lunedì 31 agosto 2009

Ma quali bimbi inconsapevoli più svegli di quanto pensiamo


Più intelligenti di quanto crediamo. I bambini piccoli sono così, tutt'altro che inconsapevoli. Fanno operazioni logiche, sono creativi, capiscono il mondo. Gli danno un senso, molti sensi, non escludono niente. La vita la conoscono tutta, perché per loro è tutta nuova e travolgente. I bambini, in qualche modo, sono filosofici. Bella definizione, l'ha usata una psicologa cognitiva americana, Alison Gopnik, che insegna all'Università di Berkeley in California, per il suo libro The philosophical baby appunto. La tesi è: i bimbi sono molti più coscienti di quanto riusciamo noi a vedere, immersi come sono nella palpitante attività dell'esistenza, quella che tedia o stressa noi. Quella vita lì, da zero a quattro anni grosso modo, non è un magma indistinto di bisogni e necessità e poi nient'altro. Da piccoli siamo tutto, piuttosto, forse proprio grazie a un po' di cervello in meno. Nuove tecniche d'indagine hanno scoperto che i bambini piccoli hanno più cellule cerebrali, o neuroni, degli adulti così come le varie parti della loro corteccia cerebrale sono collegate meglio rispetto a quelle della nostra. Significa che nella primissima infanzia si assimilano facilmente una grande quantità di informazioni, che da grandi invece "sfoltiamo" ritenendole inutili. Possediamo un cervello più efficiente, ma meno capace di apprendere del loro, più "irrigidito" nel già noto. Il loro è più aperto e flessibile: hanno molti meno neurotrasmettitori inibitori, le sostanze chimiche che impediscono ai neuroni di attivarsi. Disinibiti, vanno verso ogni cosa e non usano filtri. Smontano e rimontano il reale. Gopnik cita l'esempio delle macchine. "Sono in grado di valutare le probabilità condizionate, cioè il rapporto tra alcuni blocchi e l'accensione o lo spegnimento della macchina. Ma quando si presenta a un bambino questa complessa serie di relazioni e gli si chiede di mettere in moto o di fermare la macchina, lui fa la cosa giusta. Anche se coscientemente non sa come funzionano le probabilità condizionate, inconsciamente tiene conto delle informazioni". La psicologa americana ama la seguente metafora: "Se negli adulti l'attenzione funziona come un riflettore, un raggio direzionale che illumina un particolare aspetto della realtà, nei bambini piccoli somiglia più a una lanterna, che getta una luce diffusa su tutto quello che li circonda". Una passeggiata con un bambino di due anni: vede cose che noi manco notiamo. Ogni momento è una Disneyland, per loro. Noi ci concentriamo, loro si distraggono. Noi magari un obiettivo lo raggiungiamo, loro no, ma si arricchiscono di più: sperduti nella totalità, per questo ipercoscienti. L'attenzione non focalizzata e non utilitaristica favorisce nei bambini una migliore capacità di memoria. Grazie alla corteccia prefrontale, la regione responsabile di varie capacità cognitive, che in loro non è ancora totalmente sviluppata. Hanno una "immaturità" vantaggiosa. Magari le scarpe non riescono ad allacciarle, ma le lingue le imparano in fretta, capiscono le relazioni di causa-effetto e persino la morale: giusto e sbagliato, etico e convenzionale. La nostra maturità porta banalità, e oblìo. Riformuliamoci con un più illuminato cogito ergo sum, baby.

ALESSANDRA RETICO

E io che non potevo mandare neanche una missione di pace in Libano senza che i comunisti mi sbranassero


Enrico Boselli si dimostrava più filo-Nato di Massimo D’Alema, il quale doveva superare gli esami per dimostrare, lui ex comunista, di essere più affidabile di Romano Prodi. In quella corsa al servilismo i due dirigenti della sinistra italiana si trovavano in sintonia con i socialisti europei. “Ma chi sono questi?” sbottava Craxi “Non si rendono conto che appiattirsi sul crinale americano indebolisce l’Internazionale, le taglia ogni possibilità di sviluppare in futuro una politica autonoma?”. Erano dei nani di fronte ai Brandt, ai Palme, e ai Mitterand, questi “socialdemocratici da avanspettacolo”. Egli considerava Massimo D’Alema “una persona intelligente” ed era disposto a dar qualche credito al progetto della Cosa Due, ma la prova della guerra gli fece capire che ogni speranza era mal riposta. “Ci pensi?” diceva al figlio “E’ arrivato addirittura a mandare le nostre truppe a Timor Est, per compiacere gli Americani e il Vaticano ….. E io che non potevo mandare neanche una missione di pace in Libano senza che i comunisti mi sbranassero”. Semmai considerava di più Fausto Bertinotti e più volte disse a Bobo che le sue posizioni erano “intelligenti e condivisibili”. In lui Craxi vedeva l’unico vero antagonista all’autoritarismo economico e finanziario che si era installato sulle rovine della Prima Repubblica; però era anche convinto che quel socialista massimalista e libertario, che gli piaceva, fosse stato il “piedino” del Governo D’Alema, al quale aveva comunque contribuito non poco l’ “americano” Francesco Cossiga. Saltati tutti gli spartiacque ideologici, ormai la grande politica era ridotta al rango di manovra. Ai primi di luglio l’avvocato Agnelli – davanti al quale al Lingotto si era genuflesso Massimo D’Alema sette mesi prima – festeggiò con un ricevimento di tremila eletti i cento anni della FIAT.

Massimo Pini (tratto da “Craxi – Una vita, un’era politica” – 2006 - Mondadori)


Magistrati in politica: la Corte costituzionale conferma il divieto


La notizia è passata sotto il silenzio di tutti i media, da quelli tradizionali a quelli on-line, ma rischia di cambiare importanti equilibri per alcune carriere politiche: i giudici non possono avere tessere o partecipare attivamente alle attività di un partito. La conferma del divieto, contenuto nel decreto legislativo 109 del 2006, viene da una recente sentenza della Corte costituzionale, la n. 224 del 2009. La Suprema corte ne ha, infatti, rigettato il ricorso di legittimità costituzionale avanzato dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. La stessa sezione aveva esercitato un’azione disciplinare nei confronti di Luigi Bobbio, magistrato ed ex senatore di AN nel 2001, presidente provinciale del partito napoletano e oggi capo di gabinetto del Ministro della gioventù Giorgia Meloni in virtù dell’art. 3 co. 1 lettera h del suddetto decreto, per poi impugnarlo davanti alla Corte costituzionale.
Un’evidente violazione, secondo i ricorrenti, di una serie di articoli della Costituzione, tra cui in particolare l’art. 49 (Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale) in combinato con il principio di uguaglianza di tutti i cittadini imposto dall’art. 3. Posizione non condivisa, questa, dalla Corte: nei motivi di diritto apposti alla sentenza, si parla di una posizione peculiare dei giudici che comporta l’imposizione di speciali doveri. Su tutti, il principio di terzietà, imparzialità e indipendenza dell’art. 111 della Carta costituzionale, ritenuto prevalente sulla libertà di associarsi in partiti. Del resto è la stessa Costituzione, all’art. 98, terzo comma, a permettere al legislatore di imporre imitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. Uno stralcio della sentenza in questione aiuta a definire meglio la portata della preclusione a carico dei magistrati:

(…) La norma impugnata ha dato attuazione alla previsione costituzionale stabilendo che costituisce illecito disciplinare non solo l’iscrizione, ma anche «la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici»: accanto al dato formale dell’iscrizione, pertanto, rileva, ed è parimenti precluso al magistrato, l’organico schieramento con una delle parti politiche in gioco, essendo anch’esso suscettibile, al pari dell’iscrizione, di condizionare l’esercizio indipendente ed imparziale delle funzioni e di comprometterne l’immagine.

Una tegola che può travolgere la vita politica di tanti giudici che, nonostante incarichi di partito, siano rimasti in aspettativa dalla magistratura, senza dimettersi. L’azione disciplinare a loro danno può prevedere, secondo il decreto, all’art. 5, la possibilità di subire ammonimento, censura, perdita di incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, sospensione dalle funzioni da tre mesi a due anni o rimozione. Tra i magistrati a cui potrebbe essere comminata l’incompatibilità ne spiccano, verosimilmente, alcuni celebri tipo Luigi De Magistris, eurodeputato eletto come indipendente nelle liste dell’IDV, non ancora dimessosi dalla sua vecchia professione, così come Michele Emiliano, sindaco di Bari e attuale segretario regionale del PD. Singolare invece il caso dello scrittore e giudice Gianrico Carofiglio, senatore del PD, dimessosi dal suo gruppo parlamentare e iscrittosi a quello misto proprio dopo la sentenza della Corte costituzionale (la decisione di Carofiglio non è riportata ancora dal sito del Senato). La Corte ha confermato: bisogna decidere tra le carriera di giudice e quella politica. La terzietà di chi è chiamato a pronunciarsi sulla giustizia potrebbe essere compromessa.

Gianvito Rutigliano (Diritto di critica 24 agosto 2009)


Videocracy, il film sulla Tv italiana che fa già scalpore


Videocracy
è un documentario realizzato dal bergamasco Erik Gandini sulla televisione italiana degli ultimi 30 anni, in uscita nelle sale dal 4 settembre. La campagna pubblicitaria di questo film ha però trovato fin da subito un forte ostruzionismo da parte dei soggetti interessati, neanche a dirlo, le emittenti televisive italiane. Da quanto risulta dalle agenzie di stampa, i vertici della Rai si sono rifiutati di mandare in onda il trailer del film. Contenuti osceni? Nient’affatto. Secondo Domenico Procacci della Fandango la Rai non vuole trasmettere gli spot promozionali perchè considera Videocracy «un messaggio politico, non un film». Prevedibile il rifiuto dei vertici di Mediaset che hanno appellato il cortometraggio come «un attacco al sistema tv commerciale», avendo riscontrato che il film tocca proprio il conflitto di interessi del Premier Berlusconi, magnate dei media. Le emittenti televisive, oggi più che mai sotto il controllo di una sola parte politica, ritengono censurabile un trailer arrancando scuse che hanno dell’incredibile. E’ sempre la Fandango, distributore del film, a rendere noti i contenuti della lettera ricevuta dalla Rai, secondo la quale «anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto». I contenuti proposti potrebbero portare a pensare che «attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso». In sostanza ciò che dichiara la Rai è che non è possibile mandare in onda spot o film che critichino una forza politica fintanto che non può esserne trasmesso uno che la difendi. Chi spiega a Michael Moore che i suoi film sui problemi e le contraddizioni del sistema politico americano in Italia non avrebbero avuto alcuno spazio? Qualcuno teme questo film per i contenuti critici e le informazioni che potrebbe offrire al pubblico italiano, ma questo maldestro tentativo di censura preventiva non fa altro che aumentare l’interesse su questo cortometraggio. Infatti tutta la stampa libera ne sta parlando. Dov’è la libertà di espressione? Dov’è il diritto di critica? Qualora questo film raccontasse menzogne, i telespettatori lo bocceranno senza problemi. Si dubita forse dell’intelligenza degli italiani? Oppure le informazioni contenute in questo film sono così scottanti da far rizzare le orecchie ad una maggioranza di governo già sotto i riflettori per dozzine di scandali?

Diego Tomasoni (Diritto di critica – 29 agosto 2009)


domenica 30 agosto 2009

Verità di Stato e verità di mafia

Testo:
"Buongiorno a tutti, ben ritrovati dopo le vacanze anche se magari qualcuno c'è ancora. Io no, purtroppo. Vorrei parlare subito di una questione che secondo me segnerà questa stagione della politica, dell'informazione, della cronaca, della giustizia ed è probabilmente la vicenda più importante che si sta svolgendo, anche se i giornali ne parlano poco, tra alti e bassi, tra fiammate e docce gelate. Anzi, forse proprio per il fatto che i giornali ne parlano poco, tanto per cambiare. E' la faccenda di questi improvvisi squarci che si sono aperti quest'estate sulla vicenda della trattativa tra lo Stato e la mafia nel 1992, che poi null'altro è se non il paravento che cela i mandanti esterni, i suggeritori occulti delle stragi del 1992, almeno per quanto riguarda quella di Borsellino, e del 1993 di Roma, Firenze e Milano. Ci sono molte novità che è difficile notare: eppure basta incrociare e confrontare ciò che esce sui giornali, senza bisogno di andare a vedere verbali giudiziari che sono ancora segreti e quindi né io né voi possiamo conoscere. Già quello che si è letto sui giornali è piuttosto significativo su quello che sta venendo fuori e io penso che se ci sarà una spinta dal basso della società civile, se qualcuno sul fronte politico prenderà finalmente sul serio questa faccenda e se i magistrati verranno lasciati lavorare, soprattutto quelli di Palermo, Caltanissetta e Firenze che sono quelli competenti per materia e per territorio sulle trattative del “papello”, Palermo sui mandanti delle stragi. Si potrebbe riuscire a capire chi sono i veri padri fondatori della Seconda Repubblica che, come forse avete sentito dire, non è nata a differenza della Prima dalla Resistenza ma proprio dalle stragi, dalle trattative, dalle bombe e dal sangue dei morti. E' sempre meglio ricapitolare per evitare di dare qualcosa per scontato e acquisito, in modo che chiunque incamera il Passaparola sappia com'è cominciata la vicenda e a che punto è arrivata. Dopodiché ci ritorneremo se, come spero, avrà degli sviluppi.

Massimo Ciancimino comincia a parlare - La vicenda comincia semplicemente con le interviste di questo personaggio molto interessante, singolare, sicuramente molto chiacchierone, cioè Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito, il quale per anni è stato indagato dalla procura di Palermo, ha avuto il torto di dover gestire il patrimonio di suo padre, è stato accusato di riciclaggio – lui dice che non è riciclaggio, si vedrà, questo a noi interessa poco. E' stato condannato in primo grado per riciclaggio, adesso si sta battendo in appello. Di certe cose non aveva parlato ai magistrati fino a un anno fa, anche perché aveva come l'impressione che la vecchia procura di Palermo non fosse molto interessata ad alzare il tiro sugli alti livelli istituzionali e politici frequentati da suo padre; invece poi fa sapere ai magistrati della nuova Procura di Palermo, quella retta dal Procuratore Messineo – per intenderci – da un paio d'anni che ha come l'impressione che abbia più interesse a toccare certi altarini e quindi comincia ad affrontare temi che prima aveva lasciato perdere. Anche perché si era reso conto che quando gli avevano perquisito la casa, stranamente, i Carabinieri non erano nemmeno andati ad aprire la cassaforte che pure era visibile anche da un bambino, ma stiamo parlando di vicende ricorrenti, ricorderete che i Carabinieri del Ros non entrarono nemmeno nella casa di Riina: il motto di certi servitori dello Stato, soprattutto a Palermo, è “non aprite quella porta e non aprite quella cassaforte”, forse perché sanno già quello che ci troverebbero dentro. In ogni caso, questa era la ragione della sua impressione sulla vecchia gestione della Procura, tanto più che poi in casa gli avevano trovato la lettera di Provenzano a Berlusconi e invece di utilizzarla nei processi i magistrati della vecchia Procura l'avevano lasciata marcire in uno scatolone per cui quelli della nuova Procura l'hanno tirata fuori e recuperata in extremis per versarla nel processo Dell'Utri che, fra l'altro, riprenderà fra meno di tre settimane. Ciancimino comincia dunque ad alzare il tiro e a raccontare ai magistrati di Palermo cosa faceva suo padre, perché tutto ciò che Ciancimino racconta lo ha visto fare da suo padre insieme a esponenti delle istituzioni oppure l'ha sentito raccontare sempre da suo padre, che è morto. Padre che gli avrebbe addirittura dettato un memoriale che sarebbe nascosto da qualche parte: sapete che Ciancimino ha carte interessanti nascoste in giro per il mondo e si spera che prima o poi si decida a consegnarle alla magistratura. Ci sono altre due lettere attribuite a Provenzano e rivolte a Berlusconi, in originale o in copia, ci sarebbe il famoso “papello” della trattativa tra Riina e i Carabinieri del Ros e i loro mandanti rimasti anch'essi ancora occulti, e poi ci sarebbe questo memoriale dettato da Vito Ciancimino e dattiloscritto da Massimo. Inizia a raccontare dei rapporti tra suo padre e il capitano De Donno e il Colonnello Mori e li data – la trattativa poi sfociata nel papello – tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio. Parliamo del mese di giugno del 1992: dopo che uccidono Falcone si fanno avanti i Carabinieri con Ciancimino. Questa è già una prima novità perché inizialmente si pensava che la trattativa fosse iniziata dopo la strage di Via D'Amelio, invece no, pare che inizi prima e questo è molto importante perché molti magistrati e investigatori sono convinti che la strage di Via D'Amelio sia stata provocata proprio dalla trattativa tra i Carabinieri e Totò Riina in quanto questo, dopo aver eliminato Falcone, riceve da qualcuno l'input che bisogna eliminare anche Borsellino perché la strage di Capaci ha sortito l'effetto di attivare lo Stato a trattare con la mafia ma Borsellino lo è venuto a sapere, si oppone e quindi va eliminato: ostacolo da rimuovere sulla strada della trattativa. Quindi, la datazione dell'inizio della trattativa tra gli uomini del Ros e Ciancimino è fondamentale e Massimo Ciancimino la situa a cavallo tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio, giugno 1992. Poi racconta che suo padre aveva rapporti intimi e costanti con Bernardo Provenzano, fino al 2000 quando il padre rimase agli arresti domiciliari. Racconta che la trattativa dei Carabinieri fu soprattutto con Provenzano piuttosto che con Riina e questo spiegherebbe per quale motivo a un certo punto Riina si ritrova i Carabinieri davanti a casa: cresce l'ipotesi che sia stato venduto da Provenzano e Ciancimino ai Carabinieri in cambio del cambio di rotta della mafia più trattativista e meno stragista – Provenzano è più trattativista, Riina è lo stragista – e quindi dell'alleggerimento della pressione dello Stato sulla mafia e del fatto che Provenzano diventa il capo indiscusso di Cosa Nostra dopo l'arresto di Riina e che però le carte di Riina non si prendono, si lasciano a Provenzano, e che lo stesso Provenzano non si prende e questo ci ricollega al processo in corso a Palermo a carico, tanto per cambiare, del Generale Mori per non avere catturato Provenzano già nel 1995 quando il Colonnello Riccio, un altro ufficiale del Ros, lo aveva segnalato presente in un casolare di Mezzojuso. Ciancimino racconta poi di avere visto lui il “papello”, cioè il foglio di carta con l'elenco delle cose che Riina o Provenzano, o Riina e Provenzano, chiedevano ai Carabinieri in cambio della cessazione delle stragi, “papello” che nel prosieguo della trattativa nell'autunno del 1992 dopo che era stato ucciso anche Borsellino fu consegnato a vari referenti tra i quali, dice Massimo Ciancimino mentre il generale Mori nega, al generale Mori.

Il “papello”, i Servizi Segreti e la copertura politica della trattativa - Dice però che il “papello” fece un tragitto un po' più complicato: i capi di Cosa Nostra lo fecero pervenire a Vito Ciancimino, lui lo passò a un certo Carlo che era un uomo dei Servizi Segreti che gli stava accanto da una trentina d'anni – pensate, c'era un uomo dei Servizi Segreti, un certo Carlo, che accompagnava la vita e la carriera di un sindaco mafioso come Ciancimino per conto dello Stato. Quindi Ciancimino da' prima il “papello” a Carlo e questo lo da' a Mori, questo è molto importante perché Ciancimino per quanto riguarda le istituzioni si fida di questo Carlo che da trent'anni sta al suo fianco mentre Mori si è fatto avanti più di recente. Ciancimino, il figlio, ricorda che suo padre per trattare – dato che a trattare tra Stato e mafia c'è da lasciarci le penne se si fa qualche passo falso – aveva preteso delle coperture politiche, che dovevano essere da parte del governo. Nel senso: chi è questo Mori che fa la trattativa? Sarà mica una sua iniziativa personale? No, ci deve essere dietro lo Stato altrimenti mica ci mettiamo a trattare. Chi lo manda Mori? Chi è d'accordo con la trattativa avviata da Mori? Dice Massimo Ciancimino, anche questo tutto da verificare naturalmente ma sono gli squarci che si stanno aprendo e quindi li dobbiamo raccontare così come li sappiamo, per quanto riguarda il governo la copertura chiesta da Ciancimino doveva darla il nuovo ministro dell'Interno Nicola Mancino, per quanto riguardava l'opposizione la copertura la doveva dare il rappresentante per i problemi della giustizia Luciano Violante, di lì a poco diventato presidente della Commissione Antimafia. Insomma, sono d'accordo il governo e l'opposizione che lo Stato tratti con la mafia dopo la strage di Capaci e dopo la strage di Via D'Amelio? Questo vuole sapere Ciancimino per andare avanti con la trattativa. Infatti, si informa presso il signor Carlo – che secondo alcuni si chiamerebbe Franco, ma insomma... - che è appunto l'uomo dei Servizi affinché si informi di chi sta alle spalle di Mori. Dopodiché la trattativa prosegue, segno che le informazioni vanno a buon fine cioè che arrivano le garanzie che la destra e la sinistra, almeno il pentapartito perché in quel momento non c'era il centrodestra ma il pentapartito ovvero DC, Psi, partiti laici minori da una parte e PDS all'opposizione, non erano contrari. Anzi, secondo Massimo Ciancimino non era contrario il governo mentre la copertura di Violante va in fumo in quanto Violante rifiuta di incontrare Vito Ciancimino. Quando poi viene catturato Vito Ciancimino nel dicembre del 1992 la trattativa si interrompe anche perché un mese dopo viene arrestato Riina ma non viene perquisito il covo, e sapete quello che succede dopo: secondo i giudici di Palermo dopo la trattativa dei Carabinieri interrotta dall'arresto di Ciancimino e un mese dopo di Riina parte un'altra trattativa, ammesso che fosse un'altra e non il prosieguo della stessa, che coinvolge Dell'Utri il quale fornisce poi le garanzie sulla nascita di Forza Italia, garanzie che verranno ritenute sufficienti da Provenzano tant'è che questo smetterà dopo la stagione delle stragi del 1993 di sparare e inaugurerà la lunga pax mafiosa che dura anche oggi. Ecco, in quel periodo si inseriscono le tre lettere che Provenzano manda a Berlusconi: una all'inizio del 1992, prima delle stragi, segno che c'erano già dei rapporti con Dell'Utri perché era lui a fare il postino: la lettera Provenzano la dava a Ciancimino, che la dava a Dell'Utri che la dava a Berlusconi, tre volte questo sarebbe successo, la seconda volta alla fine del 1992 dopo le stragi e la terza all'inizio del 1994 quando Berlusconi si getta in politica, e questa è la lettera di cui i magistrati hanno una metà tagliata nella quale Provenzano o chi per lui si rivolge a Berlusconi chiamandolo “onorevole”. Stiamo parlando di un Berlusconi già diventato politico quindi non prima del 1994. Richieste di aiuti, promesse di sostegno politico, scambi di favori con Dell'Utri che fa il pony express fra Provenzano e Berlusconi, questo è quello che racconta Massimo Ciancimino. E a questo punto i magistrati riaprono le indagini sulla trattativa del “papello” perché è ovvio che se la mafia ha costretto lo Stato a fare delle cose che non avrebbe fatto senza le stragi qui stiamo parlando evidentemente di reati gravissimi, è un'estorsione fatta dalla mafia allo Stato, stiamo parlando di un reato che credo si chiami “minaccia contro corpo politico dello Stato”. Un qualcosa di molto simile a un golpe.

Parla Ciancimino, parlano tutti - Quando emergono da interviste o indiscrezioni di stampa le prime notizie su quello che ha detto Ciancimino i protagonisti della politica dell'epoca entrano in fibrillazione. Nicola Mancino, lo sapete, già da anni è oggetto di chiacchiericci continui, poi per fortuna c'è Salvatore Borsellino che ogni tanto strilla forte ciò che gli altri mormorano piano. E' noto che il ministro dell'Interno che avrebbe incontrato Borsellino poco prima della strage di Via D'Amelio è proprio Mancino e Paolo Borsellino lo scrive nel suo diario. Mancino ha sempre negato, come ha sempre negato di aver saputo di trattative o cose del genere. Guarda caso, quest'estate in un'intervista continua a dire di non aver incontrato Borsellino, al massimo gli avrà dato la mano ma come poteva lui riconoscere Borsellino fra i tanti... come se Borsellino fosse uno fra i tanti: era uno che di lì a quindici giorni morirà ammazzato ed è quello che tutti gli italiani individuano come l'erede naturale di Falcone che è appena stato ammazzato, figuratevi se si può scambiare per un usciere che ti stringe la mano il giorno che diventi ministro. Comunque questo dice Mancino: “non ho incontrato Borsellino, forse gli ho stretto la mano fra le tante”, ma aggiunge: “in quell'estate io respinsi ogni tipo di proposta di trattativa fra Stato e mafia”. Questo è interessante perché vuol dire che qualcuno gli sottopose queste proposte di trattative, e sappiamo che forse anche Borsellino respinse quelle trattative; allora sarebbe interessante sapere chi propose al ministro Mancino quelle trattative, perché dev'essere la stessa persona o lo stesso ambiente che le propose a Borsellino, soltanto che Borsellino disse di no ed è stato ammazzato, Mancino continuò a fare il ministro dell'Interno e devo dire che lo fece anche molto bene. Violante, quando esce sui giornali che Ciancimino ha dichiarato che suo padre chiedeva la copertura anche della sinistra e cioè di Violante, tarantolato anche lui ha un'illuminazione e corre a Palermo a testimoniare, con dichiarazioni spontanee, che effettivamente gli è venuto in mente 17 anni dopo che il generale Mori gli aveva chiesto, mentre era presidente della commissione Antimafia, di incontrare Ciancimino ma dato che l'incontro proposto doveva essere a quattrocchi lui Ciancimino non lo voleva incontrare. Mori andò altre due volte per sollecitare quell'incontro ma Violante disse sempre di no. E qui si pone un altro problema: per quale motivo Violante si è tenuto per 17 anni una notizia di questo calibro, nel 1992 non lo sapeva mica nessuno che i Carabinieri del Ros stavano trattando con Ciancimino cioè con la mafia. E Violante era presidente della commissione Antimafia, possibile che non apre immediatamente un'indagine con i suoi poteri, che sono gli stessi della magistratura, può persino convocare testimoni e arrestare la gente se vuole. Perché se non lo voleva fare lui non ha avvertito il suo amico Caselli che di lì a poco è andato a fare il procuratore capo di Palermo? Subito, all'inizio del 1993 così la trattativa si sarebbe saputa e sarebbe stata interrotta e non se ne sarebbero fatte altre perché sarebbero intervenuti i magistrati. Invece, Violante questa cosa se la tiene per 17 anni, dal 1992 al 2009, e poi tomo tomo cacchio cacchio se ne viene fuori con una dichiarazione ai magistrati di Palermo dicendo: “toh... guarda mi è venuto in mente! E' vero!”. Intanto i magistrati di Palermo avevano processato il generale Mori per la mancata perquisizione del covo di Riina, l'avevano di nuovo fatto rinviare a giudizio per la mancata cattura di Provenza e Violante sempre zitto! Eppure sarebbe stato importante, in quei processi, avere la sua testimonianza! Violante che dice che il generale Mori faceva da tramite, da ambasciatore di Ciancimino per convincerlo a incontrare Ciancimino! Voi capite che per uno che viene processato per favoreggiamento della mafia il fatto che andasse a chiedere a Violante: “scusi, lei vuole incontrare Ciancimino?”, un generale dei Carabinieri, sarebbe stato interessante. Violante zitto, se ne salta fuori adesso perché non lo può più negare, l'ha raccontato Ciancimino, quindi, trafelato, arriva a dire la sua verità, tardiva, molto tardiva.

Ayala: “Mancino ha incontrato Borsellino... o forse no” - Ma non è finita perché questa è anche l'estate nella quale salta fuori, con un'intervista ad Affariitaliani, l'ex giudice Ayala, già pubblico ministero nei processi istruiti da Falcone e Borsellino poi datosi alla politica e ultimamente, trombato dalla politica, ritornato in magistratura – credo che sia giudice in Abruzzo. Ayala dice: “poche balle, Mancino aveva incontrato Borsellino, me l'ha detto lui”. A questo punto il giornalista dice: “ma Mancino lo nega” e lui risponde: “no, mi fece vedere l'agenda nella quale c'era scritto che il 1° luglio del 1992 Mancino aveva incontrato Borsellino”. Strano, una bomba! I magistrati convocano immediatamente Ayala per saperne di più, lo convocano ovviamente quelli di Caltanissetta che stanno indagando sui mandanti esterni delle stragi. E lì Ayala dice: “no, ma io sono stato frainteso”. Piccolo problema: Affariitaliani ha l'audio registrato con le parole di Ayala. Possibile che Mancino gli abbia fatto vedere un'agenda con scritto l'incontro con Borsellino e Ayala sia stato frainteso? In che senso frainteso? Spiegherà Ayala, dopo aver capito che non può smentire le dichiarazioni perché sono state registrate, che si era sbagliato lui nell'intervista: Mancino gli aveva fatto vedere un'agenda dove non c'era il nome di Borsellino e lui, invece, ricordava che nell'agenda ci fosse. Ma se uno nell'agenda non ha il nome di Borsellino, per quale motivo dovrebbe farla vedere ad Ayala? E' evidente che fai vedere l'agenda se hai scritto un nome, se non c'è scritto niente che prova è che non hai visto una persona? Tu puoi vedere tutte le persone di questo mondo e non scriverle nell'agenda, è se lo scrivi che lo fai vedere a una persona per testimoniare quello che le stai dicendo! Cose da matti, comunque questo è un altro rappresentante delle istituzioni folgorato e poi avviato rapidamente alla retromarcia. Ma non è finita: a questo punto interviene il generale Mori che, non si sa se in un'intervista o in una notizia fatta trapelare all'agenzia “il Velino” dice: “Violante non si ricorda mica bene: non gli avevo proposto di incontrare Ciancimino a tu per tu, ma di farlo parlare in commissione Antimafia!”. Allora resta da capire come mai Violante non abbia accettato di convocare Ciancimino in commissione Antimafia visto che l'Antimafia convocava pure i pentiti di mafia, non è che potesse sottilizzare: se Ciancimino aveva qualcosa da raccontare perché non fargliela dire?

Ciampi e il suo telefono a Palazzo Chigi “manomesso” - A questo punto salta fuori l'ex presidente della Repubblica Ciampi, che ricorda che cosa successe a Palazzo Chigi: Ciampi è presidente del Consiglio nella primavera-estate del 1993 quando esplodono le bombe nel continente, a Roma, Milano e Firenze. E soprattutto, nella notte degli attentati alle Basiliche a Roma, mentre a Milano esplode via Palestro il 27 luglio del 1993, Ciampi ricorda il famoso black out nei palazzi del potere ma anche che “ero a Santa Severa in vacanza, rientrai con urgenza a Roma di notte, accadevano strane cose: io parlavo al telefono con un mio collaboratore a Roma e cadeva la linea. Poi trovarono a Palazzo Chigi il mio apparecchio manomesso, mancava una piastra”. C'erano ancora le cornette, non c'era ancora ai livelli di oggi i cellulari. “Al largo della mia casa di Santa Severa, a pochi km da Roma, incrociavano strane imbarcazioni: mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge che istituiva per loro il carcere duro. Chissà, forse il carcere lo volevano morbido”. Ciampi, dopo quell'episodio, va a Bologna all'improvviso e il 2 agosto commemora a sorpresa la strage di Bologna ricordando il ruolo della P2, cosa che ricorda di nuovo in questa intervista a Repubblica nella quale dice anche che purtroppo su quei rapporti tra la P2, telefoni manomessi, black out eccetera non è stata fatta chiarezza. Il giorno dopo, il procuratore di Firenze competente sulle stragi del 1993 interviene piccato: è Pier Luigi Vigna, già capo della procura di Firenze, già capo della procura nazionale Antimafia il quale dice: “noi abbiamo indagato tutto, non c'è più niente da indagare”. Il giorno dopo ancora dice: “la politica tace il nome dei mandanti occulti delle stragi”: insomma, dice due cose all'apparenza sembrerebbero contraddirsi ma soprattutto non si spiega per quale motivo scopriamo solo oggi che il telefono di Ciampi a Palazzo Chigi, il telefono personale del Presidente del Consiglio del 1993, la notte delle stragi era stato manomesso, gli hanno tolto una piastra, era intercettato probabilmente il capo del Governo! Da chi può essere intercettato il capo del governo che è anche il capo dei Servizi Segreti e che al largo della sua casa al mare “incrociavano strane imbarcazioni: mi fu detto che erano mafiosi allarmati dalla legge sul carcere duro”. Mettete insieme tutte queste cose, mettete insieme che Martelli, allora ministro della Giustizia dice: “lo Stato forse non trattava con la mafia ma rappresentanti dello Stato si”. E lo dice così, en passant, in un'intervista. E mettete insieme che Dell'Utri, beffardo, l'altro giorno rilascia un'intervista dicendo: “apprendo dai giornali che qualcuno avrebbe trattato con la mafia: sarebbe gravissimo se ciò fosse successo, bisogna assolutamente istituire una commissione parlamentare d'inchiesta per fare luce perché è orribile l'idea che qualcuno tratti con la mafia i tempi delle stragi. Cosa mi dice, signora mia?”. Dell'Utri dichiara in un'intervista.

Il cerino in mano - Voi capite che qui siamo di fronte a una classe politica e a un ceto dirigente dove anche l'ultimo degli uscieri sa cento volte di più di quello che sappiamo noi e di quello che sanno i magistrati. In Italia i cittadini e i magistrati sono come i cornuti, sono sempre gli ultimi a sapere, e voi vedete che questo giro, questa ristretta cerchia di persone si manda messaggi perché si è aperto qualche spiraglio, perché qualcuno sta cominciando a parlare. E se qualcuno sta cominciando a parlare, saranno squalificati come dice il Capo dello Stato ma del resto, se stiamo parlando di stragi, è ovvio che chi deve saperne qualcosa non può che essere persona squalificata, sarebbe meglio se i testimoni delle stragi fossero delle suore Orsoline, ma purtroppo queste delle stragi non ne sanno niente, è molto meglio che parlino i mafiosi o i figli dei mafiosi. Anche quella dichiarazione del Capo dello Stato sembrava tanto un invito a chiudere certe bocche. Evidentemente, in questa ristretta cerchia c'è un sacco di gente che sa, che tace, che si manda messaggi trasversali perché comunque “io so che tu sai che io so”, e che sarebbe bene venisse fuori allo scoperto. Perché fanno così? Perché si mandano queste strizzatine d'occhio e queste rasoiate al curaro? Perché sanno che se la verità comincia a uscire, lo scarica barile andrà avanti fino a quando uno, l'anello più debole, verrà scaricato. Purtroppo in questa stagione i protagonisti sono tutti vivi, purtroppo per loro: ci fosse qualche bel morto a cui scaricare addosso le responsabilità l'avrebbero già fatto, ma tutti coloro che avevano queste responsabilità istituzionali sono vivi e si stanno buttando addosso l'uno sull'altro i cadaveri delle stragi del 1992 e 1993. Teniamo gli occhi aperti e stiamo a vedere nei prossimi mesi chi rischia di restare col cerino in mano, perché chi rischia di restare col cerino in mano prima di bruciarsi magari parla. Abbonatevi al “Fatto”, siamo già in 20.000, frequentate il sito Antefatto.it dove trovate un sacco di notizie in anteprima rispetto all'uscita del giornale che sarà il 23 settembre: mercoledì 23 settembre saremo in edicola col primo numero de “Il Fatto” e passate parola!"

Marco Travaglio (Blog Beppe Grillo - 24 agosto 2009)

Le convulse giornate della perdonanza

Venerdì scorso il Tg1 diretto dall'ineffabile Minzolini, incurante del fatto che le notizie del giorno fossero l'attacco del "Giornale" contro il direttore dell'"Avvenire", lo scontro tra la Cei e la Santa Sede da un lato e il presidente del Consiglio dall'altro e infine la querela di Berlusconi a Repubblica per le 10 domande a lui dirette e rimaste da giugno senza risposta; incurante di queste addirittura ovvie priorità, ha aperto la trasmissione delle ore 20 con l'intervento del ministro Giulio Tremonti al meeting di Comunione e Liberazione. Farò altrettanto anch'io. Quell'intervento infatti è rivelatore d'un metodo che caratterizza tutta l'azione di questo governo, mirata a sostituire un'onesta analisi dei fatti con una raffigurazione completamente artefatta e calata come una cappa sulla pubblica opinione curando col maggiore scrupolo che essa non percepisca alcun'altra voce alternativa. Cito il caso Tremonti perché esso ha particolare rilievo: la verità del ministro dell'Economia si scontra infatti con dati ed elementi di fatto che emergono dagli stessi documenti sfornati dal suo ministero, sicché l'improntitudine tocca il culmine: si offre al pubblico una tesi che fa a pugni con i documenti ufficiali puntando sul fatto che il pubblico scorda le cifre o addirittura non le legge rimanendo invece colpito dalle tesi fantasiose che la quasi totalità dei "media" si guardano bene dal commentare. Dunque Tremonti venerdì a Rimini al meeting di Cl. Si dice che fosse rimasto indispettito per il successo riscosso in quello stesso luogo due giorni prima di lui dal governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, con il quale ha da tempo pessimi rapporti. Non volendo entrare in diretta polemica con lui si è scagliato contro gli economisti e i banchieri. Nei confronti dei primi l'accusa è di cretinismo: non si avvidero in tempo utile che stava arrivando una crisi di dimensioni planetarie. Quando se ne avvidero - a crisi ormai esplosa - non chiesero scusa alla pubblica opinione e sdottorarono sulle terapie da applicare mentre avrebbero dovuto tacere almeno per due anni prima di riprendere la parola. Nei confronti dei banchieri la polemica tremontiana è stata ancor più pesante; non li ha tacciati di cretinismo ma di malafede. Nel momento in cui avrebbero dovuto allentare i cordoni della borsa e aiutare imprese e consumatori a superare la stretta, hanno invece bloccato le erogazioni. "Il governo" ha detto il ministro "ha deciso di non aiutare i banchieri ma di stare vicino alle imprese e ai consumatori". Così Tremonti, il quale si è spesso auto-lodato di aver avvistato per primo ed unico al mondo l'arrivo della "tempesta perfetta" che avrebbe devastato il mondo intero. Ho più volte scritto che la primazia vantata da Tremonti non è esistita, ma ammettiamo che le sue capacità previsionali si siano manifestate. Tanto più grave, anzi gravissimo è il fatto che la politica economica da lui impostata fin dal giugno 2008 sia stata l'opposto di quanto la tempesta perfetta in arrivo avrebbe richiesto. Sarebbe stato infatti necessario accumulare tutte le risorse disponibili per fronteggiare l'emergenza, per sostenere la domanda interna, per finanziare le imprese e i redditi da lavoro. Tremonti fece l'esatto contrario. Abolì l'Ici sulle prime case dei proprietari abbienti (sui proprietari meno abbienti l'abolizione di quell'imposta l'aveva già effettuata il governo Prodi). Si accollò l'onere della liquidazione di Alitalia. Versò per ragioni politico-clientelari fondi importanti ad alcuni Comuni e Province che rischiavano di fallire. Dilapidò risorse consistenti per "aiutini" a pioggia. In cifre: le prime tre operazioni costarono oltre 10 miliardi di euro; la pioggia degli aiutini ebbe come effetto un aumento del 5 per cento della spesa corrente ordinaria per un totale di 35 miliardi. Ho chiesto più volte che il ministro elencasse la destinazione di questo sperpero ma questo governo non risponde alle domande scomode; resta comunque il fatto. Ne deduco che il ministro preveggente fece una politica opposta a quello che la preveggenza avrebbe dovuto suggerirgli. Se gli economisti sono cretini che dire di chi, avendo diagnosticato correttamente, applicò una terapia sciagurata? Quanto ai banchieri: il governo Berlusconi-Tremonti si è più volte vantato di avere ottenuto, nei primissimi incontri parigini avvenuti dopo lo scoppio della crisi, interventi di garanzia a sostegno di eventuali "default" bancari. In Italia tali interventi non furono necessari (altrove in Europa ci furono in misura massiccia) perché le nostre banche erano più solide che altrove, situazione riconosciuta ed elogiata dallo stesso ministro quando ancora i suoi rapporti con Draghi erano passabili. Se ci fu un blocco nei crediti interbancari, questo fu dovuto ai dissesti bancari internazionali. Se c'è tuttora scarsa erogazione creditizia ciò si deve al fatto che i banchieri guardano attentamente al merito del credito e debbono farlo. Tremonti sostiene che i soldi delle banche riguardano le banche mentre quelli del Tesoro riguardano i contribuenti. Ma su un punto sbaglia di grosso: il credito elargito dalle banche è di proprietà dei depositanti che sono quantitativamente addirittura maggiori dei contribuenti. Concludo dicendo che il nostro ministro dell'Economia ha detto al meeting di Cl un cumulo di sciocchezze assumendo per l'occasione un "look" da profeta biblico che francamente non gli si addice. Ha riscosso molti applausi, ma il pubblico del meeting di Cl applaude convintamente tutti: Tremonti e Draghi, Tony Blair e Bersani, Passera e Tronchetti Provera, il diavolo e l'acqua santa e naturalmente Andreotti. Chi varca quei cancelli si "include" e questo è più che sufficiente per batter le mani. Ecco una questione sulla quale bisognerà ritornare.
* * *
Torniamo ai fatti rilevanti di questi giorni: l'aggressione del "Giornale" all'"Avvenire", il rapporto tra il premier e le gerarchie ecclesiastiche, la querela di Berlusconi contro le domande di Repubblica. Sul nostro giornale sono già intervenuti in molti, da Ezio Mauro a D'Avanzo, a Sofri, a Mancuso, al documento firmato da Cordero, Rodotà e Zagrebelsky sul quale si sta riversando un plebiscito di consensi che mentre scrivo hanno già superato le cinquantamila firme. Poiché concordo con quanto già stato scritto in proposito mi restano poche osservazioni da aggiungere. Che Vittorio Feltri sia un giornalista dedito a quello che i francesi chiamano "chantage" o killeraggio che dir si voglia lo sappiamo da un pezzo. Quella è la sua specialità, l'ha praticata in tutti i giornali che ha diretto. Proprio per questa sua caratteristica fui molto sorpreso quando appresi tre anni fa che la pseudofondazione che gestisce un premio intitolato al nome di Mario Pannunzio lo avesse insignito di quella medaglia che in nulla poteva ricordare la personalità del fondatore del "Il Mondo". I telegiornali e buona parte dei giornali hanno parlato in questi giorni del "giornale di Feltri" omettendo una notizia non secondaria e non sempre presente alla mente dei lettori: il "giornale di Feltri" è il "Giornale" che fu fondato da Indro Montanelli, per molti anni di proprietà di Silvio Berlusconi e poi da lui trasferito prudentemente al suo fratello. Lo stesso Feltri ha scritto che dopo aver ricevuto la nomina da Paolo Berlusconi si è recato a Palazzo Chigi dove ha avuto un colloquio di un'ora con il presidente del Consiglio. Una visita di cortesia? Di solito un direttore di un giornale appena nominato non va in visita di cortesia dal presidente del Consiglio. Semmai, se proprio sente il bisogno di un atto di riguardo verso le istituzioni, va a presentarsi al Capo dello Stato. E poi un'ora di cortesie è francamente un po' lunga. Lo stesso Feltri non ha fatto misteri che il colloquio ha toccato molti argomenti e del resto la sua nomina, che ha avuto esecuzione immediata, si inquadra nella strategia che i "berluscones", con l'avvocato Ghedini in testa, hanno battezzato la controffensiva d'autunno. Cominciata con Minzolini al Tg1 è continuata con l'arrivo di Feltri al "Giornale" e si dovrebbe concludere tra pochi giorni con la normalizzazione di Rete Tre e l'espianto di Fazio, Littizzetto, Gabanelli e Dandini. La parola espianto è appropriata a questo tipo di strategia: si vuole infatti fare terra bruciata per ogni voce di dissenso. Non solo: si vogliono mettere alla guida del sistema mediatico persone di provata aggressività senza se e senza ma quando la proprietà del mezzo risale direttamente al "compound" berlusconiano, oppure di amichevole neutralità se la proprietà sia di terzi anch'essi amichevolmente neutrali. Berlusconi avrà certamente illustrato a Feltri la strategia della controffensiva e i bersagli da colpire. Aveva letto l'attacco contro il direttore dell'"Avvenire" prima della sua pubblicazione? Sapeva che sarebbe uscito venerdì? Lo escludo. Feltri è molto geloso della sua autonomia operativa e non è uomo da far leggere i suoi articoli al suo editore. Ma che il direttore di "Avvenire" fosse nel mirino è sicuro. Berlusconi si è dissociato e Feltri ieri ha chiosato che aveva fatto benissimo a dissociarsi da lui. "Glielo avrei suggerito se mi avesse chiesto un parere". Si dice che la gerarchia vaticana avrebbe sollecitato il suo licenziamento, ma Berlusconi, se anche lo volesse, non lo farà. L'ha fatto con Mentana, ma Mentana non è un giornalista killer. Farlo con Feltri sarebbe assai pericoloso. Una parola sulle dichiarazioni di dissenso da Feltri fatte ieri da tutti i colonnelli del centrodestra, da Lupi a Gasparri, a Quagliariello, a Rotondi. Berlusconi si è dissociato? I colonnelli si allineano. E' sempre stato così nella casa del Popolo della Libertà. Tremonti, pudicamente, ha parlato d'altro. E la Perdonanza?
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Come si sa la Perdonanza fu istituita da Celestino V, il solo papa che si sia dimesso nella millenaria storia della Chiesa, come una sorta di pre-Giubileo che fu poi istituzionalizzato dal suo successore Bonifacio VIII. I potenti dell'epoca avevano molti modi e molti mezzi per farsi perdonare i peccati, ma i poveri ne avevano pochi e le pene erano molto pesanti. La Perdonanza fu una sorta di indulgenza di massa che aveva come condizione la pubblica confessione dei peccati gravi, tra i quali l'omicidio, la bestemmia, l'adulterio, la violazione dei sacramenti. Confessione pubblica e perdono. Una volta l'anno. Di qui partirono poi le indulgenze ed il loro traffico che tre secoli dopo aveva generato una sistematica simonia da cui nacque la scissione di Martin Lutero. E' difficile immaginare in che modo si sarebbe svolta l'altro ieri la festa della Perdonanza con la presenza del Segretario di Stato vaticano inviato dal Papa in sua vece e con accanto il presidente del Consiglio a cena e nella processione dei "perdonati". Diciamo la verità: il killeraggio di Feltri contro Boffo ha risparmiato al cardinal Bertone una situazione che definire imbarazzante è dir poco anche perché era stata da lui stesso negoziata e voluta. Dopo l'attacco di Feltri quella situazione era diventata impossibile, ma non facciamoci illusioni: la Chiesa vuole includere tutto ciò che può portar beneficio alle anime dei fedeli e al corpo della Chiesa. Se Berlusconi si pentisse davvero, confessasse i suoi peccati pubblicamente, si ravvedesse, la Chiesa sarebbe contenta. Ma se lo facesse sarebbe come aver risposto alle 10 domande di Repubblica. Quindi non lo farà. Nessun beneficio per l'anima sua, ma resta il tema dei benefici per il corpo della Chiesa. Lì c'è molto grasso da dare e il premier è prontissimo a darlo. In realtà il prezzo sarà pagato dalla democrazia italiana, dalla laicità dello Stato e dai cittadini se il paese non trarrà da tutto quanto è accaduto di vergognoso ed infimo un soprassalto di dignità.

Eugenio Scalfari (La Repubblica - 30 agosto 2009)

Quando voleva esprimersi in modo non ufficiale, Craxi usava lo pseudonimo di Ghino di Tacco

Quando voleva esprimersi in modo non ufficiale, Craxi usava lo pseudonimo di Ghino di Tacco: l’idea gli era stata suggerita da un paragone stilato da Eugenio Scalfari nel novembre 1995: “Craxi somiglia a Ghino di Tacco, taglieggiatore e bandito di strada”. Utilizzando il nome del personaggio dantesco, Craxi si esprimeva ufficiosamente; e dietro quello pseudonimo si celava ogni tanto Franco Gerardi, stretto collaboratore del Presidente del Consiglio. Dopo le dimissioni del 27 giugno, Scalfari aveva commentato con una certa soddisfazione: “Oggi la Rocca di Radicofani, dalla quale Ghino di Tacco esercitava i suoi poteri di interdizione, sta per cadere in disuso. Radicofani fu un punto di passaggio obbligato per secoli. Poi un giorno fu costruita l’autostrada e da allora per Radicofani nessuno passa più”. Craxi gli replicò da Caprera: “Ghino di Tacco aveva subito un’ingiustizia …… Lui venne a Roma con 400 armati, si presentò nell’aula del tribunale ov’era in corso un processo presieduto dal giudice che aveva condannato a morte suo padre, e gli tagliò la testa seduta stante … Era uno che andava per le spicce, che non lasciava impunite le ingiustizie: quelle fatte alla sua famiglia e quelle fatte agli altri”. Il “pompiere” Arnaldo Forlani a quel punto si affrettò a precisare che “alla fine il Papa apprezzò Ghino di Tacco e gli concesse un gran beneficio”.


Massimo Pini (tratto da “Craxi – Una vita, un’era politica” – 2006 - Mondadori)


Bel Presidente del Consiglio “socialista” che si rivolge ad un ex Presidente del Consiglio socialista: è davvero un capitano coraggioso!”

Risvegliatosi dall’anestesia, Bettino salutò la moglie attraverso lo schermo di un vetro, facendo con la mano un gesto, a dire: “ci vediamo dopo”. ……….. Intanto avevano telefonato Francesco De Martino, Ottaviano Del Turco, Giuliana Nenni, Claudia Cardinale e Veronica Berlusconi: “Tutti carini” desse Anna. “Per la prima volta ho avuto la sensazione di una maggiore comprensione da parte degli italiani”. Quello che li rappresentava più di tutti, il Presidente Ciampi, aveva già inviato parole che fecero ad Anna “un immenso piacere”. “E’ una bella soddisfazione per uno che è considerato latitante” ella fece notare. Poi arrivò allo spedale militare Stella Gregoretti, l’amica della famiglia Craxi che il nuovo ambasciatore a Tunisi, Armando Sanguini, aveva reintegrato nell’incarico impiegatizio. Ella era latrice di un fonogramma di dieci righe di augurio del Presidente Massimo D’Alema, in una busta aperta, e accompagnata d garofani rossi che si era procurata nonostante quel genere di fiori non venisse coltivato in Tunisia. Quel messaggio era nato dal sollievo di Palazzo Chigi alla notizia che Bettino Craxi era uscito vivo dall’operazione, evitando a Massimo D’Alema una disastrosa caduta d’immagine. Secondo la versione di Pasquale Cascella, già biografo di Romano Prodi e all’epoca portavoce di D’Alema, si era inteso comunicare all’ambasciatore ciò che egli avrebbe dovuto dire al convalescente: parole di sentimenti umani, si soddisfazione per il buon esito dell0perazione e di auguri di pronta guarigione. Secondo l’ambasciatore Sanguini, invece, quel messaggio egli aveva avuto istruzioni di farlo arrivare “in via confidenziale” in quanto iniziative personale del Presidente del Consiglio: quindi aveva ritenuto opportuno affidarlo, senza ricopiarlo su carta intestata dell’ambasciata, alla sua impiegata Stella Gregoretti che era anche amica personale della famiglia Craxi, evitando così di esporsi al rischio di farsi riconoscere dai giornalisti all’ingresso dell’ospedale militare. Il risultato fu che quel foglietto venne mostrato ad un Bettino Craxi appena risvegliatosi dal sopore, in preda a un comprensibile stato di tensione e di prostrazione. Si infuriò: “ma questo non ha nemmeno il coraggio di augurarmi pubblicamente la guarigione? Ha paura di esporsi anche per poche righe di circostanza, me le manda anonime e di nascosto, senza firmarsi nemmeno? Bel Presidente del Consiglio “socialista” che si rivolge ad un ex Presidente del Consiglio socialista: è davvero un capitano coraggioso!”

Massimo Pini (tratto da “Craxi – Una vita, un’era politica” – 2006 - Mondadori)

La colpa, insomma, è sempre degli altri

La tendenza alla rimozione è purtroppo uno dei tratti tipici accertati del carattere nazionale. La prima e più rilevante rimozione sembra quella – praticata forse già nel grembo materno – della responsabilità individuale. Dove tutti sono responsabili, nesuno è responsabile. Contro quest’alibi facile e ricorrente ai è basato – e ha perso – Gaetano Salvemini, uno dei pochi intellettuali “protestanti” (nel senso di anticonformista, rigoroso, coerente) prodotti dalla Penisola. L’idea che “gli italiani sono fatti così”, e non ci sia niente da fare per correggere anzitutto la loro auto-indulgenza, gli ripugnava profondamente. Non meno di quanto detestava Giovanni Giolitti, quando da Primo Ministro sosteneva che “a un gobbo non poteva fare che un abito da gobbo”. Per Salvemini, al contrario, quel gobbo che era il popolo italiano si poteva raddrizzare, cominciando intanto ad applicare un principio semplice semplice: “Ciascuno è responsabile per la parte che gli spetta, in proporzione alla sua capacità a fare il bene o a fare il male”. E’ l’etica della responsabilità così rara da rintracciare nei nostri comportamenti pubblici e privati. E’ per questo che gli italiani si lasciano di buon grado convincere che i loro guai derivino tutti da un ceto politico corrotto e inefficiente: vera o falsa che sia, questa presunzione di colpa altrui comunque assolve l’opinione pubblica dal dovere di farsi sentire, e gli individui dal rischio di affrontare una sfida personale. Sentite questa. Ultima campagna elettorale, in un grosso centro vicino a Roma, assemblea di un movimento di genitori con il senatore, e candidato, Luigi Zanda Loy. Gli intervenuti muovono le previste lagnanze, accusano il Parlamento di scarso interesse per i problemi della scolarità di prima infanzia, denunciano l’esiguità di fondi per gli asili-nido, la poca attenzione a problemi apparentemente minori ma vitali per la gente comune: come fa una mamma con due bimbi e carrozzina, s’infiamma una signora, a passare sui marciapiedi se sono zeppi di macchine? Pazientemente, il senatore risponde che certo, cara signora, lei ha ragione, però se tutti avessimo maggior senso civico, evitando per esempio di parcheggiare sui marciapiedi ……. Una voce dal fondo interrompe: “E i vigili allora che ci stanno a fare?”. La colpa, insomma, è sempre degli altri.

Antonio Caprarica (Gli italiani la sanno lunga …. O no? – 2008 – Sperling & Kupfer)