lunedì 17 giugno 2024

“Talè cu c’è!”



Vi assicuro che quando si è avanti negli anni può generare anche un certo panico.
Ero sicuro di avere scritto un pezzo, anzi di averlo per di più anche pubblicato e il non essere in grado di rintracciarlo crea la paura del rincoglionimento veloce.
Chi ha la mia stessa età può di certo meglio capire.
Alla fine ho risolto con l’IA di primo livello, ovvero inserendo nel motore di ricerca Google quegli elementi essenziali utili a trovarne traccia.
Bando alle ciance, checché si continui a dire sulle paure e la pericolosità dell’intelligenza artificiale, è assodato che gli algoritmi sono ormai diventati fondamentali nel sociale e in ogni aspetto del modello occidentale in cui siamo immersi.
Sono pure convinto che, con la velocità della ricerca scientifica, si potrà trovare presto un modo, per collocare nel cervello di ognuno un qualche marchingegno sofisticato; in grado non solo di registrare - come duplicatore di memoria e anche a distanza - ma di agevolare ogni possibile ricerca dati, allocati in qualunque spazio fisico/chimico del cervello. Con tutto quello che ne potrà conseguire. Orwell dixit!
Recuperato il testo, lo ripropongo di seguito nel mio blog abituale, anche per renderne completo il contenuto.
Per la cronaca, il pezzo l’avevo intitolato “Talè cu c’è!” ed è tuttora consultabile, corredato da tante fotografie scattate quel giorno, sul periodico web Dialoghi Mediterranei.

Buona luce a tutti!


© ESSEC

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“Talè cu c’è!” È l’esclamazione che ogni tanto rimbomba per le vie di Palermo quando, senza averlo in alcun modo previsto, ci si incontra inaspettatamente fra amici. 
Questa volta è stato Pino che, bighellonando per le stradine del Quartiere Capo, lancia un’occhiata al salone del barbiere e scopre all’interno tre suoi amici che non vedeva da tempo.
Causa Covid 19 e tanti altri impedimenti, era da molto che non si incontravano in presenza. Qualche collegamento streaming e delle sporadiche email erano stati gli unici contatti con alcuni di loro. La passione per la fotografia è anche il comun denominatore che li unisce e la leggerezza nei rapporti costituisce un altrettanto importante collante.
Ma che ci fate qui? Chi l’avrebbe mai detto? Ci siamo riproposti tante volte d’incontrarci e, senza farlo apposta, ci ritroviamo tutti insieme dal signor Luciano. Il salone da barba, del quale io e Salvo siamo ormai clienti, è uno di quei locali di una volta che fa ancora respirare quell’aria antica. La sua frequentazione è un caldo ritrovo, prescinde infatti dalla prestazione professionale, rappresenta un salotto popolare nel quale ci si incontra fra amici per discutere del più e del meno e, vista l’età media dei frequentatori, anche per farsi reciproca compagnia.
Il quartiere Capo è una miniera di colori, di sguardi, di circostanze che offrono spunti per fare fotografia. I risultati non hanno molta importanza ma il divertimento nel cercare angoli, luci, scorci, dettagli è motivo sufficiente per divertirsi. Nell’incontro casuale il solo Pino circolava disarmato. Noi che avevamo programmato il taglio di capelli da qualche tempo eravamo infatti tutti con la macchina fotografica pronta allo scatto.
Come sanno bene tutti i fotoamatori, ogni pretesto è utile per divertirsi a fare dei click. Quindi, anche il rituale taglio offre l’occasione e pone il soggetto a modello a beneficio degli altri, per sfogare liberamente l’infantile goliardia. In questi casi l’età non conta, o forse sì perché l’anzianità induce a vedere il mondo in maniera disincantata, appare naturale divertirsi con poco e giocare felicemente con la tua macchinetta. Da questi incontri nascono fotografie di un album che documentano momenti di vita, senza pretese o manie di protagonismo, con l’intento di avere immagini utili solo a ricordare. 
L’arredamento del salone di Luciano è abbastanza sobrio e non ha un vero stile, è un ambiente semplice che fa anche da punto di riferimento per gli ambulanti locali anche per necessità impellenti. L’aria che qui si respira è la stessa di quegli anni settanta, di quando eravamo giovani e il barbiere era anche opportunità per incontri generazionali. “A cu appartieni?” Ci chiedevano gli anziani per cercare di capire le discendenze o, più semplicemente, come curiosità anche per legare i discorsi che ascoltavano al ceto sociale di appartenenza.
L’arrivo casuale di Pino è stato anche l’occasione per rivelare l’identità di un frequentatore costante del salone. Ad un certo punto Pino, rivolgendosi al soggetto ebbe a dire un’altra fatidica frase: «A me pare di conoscerla, ma non saprei dire né come e né perché». 
«Forse in un campo di calcio o come spettatore» venne a rispondere prontamente l’interloquito. Proseguì dicendo “Io sono Schiavo, Giuseppe Schiavo, il centromediano del Palermo calcio negli anni sessanta.” La Carrà avrebbe detto: “Caramba che sorpresa!”
Il nostro Pino era un incallito appassionato di calcio, che ha praticato nel tempo anche a buoni livelli. Accadde dunque come un’illuminazione che lo investì di ricordi. Il riconoscimento reciproco fu per Schiavo anche la rimozione di un tappo. Tante considerazioni del tempo e aneddoti vari cominciarono a fluire, in una narrazione che anche a noi vecchi appariva riferirsi ad un tempo recente, appena trascorso.
Io riuscivo persino a rivedere il mezzo busto di tante figurine della Panini che, da giovani, eravamo tutti impegnati a raccogliere nel classico album. Con acquisto di bustine, il mercato degli scambi dei reciproci doppioni e la ricerca delle rarità. Dieci Sandro Bolchi valevano un Gianni Rivera. E poi Sarti, Burgnich, Facchetti, Altafini, Maldini Senior, Trapattoni, Sivori, Bercellino primo e secondo (quest’ultimo, quando giocava nel Palermo, nelle giornate assolate, amava stazionare sempre nelle zone di campo dove c’era ombra), Guarneri, Sandrino Mazzola, Pizzaballa, Vavassori e via dicendo. Quanti nomi! 
La discussione fra i due ex calciatori inesorabilmente portava a dire: «quello sì che era calcio vero, no quello di adesso che, con ossessionanti tatticismi e schemi elaborati, rendono difficile cogliere le differenze fra una partita vista dal vivo e una simulata in play station». 
Il classico ritornello nostalgico in uso negli anziani che ricordando solo aspetti positivi di quei tempi tendono sempre a trasfigurare tutto quanto appartiene al loro tempo passato che coincide con la loro giovinezza.
Per tornare alla sacralità degli ormai rari saloni da barba vintage, centrale rimane l’opportunità d’incontro che offre a una classe di età sempre più emarginata, in un mondo che va troppo veloce, che corre e non trova mai tempo per capire e riflettere sul tempo che trascorre.
Se vi capita di incontrare accrocchi di anziani intenti a discutere e riuscite a guardarli, negli occhi di chi racconta vedrete riaccendersi una luce, quella dei ricordi. Mentre negli altri che ascoltano e partecipano, come svegliandosi da un incantesimo, riemergono tanti avvenimenti, personaggi, usi e costumi di una loro vita che, come fece osservare un’amica a Pippo, saprà pure di naftalina, ma che assai bene ancora si conserva. 
Una volta la storia tramandata, i racconti dei vecchi, le loro parole erano vissuti come fonti d’insegnamento, saggezze di esperienze. Ora riescono a sopravvivere in riserve indiane, come i negozi di barbieri anziani, o più di frequente nelle case di riposo che in gergo moderno sono denominate RSA. 

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