delle piccole ombre” si erano riuniti intorno al sacro totem
della memoria.
Durante il giorno, i tam tam dei
fratelli rossi, prossimi al loro campo, anche loro rinchiusi nella riserva,
avevano scandito messaggi inquieti.
A lungo, e reciprocamente, gli
anziani si chiesero le ragioni, le cause, le origini di quello strano morbo che
tanta paura e tanto malessere stava seminando tra la loro gente.
Ognuno parlò con saggezza e
lingua dritta ma nessuna certezza venne fuori.
Occorreva prendere una decisione;
magari, era opportuno parlare con i visi pallidi e comunicare loro i disagi
imminenti e i pericoli che “correva” la tribù.
Gli anziani si ritirarono nei
loro tepee rimandando ogni decisione al ritorno dei giovani guerrieri che
stavano cacciando lungo gli altipiani della Mesa ignari, ancora, del pericolo
incombente.
Accovacciati per terra, accanto
al fuoco morente, due anziani si trattennero ancora a discutere; erano il gran capo
Capelli Argentati e lo stregone Giuseppe, “uomo della medicina” riconosciuto e
stimato da tutti, onorato in tutte le tribù del popolo indiano.
“Il sole è tramontato Giuseppe, le
ombre s’infittiscono. Riesci a comprendere i segni degli antichi spiriti?”.
“Non dormo più bene. Da qualche
tempo, il mio riposo è disturbato da incubi, da voci indistinte, da bagliori,
da riflessi senza logica e senza causa. Nel sonno la visione è sfocata e
disturbata. Ho chiesto agli spiriti dei nostri morti un aiuto per meglio
vedere, comprendere, capire. Quando ci provo, sento solo la voce di un bambino
che mi prende in giro e, scherzando, m’invita a giocare”.
“Un bambino? Cosa significherà
mai?”
“Non riesco a capirlo. Ho chiesto
alla squaw Girasole Scortese di mandare, alle altre tribù, segnali di fumo per
stabilire un contatto, una comunicazione; ma, ancora, non giungono risposte”.
“ Ma quel bambino di cui parli?
E’ uno spirito? E’ un’ombra?”
“No, affatto. E’ un birbantello, un
ladruncolo goloso di miele, che non vede l’ora di cavalcare e andare a caccia
di bisonti. Quando, però, mi ritiro a studiare i segni di questi tristi giorni,
lui mi segue sempre e prende in giro ogni mia riflessione, anche la mia stessa
silenziosa meditazione. E fa stancare le mie vecchie meningi, e gli occhi
pure”.
“Voglio conoscerlo. Gli ordinerò
di portar più rispetto agli anziani”.
“Lo sta educando Pettirosso
Fumante, una squaw che spiega ai nostri giovani gli strumenti per guardare i
segni della natura che li circonda. Quel monello, però, inventa un “come” sempre
diverso e sempre nuovo”.
“Ma tu, Giuseppe, che sei stato
saggio e prudente, di veramente nuovo, cosa hai sperimentato per capire cosa ci
sta accadendo?”
“Assolutamente niente: mi pongo ogni
volta le stesse domande ‘Cosa, come, perché?’, così come m’insegnarono
quand’ero bambino; ma questi interrogativi non bastano più. Adesso occorre porre domande ‘giuste’ per ricevere, da ciò e da
chi ci sta accanto, risposte ‘responsabili’”.
“Hai provato a chiedere alle
ombre parlanti? Hai gettato i sacri ossicini nelle ceneri del nostro fuoco
sacrificale? Hai guardato i riflessi dell’acqua? Provaci ancora vecchio
Giuseppe. La Luna è alta, la notte avanzata e comincia a far freddo; ma tu
provaci. Io mi ritiro e ti lascio in ascolto dei nostri spiriti”.
Rimase solo Giuseppe con i suoi
pensieri. Intorno, oscure presenze lo agitavano rendendolo più triste e privo
di ogni volontà risolutiva.
Sentì un passo leggero che si
avvicinava; i suoi occhi stanchi frugarono ancora nel buio e fecero in tempo a
riconoscere il ragazzo dei suoi sogni che, adesso, sorridendo, gli porgeva una
pipa.
“Dove l’hai presa, figliolo?”
“L’ho rubata a Pettirosso
Fumante. Lei ne ha tante. Non è corretto, lo so. Ma tu stasera hai bisogno di
scrutare le tue immagini oscure e prive di senso; devi rimanere assai sveglio”.
Da molti anni non fumava il
calumet ma il gesto innocente di quel bambino gli fece capire che il tempo, in quel
preciso istante, si stava strutturando intorno a loro perché lui, loro, dovevano
percepire qualcosa, dovevano sciogliere un enigma, dovevano risolvere una
misteriosa agnizione. E tutto questo riguardava l’atmosfera malata nella quale
era caduta la tribù che li ospitava.
“Facciamo ancora il gioco delle
domande?” - chiese il ragazzo.
“Non so più formularne” - rispose
mestamente Giuseppe.
“Allora sei rincitrullito oltre
che vecchio. Per fortuna ci sono io. Ti ricordi quelle domande intorno al “cosa,
come e perché”? E quelle altre della “tematica, della poetica, dello stile”?
Non ti ricordi la sequenza con la quale ci hai tormentato l’inverno passato e
cioè “guardare, vedere, osservare, riflettere, condividere?" E quell’altra
“dell’impressione che si fa emozione per divenire espressione e finire come
rappresentazione”? E la tiritera sulla “forma che ha bisogno di una superficie,
di un volume, di un colore” per essere compresa. Ti risparmio “il quadrato” dell’ermeneutica.
Vuoi che te ne ricordi altre?”
“No, non tormentarmi. Vuoi dirmi,
forse, che è stato tutto inutile? Che era solo aria fritta nella mia bocca
sdentata?”
“Non ti offendere, ma guardando i
colori delle tende del villaggio, i disegni dei totem, i tatuaggi sulla pelle
dei guerrieri nei pow-wow di festa o le penne dei copricapo dei nostri sachem,
io ho provato a utilizzare le domande che mi hai insegnato ma non ho cavato un
ragno dal buco. Ora voglio proprio vedere cosa sarai capace di trarre tu, uomo
della medicina, dai segni nascosti in quest’oscurità assoluta”.
Lontano, il sofferto ululato di
un coyote sembrò fare eco alle parole del ragazzo.
“Ascolta. Getterò le ceneri in
aria e tu, presuntuoso puledro non ancora domato, cerca di comprendere ciò che
vedi oltre le ombre; e prova, anche, a capire ciò che chiedo alle immagini”
Alla luce dell’esile fiamma
Giuseppe gettò le ceneri in aria.
“Cosa hai visto?” - chiese al
ragazzo.
“Niente” - fu la sua onesta
risposta.
Giuseppe, tristemente, convenne
su quell’evidenza.
Deluso ma non rassegnato prese
allora il vecchio sacchetto che stava legato alla cintura. Era la sua ultima
risorsa. Non l’aveva mai aperto.
Racchiusi, vi conservava gli
ossicini dei corpi animati che aveva avuto più sacri.
Con gli occhi lacrimanti scagliò
per terra quelle reliquie, cercando di capire, dalla forma che avrebbero assunto,
se partecipavano qualche messaggio. Poi chiese al ragazzo:
“ E adesso?”
“Idem con patate” - fu
l’impertinente risposta.
Disperato, allora, provò a
mescolare le ceneri, le reliquie, le ombre, i pensieri e le lacrime; tutto in vecchio
tegame di coccio. Poi ne guardò il fondo e rivolse gli occhi interrogativamente
al ragazzo.
“Questa schifezza te la bevi tu” –
fu la sua pronta reazione.
Una civetta, intanto, fece
sentire la sua presenza nelle tenebre.
“Vedi, non siamo soli” – disse,
pensieroso, il ragazzo.
“Già, non siamo soli” – rispose,
meditabondo, Giuseppe.
Un reciproco sorriso,
improvvisamente, si incontrò e si confrontò nei loro sguardi: avevano sorpreso
uno spirito buono e, insieme, avevano afferrato che quel qualcosa che cercavano
di capire, interessava tutti, e tutti, pertanto, erano in consonanza con la
tensione di quella notte.
“Non siamo soli: questo mi
conforta. È un buon dato di partenza. Sei stato bravo ragazzo”
“Niente di antico sotto il sole,
caro Giuseppe; è stato sempre così”.
“Cosa hai detto? Il Grande Spirito parla in te. La luce del sole farebbe nuova ogni cosa? Quindi le forme che non vediamo in questa notte buia, all’alba ci appariranno assolutamente evidenti?”
“Cosa hai detto? Il Grande Spirito parla in te. La luce del sole farebbe nuova ogni cosa? Quindi le forme che non vediamo in questa notte buia, all’alba ci appariranno assolutamente evidenti?”
“Certo, perché le riconosceremo
per quello che sono. Io, per adesso, caro Giuseppe, so solo che le luci
dell’alba mi fanno vedere solo le creste delle colline dei nostri canyon.
Domani invece scruterò il profilo delle nuvole che mi rivelerà” …………………..
Fu a questo punto che strappai il
giornalino al corsista che stava, di soppiatto e irrispettosamente, leggendo
questa storia impipandosene del seminario di fotografia di base. Nello strappo,
l’ultima (?) pagina rimase nelle sue mani.
Ed ora, rileggendo quel che ho
provato a raccontarti, non ricordo più
nulla; qualcosa dentro di me mi dice che il ragazzo, quel piccolo principe,
aveva trovato un bandolo della matassa.
Cosa avrebbe rivelato il profilo
delle nuvole?
Se qualcuno ritrova l’ultima (?)
pagina, magari …………………………
© Pippo Pappalardo
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