lunedì 25 febbraio 2013

Il treno, dove molti parlano, pochi ascoltano e tutti capiscono



Nelle stazioni si nasconde un'Italia interessante. Esiste una stratificazione delle abitudini e dei ricordi che le Ferrovie Italiane non hanno voluto intaccare. Ci ha rimesso l'efficienza del servizio, ma ne ha guadagnato l'atmosfera.
C'è qualcosa di antico nelle divise dei ferrovieri, nelle cravatte allentate, negli impiegati malinconici che si muovono oltre i vetri delle biglietterie, come in un acquario. C'è qualcosa di commovente nei souvenir in vendita qui alla Stazione Centrale di Milano: gondole e conchiglie, santi e madonne, cattedrali e portafortuna. È un'Italia che lascia perplessi noi italiani ma consola voi stranieri, perché conferma le immagini che avete negli occhi: un film neorealista, che non obbliga a faticosi aggiornamenti.
La Stazione Centrale! I forestieri, in genere, la considerano un luogo memorabile (non a torto: vista una volta, chi la scorda più?).
Anche a me non dispiace. È fuori scala, un intervallo imperiale in una città aziendale: non ci sta male. Quando posso, alzo lo sguardo (tenendo le mani sulle valigie) e osservo. Così ho scoperto l'esistenza del Club Eurostar. Ufficialmente è un servizio delle Ferrovie dello Stato che offre ai soci facilitazioni, precedenze, sconti e una sala d'attesa. Di fatto, è il museo del passato prossimo. È un luogo straordinario. Solo nelle stazioni della Transiberiana ho visto qualcosa del genere: sala immensa, soffitti a volta, divani dai colori accesi, piante verdi allampanate e tristi. Sulla parete sinistra, un piccolo bar abbandonato: il personale è impegnato altrove, e il caffè scende solo e malinconico dalla macchinetta. Sullo sfondo, un dipinto occupa metà parete: un ex presidente della repubblica, tra due banconote, sorride con la pipa in bocca, senza spiegare perché.
Club Eurostar! Dietro il solito nome inglese si nasconde il reperto di una civiltà che qualcuno credeva estinta: l'era parastatale. Gli Stati Uniti si sono rifatti il trucco negli anni Settanta, il Giappone, la Gran Bretagna e la Francia negli anni Ottanta, la Germania negli anni Novanta, dopo la riunificazione. L'Italia pubblica, non ancora. Come una bella signora di scarsi mezzi, ha cambiato il cappotto, ma la sottoveste è quella. Nulla di male: solo un po' di malinconia, e un leggero imbarazzo quando arrivano gli ospiti.

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Mi piace viaggiare in treno. Come l'ascolto della radio e l'insegnamento universitario, consente di fare altro. Leggo, sfoglio, scrivo, sopporto quelli che urlano nel telefonino, confidando le vicende più intime all'intero scompartimento che non vuol sentire.
Giorni fa, tra Roma e Bologna, mi sono fatto una cultura giuridica. Un tipo col pizzetto ha chiamato venti amici per spiegare com'era riuscito a insabbiare non so quale processo. A ogni interlocutore forniva nuovi particolari su avvocati, giudici, norme e strategie procedurali. A Firenze avevo già deciso che avrebbero dovuto condannarlo. Cosa mi piace, dei viaggi in treno? Mi piacciono le partenze, per cominciare. C'è un'umanità che trascina bambini e pacchi, impreca sotto il peso delle valigie, fuma lungo i binari. Qualcuno saluta dal finestrino e si commuove, come in un vecchio film. Forse è una comparsa ingaggiata dalle Ferrovie dello Stato, per creare un po' d'atmosfera tra un ritardo e l'altro.
Dei treni è bello anche il rumore. Mentre il mondo dei trasporti punta verso l'insonorizzazione, le ferrovie producono ancora un baccano soddisfacente. In una camera d'albergo, il brusio della strada distrae, i cigolii dell'ascensore irritano, il ronzio dell'aria condizionata disturba. Il rumore dei treni, invece, rilassa.
Niente sferraglia bene come un accelerato che - noi lo sappiamo, ma voi no - è il treno più lento, nonostante il nome. Niente consola di più della voce che, dopo sei ore di viaggio, comunica l'arrivo in anticipo sull'orario stabilito. Non è un annuncio, è un'epifania. Forse per questo succede una
volta l'anno.

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I treni italiani sono luoghi di confessioni di gruppo e assoluzioni collettive: perfetti, per un paese che si dice cattolico. Ascoltate cosa dice la gente, guardate come gesticola: è una forma di spettacolo. Dite che le due cose – confessionale e palcoscenico - sono incompatibili? Altrove, forse. Non in Italia.
Siamo una nazione dove tutti parlano con tutti. Non è stata la modernità a cambiare la piazza del Sud, ma la piazza del Sud a influenzare la modernità italiana.
Provate a seguire le conversazioni in questo treno diretto a Napoli (via Bologna, Firenze e Roma). Sono esibizioni pubbliche, piene di rituali e virtuosismi, confidenze inattese e sorprendenti reticenze. «Uno raggiunge subito una nota di intimità in Italia, e parla di faccende personali»: così scriveva Stendhal, e non aveva mai preso un Eurostar.
Guardate quei tre. Sembrano colleghi di ritorno da una riunione di lavoro. Non parlano, annunciano. Non comunicano: emettono piccoli comunicati, preparati dal microufficio stampa che ognuno si porta nella testa. Discutono, come sentite. Rivelano particolari stupefacenti. Affrontano una questione dopo l'altra, sovrapponendo gli argomenti e le voci. Il treno è il precursore di tutti i talk-show: offre il set, lo sfondo, i personaggi e - a ogni stazione - la possibilità dell'uscita di scena.
Oggi in questa carrozza ci sono due consulenti aziendali, un sovraintendente alle Belle arti, un'ex hippy ora direttrice del personale in un'azienda alimentare, un disc-jockey, un piccolo imprenditore, una golfista, un giornalista, un dirigente (in pensione) di una finanziaria, che parla male dell'ex capo. Alla graziosa farmacista che legge un libro sull'Iraq è stato assegnato per errore lo stesso posto prenotato da una bella ragazza bionda. Gli uomini presenti festeggiano l'avvenimento, e offrono ospitalità a entrambe.
Ascoltate le conversazioni. La scelta dei vocaboli è barocca: un'altra dimostrazione dell'importanza dell'estetica nella vita italiana. Sapete perché in parlamento non sono d'accordo ma «registrano una sostanziale identità di vedute»? E nelle previsioni del tempo non piove, ma «sono previste precipitazioni in seguito a un'intensificazione della nuvolosità»? Perché la complessità è una forma di protezione (sono stato frainteso), una decorazione (sono istruito), un cosmetico (amo decorare la realtà), un'iscrizione (appartengo alla casta dei medici, dei meteorologi o degli avvocati; e noi parliamo così, ci dispiace).
Guardateli di nuovo, quei tre nelle prime poltrone. L'attenzione con cui ciascuno ascolta l'opinione degli altri è ingannevole. Osservate la tensione delle labbra e gli occhi svelti. Il silenzio è solo attesa di prendere la parola.
Susan Sontag ha scritto che nei paesi scandinavi, durante la conversazione, è palpabile la tensione fisica che monta negli interlocutori («C'è sempre il pericolo che possa finire la benzina, a causa dell'imperativo della riservatezza e dell'attrazione esercitata dal silenzio»). Be', in Italia è un rischio che non corriamo, e questo treno lo dimostra.

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All'estero c'è chi sostiene che imparare l'italiano non serve: basta guardare le mani degli italiani mentre parlano. Non è vero, ma la malignità contiene un'intuizione.
I nostri gesti sono molti ed efficaci. Se ne sono occupati antropologi, fotografi, vignettisti e linguisti.
Esiste un Supplemento del Dizionario Italiano, curato da Bruno Munari, composto solo da foto di mani che comunicano (sloggia, torna, un momento!, che vuoi?).
Di fronte ai gesti, molti di voi si sentono come tanti di noi davanti ai phrasal verbs. L'inglese magari lo sappiamo, ma quella scarica di in, on, off e out ci sconcerta. Non ci rendiamo conto che non è necessario imparare centinaia di combinazioni a memoria. Basta capire il meccanismo sottostante.
Prendiamo «Italy used to breeze thru any crisis», una volta l'Italia attraversava le crisi con disinvoltura. Perché un italiano si sente preso in giro? Perché il concetto che noi esprimiamo con un avverbio («disinvoltamente») viene espresso nel verbo (to breeze); e il concetto che noi esprimiamo con il verbo («attraversare») è contenuto nella preposizione (thru). Bisogna capire, quindi, che ogni preposizione esprime un concetto verbale, o più d'uno (about, girare intorno; away, allontanarsi; back, arretrare eccetera).
Per interpretare i gesti italiani occorre usare la stessa tecnica.
Non c'è bisogno di catalogarli, come fece il canonico Andrea de Jorio nel 1832 (La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano, 380 pagine di testo, 19 illustrazioni). Basta capire il concetto verbale racchiuso in un movimento.
Guardate le mani di quella coppia che discute. Gesti verso l'esterno: vattene, sparisci, arretra. Gesti verso l'alto: attenzione, successo, fatalismo. Gesti verso il basso: delusione, difficoltà, condanna. Gesti circolari: girare intorno (fisicamente, metaforicamente). Gesti verso la testa: comprensione, intuizione, follia. Gesti verso orecchi, occhi, naso, bocca e stomaco: ascolta, guarda, annusa, mangia. Dita raccolte: sintesi, complessità, perplessità. Pugni chiusi: rabbia, irritazione. Mani aperte: disponibilità, rassegnazione. Eccetera.
Ancora non capite quei due che discutono? Vediamo. Lui stringe i pugni: è arrabbiato. Lei mostra il palmo delle mani: dice di non prendersela. Lui sfrega il pollice e l'indice: vuol dire «soldi». Lei avvicina gli indici delle due mani: vuol dire «se la intendono». Semplice: i due discutono di un caso di sospetta corruzione. Certo, questo non potete pretendere di capirlo alla prima lezione. Occorre un dottorato, ma bastano anche dieci anni in Italia.

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Mi domandate se sappiamo ridere. Direi di sì: anche troppo. Giacomo Leopardi un poeta italiano che amava gli italiani, anche dopo aver capito con chi aveva a che fare - sosteneva che ci prendiamo gioco di tutto perché non abbiamo stima di niente.
Qualcosa di vero c'è. Esiste un lato scettico, nel nostro carattere, che confina col cinismo. Una capacità di osservazione disincantata che attraversa la letteratura, il cinema, il teatro, la vita della gente. Nei paesi le persone hanno ancora un soprannome - spesso impietoso, sempre accurato – e molti cognomi italiani (Bassi e Guerci, Malatesta e Zappalaglio) rivelano un realismo amaro. La risata italiana, quando arriva, sale dalla pancia. Quella britannica scende dalla testa. Quella americana viene dal cuore e sbuca dalla bocca. Quella tedesca viene dallo stomaco, e lì rimane.
Il nostro problema, quindi, non è ridere. Semmai è sorridere, anche perché nessuno ci aiuta nell'impresa. I personaggi pubblici dotati d'umorismo esistono, ma quasi si vergognano di questa loro dote. L'ironia - se non è santificata da Woody Allen o impreziosita da lingue che non si capiscono - viene considerata una forma di disimpegno, e silenziosamente disapprovata. La persona spiritosa, inesorabilmente, s'incattivisce. I sorrisi diventano prima risate, poi sogghigni.
La degenerazione dell'ironia nel sarcasmo, e del sarcasmo nell'invettiva, meriterebbe d'essere studiata. Ma non abbiamo tempo, e mi limito a comunicarvi un sospetto che non è solo mio. Alcune vicende italiane sono così grottesche da rendere impossibile - anzi, inutile - la satira. Inventi un paradosso, e il giorno dopo qualcuno ha combinato qualcosa di più paradossale. Non c'è gusto, e non è giusto.

Beppe Severgnini (La Testa degli Italiani – 2005 – Rizzoli)



domenica 24 febbraio 2013

Elezioni 2013, il bestiario trash della campagna elettorale

È stata una campagna elettorale bestiale. Nel senso proprio del bestiario. Un campionario di gaffe, battute grevi, sdoppiamenti di personalità e promesse inattuabili. Quella più famosa ha travolto Oscar Giannino, che voleva fermare il declino, ma più che altro ha stoppato se stesso. Il “Grillo dei moderati” ha sbagliato, peraltro, in maniera plateale. E ha pagato, con molta più nettezza di chi ben altri scheletri nell’armadio avrebbe (e ha). Una raccolta completa è impossibile, un bignami-blob delle Elezioni 2013 si può fare.
“Restituirò l’Imu”. Il concetto di bugia, in Silvio Berlusconi, è aleatorio. Non è la realtà a essere reale, bensì la sua proiezione immaginifica da Arcore. L’Italia è il Matrix e non ci sono pasticche magiche (anzi ci sono, ma non servono per aprire gli occhi). “Certo che è possibile restituire l’Imu. Sono d’accordo con gli svizzeri” (e magari pure coi lanzichenecchi). Quando agli svizzeri hanno riportato le parole di Berlusconi, per la prima volta hanno rimpianto di essere neutrali.
“I pensionati stiano tranquilli. Restituirò tutto”. Dire ai pensionati di stare tranquilli è come consigliare a Crosetto di pettinarsi. Berlusconi, così facendo, si è inimicato pure le casalinghe di Voghera. I Caimani non sono più quelli di una volta. “Grillo non è andato in tivù perché sapeva che le telecamere avrebbero scoperto la sua natura intima di cattivissimo”. Berlusconi è l’unico che usa ancora la parola “cattivissima”, desueta ormai pure all’asilo. È verosimile che, quando si arrabbia, Berlusconi pronunci parole come “cribbio” (effettivamente già usata) e “perdincibacco”. Oppure, in un impeto di furia iconoclasta, strali irricevibili. Tipo “Uffa, perdindirindina”.
“Lei viene? Quante volte viene? Con quale frequenza? Ah ah ah”. In un posto minimamente normale, uno così lo avrebbero internato. Da noi lo applaudono. “L’opposizione ha la forfora, le puzza l’alito e non si lava. A me invece piace cantare e scherzare. Rispetto le donne e faccio complimenti veri”. L’eleganza di Berlusconi non smette mai di accecare. Ancora. Benvenuti in Italia, anzi bentornati. Ah ah ah. “Non c’è la ‘ndrangheta in Regione. Non ricordo nessuna sua delibera”. Memorabile sintesi di Lara Comi a Servizio Pubblico. Dunque il ragionamento è: “Come ha votato la ‘ndrangheta in Lombardia? Ah, non ha votato? Bene. Quindi non c’è. Quindi siamo puliti. Viva Formigoni”. Genio.
“Non votate con il culo”. Così parlarono due noti intellettuali di Fratelli d’Italia, dimenticando che quella modalità di voto era forse l’unica in grado di eleggerli.
“Aboliamo i sindacati. Aboliamo Equitalia. Aboliamo La7”. E poi l’euro. E poi i partiti. E poi i giornali. E poi quasi tutto. Il giorno in cui Grillo litigherà con se stesso, si farà un culo così. “Siamo ecumenici, nessun problema se uno di CasaPound entra con noi”. Non è essere ecumenici, Grillo. È confondere il superamento delle ideologie con la dimenticanza di quel che è stato il fascismo. “La legge sull’aborto è una sconfitta per tutte le donne”. Serenella Fuksia, candidata grillina nelle Marche. Grillo se la segni: è già una Scilipoti in pectore.
“Fai i bagaji, disfa i bagaji”. Ingroia, quando parla, ha sempre quella grinta sbarazzina di chi – per darsi una botta di vita – si beve una 7Up tutta d’un sorso. Non si ricordano sue rampogne minimamente memorabili, se non quelle al cloroformio della parodia di Crozza. Il quale, con la sua caricatura, lo ha caratterizzato così bene da eternarlo mediaticamente (rischiando però di demolirlo elettoralmente).
“No no, non mi candido”. Giovanni Favia. Coerente. Sempre.
“La Merkel non vuole il Pd. Me l’ha detto lei”. La Merkel ha smentito un secondo dopo. Da quando si è messo a fare (ufficialmente) politica, Monti sembra Milingo quando scoprì il sesso. Ieri sobrio, oggi infoiato. Affetto da una sorta di Bunga Bunga elettorale. Qualcuno lo plachi. “Il Pd dovrebbe silenziare la sinistra di Vendola”. E pensare che, secondo molti (di sinistra), Monti era un tipo sobrio. Moderato. Addirittura tollerante. “C’è empatia tra me e questo cane”. Macché. A giudicare dallo sguardo del cane, poi ribattezzato Empy nonostante lo sbigottimento di Greenpeace (e del cane), l’empatia rimane per Monti un Everest insormontabile.
“Il Movimento 5 Stelle è uguale al primo fascismo e non distante da Alba Dorata”. Piercamillo Falasca, candidato montiano, sciorina una conoscenza spiccata della storia. E della realtà. In effetti Pizzarotti è uguale a Goebbels. Preciso, proprio.
“Siamo l’unica forza nuova”. L’ha detto Casini. Qui la battuta neanche serve. Il discorso più ricordabile di Gianfranco Fini negli ultimi sei mesi.
“Prerogative del genere umano anzi umanizzato, prerogative smarrite nei labirinti dell’individualismo celebrato dalla Lady di quel ferro liberista che ha percosso le nostre comunità di lavoro e di sentimento”. Non è una frase recente, ma Nichi Vendola continua a esprimersi così. Più che narrare, lui supercazzola. Sempre.
“In Lombardia avete tre bei giaguari da smacchiare. Eh eh”. Ogni volta che Bersani fa una battuta, una risata muore. Eh eh. “Vigileremo sui grillini in Parlamento”. Attento che non avvenga il contrario, Bersani. “Grillo è un fascista del web. Populista e antipolitico come Berlusconi. Un pericolo per la democrazia”. Quindi, Bersani? “Quindi è un interlocutore prezioso, in Parlamento faremo scouting dei grillini. Eh eh”. Quel che piace di Bersani, oltre al carisma, è quella sua linearità granitica di pensiero. Eh eh. “Se ci accostano al Monte dei Paschi, li sbraniamo”. Brrr. Paura, Bersani. “Eh, oh, non è che noi siam qui, ggghh mggh. Capito?”. No, Bersani. Non abbiamo capito. E mica solo noi, mi sa.

Andrea Scanzi (Il Fatto Quotidiano - 24 febbraio 2013)

 

martedì 19 febbraio 2013

Il sistema elettorale italiano

Il sistema elettorale vigente oggi in Italia, può definirsi sistema misto con caratteristiche differenti per l’elezione della Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica. Per quanto concerne l’elezione della Camera dei deputati, il nostro territorio nazionale è diviso in 26 circoscrizioni elettorali proporzionali; il 75% dei seggi (475) è assegnato a singoli candidati nei collegi uninominali, il restante 25% (155) è attribuito in modo proporzionale alle liste concorrenti nella stessa circoscrizione, la distribuzione dei seggi è proporzionale ad eccezione della Valle d’Aosta che può eleggere un solo deputato con sistema maggioritario. Il voto per la Camera è a turno unico con due schede distinte, una per l’elezione del candidato nel collegio uninominale, la seconda in relazione alla lista nella circoscrizione con metodo proporzionale; l’elettore può votare in modo disgiunto senza poter indicare, però, la sua preferenza nella lista circoscrizionale poiché essa è bloccata; in ciascun collegio uninominale è eletto il candidato che ottiene il numero più alto di voti mentre per la conquista del seggio è necessaria la maggioranza relativa dei voti. Il calcolo della quota proporzionale avviene su collegio unico nazionale, con la clausola che i partiti superino il 4% dei voti validi sul totale delle circoscrizioni.
Stabilite le liste ammesse alla ripartizione proporzionale, bisogna distribuire i 155 seggi, introducendo il meccanismo dello “scorporo”. Il principio per l’elezione del Senato è lo stesso della camera, il 75% dei seggi viene assegnato con collegi uninominali mentre il restante 25% è distribuito nelle circoscrizioni regionali in modo proporzionale tra i gruppi di candidati che concorrono nei collegi uninominali. Al Senato non c’è la soglia di sbarramento del 4%, ma questa è sostituita dallo scorporo totale, dalla dimensione dei collegi su base regionale e dal metodo di conteggio d’Hondt. Per l’elezione del Senato non vi è il voto di lista per l’assegnazione della quota proporzionale, la scheda elettorale unica e non c’è la possibilità del voto disgiunto.
Il Porcellum - La legge elettorale vigente, prevede un sistema ibrido e complicato, che riprende alcune caratteristiche del sistema proporzionale (in particolare il voto di lista per il partito) ma le subordina al principio fondamentale del sistema maggioritario (chi prende un voto in più ha vinto). Approvato a dicembre 2005 nella precedente legislatura a maggioranza di centrodestra, il sistema elettorale è definito spesso "porcellum" perchè il suo stesso ideatore, il leghista Roberto Calderoli, parlando della sua legge a Matrix nel marzo 2006, dichiarò: "Glielo dico francamente, l'ho scritta io, ma è una porcata". In effetti, le elezioni del 2006 hanno dimostrato che uno dei problemi di questa legge è il premio di maggioranza che al Senato scatta a livello regionale, rendendo difficile una maggioranza omogenea con quella della Camera.

Il capo della coalizione - Le coalizioni sono identificate dal nome del loro capo. Il fine della legge è, infatti, quello di aggregare le coalizioni prima del voto e di indicare al Capo dello Stato la persona da nominare Presidente del Consiglio, assieme alla maggioranza di Governo che lo dovrà sostenere.

Partiti e coalizione - L'elettore vota per il partito che sceglie; in questo modo, però, indica implicitamente anche la coalizione di governo preferita e la persona che dovrà guidare il governo. Non è ammessa la possibilità di votare per un partito e scegliere una coalizione diversa (come accade invece per i sindaci, i presidenti di provincia e delle regioni).

Premi di maggioranza - Alla Camera, la coalizione che ha ricevuto più voti ha diritto al premio di maggioranza, pari al 55 % dei seggi (se non abbia già diritto, in base ai voti ricevuti, ad una percentuale più alta). Il premio è applicato su base nazionale alla Camera (con esclusione della Val d'Aosta), e porta il vincitore ad avere 340 seggi su 630, che vengono ripartiti fra i partiti in proporzione ai voti ottenuti (mentre i partiti sconfitti si dividono gli altri).
Per il Senato, il premio di maggioranza è assegnato regione per regione. Non è prevista alcuna soglia minima da raggiungere per avere diritto al premio (cosa su cui la Corte Costituzionale ha avanzato forti dubbi, paventando una possibile dichiarazione di illegittimità).

Sbarramenti - Alla ripartizione dei seggi sono ammessi solo i partiti che abbiano superato gli sbarramenti previsti; questi non sono uguali per tutti, perché concepiti in maniera da premiare i partiti che si coalizzano a discapito di quelli che si presentano al di fuori delle coalizioni principali.
Alla CAMERA , i partiti coalizzati sono ammessi alla ripartizione dei seggi se hanno avuto almeno il 2% dei voti; ma è previsto anche il ripescaggio del partito più votato fra gli esclusi di ciascuna coalizione. Così, ad esempio, nel 2006, nell'Unione fu ripescata l'Udeur, che aveva avuto l'1,4%; mentre nella Cdl fu ripescata la lista comune fra Nuovo Psi e Dca, che aveva avuto solo lo 0,7 %.
Per i partiti non coalizzati, la soglia di sbarramento sale al 4%. Inoltre, se una coalizione non raggiunge il 10%, i suoi partiti sono esclusi comunque.
Al SENATO valgono principi analoghi, ma le soglie sono diverse e sono sempre considerate su base regionale: 3% per i partiti coalizzati (senza ripescaggi); 8% per i non coalizzati; 20% per le coalizioni.

Eletti all'estero - A parte vengono eletti i 12 deputati e 6 senatori riservati agli italiani residenti all'estero, che non entrano nel calcolo dei premi di maggioranza.

Niente quote rosa - La legge elettorale non prevede alcuna riserva di candidature né altri meccanismi per promuovere la presenza di donne in parlamento.

Niente preferenze - Non è ammessa la possibilità di indicare la preferenza fra i candidati (cosiddette liste bloccate): i candidati vengono eletti in base all'ordine di presentazione.

fonti: Italian Bloggers e Sky Life

Ratzinger molto meglio di Woytjla

Le diverse conclusioni dei pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI fotografano abbastanza esattamente non solo l'abissale distanza fra due personalità ma anche nel modo di intendere il loro magistero. Woytjla non ha rinuncito a esibire la propria sofferenza, a farne uno show, in linea con un pontificato spettacolare, mediatico (gli 'eventi', i jet, i grandi viaggi transoceanici, la Papa mobile, i 'Papa boys '). Ratzinger la propria sofferenza, ha preferito tenerla per sè. E si è dimesso. Già dai primi giorni sono circolate tesi complottistiche per le quali il Papa sarebbe stato costretto alle dimissioni. La verità è molto più semplice ed è quella dichiarata dallo stesso Ratzinger: a 86 anni si sentiva vecchio, stanco, inadeguato, gli mancavano le forze per portare il peso del suo altissimo magistero. Scardinando cosi', tra l'altro, uno dei tanti falsi miti della Modernità per cui l'età non conta e la vecchiaia non esiste. La vecchiaia invece esiste, eccome, per tutti, anche per un Papa. Ratzinger se ne è reso conto e, virilmente, responsabilmente, razionalmente, da buon tedesco, ne ha tratto le conseguenze. Un atto di coraggio e, insieme, di grande umiltà.
Premesso tutto cio' le cose più interessanti Joseph Ratzinger le ha elaborate e scritte quando era ancora cardinale. «Il Progresso non ha partorito l'uomo migliore, la società migliore e comincia a essere una minaccia per il genere umano». E nel documento 'Pro eligendo pontifice' aveva affrontato il tema del relativismo sostenendo che esisterebbe «una sorta di dittatura del relativismo che non riconosce nulla di definitivo e lascia come ultima misura il proprio io e le sue voglie». Affermazione vera ma che si presta a qualche equivoco. Se c'è infatti un'epoca della Storia in cui domina un pensiero unico, e quindi nient'affatto relativista, è quella che stiamo vivendo. E' il pensiero liberaldemocratico che, insieme al nocciolo duro che lo sottointende: il produttivismo nella forma del libero mercato, si pretende come il solo valido e accettabile, dal punto di vista politico, sociale, ma anche morale. Insomma il modello di sviluppo che l'Occidente ha creato e imposto a quasi tutto il pianeta.
E' evidente che quando Ratzinger parla di relativismo lo intende in senso morale. Ma questo relativismo morale dilagante, su cui Ratzinger punta il dito, discende direttamente proprio dal modello economico e dal suo meccanismo produzione-consumo-produzione basato sul libero mercato. E il mercato è uno scambio di oggetti inerti che, di per sè, non produce e non puo' produrre valori che non siano quantitativi e materialistici. E questo vuoto induce nell'individuo un indifferentismo, un relativismo morale, per cui una cosa vale l'altra e tutto si puo' fare. Ma questo indifferentismo non è libertinismo, che implica una scelta, è un condizionamento pavloviano. Quelle 'voglie' che Ratzinger condanna non sono in realtà espressione di bisogni e di desideri autonomi, ma sono eterodirette e funzionali al meccanismo produttivo che, per restare in piedi, ha necessità di creare bisogni, desideri e, appunto, 'voglie' sempre nuove o di enfatizzare e drogare quelle che già ci sono, per poi tradurle in consumi per il mercato. L'Io con le sue povere 'voglie' eterodirette, non è il protagonista libertino del sistema ma la sua vittima designata.
Da Pontefice (mentre lo aveva fatto quando era nella posizione più defilata di cardinale) Ratzinger non ha mai osato attaccare in modo radicale quel progresso che è all'origine del relativismo morale, preferendo addossarne la responsabilità all'individuo. Forse non ne ha avuto la forza, forse, a differenza del suo predecessore, gli mancava il 'phisique du rôle' per simili battaglie campali. In fondo è stato anche lui vittima dell'epoca dell'immagine dove l'apparire conta più dell'essere. Inoltre mi sembra che Benedetto XVI confonda il relativismo morale con quello culturale che è cosa ben diversa: è il rispetto dei valori altrui senza che cio' significhi non averne dei propri. Comunque sia bisogna dar atto a Benedetto XVI, teologo finissimo, di aver acceso, soprattutto nella prima parte del suo pontificato, un dibattito intellettuale e culturale di alto profilo che era completamente mancato negli anni di Woytjla.
Indubbiamente un Papa che si dimette fa colpo  (anche se ha avuto la sfortuna di intrecciarsi con un 'evento' che a noi cattolicissimi italiani interessa molto di più: il Festival di Sanremo). I precedenti sono lontani e rarissimi, oltre a quello, sempre citato, del Celestino V del 'gran rifiuto' c'è quello di Gregorio XII nel 1415, ma in un'epoca in cui nella Chiesa regnava una gran confusione fra Papi e Antipapi (ognuno pretendeva di essere quello vero) e se ne contarono fino a tre. Eppoi le dimissioni di Benedetto XVI hanno un significato del tutto inedito:l'ammissione che anche il Vicario di Dio puo' essere fragile, debole, inadeguato perchè troppo vecchio. Questo ci rende Joseph Ratzinger, che era sempre sembrato distante, più vicino e più umano. Anche se noi, fra i due, avremmo preferito che a dimettersi, e già da tempo, fosse Giorgio Napolitano.



martedì 12 febbraio 2013

Chi perde è comunque l'elettore

Che agonia. Non si puo' aprire la Tv senza vedere le solite facce di palta che pontificano. Non si puo' accendere la radio senza sentire le loro voci odiose. Non si puo' sfogliare un giornale senza essere sommersi da un profluvio di dichiarazioni, contradditorie, immotivate, irrealistiche, iperboliche. E sono tutti nati ieri. Sono tutti vergini. Non c'è nessuno, che pur essendo in politica da vent'anni e magari anche da trenta, abbia l'onestà intellettuale di assumersi, almeno pro quota, qualche responsabilità del disastro, economico e morale, in cui è caduto il nostro Paese. La rigetta sull'avversario o presunto tale. Dovrebbe bastare questo spettacolino indecente per convincere il cittadino che abbia un minimo di discernimento a dire: sapete qual'è la novità ? Io non voto, non vengo a legittimarvi, per l'ennesima volta, a comandarmi per altri cinque anni dovendovi anche pagare profumatamente.
La democrazia rappresentativa è una finzione il cui rito culminante sono le elezioni. Lo è tanto più oggi che, dopo la caduta del comunismo, tutti i partiti, a parte qualche eccezione senza rilievo, hanno accettato quel libero mercato che, insieme al modello industriale, è il meccanismo reale che detta le condizioni della nostra esistanza, i nostri stili e ritmi di vita e di cui le democrazia è solo l'involucro legittimante, la carta più o meno luccicante che avvolge la polpetta avvelenata. Le antiche categorie di destra e sinistra non hanno più senso (ammesso che lo abbiano mai avuto perchè il marxismo non è che l'altra faccia della stessa medaglia: l'industrialismo). Non esistono più le classi, ma un enorme ceto medio indifferenziato che ha, più o meno, gli stessi interessi. Tuttavia questo ceto medio, per abitudine, per il martellante lavaggio del cervello da parte dei media legati alla classe politica (l'unica rimasta su piazza) si divide fra destra e sinistra con la stessa razionalità con cui si tifa Roma invece che Lazio, Milan o Inter. E quando il cosiddetto 'popolo della sinistra' (o della destra) scende in piazza per celebrare qualche vittoria elettorale, ballando, cantando, saltando, agitandosi, è particolarmente patetico perchè i vantaggi che trae da quella vittoria sono puramente immaginari o, nella migliore delle ipotesi, sentimentali, mentre i ricavi reali vanno non a questi spettatori illusi ma a chi sta giocando la partita del potere (la 'casta' per dirla con Gian Antonio Stella). Ad ogni tornata elettorale c'è un solo sconfitto sicuro, che non è la fazione che l'ha perduta (che verrà ripagata nel sottogoverno in attesa, al prossimo giro, di restituire il favore) ma proprio quel popolo festante insieme a quell'altro che è rimasto a casa a masticare amaro per le stesse irragionevoli ragioni per cui l'altro è sceso in piazza. Vincano i giocatori dell'Inter o del Milan è sempre lo spettatore a pagare lo spettacolo.



Programma elettorale: a noi italiani piacciono le favole

Scriveva Max Weber nel 1918 in 'La politica come professione': «I programmi di governo hanno un significato quasi puramente fraseologico». Sono cioè solo «parole, parole, parole» per citare una vecchia canzone di Mina. Ne abbiamo un esempio paradigmatico nella campagna elettore di queste settimane. Tutti promettono tutto e di tutto: abolizione dell'Imu, riduzione dell'Imu, riduzione delle tasse in generale, lavoro per i giovani, crescita. Dopo le elezioni di febbraio, chiunque le vinca, l'Italia dovrebbe diventare il Paese di Bengodi. Ma il campione dei campioni della fraseologia non poteva essere che Silvio Berlusconi con la sua proposta-choc: «Nel primo Consiglio dei ministri restituiremo l'Imu pagata per la prima casa nel 2012. Subito. Cash.» Come? Elementare Watson: « Sottoscriveremo un accordo con la Svizzera per la tassazione delle attività finanziarie detenute dai cittadini italiani oltre confine. Un'operazione che vale una tantum 25-30 miliardi». Paolo Bernasconi, ex procuratore capo di Lugano, ha osservato:« Quella di Berlusconi mi sembra una proposta del tutto onirica innanzitutto perchè viene da un ex premier il cui ministro dell'Economia ha sempre visto come fumo negli occhi un patto fiscale con la Svizzera. Dubito che un nodo rimasto insoluto per anni possa sciogliersi per una frase lanciata dalla tribuna di un comizio. Tanto più che qui da noi, nel frattempo, è cresciuto un sentimento anti-italiano. Eppoi le cifre indicate da Berlusconi sono del tutto aleatorie: non sappiamo qual'è l'ammontare dei patrimoni italiani in Svizzera, non sappiamo quale sarebbe l'aliquota loro applicata, possiamo piuttosto prevedere che molti soldi, alla notizia di una possibile tassazione, lascerebbero la Svizzera per altri lidi. Infine c'è una questione di tempi. Anche ammesso che le delegazioni italiana ed elvetica raggiungano un accordo, occorrerà l'approvazione del Parlamento. E poichè buona parte dell'opinione svizzera è contraria ai patti fiscali si andrebbe incontro a una raccolta di firme e a un referendum. Quindi, anche nella migliore delle ipotesi, Roma non vedrebbe i primi soldi da Berna prima di quattro o cinque anni».
Ma,in fondo, non ci vuole la competenza tecnica di Paolo Bernasconi per capire che quella di Berlusconi è la solita favola raccontata agli italiani. E a noi le favole piacciono tanto, salvo, al momento del dunque, andare a sbattere il muso contro la dura realtà, come accadde con Mussolini. Capisco che si potesse credere a Berlusconi nel 1994, quando 'scese in campo', anche se già qui c'era una stranezza perchè, dopo Mani Pulite e il marciume partitocratico che aveva scoperchiato, gli italiani dicevano di volere una Seconda Repubblica, pero' votarono in massa per un imprenditore che era stato il principale sodale economico di colui che era ritenuto l'emblema stesso della Prima Repubblica e della sua corruzione, Bettino Craxi. Comunque Berlusconi si presento' come 'l'uomo della Provvidenza' e gli italiani ci credettero. Ma sono passati 18 anni, una vita, la nostra. Berlusconi ha governato per dieci anni, per otto è stato capo assoluto dell'opposizione. Sfido chiunque a sostenere che l'Italia di questi 18 lunghissimi anni sia, in qualsiasi campo, migliore di quella del 1994. Si è rivelata anzi di gran lunga peggiore. Come 'uomo della Provvidenza' Berlusconi ha fallito completamente. Non ha fatto miracoli, non ha camminato sulle acque, ma ha potentemente contribuito ad affondarvi i suoi concittadini. Del resto uomo abbarbicato in modo patologico al potere com'è non lo avrebbe precipitosamente lasciato se non avesse temuto, nello tsunami generale, di affogare anche lui. Ora è venuto il momento di un'altra favola, meno idilliaca. Si puo' gridare « Al lupo ! » una, due, tre volte. Ma alla quarta la gente non ti crede più.



lunedì 11 febbraio 2013

"I capponi di Renzi" di Marco Travaglio

Il sindaco di Firenze, anzi di Firenzi, Matteo Renzi accusa Ingroia e Rivoluzione Civile di “autogol” perché farebbe “vincere Berlusconi”. Bersani ripete che “c’è un solo voto utile per battere la destra ed è il voto al Pd”. Per carità, in politica e soprattutto in campagna elettorale ciascuno tira l’acqua al suo mulino.
Ma c’è qualcosa di intellettualmente disonesto nel ricatto “o voti Pd o vince B.”. Non stiamo qui a ricordare tutte le volte in cui il centrosinistra resuscitò B. da morte sicura, o accusò noi antiberlusconiani di impedire il dialogo con B. e il reciproco riconoscimento fra destra e sinistra (prima l’accusa colpì i girotondi, poi fu usata dai vertici Ds per cacciare Colombo e Padellaro dall’Unità). Nel 2008 il neonato Pd predicava “le riforme insieme” a B., tant’è che in tutta la campagna elettorale Veltroni evitò accuratamente di nominare “il principale esponente dello schieramento a noi avverso”. E nel 2011 gli astuti strateghi del Pd dichiararono chiusa l’era del berlusconismo e dunque dell’antiberlusconismo (posti sullo stesso piano). I più furbi studiavano un salvacondotto per accompagnare B. alla tomba, essendosi bevuti l’ennesima balla: quella del suo ritiro in favore di Alfano (figuriamoci), con tanto di primarie Pdl (rifiguriamoci). Del resto, sentir dire da Bersani “faremo subito le leggi sul conflitto d’interessi, il falso in bilancio e la corruzione”, fa cascare le braccia: se fosse Renzi a dirlo, qualcuno potrebbe anche crederci, perché Renzi non era al governo né in Parlamento nelle cinque legislature della Seconda Repubblica in cui non si fece nessuna di quelle leggi, anzi se ne fecero parecchie di segno opposto. Ma Bersani in Parlamento e al governo c’era, dunque farebbe bene a non pronunciare più le parole conflitto d’interessi, falso in bilancio e anticorruzione finché le relative leggi non saranno sulla Gazzetta Ufficiale. E poi una legge anticorruzione il Pd l’ha appena votata assieme ai suoi alleati nella maggioranza che sostiene Monti, guidata dal Pdl, con cui governa da 14 mesi.
Una legge finta, anzi dannosa, che riduce le pene per la concussione: guardacaso, proprio il reato di cui risponde B. al processo Ruby. Come può chi governa da 14 mesi con B. accusare Ingroia o Grillo di fare il suo gioco? Dei leader attualmente in campo, gli unici che non hanno mai governato con B. sono proprio Ingroia e Grillo (Monti, Bersani, Fini, Casini e Maroni sono stati tutti in maggioranza con B., chi una, chi più volte). Ma soprattutto: se il Pd teme di perdere le elezioni a causa di Rivoluzione civile, perché non si è alleato con Rivoluzione civile prima del voto e non vuol farlo nemmeno dopo? Ingroia aveva offerto un’alleanza prima del voto: nessuna risposta. Ora offre un’alleanza dopo il voto: nessuna risposta. Anzi, picche. Invece Bersani annuncia a ogni pie’ sospinto che, dopo il voto, governerà con Monti (e tutto il cucuzzaro dei Fini e dei Casini), logorando Vendola ed escludendo a priori Ingroia. Di chi è dunque l’autogol? Renzi voleva addirittura cacciare Vendola dal centrosinistra, col risultato di sprecare i suoi voti, visto che Sel è data dai sondaggi sotto la soglia minima del 4% richiesta per entrare almeno alla Camera. Intanto B., com’è giusto fare col Porcellum che Pdl, Pd e Centro non han voluto cancellare, schiera una coalizione che tiene dentro tutta la destra. La sinistra invece, come al solito, è in ordine sparso.
Di chi è dunque l’autogol? Forse occorrerebbe un po’ più di umiltà e di rispetto per gli elettori. Chi vota Ingroia o Grillo lo fa perché preferisce programmi e comportamenti magari ingenui o sbagliati, ma radicalmente diversi dalla solita minestra fallimentare vista e rivista per vent’anni. Quei voti non appartengono a Ingroia o a Grillo, ma a quei cittadini. E chi vuole quei voti deve parlare a quei cittadini. Anzi, avrebbe dovuto.



Elezioni regionali in Lombardia. Cos’è davvero il voto disgiunto: pensaci, 5 Stelle

Ma i montiani hanno capito cos’è davvero il voto disgiunto? Dare voti diversi per la Camera, il Senato e la Regione non è voto disgiunto, è articolazione del voto. Si chiama voto disgiunto, invece, una possibilità molto specifica, offerta dal sistema elettorale delle regioni e dei comuni, e solo da questi due, e cioè la possibilità di votare, sulla stessa scheda per una lista al Consiglio regionale (ed eventualmente scrivendo il nome di un candidato, come preferenza) e per un candidato Presidente di uno schieramento diverso e concorrente rispetto a quella lista. In tal caso il voto al presidente può servire a farlo vincere, con la sua coalizione, invece il voto alla lista e al candidato consigliere serve a determinare il peso di quella lista nel Consiglio, e l’identità dei suoi eletti.  
Per valutare l’opportunità del voto disgiunto si deve tener conto di un’altra cosa che molti non sanno. Il candidato presidente viene automaticamente eletto in consiglio regionale solo se è quello che vince o se arriva secondo. Dal terzo posto compreso, in poi, il candidato presidente non viene eletto, a meno che non sia anche candidato nella lista e votato con le preferenze. Infatti la “candidata di 5 Stelle alla presidenza della Regione”, Silvana Carcano, è anche candidata consigliera a Milano e deve sempre ricordare di scrivere il suo nome accanto alla riga delle preferenze, altrimenti non sarebbe mai eletta.
E invece non ho trovato traccia di una candidatura di Albertini al consiglio, oltre che alla presidenza della Regione. In effetti il voto alla Carcano o ad Albertini come presidenti, sono del tutto superflui perché non determinano chi vincerà, tra la coalizione di Ambrosoli e quella di Maroni, e non determinano neanche chi siederà in Consiglio a rappresentare 5 stelle montiani nel Consiglio.
Per gli elettori di 5 stelle si tratterebbe solo di capire il meccanismo e senza togliere un solo voto alla loro lista, potrebbero, votando Ambrosoli  (o Maroni!) scegliere anche a quale giunta fare opposizione. In parole povere possono decidere se la Lega si prende anche la Lombardia col Pdl, o sbarrarle il passo con il voto disgiunto. Nel senso proprio, e tecnico del termine.
P.S; di questo voto disgunto di 5 Stelle si cominciò a parlare troppo tardi negli ultimi giorni delle elezioni regionali piemontesi, vinte poi da Cota della Lega per pochi voti. Immagino che qualcuno di 5 Stelle reagirà molto male, ma in fondo è anche nel loro interesse che il centrodestra leghista-berlusconiano perda.


 

C'E' STATO UN COLPO DI STATO E NON CE NE SIAMO ACCORTI

E' un documento che non può lasciare indifferenti il "Rapporto Camere Aperte 2013" realizzato dall'associazione Openpolis e presentato nei giorni scorsi alla Camera dei Deputati.

I numeri relativi alla XVI Legislatura - quella che sta per chiudersi - raccolti e raccontati nel rapporto raccontano di un autentico colpo di Stato avvenuto sotto gli occhi di tutti ma all'oscuro dei più. I principi fondamentali della nostra Costituzione sono stati travolti da pratiche e prassi parlamentari e di Governo che, di fatto, hanno sostanzialmente trasformato la governance del Paese.

Il Parlamento è divenuto un inutile orpello istituzionale con il profilo di un grigio burocrate passacarte con l'unico ruolo di "vidimare" scelte e decisioni del Governo senza alcuna concreta facoltà di sindacato.

I numeri sono più eloquenti di ogni parola: il Parlamento, nel nostro Paese, nell'ultima legislatura si è completamente lasciato esautorare dal Governo tanto del potere di fare le leggi che del diritto/dovere di controllare ed indirizzare l'operato dell'Esecutivo. I Parlamentari dal canto loro - i numeri raccontano naturalmente la media statistica che soffre, per fortuna, di importanti eccezioni - hanno, ormai, completamente tradito il concetto della rappresentanza e, una volta eletti, si sentono liberi di attraversare l'intero emiciclo, da destra a sinistra, senza avvertire neppure l'esigenza di rendicontazione ai propri elettori.

Inutile perder tempo in chiacchiere e parole, i numeri, mirabilmente analizzati e rappresentati da Open Polis parlano da soli. Su 387 leggi approvate nel corso dell'intera legislatura, 297 sono di iniziativa governativa e solo 90 di iniziativa parlamentare. Significa che leggi le ha fatte il Governo per il 77% in barba al principio costituzionale che assegna all'Esecutivo tale ruolo solo in maniera del tutto eccezionale. Ma non basta.

Se Deputati e Senatori si azzardano a prendere l'iniziativa legislativa, la percentuale di successo è dell'1%. E' pari a zero - ed è forse uno dei dati più drammatici che emergono dal Rapporto - la percentuale di successo delle iniziative legislative assunte, in conformità alle previsioni costituzionali, dai cittadini, dal CNEL o dalle Regioni.

Il Governo che dal Parlamento dovrebbe essere controllato lo tiene, invece, in scacco o lo "minaccia" costantemente utilizzando l'arma del voto di fiducia. Quasi una legge su due tra quelle approvate grazie al voto di fiducia nel corso del breve Governo dei professori.

L'alibi della crisi non basta davvero a giustificare una simile dinamica da golpe istituzionale. Il Parlamento, d'altra parte, in ben 12 occasioni presentatesi non è mai stato capace di sfiduciare neppure un singolo Ministro. Sin qui senza parlare del fattore "tempo" che, pure, gioco un ruolo essenziale nel governo del Paese.

Per fare una legge in Italia ci vuole un periodo variabile compreso tra i 7 ed i 1456 giorni. Possibile? Più che possibile. E' assolutamente vero ed innegabile perché è quanto accaduto nel corso della XVI legislatura nell'ambito della quale vi sono stati alcuni disegni legge che nel rapporto di Openpolis vengono giustamente definiti "lepre", in genere presentati dal Governo ed altri, in genere di iniziativa parlamentare, altrettanto giustamente definiti "lumaca".

Ce ne sarebbe abbastanza per gridare all'attentato alla Costituzione e chiamare a rispondere indistintamente il Governo e chi nel Parlamento - e sono in tanti - ha consentito che l'Esecutivo del Cavaliere prima e del Professore poi si impossessassero di poteri e prerogative che la Carta Costituzionale affida a Camera dei Deputati e Senato della Repubblica. Ma c'è di più.

Il potere del Parlamento e la sua Autorevolezza sono stati, ormai, così tanto ridimensionati che i Ministri della Repubblica cui la legge impone di rispondere alle questioni rivolte loro dai Parlamentari, ormai, non avvertono più neppure il dovere di farlo. E' stata, infatti, inferiore al 30% la percentuale di occasioni nelle quali i Ministri del Governo del Professor Monti hanno avvertito il dovere di rispondere alle interrogazioni dei Parlamentari.

Il Parlamento, naturalmente, è fatto di uomini ed è proprio degli uomini - alcuni naturalmente - la colpa di una tanto drammatica situazione. Rappresentanti dei cittadini eletti perché hanno liberamente scelto di impegnarsi in Parlamento che poi disertano le aule in percentuali imbarazzanti persino per il peggiore degli scolari: 91,70% di assenze quelle collezionate dal leader degli assenteisti alla Camera dei Deputati, Antonio Gaglione del Gruppo misto e 81,20% quelle di Niccolò Ghedini il cui seggio è servito, sostanzialmente, a consentire al Cavaliere Belrlusconi di imputare ai cittadini italiani gli onorari dovuti al proprio Onorevole avvocato per l'assistenza prestatagli, quasi a tempo pieno, nei numerosi giudizi nei quali è coinvolto.

Ma una delle cifre più significative dell'inutilità di un Parlamento che funzioni così e della straordinaria farsa elettorale che sta, ancora una volta, andando in scena in questi giorni è, certamente, rappresentata dalla circostanza che i due maggiori parti del Paese nel corso dell'ultima legislatura - PdL e PD - sono quelli che registrano indici di produttività parlamentare più bassi.

Come si fa a non parlare di golpe, colpo di Stato, travolgimento dell'ordine costituzionale o attentato alla costituzione davanti a questi numeri? Ma la conferma della gravità di quanto sta accadendo è data dal vergognoso ed inarrestabile fenomeno del "trasformismo" parlamentare. Nel corso della XVI legislatura si sono registrati ben 267 cambi di gruppo parlamentare con sedici onorevoli che sono arrivati ad indossare fino a 4 casacche diverse. Il mandato parlamentare è diventato solo un treno per Montecitorio, un modo come un altro per entrare nella casta.

C'è stato un colpo di Stato e non ce ne siamo accorti.

Dal Blog di Guido Scorza su L'espresso - 1o febbraio 2013

 

sabato 9 febbraio 2013

Pagnoncelli, i sondaggi e i rischi per la democrazia


Sos sondaggi da Nando Pagnoncelli, fra i volti più noti dei sondaggisti italiani, nell'ultimo giorno di pubblicabilità delle rilevazioni demoscopiche sulla campagna elettorale 2013: «Uso improprio li sta trasformando da scienza ad arma propaganda»
 Nando Paglioncelli: «A 16 giorni dalle elezioni i sondaggi pre-elettorali pubblicati presentano stime per i singoli partiti non sempre convergenti. Le stime divergenti - ha denunciato fra l'altro Pagnoncelli su 'InPiù', la nuova testata online diretta da Giancarlo Santalmassi - dipendono anche dall'utilizzo dei sondaggi come strumento di comunicazione, nel tentativo di mobilitare il proprio elettorato, di disorientare quello avversario e di influenzare gli elettori incerti e astensionisti. Si tratta di un utilizzo improprio dei sondaggi che da strumento di conoscenza e di analisi della pubblica opinione negli ultimi anni, soprattutto in Italia , sono diventati uno strumento di propaganda, finalizzato a creare opinioni più che a conoscerle e misurarle. Da strumento di democrazia a rischio per la democrazia».

www.diariodelweb.it

mercoledì 6 febbraio 2013

Bancomat, social, smartphone e web: 10 regole per difendere la nostra privacy



La diffusione di dispositivi tecnologici e l'espansione delle community più popolari ha travolto le il muro che difende i nostri dati personali. Qualche piccolo consiglio, per gli utenti più o meno esperti, per provare a proteggersi da occhi indiscreti.
 
Siti web che spiano le nostre navigazioni, estranei che sbirciano tra le foto su Facebook, mogli gelose che passano al setaccio sms e foto scattate dal nostro smartphone, criminali informatici che accedono indisturbati alle nostre caselle di posta. I pericoli per la nostra privacy sono molti, e aumentano di giorno in giorno con l'arrivo di nuovi servizi e dispositivi tecnologici. Secondo Marco Calamari, uno tra i più noti esperti del settore in Italia, le insidie maggiori sul web vengono certamente dai social network e "dall'effetto di assuefazione alla fornitura dei propri dati personali che essi, per la loro stessa natura e sopravvivenza, devono perseguire al massimo grado". Per questo, continua Calamari, "le comunità sociali sono senz'altro da evitare, come in generale tutti i servizi che chiedono una registrazione che non si limiti ad un nickname ed un'indirizzo di posta ma includa anche dati personali come nome, data di nascita, indirizzo etc.". La soluzione a garanzia della nostra privacy potrebbero essere leggi più stringenti? Non proprio, secondo Calamari infatti le "leggi in materia, spesso corrette come principi, quasi sempre non possono essere efficacemente applicate in contesti transnazionali. In contesti locali invece vengono spesso aggirate usando scappatoie ben note".

Qual è dunque la soluzione? Esistono dei comportamenti pratici e dei consigli per proteggersi da occhi indiscreti. Eccone 10 alla portata di tutti, o quasi:


1) Impostare una password su smartphone, tablet e portatile.
Sono sempre con noi e custodiscono pezzi importanti della nostra vita: smartphone, tablet e notebook conservano le nostre rubriche, le foto delle vacanze, i nostri documenti di lavoro, i primi passi di nostra figlia, gli excel con la nostra contabilità e chi più ne ha più ne metta. Basta lasciarli incustoditi ed occhi indiscreti potrebbero facilmente ottenere informazioni sensibili, ecco perché è sempre importante impostare una password di accesso. Che abbiate un iPhone 5, un Samsung Galaxy S3, un iPad un un portatile non dimenticate che la piccola "scocciatura" di immettere la propria parola chiave ogni volta che si accede al dispositivo può rivelarsi una barriera in grado di scoraggiare chi voglia ficcare il naso nei vostri dati.

2) Creare un avviso su Google con il nostro nome.
Che cosa dicono di noi sul Web? Sia che siate degli "Internet-dipendenti", sia che ignoriate social network e chat, potreste essere oggetto di critiche o complimenti per quello che fate. Nel peggiore dei casi invece qualche pirata informatico potrebbe essere entrato in possesso dei vostri account digitali e averli divulgati sul Web. Per monitorare se e quando si parla di voi, nel bene o nel male, è una buona abitudine utilizzare gli avvisi di Google, i cosiddetti Alert. Basterò inserire il vostro nome e cognome e il vostro indirizzo email per ricevere un messaggio ogni volta che verrete citati da qualcuno sul Web. Un modo comodo e automatico per controllare la propria reputazione.

3) Disconnettersi dai servizi che usiamo.
Immettere ogni volta la propria password per entrare in Facebook e Gmail è una grande seccatura. Meglio rimanere sempre connessi ai servizi che usiamo di più, no? Niente di più sbagliato, soprattutto se condividiamo il computer o tablet con altre persone oppure lavoriamo in un open space in cui l'accesso al nostro pc è alla portata di tutti. È buona norma, una volta terminate le operazioni sui servizi online che usiamo più di frequente, effettuare la disconnessione del nostro account. In questo modo renderemo la vita difficile a chi voglia dare una sbirciatina alle nostre foto private su Facebook o alle nostre email.

4) Non dare la propria email a tutti.
Fornire il proprio indirizzo email al primo sito Web in cui ci si imbatte è il miglior modo per avere in poco tempo la propria casella di posta inondata di spam, o nel peggiore dei casi da virus e truffe. Ecco perché si può ricorrere a servizi che creano degli indirizzi email temporanei, ideali per non ricevere più spam. Ce ne sono diversi, i migliori in assoluto però sono Mailinator e 10MinuteMail.

5) Criptare i dati sul proprio computer.
Non occorre essere degli 007 per proteggere i dati presenti sul proprio pc. Sia Windows che Mac OS offrono strumenti integrati per criptare i propri file in pochi clic. Per Windows c'è BitLocker, un software integrato nelle versioni pro del sistema Microsoft, che consente di crittografare tutto il proprio hard disk, rendendo impossibile la lettura da parte di estranei che vogliano curiosare nei nostri file. Anche su Mac esiste uno strumento chiamato FileVault che rende indecifrabile il contenuto del nostro hard disk per chiunque. Se invece cercate un software che funzioni indifferentemente su Windows, Linux e Mac il migliore è TrueCrypt anche se non è proprio semplicissimo da usare.

6) Abilitare la verifica in due passaggi su Gmail.
Perché accontentarsi di usare una sola password quando se ne possono utilizzare due? Google permette da tempo di attivare su Gmail la verifica in due passaggi. Grazie a questa funzionalità il login a Gmail e agli altri servizi di Google avverrà non solo inserendo la propria password ma anche un codice numerico generato di volta in volta attraverso un'applicazione per iPhone o Android. E in caso di perdita del telefono? Google fornisce dei codici che possono essere usati per accedere alla propria casella di posta anche in caso di smarrimento o furto del proprio smartphone.

7) Pagare in contanti o con monete elettroniche.
Qualsiasi acquisto fatto con carta di credito o bancomat è tracciato. Non è facile effettuare delle transazioni anonime ma ci si può riuscire. Se acquistiamo da negozi fisici è consigliabile pagare in contanti, un metodo sicuramente scomodo ma utile per non lasciare tracce, soprattutto se si acquistano beni o servizi che potrebbero metterci in imbarazzo o rivelare delle abitudini che vogliamo rimangano "segrete". Se invece preferite fare acquisti online le cose si complicano un po', ma se si è utenti un po' evoluti il rimedio c'è. Si può usare per esempio la moneta elettronica BitCoin, creata appositamente per effettuare transazioni che non rivelino l'identità dell'acquirente. L'utilizzo di BitCoin non è proprio semplice ma esistono servizi che promettono di rendere l'invio e la ricezione di denaro alla portata di tutti come OKPay o la startup BitPay.

8) Aggiornamenti su Facebook visibili soltanto agli amici.
Privacy su Facebook? Non è facile perseguirla sul social network di Zuckerberg. Tuttavia, con dei piccoli accorgimenti si possono fare passi da gigante nel concedere soltanto a "pochi intimi" di poter sbirciare tra i nostri aggiornamenti. Come? Basta un clic sull'icona a forma di lucchetto per accedere ai collegamenti rapidi alla privacy, da qui dovremo andare sulla voce "Chi può vedere le mie cose?" e impostare "Amici" sotto la scritta "Chi può vedere i miei post futuri?". Il gioco è fatto: da ora in poi tutti i nostri aggiornamenti saranno visibili soltanto ai nostri amici. Se invece volete ripulire il vostro passato su Facebook da aggiornamenti o foto imbarazzanti allora la soluzione è Facewash.

9) Pulire la cronologia di navigazione del browser.
Che usiate Internet Explorer, Chrome, Firefox, Safari o Opera dovreste fare attenzione alla cronologia delle vostre navigazioni. Uno sguardo ai siti visitati può dare un'idea sufficientemente chiara delle nostre abitudini. Ecco perché è importante pulire settimanalmente o giornalmente la cronologia di navigazione o ancora meglio usare la funzione di navigazione in incognito offerta ormai da tutti i principali browser. Non dimenticate però che esistono anche altri modi per "tracciare" le nostre abitudini di navigazione, per esempio i cookie. Si tratta di file di testo che vengono installati sui browser dai siti web visitati e permettono di identificarci. Per questo è opportuno ripulire a scadenze fisse questi ospiti indesiderati tramite le impostazioni di privacy dei vari browser oppure ricorrendo a uno dei tanti "pulitori", tra i migliori per Windows consigliamo CCleaner.

10) Mascherare il proprio indirizzo IP.  
A qualsiasi computer navighi su Internet viene assegnato un indirizzo IP, un identificativo numerico che può rivelare preziose informazioni su di noi come il luogo geografico dove ci troviamo e l'Internet provider utilizzato. Per navigare in modo anonimo è necessario modificare il nostro indirizzo IP utilizzandone un altro non direttamente collegabile a noi. Esistono diversi medi per mascherare il proprio IP, tra questi il più efficace è Tor, un sistema che permette di rendere assolutamente anonime le nostre navigazioni. Tor è gratuito, open source e gestito dalla associazione senza fini di lucro The Tor Project. L'utilizzo è molto semplice grazie al cosiddetto Tor Browser Bundle, un software che si occupa di rendere la nostra navigazione anonima in pochi clic. Se invece siete disposti a spendere qualche euro allora le soluzioni più efficaci per navigare in modo anonimo sono le VPN, si tratta di servizi che offrono navigazione veloce, protetta e al riparo da occhi indiscreti. Ne esistono moltissime, tra le migliori c'è iPredator e l'italiana AirVPN.

MATTEO CAMPOFIORITO (La Repubblica - 06febbraio 2013)