martedì 11 maggio 2021
Scrisse lucidamente “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” ma morì suicida
A mia memoria, non credo di avere passato più di qualche notte senza dormire e tenuto conto che i miei settanta anni circa corrisponderebbero matematicamente a 25.550 sonni e relativi risvegli - non considerando in ciò brevi pennichelle e che durante il sonno il nostro sistema simpatico innesta il pilota automatico e va avanti - si potrebbe azzardare a dire che dovremmo un po’ essere allenati da una vita a morire ogni sera. Eppure la maggior parte di noi restiamo ossessionati e abbiamo terrore della morte.
Molta letteratura, specie quella moderna, rifugge l’argomento e i media sostituiscono costantemente il termine con tanti sinonimi vari; come a voler esorcizzare l’attualità continua dell’evento, edulcorandolo in termini e presentando l’accadimento quasi come un fatto che può capitare solo ad altri.
Chi ha avuto la fortuna di vivere per tanto tempo sa bene che nei periodi giovanili il problema quasi non esiste. Almeno come possibilità prossima e diretta.
Il naturale decorso della vita ci presenta solo episodi, che interessano chi abbiamo conosciuto e che però è stato meno fortunato di noi, oltre le naturali perdite e dipartite di persone a noi care.
Il processo di elaborazione del lutto, in ogni caso, temporalmente non ha comunque una regola fissa. Dura dei mesi, anche degli anni, non escludendo che può anche accompagnarci per tutta l’esistenza che resta; con fantasmi che compaiono e scompaiono, per inabissarsi con ombre che stazioneranno perpetue nella nebbia della nostra mente.
Superare i traumi è funzionale alla sopravvivenza di chi resta e sperare che il tempo sia capace di sanare ogni cosa, appare spesso irrealistico per i vuoti che alle volte rimangono.
L’attualità del nostro XXI^ secolo in ogni caso è assai idonea a distrarre, a distrarci. La specificità consumistica della società moderna è molto utile al riguardo.
Ambizione e continui desideri sono alimentati e inculcati da un esistenzialismo frivolo che costituisce anche il fulcro della formazione delle giovani generazioni.
Tutto è prospettato come possibile. Senza con ciò accorgerci che in realtà oligarchie si tramandano ancora privilegi, che il classismo impera e si perpetua mentre, attraverso media pilotati e finte democrazie, ci fanno credere di sentirci liberi, pur costretti a muoverci –condizionati e chiusi - in gabbie strette, come dei matti costretti nelle stie.
Il tempo è sempre poco e non basta mai. Si corre al lavoro, per portare i figli a scuola, ci rechiamo in palestre per mantenerci eternamente giovani. C’impegniamo tutti in una corsa come quei topi che corrono in una ruota che gira, alimentati dall’energia di una pila interna che crediamo inesauribile.
Poi, invece, ad un certo momento è arrivato l’imprevedibile: ed è apparso il Covid.
Un accidente che razionalmente era facile da prevedere, essendo stato indicato da alcuni come fra gli avvenimenti possibili.
La società in cui eravamo ormai incanalati aveva invece stabilito altre priorità. Occorreva che l’individuo affermasse in qualunque modo la propria presenza e, in un mondo artefatto, occorreva in primo luogo apparire; era stata disegnata un’organizzazione sociale in cui se neanche ci provi sei un disadattato, un fallito, sei proprio nessuno. E, come detto, arrivò il Covid: confusione totale.
S’impongono restrizioni per contenere lo sviluppo del virus e cercare di bloccare ogni forma di contagio: lockdown. Si resta anche a casa a lavorare: smart working. Altri provvedimenti assumono terminologie inglesi, per dare l’apparenza di padroneggiare le gestioni. Si rimane sostanzialmente bloccati e si torna a leggere, a pensare, a vedere le cose in un altro modo.
La paura per la pandemia diventa in breve un’ossessione.
Tutti i media bombardano gestendo il fenomeno come notizia del giorno, con un martellamento continuo in una società sempre più sfibrata.
Talk, servizi, telegiornali e stampa evidenziano però la vera patologia esistenziale che, sottotraccia, ci accompagna da tempo; specie nel mondo occidentale proiettato a velocizzare sempre più il futuro. Bloccati a casa e costretti a riflettere, si cominciano a vedere le ampie falle del nostro sistema civile. Si palesano le carenze di strutture che, a vario livello e per ogni specifico settore, si rivelano inadatte e impreparate.
L’uso delle mascherine insorge, ma le loro adozioni, più che rivolte a contenere l’espandere di un nostro possibile contagio agli altri, sono vissute come espedienti per proteggere principalmente - o forse solo - se stessi.
La paura che ci attanaglia rende tutti passivi, succubi di chi in qualche modo ha le responsabilità nel decidere. I bollettini che ascoltiamo ogni giorno, aggiornano sulla guerra e incrementano il terrore.
A un certo punto, come per incanto e come nelle brutte favole che sembrano un incubo, appare quella che viene prospettata come giusta soluzione. Un “ecumenico”, che viene subito assurto al ruolo di principe e che saprà scegliere nella pandemia quelli che senza alcun dubbio saranno “i migliori”. E' presentato come nuovo “vello d’oro” capace di sanare ogni ferita. Si conclama ancora una volta l’idolatria recondita che da sempre accompagna ogni stirpe umana.
Consolerà intanto e di certo ogni attesa del popolo, anche se inventato e scelto con ruolo taumaturgico dai soliti interessati alle umane cose: quelli più pragmatici, i cinici lucidi, che vedono in ogni circostanza opportunità percorribili per estendere il raggio di possesso.
In un angolo adombrato, resta la figura di un uomo mite, un giusto che viene dalla lontana Terra del Fuoco, cioè dall’altro mondo, che ha una fede diversa e che continua a predicare senza che nessuno però lo ascolti seriamente.
Fortunatamente l’essere umano ancora resiste, ogni notte s’addormenta e nell’onirico alimenta sogni.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
P.S. Il mio amico P. nel leggere questo pezzo, mi segnala un articolo apparso su La Repubblica che non conoscevo e che riporto interamente di seguito per corroborare il senso del discorso.
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"Il senso dell’ultimo saluto" di Vittorio Lingiardi
Intorno alla fossa, nel cimitero in rovina, c’erano…”. È l’incipit di Everyman di Philip Roth. C’erano i colleghi che dissero che era stato un piacere lavorare con lui, gli anziani ai quali aveva dato lezioni di pittura, i due figli maschi delle sue turbolente prime nozze, il fratello maggiore e la cognata, l’infermiera che lo aveva assistito dopo l’operazione al cuore. E poi c’era la figlia, Nancy, “che aveva organizzato tutto e fatto le telefonate”. Il breve romanzo di Roth, il cui titolo è tratto da un anonimo morality play della prima drammaturgia inglese che ha per tema la chiamata di tutti i viventi alla morte, racconta i diversi incontri di un uomo con la propria mortalità. Inizia dalla fine, il funerale, perché un funerale è un rito di riposizionamento, serve ad accompagnare le vite dei morti e ad aggiustare quelle dei vivi.
Everyman ci aiuta a capire come il coronavirus ha cambiato non solo il modo in cui viviamo ma anche quello in cui moriamo. Parlo ovviamente del nostro mondo di Weird people (western, educated, industrialized, rich and democratic), secondo l’acronimo coniato dal biologo evoluzionista Joseph Henrich. Riguarda la nostra collettività benestante e la sua illusione di avere almeno in parte addomesticato il morire.
La pandemia ha fatto due mosse cruciali:
1) ci ha costretto a pensare alla morte tutti i giorni (numeri che ascoltiamo come le previsioni del tempo);
2) ci ha tolto i metodi tradizionali per tollerarla, cioè i riti funebri e la consolazione del contatto fisico.
Per questo consiglio il romanzo di Roth, per ritrovare nella letteratura amica il senso di un’esperienza fondamentale che i protocolli anti Covid, severi ma anch’essi amici, dovrebbero trovare il modo di ripristinare.
Obbligandoci a questo lutto del lutto, il Covid ha reso la salma più astratta e noi più soli. Il corpo del defunto, dai tempi di Antigone, è presenza di memoria in assenza di vita, sanzione di distacco in evidenza di perdita. Quanto incidono, sul piano psicologico, le privazioni rituali a cui la pandemia ci ha costretto? Credo non poco perché riguardano la separazione, che è tema cruciale per ciascuno di noi. Non li salutiamo più, i morti, o li salutiamo in fretta, senza guardarli e senza toccarci.
In Lutto e melanconia, Freud sottolinea come il lutto richieda un lavoro psicologico fondamentale: avviare il “disinvestimento” dalla persona perduta, così che l’esame di realtà possa farci accettare la sua scomparsa.
Quello dell’ultimo saluto, circondati dalle persone cui vogliamo bene e che hanno voluto bene a chi non c’è più, è un momento psichico e rituale che promuove il “lavoro del lutto”. Senza quel saluto è più difficile, è come se una parte della nostra psiche rimanesse sospesa, più incredula e sola.
Il sito dell’American Psychological Association ha aperto una pagina che si chiama Grieving life and loss (che tradurrei Elaborare il dolore della vita e della perdita), perché il tema della rinuncia, ai corpi, certo, ma anche alla sicurezza, prevedibilità e stabilità, è e sarà sempre più cruciale per la salute mentale di domani. Il sito dell’International Psychoanalytic Association ha appena inaugurato una serie di podcast dedicati al morire nelle diverse declinazioni geografiche e culturali.
Siamo nel pieno di un lutto collettivo. Lo diciamo in tv tutti i giorni, ma “dentro” ce lo siamo detti?
“Elaborazione” è la prima parola che qualunque terapeuta associa all’esperienza del lutto. Le cui varianti sono oggi amplificate: lutto complicato, prolungato, post-traumatico. Oltre ai sintomi depressivi, il clima pandemico ha portato a un aumento dell’ideazione suicidaria, anche in adolescenza, che è sempre figlia di elaborazioni mancate, difficili, solitarie.
Come nuove Antigoni siamo chiamati a elaborare una dimensione civile del lutto e della perdita, che è prima di tutto scoperta della nostra finitezza e capacità di accoglierla, anche grazie a un rito condiviso, nella memoria del futuro.
da La Repubblica, 23/2/2021
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