lunedì 29 luglio 2013

Un Paese in preda a marasma senile

Ho passato una ventina di giorni di vacanza all'estero. Un estero molto vicino: la Corsica (anche se la definisco «il luogo più vicino più lontano dall'Occidente» perchè, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario 'recul' (che è la distanza giusta per osservare un quadro, perchè se sei troppo vicino non ne capisci l'insieme, se troppo lontano, non lo vedi) l'Italia offre di sè uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. Non si tratta di questo. E' che l'Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati.
E' saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all'insaputa l'uno dell'altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo perchè sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni del Kazakistan, un Paese che un tempo facevamo fatica a trovare sulle carte geografiche. Di fronte all'impudenza dei kazaki che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l'intervento kazako è stato «intrusivo». Abbiamo perso ogni credibilità internazionale e non solo per le gaffe di Berlusconi e il suo modo molto personale e privato di fare politica estera («l'amico Putin», «l'amico Erdogan» e «l'amico Muhammar»). Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, quando era Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l'estradizione, l'ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro.
Un delinquente comune, anzi 'naturale' come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di 'delinquente abituale', vuol dire che ce l'ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perchè crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perchè, direi fisicamente, non puo' cadere.
Una potente 'family', palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c'entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a innocuizzarli in modo definitivo è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c'è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio, un pus purulento che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c'è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perchè mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità.
Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali.
Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese si trova nel suo.



Costituzione: obiettivo 500mila. Si può fare

Più di ottantacinquemila firme raccolte in poche ore sotto l’appello del Fatto Quotidiano per salvare la Costituzione stracciata possono diventare in pochi giorni la risposta di massa della Repubblica dei cittadini contro la repubblica degli oligarchi. Oligarchia, governo dei pochi, è una parola antica che sta soffocando le istituzioni come un sudario.
Una casta dei partiti sempre più impopolare, votata da meno della metà degli elettori, se si somma al 38 per cento di astenuti il 25 per cento raccolto dal M5S sulla opposizione intransigente a questo sistema politico. Un governo fondato sull’accordo innaturale Pd-Pdl e sul tradimento del mandato ricevuto dai rispettivi elettorati. Commissioni di presunti saggi nominati nelle segrete stanze, incaricati di snaturare la Carta fondamentale dei diritti e dei doveri dei cittadini. Quella solo ieri definita “la più bella del mondo” (Bersani) e oggi considerata un catorcio da trasformare con scorciatoie inaccettabili (la modifica dell’articolo 138) così da renderla docile agli interessi delle “larghe intese”, in realtà ristrette ai soliti noti che decidono tutto. Perfino nel Pd, partito nato sulle primarie, un sinedrio di inamovibili cacicchi cerca di torcere le regole a proprio esclusivo beneficio contro l’intruso Matteo Renzi. Vogliono prendersi tutto, ma non hanno ancora vinto.
Salvatore Settis nel libro Azione popolare. Cittadini per il bene comune, racconta la rivoluzione possibile di un Paese sottomesso all’assolutismo dei mercati e sotto il ricatto del debito pubblico. La disastrosa crisi economica, creata dalla peggiore classe politica del-l’Occidente, viene usata contro i cittadini a cui si chiede non solo di pagare un conto salatissimo, ma anche di rinunciare a importanti quote di sovranità. Da consegnare nelle mani del Quirinale e di Palazzo Chigi, a loro volta sottoposti ai voleri di Unione europea, Bce e Fondo monetario. Ambiente, cultura, scuola, salute, giustizia sociale diventano così parole vuote, voci di bilancio da tagliare, valori privi di valore. Non sarà facile dare nuova legittimazione alla democrazia che ci stanno sequestrando.
Firmare per la Costituzione è un primo passo. Altri ne seguiranno per dare forza ai beni comuni e garanzia alle libertà pubbliche e ai diritti civili. Un’azione collettiva che ha già il sostegno della politica che non si arrende: Movimento 5 Stelle, Sel e tanti nella base del Pd che di certe cricche non ne possono più. C’è il sindacato, la Fiom, che sul diritto al lavoro non scende a compromessi. Senza contare l’infinita galassia di movimenti che si battono a difesa dei più deboli e per il ripristino della legalità. Proprio a sostegno della Procura di Palermo, impegnata nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia, nell’estate di un anno fa raccogliemmo 150 mila firme. E da quella inchiesta, che rischiava di morire di silenzio, indifferenza e congiure di palazzo, è nato un maxi-processo che dal prossimo autunno potrà scoperchiare finalmente il vaso avvelenato dei segreti indicibili di Stato: sì, quelli di cui qualcuno ha cercato di fare un bel falò insieme alle telefonate compromettenti.
Non ce l’hanno fatta grazie anche ai lettori del Fatto. Ora si tratta di togliere la Costituzione repubblicana, nata dallaResistenza, dallegrinfiedellelargheintese. Servono almeno cinquecentomila firme. Si può fare.



domenica 28 luglio 2013

Aspettare la Cassazione è il nostro Royal Baby

Due Paesi europei si sono fermati in attesa, come in una fiaba. In Inghilterra si attendeva l’erede al trono. È arrivato, it’s a boy, si chiama George Alexander. In Italia si chiama Silvio Berlusconi, it’s a boy, ma non è arrivato. Ovvero non è ancora arrivata la sentenza che deciderà il prossimo capitolo della sua vita avventurosa, che siamo obbligati a condividere. Perciò, a differenza del Regno Unito, l’Italia resta ferma, inchiodata alle previsioni, alle scommesse, all’attesa.
Un intero Paese, tra i primi nell’economia mondiale, co-fondatore dell’Unione europea, protagonista nel Mediterraneo, pezzo importante del mondo globalizzato, resta immobile, guardando verso la Corte di Cassazione, che in poche righe deciderà sui prossimi anni della vita pubblica italiana e sentenzierà sul senso e sull’esito dei precedenti vent’anni “sotto Berlusconi”. Gli esperti in previsioni berlusconiane (attivi e infaticabili quanto i bookmaker del piccolo George Alexander, ma intenti a discutere scenari meno lieti) si scontrano con tre previsioni: va in prigione; resta al Senato (forse a vita); oppure varie forme di rinvio in modo che, come accade spesso in questo Paese, nulla cambi e tutto resti immobile in attesa del prossimo evento di Berlusconi da cui dipenderà di nuovo il nostro futuro.   
Personalmente, senza avere il minimo spunto di conoscenza processuale di questi fatti, mi permetto di prevedere una qualche forma di rinvio o posticipo, perché troppi destini si incrociano nello spazio e nel tempo di quella sentenza. Grava prima di tutto su di essa lo scambio di lettere (chiarificante ma drammatico ) tra Fausto Bertinotti e Giorgio Napolitano. Bertinotti vede il fermo di democrazia, come il “freeze” di una sequenza di cinema , in cui ogni gesto appare sospeso, per timore di danneggiare il governo.   
Il Presidente della Repubblica ha due cose chiare da opporre. Una. Ovvio che ogni divieto sarebbe una interruzione inaccettabile della democrazia. Due: se qualcosa o qualcuno interrompe il buon funzionamento delle “larghe intese” , si rompe tutto e sarà necessaria un’elezione anticipata. Equivale all’affondamento senza rimedio della nostra economia. In questo modo la vita politica, anzi tutta la vita pubblica italiana, diventa una giostra. Si muove, ma intorno allo stesso punto, girando sullo stesso perno. Viaggiare sulla giostra dà ebrezza, ma non porta lontano, salvo la breve illusione che il paesaggio cambi. Anzi, che cambi sempre perché, girando , le idee un po’ si confondono. Interferire con una giostra in movimento è molto pericoloso.   
Purtroppo, con il gioco della giostra, la prima vittima è la percezione del Paese nel mondo, dunque le relazioni internazionali. Stiamo accumulando casi di violazione o di irrilevanza a nostro danno che non hanno niente a che fare con la responsabilità del ministro degli Esteri isolato e accantonato. Tre casi in sequenza ci collocano nel rango di “potenza irrilevante”: i fucilieri di marina italiani abbandonati in India e affidati al buon cuore di quel Paese; l’agente ex Cia Seldon Lady (uno dei protagonisti della “rendition” di Abu Omar) arrestato a Panama su mandato di cattura italiano e subito restituito da Panama agli Usa, senza neppure interpellare l’Italia; l’arresto di Alma Shalabayeva e bambina, ordinato dall’ambasciatore kazako alla polizia italiana, scrupolosamente eseguito da 50 violenti uomini armati (cito dalla descrizione della signora Shalabayeva al Financial Times) e trasporto immediato delle vittime da Roma al Kazakistan, una vicenda di cui, con la finzione di sapere tutto, non sappiamo niente.   
Se cerchiamo di comporre l’insieme confuso di queste vicende in un unico quadro, il risultato è allarmante. Primo, la maggioranza, che sostiene e garantisce il governo, non ha alcun segno di identificazione, come una vasta truppa anonima. È un essere collettivo senza lineamenti precisi, che afferra tutto, accetta tutto, comprende tutto, decide tutto e permette tutto, per mancanza di definizione, anche solo approssimativa, dei partecipanti all’immenso gruppo misto. Potrebbe esserci una opposizione ma purtroppo Cinque Stelle non ha capito o deciso o saputo dove andare e come andarci e Sel ha poca voce.   
Secondo, il governo è senza scopo. Infatti la vera domanda al governo non è di competenza ma di esistenza. Questa domanda viene autorevolmente ripetuta senza sotterfugi, e ogni obiezione al governo viene subito bollata come messa in pericolo dell’intera società italiana, vita e valori.
Terzo, il potere è senza volto. Per esempio (mi riferisco di nuovo al caso Shalabayeva) avviene in Italia, sotto gli occhi del governo e per mano dello Stato, un delitto contro i diritti umani di qualcuno. Il primo ministro Letta si chiama fuori. Ci garantisce che il ministro dell’Interno non c’entra. Il ministro degli Esteri credibilmente dimostra di essere stata tenuta all’oscuro. Il ministro della Giustizia non vuole sapere né rivedere il caso. Il Capo dello Stato deplora. Ma gli ordini chi li ha dati? A chi far credere che la polizia si è mossa da sola, guidata da un kazako, nel compiere, dentro l’Italia e dentro Roma, un’azione dichiarata “odiosa” da tutti e sicuramente illegale, violando persino la Carta dell’Onu per l’infanzia?   
Raccontata così, la vicenda italiana dà l’impressione che qualcuno che conta muove il potere dietro il potere. Servirà la sentenza della Cassazione a portare un briciolo di luce almeno su questo punto: chi dà gli ordini a chi, e perché, in questo Paese, in questi terribili anni?



sabato 27 luglio 2013

La parabola ventennale di Berlusconi e il crollo dei valori

Un padre si rese conto che suo figlio era diventato un delinquente. Allora lo convoco' e gli fece una solenne ramanzina. Il figlio lo ascolto' con molta attenzione. Poi disse, dolcemente: «Vieni con me». Camminarono per un po' finchè giunsero nei pressi di un bosco e vi si inoltrarono. Il figlio strappo' un ramoscello da un albero, lo porse al padre e gli chiese di spezzarlo, cosa che l'altro fece con gran facilità. Ne strappo' un altro solo di poco meno esile e chiese al padre di fare la stessa cosa. Non ci furono problemi. Poi indico' un ramo piuttosto robusto e ingiunse: «Spezzalo». E il padre lo fece con una certa fatica. Andarono avanti in questa maniera con rami sempre più grossi. Finchè ne arrivo' uno che per quanto l'uomo si sforzasse e si impegnasse, madido di sudore, non riusci' a piegare. «Vedi» disse il figlio «se tu quella ramanzina me l'avessi fatta tanti anni fa quando ero ancora un giovane virgulto sarebbe stato facile rimettermi sulla buona strada. Oggi è troppo tardi».
Berlusconi andava fermato subito. Ormai è troppo tardi. E' il vero padrone del Paese, lo tiene in scacco e continuerà a farlo finchè madre natura vorrà. Per la verità ci fu qualcuno che all'inizio ci provo'. L'imprenditore Silvio Berlusconi aveva accentrato nelle sue mani l'intero comparto televisivo privato nazionale. Un oligopolio illiberista e illiberale. Intervenne la magistratura per sanare la situazione. Berlusconi fu salvato da Bettino Craxi (che io considero il primo, vero, grande corruttore di questo Paese) che gli confeziono' una legge ad hoc, la Mammi', che congelava e legittimava la posizione oligopolista dell'allora Fininvest in campo televisivo. Il Cavaliere avrebbe pero' dovuto sbarazzarsi delle sue proprietà nella carta stampata. Disse a Montanelli: «Sono rovinato, devo vendere Il Giornale». E lo cedette a suo fratello Paolo.
Nel 1994 quando decise di entrare in politica non avrebbe potuto farlo senza cedere le sue aziende in quanto una legge del 1957 interdiva l'ingresso in Parlamento a chi fosse detentore di concessioni da parte dello Stato (nel caso di Berlusconi quelle televisive). Il Cavaliere doveva scegliere: o le aziende televisive o la politica attiva. E' il famoso conflitto di interessi. Berlusconi non cedette le aziende e entro' lo stesso in politica nonostante per la legge fosse ineleggibile. Promise un blind trust per il quale, pur rimanendo proprietario, non avrebbe saputo nulla delle attività della Fininvest, nomino' un comitato di 'tre saggi' che non si è mai saputo che fine abbia fatto. Violo' la legge e basta. Volerlo dichiarare ineleggibile ora, a vent'anni dal suo ingresso abusivo in Parlamento, dopo che è stato quattro volte presidente del Consiglio, è semplicemente grottesco. Bisognava impedirglielo allora, bisognava fargli rispettare la legge allora, oggi non ha più senso.
I vent'anni del berlusconismo e dell'antiberlusconismo sono stati atroci. Non parlo qui come giornalista che, non appartenendo a nessuna delle due bande, ha trovato sempre più difficoltà a lavorare fino a subire una sorta di 'conventio ad escludendum' , da destra e da sinistra. Parlo come cittadino e come uomo. In vent'anni ho visto crollare, e non certo per colpa del solo Berlusconi, tutti i valori di stampo ottocentesco che mio padre, che era del 1901, aveva cercato di inculcarmi, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, che ho cercato di osservare anche se, ovviamente, non sempre ne sono stato all'altezza.
Quando Berlusconi 'scese in campo' ero un uomo nel pieno del suo vigore. Oggi sono solo un vecchio smarrito che ha perso tutti i suoi punti di riferimento.



venerdì 26 luglio 2013

Calabrache e apocalittici. Il caffè del 26 luglio

Ormai è una slavina. Più il Pd si stringe al collo il nodo scorsoio del governo con Berlusconi, più evapora la sua volontà di far politica, più la sua identità di forza della sinistra si scioglie al sole e ai venti del "non fare", e del "non pensare". Ma come si fa, dico io! Come è possibile che, in pochi giorni, prima Enrico Letta ed Emma Bonino coprano la vergognosa deportazione di Alma ed Alua. Poi ancora Letta, dando del fighetto a chi pur timidamente critica il suo governo, sostiene nei fatti che solo con Berlusconi si possa governare. E Napolitano umilia, post mortem, la politica del "cambiamento" e l'ex segretario Bersani: ha fallito, ha detto il Presidente, nonostante gli avessi dato "l'incarico di esplorare, senza vincoli né limiti" se mai per caso una diversa maggioranza fosse possibile. E ora ci si mette pure Fassina a intonare Peana nel nome di Silvio. "Esiste una evasione di sopravvivenza", ha detto il vice ministro dell'economia. E subito Il Giornale gongola: "Gli evasori non sono più cattivi". La Stampa: "A sinistra scontro sul fisco". Il Corriere fa eco: "L'evasione fiscale fa litigare il Pd". Sì, perché a fine giornata, Susanna Camusso ha definito quello del vice ministro "un gravissimo errore politico".
Cominciamo da qui, dalla sparata di Fassina. Uno che di economia ci capisce, un ragazzo onesto, che quando ci discuti ce la mette tutta per sostenere il suo punto di vista. Ma la politica è un'altra cosa e il Fassina l'ha detta proprio grossa. Naturalmente di gente che non riesce a pagare le tasse, ne conosco anch'io. E la pubblica amministrazione non li paga, le banche prestano a tassi da strozzino, i fornitori chiedono il contante, i clienti comprano con un pagherò. Ma in un paese le cui risorse vengono letteralmente prosciugate dai grandi evasori, i quali grandi evasori vivono in contiguità e connivenza con poteri criminali e mafiosi, in un Paese nel quale da oltre venti anni la destra al potere è intenta a distruggere quel che è pubblico e a diffondere tra i cittadini la cultura dell'illegalità, e lo fa vendendo la bugia secondo cui arrangiandosi (e rubando) alla fine si sfonda.....beh, in un paese così, parlare di "evasione per necessità", mentre non un solo evasore va in carcere, è dire "Berlusconi per sempre"'. Significa rassegnarsi ad essere dominati dai vari Briatore e dai tanti piccoli disgraziati che che ne condividono il "soooogno", come direbbe Crozza, che sognano di poter vivere un giorno come lui  lavorando in nero e rubacchiando nel sottoscala. Scrive Sallusti: "Il merito del Governo delle Grandi  Intese, e non è poco, è di fare ammettere alla sinistra che le ricette economiche del centro destra sono le uniche giuste e praticabili". Prosit.
A Fassina non devono aver spiegato che ogni politica economica deve fare i conti con gli interessi di classe, con i blocchi sociali costituiti, con la cultura che li sorregge.Temo che non l'abbiano spiegato neppure a Letta, mentre Epifani pare essersene dimenticato. Tutti e tre leggano Il Giornale, per favore. "Berlusconi sente aria di voto....in caso di condanna governo in bilico". La minaccia! Poi l'offerta ruffiana: "se la Cassazione neutralizzerà la condanna del Cavaliere, si potrà procedere con la nascita della Terza Repubblica". Avete capito? Le riforme costituzionali che tanto stanno a cuore al Cavaliere, che lo hanno indotto a parlare di una "svolta epocale" in corso, si potranno realizzare ma solo a condizione che al suddetto Cav la legge non si applichi. Che intervenga a salvarlo un qualche imbroglio politico istituzionale. Il beau gosse Letta è avvertito!
La destra ricatta, blandisce, fa politica. Noi del Pd, ogni giorno che passa, sprofondiamo nell'abisso del compromesso, della rinuncia a far politica in nome di un falso realismo politico. Non contenti del "compromesso" che avrebbe vanificato la legge sul voto di scambio politico mafioso, ecco che s'avanza un altro "compromesso", per depenalizzare l'illecito finanziamento dei partiti. "Soldi ai partiti, la spugna del PDL" titola Repubblica.  Nelle pagine interne il Presidente del sindacato dei magistrati ricorda come fossero tre le norme che consentirono "mani pulite": il reato di corruzione, il falso in bilancio, l'illecito finanziamento dei partiti. Il falso in bilancio non c'è più, il reato di corruzione più difficile da individuare e dunque da perseguire, ora attaccano l'illecito finanziamento. Gli uomini del Cav lavorano ai fianchi il Pd nelle commissioni giustizia. Che Dio ce la mandi buona. 
Ma Dio non c'entra. Siamo noi umani, troppo umani, che fabbrichiamo mostri mitologici e notti sempre più nere per i nostri figli. Vorrei dire a quei coglioni, stanchi e incivili, che hanno fatto buuuuh mentre un deputato del movimento 5 stelle perdeva il filo del discorso, che l'ostruzionismo ce lo siamo meritati. Per mancanza di buon senso politico. È così che stiamo facendo rinascere il partito dell'apocalisse. Di che parlo? Ecco. Grillo, lo stesso Grillo che non ha voluto scaricare Berlusconi quando forse era possibile scaricarlo, l'uomo che voleva marciare su Roma e svillaneggiava il Parlamento, ora si alza, si scopre difensore delle istituzioni e denuncia "un colpo di stato estivo" per imporre "una dittatura presidenziale". Subito Il Fatto titola: "Salviamo la Costituzione. Non vogliamo la riforma della P2". E torna anche Ingroia, firma un documento con il costituzionalista Pace, con tante persone per bene, come Giulietti, uno dei pochi che non dice sciocchezze sulle cose dell'informazione.
Nel documento, raziocinante e diverso dai titoli a effetto, si osserva che la deroga all'articolo 138 (per far nascere un Comitato di 42 deputati e senatori incaricato di cercare un accordo di massima su una nuova forma dello Stato e del Governo e sul superamento del bicameralismo, accordo da sottoporre poi all'esame del Parlamento e in ultima analisi al voto referendario degli Italiani) è una forzatura. Sì, lo è. Si sostiene che il taglio dei tempi è pericoloso. Vero. Si denuncia che al Governo si lasci un'ampia possibilità di emendare mentre la si limita ai singoli parlamentari. C'è anche questo. Ma non è l'apocalisse. Molte delle pretese del governo  e del PDL sono già state respinte in Commissione Affari Costituzionali al Senato. Ricordate la "convenzione"? Il governo ha dovuto fare marcia indietro. E, ancora più importante, ora si ammette la necessità (lo fa anche il ministro Quagliariello) di cambiare la legge elettorale prima e indipendentemente dal lavoro del Comitato. E dovrebbe essere evidente che se si abolisce la "legge porcata", si riduce il potere di ricatto della destra all'interno del Comitato e poi in Aula. 
Questo pensavo e questo penso ancora. Perché non vorrei che la sinistra rinunciasse a far politica, cioè a spostare il partito che c'è, il Partito Democratico, su posizioni meno irrazionali e suicide. Mi sbaglio? Si sbaglia Barca che propone un nuovo Pd che somigli, nientemeno, a un'associazione come Libera (quella di don Ciotti) e sia strumento di indagine nella società piuttosto che articolazione dello Stato? La battaglia di Civati, di Tocci, di Cuperlo, Casson e Puppato è dunque già persa? Ha vinto per sempre l'ala che vuole stare al governo costi quel che costi, hanno vinto i 101, anzi sta nascendo un partito unico, un nuovo Giano bifronte, con la faccia severa di Napolitano a far bella mostra e dietro il ghigno ammiccante di Berlusconi? Se così fosse, presto noi di sinistra riprenderemo a riempire molti cinema, magari, con il bel tempo, qualche piazza. E faremo, insieme, una bella battaglia di testimonianza. 
Chissà poi se diremo qualcosa anche sull'Egitto, dove i militari chiamano alla mobilitazione contro i Fratelli Musulmani, o su quel che avviene in Tunisia, dove le persone per bene stanno per scendere in piazza contro gli assassini islamisti. Corrucciati, resteremo temo in silenzio. Troppo preoccupati di salvar l'anima nostra per capire che intorno impazza un disordine rivoluzionario. E di capire che sarebbe tempo di agire, di rischiare, di mettere in questione le nostre identità, non di dire ai posteri: eravamo diversi.

mercoledì 24 luglio 2013

Se la stabilità si trasforma in idolatria

Stabilità: così spesso viene invocata e così febbrilmente, in Italia, che quasi non ci accorgiamo che è divenuta virtù teologale che assorbe ogni altra virtù: non mezzo, ma finalità ultima dell'agire politico. Non siamo i soli a subirne i ricatti: in tutta Europa, le ricette anticrisi l'assolutizzano.

Dicono che la Grecia è per fortuna lontana, invece ci sta vicina come la pelle. Quotidianamente vengono additati i nemici della stabilità politica, e piano piano ogni inquietudine, ogni opposizione, ogni giornale che amplifichi notizie poco gradite al comando son guardati con diffidenza. Il "rischio Italia" non c'è, ha detto il governatore Visco al vertice dei Venti, il 20 luglio, ma "resta il gran peso dell'instabilità politica e istituzionale, a frenare la crescita". Non ha specificato in cosa consista secondo lui l'instabilità, ma conosciamo le ragioni generalmente addotte: le divisioni tra partiti di governo (per infantilizzarli son chiamate litigiosità), gli attacchi al ministro Alfano responsabile delle deportazioni kazake, i subbugli che seguiranno un'eventuale condanna definitiva di Berlusconi per appropriazione indebita, frode fiscale, falso in bilancio (diritti Mediaset).

La stabilità assurge a valore supremo, non negoziabile, e se vogliamo custodirla dobbiamo disgiungerla da princìpi democratici essenziali come l'imperio della legge, la responsabilità del governante, la sua imputabilità: tutte cose che turbano. Viviamo nel regno della necessità e del sonno, non della libertà e del divenire. Non c'è alternativa alle larghe intese, da cui ci si attende nientemeno che la pace, o meglio la pacificazione. Cos'è stata ed è l'opposizione a Berlusconi? Guerra. Le critiche a Alfano? Guerra. L'Italia ha già vissuto epoche simili, a bassa intensità democratica: sin da quando fu necessario, nella Liberazione, far patti con la mafia. O nella guerra fredda, escludere i comunisti dal governo. Stesso clima negli anni della solidarietà nazionale contro il terrorismo, dell'emarginazione di Falcone e Borsellino durante le stragi di mafia. La storia dell'Italia postbellica è cronicamente all'insegna della stabilità idolatrata.

Il mito delle larghe intese è figlio di questa idolatria. Dalla convinzione, diffusa nei vari partiti, che i mali del Paese siano curabili solo se lo scontro politico s'attenua, fra destra e sinistra: se i contrari si fondono, ut unum sint. Si glorifica il compromesso storico, e sulla sua scia le grandi coalizioni, le strane maggioranze. È un mito che urge sfatare, e non solo perché il Pdl di Berlusconi non è comparabile alle destre europee. Più fondamentalmente, il mito è un inganno.

Le unità nazionali, anche in condizioni democratiche normali, sono sempre strade di ripiego, votate all'instabilità. Furono sempre malferme, le grandi coalizioni tedesche: le riforme decisive vennero fatte dalla sinistra o dalla destra quando governavano da sole. Furono labili e piene di disagio (di fibrillazioni: anche qui il termine è psico-medico) le coabitazioni francesi fra maggioranze presidenziali e parlamentari discordanti. Non è vero che i mali si medicano abolendo il conflitto fra blocchi contrapposti. In Europa e America, le unioni sacre immobilizzano la politica, e l'immobilità non è vera stabilità.

Anche di fronte a pericoli gravi (terrorismo, mafia, autoritarismo) non sono le larghe intese a garantire stabilità. Vale la pena ricordare la Grande Coalizione tentata prima dell'avvento di Hitler, nella Repubblica di Weimar. Fra il 1928 e il 1930 nacque un governo di socialdemocratici, Popolari tedeschi e bavaresi, Centro cattolico. Furono anni di tensioni indescrivibili, che accelerarono la fine della democrazia e che Hindenburg, Presidente, coscientemente usò per sfibrare i socialdemocratici, imporre un regime presidenziale (Präsidialregierung), cedere infine a Hitler (il partito nazista non supera il 2,6 per cento dei voti nel '28. Nel 1930 otterrà il 18,3, nel '33 il 43,9). L'ultimo governo parlamentare di Weimar, diretto dal socialdemocratico Hermann Müller, s'infranse su scogli che riecheggiano i nostri in maniera impressionante.

Un'austerità dettata dai vincitori della prima guerra mondiale, una disoccupazione che raggiunse 2,8 milioni nel marzo '29, e la coalizione che vacillò sull'acquisto di costosi armamenti (la Corazzata-A), e l'insanabile conflitto su tasse e sussidi ai senza lavoro: ecco i veleni che uccisero Weimar, e paiono riprodursi oggi in Italia. A quel tempo, fuori dai Palazzi del potere, rumoreggiavano i nazisti sempre più tracotanti, i comunisti sempre più costretti da Mosca a imbozzolarsi nella separatezza. Il movimento di Grillo imita quell'imbozzolamento.

Casaleggio non riceve ordini esterni ma è come se li ricevesse. Non si capisce altrimenti come mai d'un sol fiato profetizzi immani tumulti sociali, e respinga ogni futuro accordo tra 5Stelle e Pd. Le sue parole scoperchiano quel che è destabilizzante nelle larghe intese; ma le rendono più che mai ineludibili, fatali.

Come nella guerra la prima vittima è la verità, così nelle grandi coalizioni la prima vittima è il principio, autocorrettore, della responsabilità dei ministri, collettiva e individuale (art. 95 della Costituzione). Prioritario è durare: la sacrata stabilità è a questo prezzo. Il prezzo di una responsabilità triturata dai sofismi (è politica? o oggettiva?), di una Costituzione disattesa, o di una moratoria chiesta dalla destra sulle questioni etiche (leggi su omofobia o coppie gay: una promessa elettorale della sinistra). Difficile chiamare stabilità questo non strano, più che ovvio guazzabuglio.

Nella Fattoria degli animali, la casta trionfatrice dei maiali narrata da Orwell annuncia a un certo punto che tutti gli animali sono eguali, ma ce ne sono di più eguali degli altri. Nelle grandi coalizioni accade qualcosa di analogo. Anch'esse secernono una casta, pur di sfuggire ai partiti sottoscrittori delle intese, e i governanti assumono una postura singolare: si fanno prede di leggi deterministe, è come non possedessero il libero arbitrio e di conseguenza non fossero imputabili. Il leone che sbrana la gazzella agisce così: mosso dalla necessità della sopravvivenza, non deve render conto a nessuno, tribunale o popolo elettore.

Le unioni nazionali funzionano sempre male, ma se funzionano è perché ciascuno riconosce e rispetta i limiti che il partner non può valicare senza rinnegarsi. La grande coalizione di Weimar naufragò perché Hindenburg l'aveva suscitata col preciso intento di consumare i socialdemocratici. La morte della democrazia parlamentare era programmata dall'inizio; il governo presidenziale di Brüning, ultimo Cancelliere della Repubblica, era già da tempo concordato tra Centro cattolico e destre popolari.

I guai succedono quando l'abitudine alla non-responsabilità diventa tassello principale della stabilità, o governabilità. Enorme è il chiasso, ma ogni cosa stagna: è la stasi. Nessuno si avventuri a staccare spine, ammonisce Napolitano. Tantomeno si provi a irritare i mercati e le banche d'affari, che già l'hanno fatto sapere: non si fidano di Stati con Costituzioni nate nella Resistenza (rapporto di JP Morgan del 28-5-13). Per questo è interessante sapere quel che intenda la Banca d'Italia, quando nell'instabilità vede un freno alla crescita. Quale stabilità?

Ci sono momenti in cui si ha l'impressione che l'Italia abbia vissuto nel Regno della Necessità quasi sempre, tranne nel momento magico del Comitato di liberazione nazionale, della Costituzione repubblicana. I governanti che sono venuti dopo sono stati potenti stabilizzatori, più che responsabili. Quando parla al popolo, lo stabilizzatore gli dà poco rispettosamente del tu e d'istinto cade nel frasario del gangster: "Ti faccio un'offerta che non potrai rifiutare".


martedì 23 luglio 2013

Sembrava troppo forte

Anche a me, il pezzo di Ilvo Diamanti, la sua ultima bussola.


E ci ho pensato parecchio, in queste ore, ma ho pensato che fosse il caso di condividerla con voi. Soprattutto gli ultimi capoversi:

È questo il rischio maggiore che vedo, nell’Italia dei nostri tempi. L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale. Che ha come principale – e quasi unica – soluzione la sfiducia politica e istituzionale. Quel clima d’opinione che si traduce nel “non voto”. Oppure viene intercettato, in alcuni momenti, da attori politici, oppure anti-politici, come il M5S. Usati, a loro volta, dagli elettori come veicoli della sfiducia, piuttosto che come garanti delle regole. L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale, d’altronde, alimenta il disincanto se non l’indifferenza verso la democrazia. In particolare, rafforza l’abitudine a fare a meno dei vincoli e delle garanzie che contrassegnano le democrazie rappresentative. A partire dai princìpi. Per primo, il rapporto diretto tra volontà degli elettori, espressa attraverso il voto, e composizione del governo. Tuttavia, da due anni, il Paese è governato da esecutivi sostenuti da maggioranze “non politiche”. Cioè, da larghe intese imposte – e, comunque, giustificate – dall’emergenza. Dove convergono e coabitano gli antagonisti di sempre. Dove si perdono le distinzioni antiche e recenti. Non solo fra pro e anti-berlusconiani, ma fra destra e sinistra. D’altronde, se da due anni il Pd sta in una maggioranza insieme al centrodestra di Berlusconi, è difficile discutere di destra e sinistra. Non solo nei termini sintetizzati da Norberto Bobbio in un notissimo saggio del 1994. Anno della discesa in campo di Berlusconi. Ma anche in quelli proposti dalla discussione fra Eugenio Scalfari e Michele Serra, su Repubblica, nei giorni scorsi. Il problema è che l’assenza di competizione e di alternativa politica narcotizza il sentimento democratico. Ci abitua a governi “tautologici”: in nome della governabilità. Governi di tutti e dunque di nessuno. Indifferenti ai verdetti elettorali. Alle alternative – a cui gli italiani sono poco avvezzi. Visto che nella prima Repubblica, quindi per oltre 45 anni, non c’è stata alternanza. Stesse forze al governo – Dc e alleati – e all’opposizione – Pci e sinistra.
Così, poco a poco, ci si assuefà. A una democrazia-per-così-dire. Non si tratta neppure più della post-democrazia, ridotta al rito elettorale, cui fa riferimento Colin Crouch. Perché, nella post-Italia, descritta da Berselli giusto 10 anni fa, anche il rito elettorale è divenuto indifferente e irrilevante. La polemica politica e fra politici esiste solo nei talk televisivi. La partecipazione dei cittadini diventa poco influente e rilevante. Emerge ed è visibile solo attraverso alcune esplosioni di protesta “localizzate”, su problemi territorialmente definiti (come quella dei No Tav, in Val di Susa). È una democrazia “eccezionale”, dove l’eccezione è la regola. Dove, per l’Opinione Pubblica, l’anormalità diventa normale. Dove i casi di questi giorni, di queste settimane, di questi anni non suscitano scandalo e tanto meno indignazione. Abbassano appena gli indici del consenso al governo e al premier. Senza comprometterli. Si traducono, al massimo, in un’onda anomala del voto o del “non voto”. Mentre gli “anticorpi della democrazia”, come li ha definiti Giovanni Sartori, finiscono liquefatti nel “senso comune”. Assai più diffuso e influente, in Italia, del “senso civico”.
Per questo conviene preoccuparsi. Io, almeno, mi preoccupo. Sulla nostra democrazia rappresentativa: tira una brutta aria.

Blog Giuseppe Civati - 23 luglio 2013 

Il Governo Letta e la dittatura della maggioranza immaginaria. 8.6 milioni di italiani sono invisibili

Il buongiorno si era visto dal mattino. Il modus operandi del Governo Letta è il medesimo del Governo Berlusconi e del Governo Monti: andare avanti a cannonate, fiducia dopo fiducia.
Due indizi fanno una prova: a distanza di un mese dalla prima questione di fiducia sul dl emergenze, ecco una nuova fiducia per l’orwelliano “Decreto del Fare”. Sarà questa la prassi del Governo Letta: emanare decreti, rifiutare qualsiasi emendamento da parte del Movimento 5 Stelle, accusare i pentastellati di fare ostruzionismo (con l’appoggio della stampa tutta), chiedere la fiducia perché non c’è tempo da perdere e tirare dritto.
Soltanto una cosa interessa al Governo Letta: arrivare in fretta all’agognata riforma costituzionale, indispensabile per architettare una legge elettorale che consenta ai partiti di non affondare. In altre parole, Letta e soci devono sbrigarsi a elaborare uno stratagemma per far fuori il Movimento 5 Stelle e impedirgli di vincere le prossime elezioni.
Dallo spazio profondo di una dimensione parallela, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Dario Franceschini, ci spiega come mai si è giunti alla questione di fiducia per il Decreto del Fare:”Da qui alla pausa estiva dei lavori parlamentari abbiamo un calendario complicato: bisogna esaminare sei decreti legge, le leggi europee, il ddl di riforma costituzionale, il testo sul finanziamento pubblico ai partiti e quello sull’omofobia: affrontare il voto su 800 emendamenti al dl Fare non consentirebbe di riuscire ad esaminare tutto in tempo”. (Fra parentesi, si tratta dello stesso Franceschini che in passato si è detto contrario all’abuso dello strumento della questione di fiducia).
Se il calendario è così complicato, perché inserire anche la legge sull’omofobia, facendola diventare fra l’altro una priorità, una questione su cui darsi battaglia con il Pdl, una notizia da prima pagina? La questione sull’omofobia non è attinente allo scopo di questo governo. Non dobbiamo dimenticare che il Governo Letta è nato per due soli scopi: approvare con urgenza provvedimenti per rilanciare economia e lavoro, confezionare nuova legge elettorale per tornare alle urne e definire una vera maggioranza di governo.
Come mai si trova il tempo per discutere su una questione civile, mentre non c’è abbastanza tempo per discutere approfonditamente sul Decreto del Fare? Avete indovinato: la diatriba sul ddl omofobia è il solito specchietto per le allodole.
Dopo aver letto le dichiarazioni di Franceschini, mi sono fatto qualche domanda: vuoi vedere che il Movimento 5 Stelle fa il furbo? Forse inonda di proposito il decreto di emendamenti, fornendo la scusa al Governo Letta per chiedere un’altra fiducia? Così i pentastellati possono attaccare con la lagna del Parlamento che è una scatola vuota, svuotato delle sue funzioni, ridotto a organo di ratifica delle decisioni governative?
E’ bastata una rapida verifica per capire che le cose non stanno così: il Movimento 5 Stelle ha prima ridotto in Commissione i 400 emendamenti proposti (gli altri sono di Sel, Lega e Fdi), portandoli a 75, per poi arrivare a chiederne almeno 8, considerati irrinunciabili.
Ecco la versione del gruppo del Movimento 5 Stelle:“Alla fine avevamo presentato otto-nove punti qualificanti di modifica al decreto ‘del Fare’. Punti che avrebbero migliorato un testo pressoché impresentabile. Al governo, però, evidentemente non interessa affatto licenziare norme utili al Paese”.
Questi gli emendamenti minimi proposti dal Movimento 5 Stelle:“Estendere la riduzione del Cip 6 anche agli inceneritori, togliere la scandalosa deregulation sulle sagome degli edifici demoliti e ricostruiti, favorire il pagamento degli stagisti del ministero della Giustizia, aprire un fondo di sostegno alle Pmi in cui poter versare le eccedenze degli stipendi dei parlamentari, rendere più aperta e democratica la gestione della Cassa depositi e prestiti, rivedere la Tobin Tax per colpire il day trading, ricalibrare l’Iva sui servizi portuali, vincolare infine gli incentivi per i nuovi macchinari al mantenimento dei livelli occupazionali e delle strutture produttive sul territorio nazionale”.
“Al ministro Franceschini – concludono – abbiamo lasciato intendere che non ci interessa la mera contabilità degli emendamenti presentati o approvati. E tantomeno le pantomime mediatiche su sterili battaglie, tipiche di una certa opposizione. A noi interessano le modifiche concrete e puntiamo sempre a portare a casa i risultati”.
 Il Governo Letta ha scelto la strada della fiducia trattando il Movimento 5 Stelle fosse un partito all’1%. I quasi 9 milioni di italiani che lo hanno votato a febbraio sono stati ignorati.
Questa è la situazione riassunta in tre punti:
- Pd e Pdl creano una maggioranza artificiale, disattendendo quanto promesso in campagna elettorale (soprattutto il Pd…)
- Il Governo Letta procede spedito ignorando il Parlamento (e soprattutto il Movimento 5 Stelle…)
- Il 25% dell’elettorato italiano, rappresentato in Parlamento dal Movimento 5 Stelle, è ignorato. Sono cittadini invisibili.
La dittatura della maggioranza sarebbe già grave di per sé (la presenza dell’opposizione in Parlamento serve proprio a evitarla…): se poi è la dittatura di una maggioranza artificiale, blasfema, contro natura, non legittimata dalla volontà popolare, è chiaro che gli italiani sono stati derubati della democrazia per la seconda volta di fila dopo il Governo Monti, di cui il Governo Letta altro non è che la naturale prosecuzione, sia nei metodi che negli obiettivi.
P.S. A quanto pare il Decreto del Fare non ha neppure ricevuto la bollinatura, cioè non si sa con certezza se c’è la copertura economica per tutto. Nel video, la conferenza stampa del M5S su quanto avvenuto nella “trattativa” con il Governo Letta in merito al Decreto del Fare.

Fausto Bertinotti scrive a Napolitano: Stai sospendendo la democrazia

Oggi il Corriere della Sera ospita, a pagina 13, una durissima lettera di Fausto Bertinotti al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Una missiva nella quale l'ex presidente della Camera accusa il Capo dello Stato di congelare la democrazia con il suo appoggio esplicito all'attuale esecutivo. Una lettera scandita da una serie di perentori "Lei non può"

"Signor Presidente,
Lei non può. Lei non può congelare d'autorità una delle possibili soluzioni al problema del governo del Paese, quella in atto. come se fosse l'unica possibile, come se fosse prescritta da una volontà superiore o come se fosse oggettivata dalla realtà storica.
Lei non può, perché altrimenti la democrazia verrebbe sospesa. Lei no può trasformare una Sua, e di altri , previsione sui processi economici in un impedimento alla libera dialettica democratica. I processi economici, in democrazia, dovrebbero poter essere influenzati dalla politica, dunque, dovrebbero essere variabili dipendenti, non indipendenti. Lei non può, perché altrimenti la democrazia sarebbe sospesa. Sia che si sostenga che viviamo in regimi pienamente democratici, sia che si sostenga, come fa ormai tanta parte della letteratura politica, che siamo entrati in Europa, in un tempo post-democratico, quello della rivincita delle élites, Lei non può. Nel primo caso, perché l'impedimento sarebbe lesivo di uno dei cardini della democrazia rappresentativa cioè della possibilità, in ogni momento, di dare vita ad un'alternativa di governo, in caso di crisi, anche con il ricorso al voto popolare. Nel secondo caso, che a me pare quello dell'attuale realtà europea, perché rappresenterebbe un potente consolidamento del regime a-democratico in corso di costruzione. C'è nella realtà politico istituzionale del paese una schizofrenia pericolosa: da un lato si cantano le lodi della Costituzione Repubblicana, dall'altro, essa viene divorata ogni giorno dalla costituzione materiale. La prima, come lei mi insegna, innalza il Parlamento ad un ruolo centrale nella nostra democrazia rappresentativa, la seconda assolutizza la governabilità fino  a renderlo da essa dipendente. Quando gli chiede di sostenere il governo perché la sua caduta porterebbe a danni irreparabili, Ella contribuisce della costruzione dell'edificio oligarchico promosso da questa costituzione materiale. Nel regime democratico ogni previsione politica è opinabile perché parte essa stessa di un progetto e di un programma che sono necessariamente di parte; lo stesso presunto interesse generale non si sottrae dalla diversità delle sue possibili interpretazioni. Ma, se mi permette, Signor Presidente c'è una ragione assai più grande per cui Lei non può.
La nostra costituzione è, come sappiamo, una costituzione programmatica. Norberto Bobbio diceva che in essa la democrazia è inseparabile dall'eguaglianza come testionia il suo articolo 3. Ma essa, rifiutando un'opzione finalistica nella definizione della società futura, risulta aperta a modelli economico sociali diversi e a quelli dove sarà condotta da quella che Dossetti chiamava la democrazia integrale e Togliatti la democrazia progressiva.
Quando Lei allude ai possibili danni irreparabili per il paese, lo può fare solo perché considera ineluttabili le politiche economiche e sociali imperanti nell'Europa leali, le politiche di austerità. Ha poca importanza, nell'economia di questo ragionamento, la mia radicale avversione a queste politiche che considero concausa del massacro sociale in atto.
Quel che vorrei proporLe è che  nella politica e in democrazia si possa manifestare un'altra e diversa idea di società rispetto a quella in atto e che la Costituzione Repubblicana garantisce che essa possa essere praticata e perseguita. Il capitalismo finanziario globale non può essere imposto come naturale, né la messa in discussione del suo paradigma può essere impedito in democrazia, quali che siano i passaggi di crisi e di instabilità a cui essa possa dar luogo. O le rivoluzioni democratiche possono essere possibili solo altrove? No, la carta fondamentale garantisce che, nel rispetto della democrazie e nel rifiuto della violenza, possa essere intrapresa anche da noi. C'è già un vincolo esterno, quello dell'Europa leale, che limita la nostra sovranità, non può esserci anche un vincolo esterno anche alla politica costituita dall'autorità del Presidente della Repubblica. Lei non può, signor Presidente. Mi sono permesso di indirizzarLe questa lettera aperta perché so che la lunga consuetudine e l'affettuoso rispetto che ho sempre nutrito per la Sua persona mi mettono al riparo da qualsiasi malevola intepretazione e la mia attuale lontananza dai luoghi della decisione politica non consentono di pensare ad una qualche strumentalità. È, la mia, soltanto, l'invocazione di un cittadino, anche se ho ragione di ritenere che essa non sia unica.
Mi creda, con tutta cordialità.
Fausto Bertinotti."

domenica 21 luglio 2013

Il caso Ablyazov e lo Stato burlesque

Un ministro degli Interni “inconsapevole” che fa la figura del fesso col botto mentre al Viminale, nella stanza accanto, i suoi funzionari prendono ordini dai kazaki, addirittura esilarante quando in Parlamento si lancia in una strampalata autodifesa intessuta di “apro le virgolette nelle virgolette” da teatro dell’assurdo.
Un ministro degli Esteri tenuta rigorosamente all’oscuro di tutto (perfino delle notizie Ansa), insolentita dall’ambasciatore kazako che convoca invano (“sono in ferie”). Ma che improvvisamente ritrova la parola onde farci sapere che Alma Shalabayeva, consegnata dalle autorità italiane con la figlia di sei anni direttamente nelle grinfie del peggior nemico “sta bene e ringrazia l’Italia” (nessuna riconoscenza, invece, da parte del cognato per il cazzotto preso in faccia durante la perquisizione di Casal Palocco).
Un presidente del Consiglio aggrappato tremebondo alla giacchetta di Napolitano, costretto a esibirsi nello sperticato elogio del fesso col botto per salvare la poltrona.
Un presidente della Repubblica tonitruante e che si crede un monarca assoluto, perfino innominabile secondo il presidente del Senato nelle vesti di gran ciambellano di corte.
Un Partito democratico (“Pd, partito defunto”, twittano i militanti in rivolta) i cui maggiorenti definiscono il ministro di polizia o un inetto o un bugiardo e subito dopo gli votano la fiducia.
Un vertice della Procura di Roma con due parti in commedia: prima vieta il rimpatrio delle due donne, poi lo concede pressato sulla base di un fax, quindi lamenta, accidenti, la beffa subita. Il tutto coronato da un’allegra brigata di prefetti, sottoprefetti e dignitari senza dignità, “a disposizione” degli arroganti emissari di Astana, usati e buttati via come stracci e che in sovrappiù devono masticare la versione ufficiale e menzognera che segna la fine delle loro carriere.
Negli anni del Berlusconi trionfante, l’Economist coniò l’espressione Burlesqoni per descrivere l’anomalia di un paese che ancora godeva di una certa credibilità internazionale, ma governato purtroppo da un miliardario da avanspettacolo burlesque. Una decina d’anni dopo il burlesque dilaga e coinvolge governanti, leader di partito, alti burocrati, magistrati, vertici delle istituzioni in un eterno varietà. E non c’è più anomalia poiché quasi tutto è anomalo, almeno secondo i canoni delle democrazie decenti.
Ammettiamolo, per troppo tempo l’uomo di Arcore è stato il comodo alibi dietro il quale la cosiddetta classe dirigente nascondeva le proprie magagne. Lui era la pietra dello scandalo, anzi lo Scandalo eliminato il quale, si disse, il Paese avrebbe riacquistato rispetto per se stesso e nuovo slancio. Non è andata così. Oggi, con gli ultimi colpi di coda, il Caimano tenta di sfuggire alla giustizia che lo bracca da Milano a Napoli, passando per Roma dove la Cassazione potrebbe tra pochi giorni mettere la parola fine al suo ventennio politico. Eppure, vecchio, stanco, malandato è ancora lui che fa ballare gli altri piegando due ministeri e un’intera catena di comando ai desideri del suo amico Nazarbayev, colui che nella dacia era pronto a offrirgli dodici ragazze dodici.
Come in un film dell’orrore, dopo una lunga incubazione, le uova avvelenate sparse nella politica e negli apparati dello Stato stanno generando tanti piccoli caimani dai dentini affilati, spregiudicati, opportunisti. Spesso, direbbe Cordero, monchi dell’organo morale. Ma, per una strana mutazione della specie, invertebrati.



sabato 20 luglio 2013

Presidente della Repubblica Italiana: Responsabilità

Al fine di garantire la sua autonomia e libertà, è riconosciuta al presidente della Repubblica la non-responsabilità per qualsiasi atto compiuto nell'esercizio delle sue funzioni. Le uniche eccezioni a questo principio si configurano nel caso che abbia commesso due reati esplicitamente stabiliti dalla Costituzione: l'alto tradimento (cioè l'intesa con Stati esteri) o l'attentato alla Costituzione (cioè una violazione delle norme costituzionali tale da stravolgere i caratteri essenziali dell'ordinamento al fine di sovvertirlo con metodi non consentiti dalla Costituzione).
In tali casi il presidente viene messo in stato di accusa dal Parlamento riunito in seduta comune con deliberazione adottata a maggioranza assoluta, su relazione di un Comitato formato dai componenti della Giunta del Senato e da quelli della Camera competenti per le autorizzazioni a procedere. Una volta deliberata la messa in stato d'accusa, la Corte Costituzionale (integrata da 16 membri esterni) ha la facoltà di sospenderlo in via cautelare.
Nella storia repubblicana si è giunti in un solo caso alla richiesta di messa in stato d'accusa, nel dicembre '91 contro il presidente Cossiga; il caso si chiuse con la dichiarazione di manifesta infondatezza delle accuse da parte del Comitato Parlamentare, peraltro giunta quando il settennato si era già concluso. Per i reati commessi al di fuori dello svolgimento delle sue funzioni istituzionali il presidente è responsabile come qualsiasi cittadino. In concreto, però, una parte della dottrina ritiene esista improcedibilità in ambito penale nei confronti del presidente durante il suo mandato; nel caso del presidente Oscar Luigi Scalfaro (sotto accusa per peculato), di fronte al suo rifiuto di dimettersi e alla mancanza di iniziative da parte del parlamento, il processo fu dichiarato improcedibile.
Il Capo dello Stato può dar vita a illeciti compiuti al di fuori dell'esercizio delle sue funzioni, e in questi casi varrà l'ordinaria responsabilità giuridica. In particolare, se è difficile immaginare un vero e proprio illecito amministrativo (coincidente con un reato funzionale), non si può invece escludere che il presidente sia chiamato, sul piano civile, a risarcire un danno, per esempio per un incidente stradale.
Secondo parte della dottrina, non sarebbe accettabile la tesi (rigettata a suo tempo in Assemblea Costituente da Umberto Elia Terracini) che egli risponda di eventuali comportamenti criminosi solo alla fine del settennato: si dimetta o meno, egli deve rispondere subito per i reati di cui è accusato, pena l'ammissione di un privilegio che romperebbe con gli artt. 3 e 112 della Costituzione. Altra autorevole dottrina è favorevole al giudizio alla fine del settennato (sempre che nel frattempo non siano decorsi i termini di prescrizione), non escludendo le dimissioni del Capo dello Stato, sia pur solo qualora il reato commesso sia particolarmente grave.
Si è cercato di porre riparo a questa incertezza con il cosiddetto "lodo Schifani", disponendo che i presidenti della Repubblica, del Consiglio, della Camera, del Senato e della Corte costituzionale non possano essere sottoposti a procedimenti penali per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione fino alla cessazione delle medesime. Ne discendeva la sospensione dei relativi processi penali in corso in ogni fase, stato o grado. Legge, la 140 del 2003, che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima, almeno in questa parte, per violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. Un provvedimento simile, con alcune correzioni dovute ai rilievi della Corte costituzionale, denominato "Lodo Alfano", è stato proposto e approvato durante la XVI Legislatura, ma anch'esso dichiarato illegittimo per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione.



Caso Alfano: il Presidente vero e quello innominabile

Angelino Alfano è salvo, il governo Letta pure, la democrazia italiana un po’ meno. Venerdì 19 luglio, durante il dibattito sulla sfiducia (mancata) al ministro per il caso kazako, Palazzo Madama compie un ulteriore passo verso il basso. Non l’ultimo, visto che, come è ormai perfettamente intuibile, i nostri sedicenti rappresentanti quando toccheranno il fondo si metteranno alacremente a scavare.
Tra le cosiddette alte cariche dello Stato va pericolosamente di moda la giurisprudenza costituzionale creativa. Tanto che il presidente del Senato, Piero Grasso, sceglie il palcoscenico della discussione in diretta tv per enunciare, di fatto, due nuovi, rivoluzionari, principi: la censura preventiva sui discorsi dei parlamentari e il divieto di nominare pubblicamente Giorgio Napolitano.
Tutto accade quando Grasso stoppa il capogruppo del Movimento 5 Stelle, Nicola Morra che, ricostruendo il caso kazako, sta per citare una frase dell’Eterno Presidente: “Ieri è intervenuto nel dibattito politico chi sta sul Colle…”. Apriti cielo: “Non sono ammessi riferimenti al Capo dello Stato. Lasciamolo fuori da quest’aula”, interviene fulmineo e autoritario Grasso.  Morra prova a chiarire: “dicevo il presidente della Repubblica”. Lui lo riprende di nuovo: “L’ho invitata a lasciarlo fuori, lei non può nominarlo (sic)”.
A vederla con ironia, ci sarebbe da stare tranquilli. In fondo questa è la migliore dimostrazione di come sbagli chi pensa che la democrazia italiana, guidata da Re Giorgio, si stia trasformando in monarchia. Ad ascoltare Grasso l’obbiettivo – tragicomico – pare diventare un altro: la teocrazia, nel senso letterale del termine. La transmutazione, forse anche a causa dell’età, del vetusto Presidente in sovrano di natura divina (un Faraone) con l’obbligatorio corollario di comandamenti.
Da sempre irresponsabile per i reati commessi nelle sue funzioni e da qualche tempo non intercettabile, Napolitano esce ora dall’aula della discussione su Alfano come non nominabile e, in fondo, pure infallibile.
Davanti all’articolo 95 della Costituzione che testualmente recita: “I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del consiglio del ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”, i senatori, con poche eccezioni, non si limitano infatti a seguire i suoi diktat sul governo Letta. Applaudono pure ogni sua (per molti sconcertante) interpretazione della Carta .
“Anche, ma non solo per dei ministri, è assai delicato e azzardato evocare responsabilità oggettive o consustanziali alla carica che si ricopre” aveva detto Napolitano appena 24 ore prima. E adesso il capogruppo del Pdl, Renato Schifani, lo elogia. Poi, quasi da moderno aruspice, lo interpreta: “Non esiste il principio di responsabilità oggettiva nelle istituzioni. Chi sbaglia paga, ma se il ministro non è stato informato dalla catena di comando non vedo in forza a quale principio politico, istituzionale, etico o sociale, debba pagare”.
Dopo l’intervento del Colle l’articolo 95 non sembra più in vigore. La Casta del “a mia insaputa” vince. E tra gli applausi che celebrano il redivivo Alfano la mente va a un altro Presidente. A Luigi Einaudi, un Presidente vero. Uno che tanti anni fa avvertiva: “Non le lotte o le discussioni devono impaurire, ma la concordia ignava e l’unanimità dei consensi”.




giovedì 18 luglio 2013

Napolitano il kazako

“Dopo di noi il diluvio”. Il presidente Napolitano ha evocato danni irreparabili alla reputazione internazionale dell’Italia, specie nei confronti delle relazioni internazionali e dei mercati finanziari, qualora venisse meno, per effetto dello scandalo Ablyazov, il governo Letta. Si sa del resto che di tale governo Napolitano è stato a suo tempo il principale e più convinto sponsor e se c’è una dote la cui mancanza non si può, entro certi limiti, rimproverare al presidente, questa è la coerenza.
Bisogna però temere che sia proprio questo bisogno di coerenza ad obnubilare le capacità intellettive di persona che, nonostante l’età avanzata, resta invidiabile per intelligenza ed acume. Se c’è un episodio, infatti, che ha contribuito a danneggiare in modo gravissimo la reputazione internazionale del nostro Paese come Paese rispettoso del diritto, questo è proprio la consegna della moglie del dissidente Ablyazov e della figlioletta al dittatore kazako
Napolitano riconosce certo la gravità di tale avvenimento. Ma, per carità, più che di patria, di governo, aggiunge, al pari di altri notabili piddini, che i ministri non ne sapevano nulla. Ora, non è possibile sostenere con serietà e buona fede che Alfano non fosse informato dell’operazione.  In tal senso va anche, dopo qualche iniziale titubanza forse dettata da un malinteso senso del dovere istituzionale, la testimonianza del capo di gabinetto di Alfano Procaccini.
Ma anche nell’improbabile ipotesi che Alfano non avesse saputo, non sarebbe minore la gravità delle sue responsabilità ai sensi di quella precisa disposizione costituzionale che è l’art. 95, secondo comma: “I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri”.  E tale responsabilità, politica se non penale, ha le sue radici nei riconosciuti e forti legami fra Nazarbayev e il capo del partito di cui Alfano è segretario, nonché suo diretto referente, Silvio Berlusconi.
Questa è del resto la naturale e logica conseguenza dell’esistenza di un governo dove il compagno di merende di Nazarbaev continua a farla da padrone, utilizzandolo come schermo personale per la propria incolumità giudiziaria e la salvaguardia dei propri numerosi interessi. Senza peraltro scartare la possibilità di altri interessi di grossi gruppi nazionali, come Eni e Finmeccanica, tutti fortemente vogliosi di buoni rapporti con il Kazakistan. Alfano, quindi, se ne deve andare al più presto. E se la sua dipartita provocherà il crollo del governo Letta tanto meglio.
In tutto il mondo, a partire dall’Unione europea, l’evento ha suscitato commenti adeguati alla sua gravità e conseguenze pesantissime sull’immagine del nostro Paese. Né agli osservatori internazionali, che non ragionano a quanto pare come ragionava D’Alema, prima di cambiare idea, sono sfuggite le evidenti responsabilità del governo Letta nell’accaduto.
Bisogna dubitare anche del fatto che, come asserito da Napolitano, i mercati finanziari ne soffrirebbero molto. Sarebbe interessante peraltro conoscere le fonti del presidente al riguardo, dato che tali mercati sono, di primo acchito, entità fortemente impersonali e di natura estremamente sfuggente. Se si tratta, come è plausibile, di gruppi di interesse preoccupati, per proprie ragioni, delle performance del sistema Italia, non v’è motivo di pensare che il governo Letta costituisca, alla luce del’esperienza compiuta in questi mesi, un fattore positivo a tale riguardo. E, ad ogni modo, l’Italia è ancora, quantomeno formalmente, una democrazia e non già una mercatocrazia, uno Stato di diritto e non già un luogo di arbitrio, anche se c’è chi si sta dando alacremente da fare per smantellare la Costituzione repubblicana, proprio sotto l’egida del governo Letta, del resto.
Secondo un’inquietante testimonianza raccolta dal Financial Times (non propriamente l’organo dell’anticapitalismo mondiale) uno dei poliziotti che hanno partecipato all’irruzione in casa Ablyazov, dopo aver insultato Alma Shalabayeva, chiamandola “puttana russa“, ha urlato: “io sono la mafia” (vedi articolo pubblicato su Internazionale di venerdì scorso).  Speriamo che non sia vero. 
Personalmente continuo a nutrire, nonostante tutto, un certo rispetto nei confronti del presidente Napolitano, sia per la carica che ricopre, sia per la sua storia politica e personale. Non posso quindi che restare profondamente amareggiato dal fatto che, per continuare a stare al fianco di Letta e soci fino alla fine, egli rischi in questa vicenda, come in altre,  tutto il suo rimanente prestigio e credito personale. Non vorrei, insomma, che re Giorgio finisca per essere ricordato, nei libri di storia, come Napolitano il kazako per aver avvallato il comportamento del governo in questa vergognosa vicenda.