lunedì 30 giugno 2014

GELA, 30 DICEMBRE 2007. I PIZZINI NELLA PANCIA.

Rosario Crocetta è il sindaco di Gela, votato dal 70% della città. Ha 57 anni, è gay, è comunista, è il Gary Cooper di una delle città più mafiose, più povere, più distrutte, l'ultimo lembo d'Italia, quello in cui Enrico Mattei scoprì il petrolio.
Siamo usciti dal suo ufficio - porte blindate, vetri antikalashnikov - «in convoglio». Siamo all'hôtel Sileno, chiuso per l'occasione, scortatissimi. La proprietaria si informa se il sindaco ha preso la pastiglia per il diabete.
Telefona il Tg3 per fissare il collegamento: Gela farà una fiaccolata a Capodanno in solidarietà con i morti della Thyssen di Torino. Pochi minuti prima sono partite le suonerie delle scorte - chi Tim, chi Vodafone, chi Wind: è morto il settimo operaio.
Le straordinarie misure di sicurezza che circondano Crocetta sono la conseguenza di un fatto eccezionale. Il principale bandito in città, il capo locale di Cosa Nostra con cui Rosario Crocetta ha ingaggiato e vinto la più coraggiosa e pericolosa delle battaglie politiche, è morto ammazzato. Ma non in uno scontro tra faide: ammazzato dalla polizia.
In un episodio più unico che raro - i mafiosi ammazzano i poliziotti, ma i poliziotti non ammazzano i mafiosi, perché nelle storiche regole di ingaggio tra lo Stato e la mafia l'evento da sempre è considerato pericoloso - Daniele Emmanuello, 43 anni, è morto colpito da almeno un proiettile alla nuca mentre fuggiva da un casolare in cui si era appostata una squadra «catturandi» della polizia di Stato. Era uno dei dieci più importanti latitanti italiani. È successo il 3 dicembre scorso, a Villarosa, nelle campagne tra Enna e Caltanissetta. All'alba, e c'era nebbia.
La polizia aveva circondato l'edificio, uno dei tanti «non finiti» con i mattoni a vista, ma non sapeva che un robusto catenaccio chiudeva la porta dall'interno. Così, quando cercarono di sfondare per il blitz, furono respinti dal metallo e dai cardini e impiegarono molti minuti per farsi strada.
Emmanuello si rivestì velocemente, lasciò il fucile sotto il letto e si gettò dalla finestra per fuggire nei campi.
La polizia gridava «arrenditi!» e sparava in aria. Poi tra il lusco e il brusco videro una sagoma allontanarsi tra gli alberi. Spararono in basso, ma Emmanuello correva acquattato e si prese la pallottola destinata ad un polpaccio direttamente nell'occipite.
Questa la versione della polizia. Una primissima versione aveva riportato che Emmanuello era morto in séguito alla caduta dalla finestra. Ma quando il cadavere venne messo su un tavolo settorio per l'autopsia, si scoprì quello che nemmeno gli sceneggiatori di Twin Peaks o di Csi oserebbero proporre. Il morto aveva inghiottito, prima di fuggire, diversi «pizzini» che ora si trovavano nella gola, nell'esofago, nello stomaco. Quadratini di carta di cinque centimetri di lato scritti fitti fitti, avvolti in un sottile cellophane.
Papiri arrotolati destinati a morire con il Faraone, ma anche le credenziali che il boss scampato all'arresto avrebbe cacato intatte come tanti ovuli di cocaina e avrebbe sciorinato di fronte alla Commissione di Cosa Nostra, sempre che esista ancora. O forse erano solo amuleti.
Ma, incredibilmente, i pizzini di Emmanuello lo hanno tradito. Il sottile strato di cellophane ha resistito ai succhi gastrici e, uno dopo l'altro, i quadratini sono ricomparsi, con il loro inchiostro intatto. Che cosa c'è scritto? Nell'assenza di notizie ufficiali, le voci a Gela si alimentano: Emmanuello portava con sé l'investitura per il ruolo di nuovo capo di Cosa Nostra siciliana e quel casolare era solo una tappa del suo viaggio trionfale verso Palermo; aveva un messaggio per la sua amante segreta; aveva le prove dei suoi contatti con un importante senatore che «teneva in mano»; aveva, aveva...
Aveva la mafia nella pancia ed era il ventre della mafia. La leggenda locale dice che nella pancia del boss ci sia il Quarto livello.
Rosario Crocetta aveva fatto esplicitamente di Daniele Emmanuello il nemico principale di Gela. E il sindaco era stato molto coraggioso, visto che Emmanuello dominava il crimine della città, ma tutti avevano paura di fare il suo nome. Lo aveva attaccato frontalmente in tutti i comizi. Lui, che disponeva di un esercito di duemila picciotti. Inaugurando il nuovo carcere aveva manifestato il desiderio di averlo come primo ospite, aveva cacciato dall'ufficio sua moglie, impiegata comunale che aveva ottenuto il posto in virtù di un «reddito minimo di inserimento».
La signora Emmanuello naturalmente disse che era stato il sindaco a fare uccidere suo marito. Volle dei funerali pubblici che, nelle intenzioni della famiglia, avrebbero dovuto essere uno show di potenza. Il prefetto li vietò e Daniele Emmanuello fu seppellito in forma privata.
Quando ho chiesto al sindaco Crocetta quanti, secondo lui, sarebbero intervenuti alle pubbliche esequie, mi ha risposto: «Migliaia, sicuramente. I picciotti del suo esercito ci sarebbero stati tutti, e poi sarebbero stati presenti i membri della famiglia allargata non solo degli Emmanuello, ma anche dei Madonia, dei Rinzivillo, dei Fiandaca, la mafia del vallone. E poi ci sarebbe stato qualche politico locale...».
Rosario Crocetta, alla notizia della cattura e della morte di Daniele Emmanuello, ha semplicemente detto che gli dispiaceva che fosse stato ucciso in un incidente nel corso di una delle più brillanti operazioni di polizia svolte in Sicilia, ma che considerava quella data, il 3 dicembre 2007, «il giorno della liberazione di Gela».
«Ho ricevuto molte telefonate di appoggio» mi dice il sindaco «anche il ministro dell'Interno; ma un po'"mi sento solo. Certo è stato meglio che non ci siano stati funerali pubblici, ma io non ho mai visto una chiesa che chiude perché è morto il parroco. E questo parroco era anche un generale che ha condotto una guerra.
Perdendo Gela, non ha perso una lontana provincia, ha perso una quantità di soldi che nemmeno ti immagini».
Daniele Emmanuello tutto si aspettava tranne che di essere ucciso dalla polizia di Stato. Erano quattro fratelli, nipoti del capo di Cosa Nostra di Gela, detto «U furmiculuni». Daniele aveva studiato a Genova per diventare perito chimico e alla fine degli anni settanta aveva frequentato le Brigate rosse. Suo fratello Nunzio lo ha fatto ancora di più (gli epigoni delle Br lo ricordano come il «compagno figlio di contadini meridionali» e un pentito, Filippo Vitale, ha affermato in un processo che era addirittura nel commando che rapì Moro in via Fani). Daniele tornò quando U furmiculuni venne ucciso dalla Stidda, una forma di mafia municipalistica che sfidava il potere dei vecchi di Cosa Nostra. La guerra la vinse Emmanuello, e si dimostrò spietato. Duecento morti, attentati, incendi, bombe, stragi. Abbassò fino a 14 anni l'età minima dei suoi soldati, usò tecniche di guerriglia, si fece la fama di uomo feroce e di killer in grado di centrare a 20 metri un bersaglio in movimento. È stato uno dei custodi del piccolo Santino Di Matteo. Insieme ai Rinzivillo, ai Madonia si apprestava ad ampliare il proprio potere territoriale. E aveva questi pizzini nella pancia, che sono visibili sul sito della polizia di Stato. E che saranno studiati. Come le lettere di Aldo Moro. Come il papello di Salvatore Giuliano, che non si è mai trovato, ma un giorno si troverà. Come il papello di Totò Riina e della sua trattativa con lo Stato. Come i pizzini di Provenzano su cui studiano anche i biblisti.
Un po'"di storia patria recente è stata scritta a mano. Aldo Moro scriveva alternativamente con una Bic o una Tratto Pen.

Enrico Deaglio (tratto da "Patria 1978-2008 edito da "Il Saggiatore" nel 2009)

Se il Bene porta guerre, allora preferisco il Male

Nell'orgia di retorica seguita alla scomunica dei mafiosi, del tutto priva di significato nella sua genericità, è passata inosservata una frase di Papa Bergoglio: «Chi non adora Dio di conseguenza adora il Male». Frase di una gravità inaudita che non può essere «voce dal sen fuggita» perché detta da uno che sa, o dovrebbe sapere, quel che dice. Io non adoro Dio, semplicemente non credo alla sua esistenza. Ma se mai ci credessi penserei che è un sadico perché ha creato l'uomo, l'unico essere vivente ad avere una lucida consapevolezza della propria fine. Un essere tragico. «La sola scusante di Dio è di non esistere» ha scritto Baudelaire. Ed è la cosa più misericordiosa che si possa dire nei confronti di questo Soggetto.
A me questi adoratori di Dio, soprattutto del Dio monoteista, sia esso ebreo, cristiano o musulmano, cominciano a stare profondamente sulle palle. Dimenticano con troppa disinvoltura le infamie di cui si sono coperti. Gli ebrei con la pretesa di essere «il popolo eletto da Dio» hanno fondato quel razzismo di cui in seguito diverranno tragicamente vittime. Ma almeno non hanno mai avuto mire espansive. In quanto agli altri due 'adoratori del Dio unico' hanno distrutto, al seguito dei propri eserciti, intere popolazioni e culture, più miti, da quelle dell'America precolombiana a quelle dell'Africa centrale. Prima che, nel 1789, entrasse in campo un'altro Dio, questa volta laico, anzi una Dea, la Dea Ragione, le guerre di religione sono state le più spietate. Il Medioevo europeo era cristiano ma essendo la grande maggioranza della popolazione contadina, oserei dire che, nella gente comune, era un cristianesimo che tendeva al pagano, all'animismo, un po' come per le popolazioni dell'Africa nera. Le guerre le facevano i professionisti, i cavalieri. Ma furono guerre ridicole. A parte casi limite, come la battaglia di Anghiari (1440), resa famosa da un abbozzo di Leonardo, dove su undicimila combattenti si sarebbe avuto, a detta di Machiavelli, un solo morto (le stime, più attendibili, di Flavio Biondo parlano di sessanta caduti) o come quella di Bremule (1119) dove i morti furono tre o come quella guerra che, a leggere le cronache, «imperversò un anno in Fiandra» dopo l'assassinio di 'Carlo il Buono' (1127), ma in cui caddero sette cavalieri dei quali uno solo in combattimento, è assodato che il bilancio di quasi tutti i conflitti medioevali si riduce a poche centinaia di morti. C'è però un'eccezione, il 1500, il 'secolo di ferro' caratterizzato dalle guerre di religione. Nella sola 'notte di San Bartolomeo' (1572) furono uccisi 20 mila ugonotti. E ce ne vuole di ferocia per fare un tale massacro all'arma bianca. Ma è solo un esempio, fra i tanti.
Adesso ci sono guerre, mezzo di religione e mezzo di potere, fra sunniti e sciiti in Iraq, causate dall'intervento militare del 2003 dei pii protestanti americani («Dio protegga l'America», e perché non il Burkina Faso?) e guerre di religione in Nigeria fra gli estremisti islamici di Boko Aram e altri islamici il cui obbiettivo finale è però l'Occidente (Boko Aram significa letteralmente «L'educazione occidentale è peccato»). In queste guerre ci vanno spesso di mezzo anche i cristiani. La cosa non mi commuove. Non dovevano andare, loro o i loro predecessori, animati da spirito missionario, dallo spirito del Bene, in luoghi che non li riguardavano affatto.
Io temo il Bene perché, rovesciando la famosa frase di Ghoete, «operando eternamente per il Bene realizza eternamente il Male». Preferisco il Male che si presenta come tale. Io sto col Male.


domenica 29 giugno 2014

Quanto è bravo il Premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?

Molte cose sono accadute in questi giorni in Europa e in Italia. Ne passerò in rassegna le principali ma ho la sensazione che, al di là dei loro effetti sulla politica e sull'economia che ci riguardano direttamente come cittadini di questo continente e di questo paese, esse abbiano un più profondo significato ed è di questo che voglio ora parlare; ci sono infatti notevoli cambiamenti di un'epoca e di un vissuto collettivo e individuale, dove le scelte che siamo chiamati a decidere hanno motivazioni ben più remote e conseguenze ben più profonde di quelle connesse all'immediatezza che ci sta davanti.
Per capire meglio quanto avviene ho recuperato i pochi libri di capezzale che spesso consulto per meglio illuminare il mio comportamento. Per esempio gli Essais di Montaigne e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche; l'uno segna l'inizio dell'epoca che chiamiamo moderna, l'altro ne rappresenta la fine.
Montaigne conclude così il terzo libro dei suoi Essais, l'opera che impegnò 27 anni della sua vita e che completò e aggiornò fino al momento della sua morte: "Tanto più sei Dio quanto più ti riconosci uomo. Noi cerchiamo condizioni diverse perché non siamo capaci di fare buon uso della nostra e usciamo fuori di noi perché non sappiamo vedere quel che c'è dentro. Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare sulle nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo sempre seduti sul nostro culo. A mio giudizio le più belle vite sono quelle che ci conformano al modello comune e umano, senza mirabilia e senza stravaganze".
E poche pagine prima di questo finale, aveva scritto: "Nulla nuoce a uno Stato quanto un cambiamento totale che conduce solo all'iniquità e alla tirannia. Quando un pezzo di quell'edificio si stacca lo si può puntellare. Ci si può industriare affinché il naturale alternarsi e corrompersi di tutte le cose non si allontani eccessivamente dai nostri principi. Ma mettersi a riplasmare un così grande edificio equivale a fare come coloro che pensano di correggere dei difetti particolari stravolgendo ogni cosa e di guarire le malattie dando la morte". Infine: "La parola appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta. Ci sono due diverse concezioni della parola, come scambio o come duello, ma alla fine è la fiducia ad avere la meglio: un parlare franco apre la via ad un altro parlare e lo tira fuori come fanno il vino e l'amore".
Tre secoli dopo di lui, Friedrich Nietzsche chiude la modernità insieme ad altre persone che non si conoscono tra loro ma agiscono nei loro campi perfettamente intonati - senza saperlo - l'uno all'altro. Basterà citare Albert Einstein, Sigmund Freud e poco prima di loro Karl Marx.
Di Nietzsche l'imbarazzo è nella scelta che rappresenti al tempo stesso l'essenza del suo pensiero e il suggello finale all'epoca della modernità.
Secondo me la summa del suo insegnamento è questa: "Ciascuno di noi si sente al centro del mondo ed è il centro del mondo. Dunque il centro è dappertutto e cioè in nessun luogo. Ecco perché ciascuno vede il mondo e tutti gli individui a suo modo e perché la verità assoluta non esiste. Ciascuno ha la propria ed è questa la fatica del vivere e il suo valore".
Concludo questa premessa citando un mio giovane amico che certo non ha la levatura di quelli che ho appena ricordato, ma il cui sentire in qualche modo li riecheggia.
Voi lettori lo conoscete, lo criticate o lo apprezzate ma sapete che rappresenta una delle voci interessanti della post-modernità, quelle che io chiamo i contemporanei ed ha dedicato la vita fin qui vissuta alla politica e alla cultura, due attività che purtroppo assai raramente vanno insieme. Parlo di Walter Veltroni che è intervenuto  il 24 giugno scorso al Festival delle Letterature tenutosi in Campidoglio.
"Pensate al nostro rapporto col tempo. La nostra modernità ha causato molte accelerazioni: quella tecnica, oggi impieghiamo la metà delle ore di trent'anni fa per arrivare da Roma a Milano, scriviamo mail invece di lettere, ci vediamo attraverso il mondo parlando al telefono, accediamo al sapere senza doverci muovere da casa. Ma anche l'accelerazione sociale: spariscono mestieri sostituiti dall'automazione e istituzioni come la famiglia, il lavoro, la scuola sono sottoposte a tensioni inedite.
Così cresce freneticamente il ritmo della nostra vita e tutti noi, che pure abbiamo possibilità di risparmio di tempo di ogni generazione vissuta prima di noi, sentiamo che dobbiamo sempre correre. Il nostro tempo storico è l'immediato. Non ci interessa il passato e il futuro ci spaventa. Non siamo disposti ad aspettare, non ci si parla di progetti o di grandi disegni. Ora, qui, subito. Ma il nostro problema è più generale siamo una generazione il cui cervello viene ogni giorno affollato da migliaia di informazioni che ci rendono più consapevoli ma ci sottraggono il tempo necessario per sistemare e razionalizzare. In fondo, per sapere. Stiamo sempre arrivando, ma il rischio è quello di smettere di sapere perché il nostro ippocampo si stanca di tanto cibo e comincia a coltivare una specie di anoressia, come un cassetto troppo pieno che cominci ad espellere fogli, spesso a caso. È dunque vero che ognuno, proprio ognuno, è il centro del mondo. Ad una sola condizione però: sapere che anche il tuo fratello, il tuo vicino, il tuo avversario, sono il centro del mondo. E conoscerli è il solo modo di sapere, viaggiare, arrivare".

* * *

Veniamo al nostro vissuto di questi ultimi giorni. I leader europei si sono incontrati, scontrati, accordati, rilassati, tra Bruxelles e Ypres dove hanno ricordato una guerra spaventosamente devastante, primo atto d'un terribile gran finale culminato nella distruzione dell'Europa delle nazioni e in un genocidio orribile che nessuno potrà dimenticare.
Quelle guerre hanno chiuso un'epoca; in Europa non ci saranno più. Ma l'Europa ci sarà ancora? Questa che vediamo non è che il miraggio d'una generazione che l'aveva sognato, ma non è ancora gli Stati Uniti d'Europa.
Sopravvivono i governi nazionali, le istituzioni europee sono deboli e contestate, la nazione egemone che è certamente la Germania è incerta e quasi impaurita dalla sua stessa egemonia; preferisce esercitarla per interposte persone ed istituzioni con tutte le condizioni che ne derivano. Nessuno o pochissimi perseguono veramente la nascita d'uno Stato federale con le relative cessioni di sovranità degli Stati nazionali. Anzi: ciascuno dei governi degli Stati confederati lotta per sé e al suo interno, cerca di avvalersi dell'Europa per rafforzare la propria leadership personale e dei suoi seguaci. Noi italiani abbiamo avuto l'occasione di un leader di notevole capacità che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti.
Matteo Renzi e il paese che rappresenta sembrano viaggiare col vento in poppa. Sembrano e in parte è fortunatamente così; in altra parte è un gioco di immagini e di specchi, di annunci ai quali la realtà corrisponde molto parzialmente. La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia la cui fragilità sta sfiorando il culmine senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione.
Ascoltando il leader appena tornato dalle esibizioni di Ypres e di Bruxelles sembra che la partita della flessibilità economica sia stata guadagnata. Pienamente guadagnata, dopo aver mostrato i muscoli alla Merkel e avere poi concluso con un sorriso, un abbraccio e solide promesse. Il pareggio del bilancio sarà rinviato al 2016, gli investimenti per la crescita saranno consentiti, la fiducia cambierà in meglio le aspettative, le riforme strutturali - che sono la condizione richiesta dalla Germania - saranno fatte anche perché (Renzi lo dice e lo ridice) il premier ci mette la faccia. Più chiaro, più netto ed anche più irresistibile di così non ce n'è un altro. Un vero fico che la sorte ha regalato all'Italia e - diciamolo - al Partito socialista europeo e all'Europa intera. Però...
Però non è proprio così. Intanto per quanto riguarda la flessibilità. 
Il pareggio del bilancio non è stato rinviato al 2016 ma in realtà al 2015 il che significa che bisognerà porne le condizioni nella legge di stabilità di quell'esercizio, che sarà in votazione dell'autunno di quest'anno. Si intravede una manovra di circa 12 miliardi e forse più.
Nel frattempo la domanda, cioè i consumi, sono fermi anzi leggermente peggiorati; la "dazione" degli 80 euro, almeno per ora, non ha dato alcun segnale. È certamente presto per giudicare, aspettiamo i dati di giugno e di luglio; ma per ora non ci sono segnali di ripresa. Semmai ci sono segnali di ulteriore aumento della disoccupazione, giovanile e non. Il vero e solo dato positivo viene dall'intervento della Banca centrale europea che nelle prossime settimane dovrebbe intervenire con misure "non convenzionali". Ma qui non c'entrano né il governo italiano né le istituzioni europee e neppure la Germania. Qui c'entra la Bce e la fermezza di Draghi, sperando che la lotta per alzare l'inflazione abbia successo.

* * *

Draghi richiama un altro tema assai scottante che però non riguarda il presidente della Banca centrale il cui nome nel caso in questione è stato usato a sua insaputa (e molto probabilmente col suo personale fastidio).
È circolata nei giorni scorsi la notizia che uno dei possibili anzi probabili candidati a sostituire Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo sarebbe stato Enrico Letta. La notizia è uscita sul Financial Times e su molti giornali italiani e la candidatura avrebbe avuto il pregio di non provenire dal governo italiano ma da quello inglese e anche francese. Pregio, perché i candidati alle massime cariche dell'Unione non sono scelti sulla base della nazionalità d'origine, ma sulla base del talento e dell'esperienza. Lo stesso Giorgio Napolitano ha ricordato pubblicamente che, dal momento della nomina a presidente della Bce, Draghi non è più considerato come un italiano, così come Jean-Claude Juncker non è considerato un lussemburghese, sicché un altro italiano scelto per un'altra carica non incontra alcuna difficoltà per la presenza d'un suo "originario concittadino".
Questo non è un dettaglio di poco conto ma un punto fondamentale per chi persegue gli obiettivi dell'Europa federale e non confederata. Ma il nostro Renzi (e guai a chi ce lo tocca) ha di fatto risposto: Letta chi? E poi ha aggiunto che la presenza di Draghi costituiva un ostacolo all'eventuale incarico di Letta. Comunque - ha infine aggiunto il nostro presidente del Consiglio - lui non pensava affatto ad ottenere quella carica per un italiano ma piuttosto ad avere la ministra degli Esteri, Mogherini, alla carica di Alto rappresentante della politica estera e della difesa europea.
Abbiamo già scritto domenica scorsa, e qui lo ripetiamo per chi ha orecchie da mercante, che quella carica non conta assolutamente nulla.
Politica estera e difesa sono solidamente nelle mani dei governi nazionali, nessuna cessione di sovranità è prevista in proposito, ogni paese europeo ha la sua politica estera che spesso non coincide con quella degli altri. Si tratta dunque d'un obiettivo di pura facciata, che proprio per questo l'Italia ha già ottenuto e utilizzerà a favore della Mogherini o di D'Alema.

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Concludo ricordando che la flessibilità concessa all'Italia nei limiti che abbiamo già visto è comunque subordinata a riforme strutturali che incidano sull'economia. Altre riforme interessano assai poco l'Europa e gli stessi italiani. Quelle della legge elettorale nonché la riforma del Senato sono tra le meno interessanti ai fini della flessibilità. Di esse abbiamo più volte parlato nelle scorse settimane. Far sparire il Senato depaupera il potere legislativo. Il sistema monocamerale avvia inevitabilmente verso un cancellierato e quindi un rafforzamento del potere esecutivo. Si può fare e forse sarebbe anche utile, purché venga riscritta l'architettura dei contropoteri di controllo. Prima e non dopo.
Questo punto è essenziale per la democrazia e non può essere preso di sbieco: va affrontato di petto e - ricordiamolo - da un Parlamento i cui membri, specie in questioni di questa natura, sono liberi da ogni vincolo di mandato e debbono esprimersi a viso aperto, visto che agiscono come rappresentanti del popolo sovrano.

Eugenio Scalfari (La Repubblica, 29 giugno 2014) 
 

sabato 28 giugno 2014

Renzi e Berlusconi, doppio peso all’italiana

Perché a Matteo Renzi viene perdonato tutto ciò che non è stato perdonato a Silvio Berlusconi?Breve promemoria. Nel famigerato ventennio, più volte gli scherani del sultano di Arcore provarono a liberarsi delle intercettazioni telefoniche e ambientali comprovanti i loro traffici. Con la scusa della privacy da difendere, minacciarono la chiusura dei giornali che avessero pubblicato quei verbali e altri sfracelli. Si coniò giustamente il termine “bavaglio”, si organizzarono piazze ricolme di sdegno e gli strilli fecero tremare le vetrate del Quirinale e di Palazzo Chigi. Non se ne parlò più.
L’altroieri, dagli uffici del ministro Orlando è stata fatta filtrare una riforma della giustizia riguardante anche la (non) pubblicazione delle intercettazioni per vedere l’effetto che faceva. L’obiettivo è il medesimo perseguito dal crudele Caimano: evitare che finiscano sui giornali conversazioni sconvenienti per i potenti. Ma quella che un tempo sembrava una macelleria messicana oggi è una elegante sala da tè dove giornalisti ed esperti trattano il non più bavaglio con grazia e soavità come piluccassero pasticcini. E che dire della soppressione del Senato elettivo che il premier di Rignano sull’Arno ha proposto, ponendo i parlamentari della Repubblica davanti alla cortese alternativa: o la votate o ve ne andate a casa? Per aver vagheggiato qualcosa di simile, il presidente-padrone fu paragonato a Mussolini, mentre al vincitore della Ruota della fortuna ’94 basta enunciare la supercazzola del bicameralismo perfetto e tutto tace (tranne i soliti rompiscatole).
La spiegazione più banale del doppiopesismo all’italiana è che Renzi non è Berlusconi, non ha i suoi trascorsi, appare meno pericoloso e non si tinge i capelli. Senza contare che quello stesso Pd che ieri tuonava dall’opposizione contro la democrazia messa in pericolo dalla destra oggi concorda le riforme con gli ex nemici in una confusione di ruoli dove non ci sono più buoni e cattivi, ma solo una grande marmellata dolciastra. O forse, l’immunità di Renzi nasce dallo spirito del tempo di un Paese talmente stanco e sfibrato dalle nefandezze subìte e così imbrogliato e rassegnato, che preferisce lasciar perdere, e il naufragar gli è dolce in questo mare.


SCOMMETTO CHE EVADI



Per i Mondiali di calcio è boom di puntate. Ma a fare affari sono solo 5 mila agenzie fantasma. Senza licenza. E che non pagano tasse. Sottraendo all’erario 500 milioni l’anno

Una scommessa su Brasile 2014 al Fisco l’hanno fatta. E sono sicuri di vincere: «Milioni di euro andranno in fumo, un’evasione da campionato del mondo». Ma stavolta non ci sono da immaginare mega-truffe, né giri di soldi illeciti o valigette che varcano il confine in gran segreto. No, qui tutto avviene alla luce del sole. Lo sa la polizia, lo sa l’Agenzia delle Entrate, lo sanno i Monopoli di Stato e lo sa il Parlamento. L’ambientazione, infatti, non è un grattacielo a sette stelle di Dubai, bensì una ricevitoria, sistemata in una strada secondaria di qualsiasi città italiana, fra una lavanderia e il fioraio. Un bancone, un paio di addetti gentili e, tutt’attorno, gli strilli con le quotazioni delle scomesse: a quanto danno il Brasile? E l’Uruguay? La Francia paga doppio! E via elencando. Un cliente si presenta allo sportello: «Buongiorno, vorrei puntare 20 euro sulla partita di stasera». Un paio di clic e il gioco è fatto. Se poi hai vinto, basta ripassare per incassare il malloppo.
Tutto normale, insomma, se davvero quell’ufficio fosse un’agenzia di scommesse. Con licenza, concessioni, permessi del Viminale. E se quell’addetto fosse un bookmaker autorizzato. Ma non è così. Quella ricevitoria, in tutto simile a quelle della Sisal o dei privati con le carte in regola e i permessi appesi alla parete, in gergo tecnico si chiama “Ctd”, ovvero “Centro di trasmissione dati”. Significa che lì non si fanno materialmente scommesse. Ma che quel signore gentile che ha annotato la puntata è solo un “trasmettitore di dati”. In pratica spedisce la scommessa all’estero. E il vero affare, il giro dei soldi a sei zeri, avviene fuori dai confini nazionali. Di solito in un paradiso fiscale della Ue: Malta, ma anche l’Irlanda.
Ecco che l’allarme è rosso. Perché, agenzia dopo agenzia, il circuito fantasma è ormai diffuso su tutta la penisola. E, proprio a giugno, a pochi giorni dal Mondiale di calcio, ha superato quota 5 mila punti scommessa, contro i 7.400 autorizzati. Con medie di 3 milioni di euro a partita di scommesse. Se non sarà fermato in fretta, insomma, nel 2016 potrebbe avvenire il sorpasso.

AGENZIE FANTASMA
La cifra non rende bene l’idea. Cinquemila agenzie di scommesse che per lo Stato non esistono significa decine di punti in ogni città. Significa un’area di 500 mila metri quadrati senza licenze e senza concessioni. In pratica è un’isola esentasse che galleggia in mezzo al Paese. Niente imposte per lorsignori. Niente concessioni. Niente licenze della Questura. In più, siccome di fatto non esistono, non sono nemmeno tenuti a rispettare i regolamenti e i diktat che regolano il mercato del gioco.
Già, per aprire una di queste agenzie di scommesse basta procurarsi una licenza da Internet point. In alcuni casi quella da copisteria, solo che anziché fotocopiare manoscritti e appunti dell’università, qui si incassano milioni di euro cash in puntate e lotterie. Il meccanismo ormai è oliato. Tanto che i punti vendita spuntano come funghi. Aprono nelle città, in centro e in periferia. Aprono nei piccoli paesi. Scelgono le strade più battute. Si piazzano vicino alle scuole superiori, dove i colleghi del circuito legali hanno il divieto di insediarsi. Confindustria ha una sezione dedicata proprio al gioco legale. E da anni denuncia il fenomeno: «Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di corner o negozi, aperti con le più diverse forme di autorizzazione (call center, Internet point), non controllati, senza nessuna garanzia per i giocatori e, senza nessun gettito erariale per la comunità», denuncia il presidente Massimo Passamonti. Alla gente comune piacciono. La maggioranza nemmeno lo sa che quei centri di scommessa non sono autorizzati. Quel che interessa al cliente, specialmente in periodo di crisi economica, sono i prezzi bassi e la possibilità di mettere via un gruzzolo. «E questi punti di gioco promettono vincite più alte, perché non sono gravati da imposte come gli esercizi autorizzati», continua Passamonti.
E così mentre l’aria da Mundial moltiplica scommettitori e poste in palio, chi perde di sicuro è lo Stato. Tanto che ai Monopoli il dossier sul fenomeno è ormai alto un metro. E i tavoli con Viminale e Guardia di Finanza hanno cadenza settimanale. Se il giro d’affari complessivo del circuito legale sfiora i 3,7 miliardi di euro, secondo l’Agenzia Agimeg, specializzata nel mondo del gioco, gli operatori privi di concessione nel 2013 avevano raccolto 2,4 miliardi. Un testa a testa che non ha precedenti. Grazie a una rete che si espande a macchia di leopardo da Nord a Sud. Con qualche sorpresa, rispetto ai luoghi comuni: la regione con il maggior numero di punti vendita regolari è la Campania (1.618), seguita dalla Lombardia (oltre 900), poi dalla Puglia (700) e dal Lazio (750). Fanalino di coda, la Sardegna, con soli 61 punti scommesse autorizzati, uno ogni 23 mila abitanti. Ma ecco che, in parallelo, cresce il fenomeno dei Ctd. Cifre ormai paragonabili a quelle del circuito regolare. La più diffusa in Italia è la “Stanleybet”, con 900 punti. Seguono “Planetwin” con 750, Goldbet con 650, Bet1128 con 600 e via via fino a BetUnique, BetPassion, BetaLand, Leaderbet e Cmb. «Si tratta di numeri impressionanti, probabilmente arrotondati per difetto», spiegano ai monopoli. «È un fenomeno unico in Europa, le cui dimensioni hanno stupito anche noi».

REGIONI A RISCHIO
E così ci sono delle Regioni, come la Sardegna o la Puglia, che sono praticamente in mano alla rete parallela dei Ctd. In Puglia i Monopoli di Stato hanno calcolato che ormai i punti autorizzati sono scesi a 723, contro i 900 non autorizzati. Con un danno per le casse dello Stato milionario. Un dato che diventa ancora più grave se si compara con il calo della raccolta di gioco regolare negli ultimi due anni, attestato al 2,6 per cento, a scapito di quello regolare: «Ci troviamo di fronte a un fatto gravissimo, una costante perdita di attrattività dell’offerta legale di gioco ed una significativa crescita di quella illegale», spiega la Guardia di Finanza. Con un conseguente impatto sui conti pubblici: «Tutto questo si traduce in minor gettito per le casse dello Stato, stimabile, per il solo 2013, per la sola Regione Puglia, in circa 16,5 milioni di euro», aggiungono.
Ma se si continua il tour fra le regioni, la situazione cambia di poco. In Sicilia i punti scommesse non autorizzati sono ormai più di 1.100 mentre nel Lazio sono oltre 600, senza contare la Sardegna, dove i non autorizzati sono più del doppio (183) degli autorizzati (73). «In questa regione, quindi, il gioco illegale ha ormai soppiantato quello dello Stato, a cui sono sottratti i proventi, a vantaggio di persone sconosciute al Fisco», spiegano ai Monopoli. È vero, la polizia interviene. Vengono chiesti i sequestri, le chiusure. Ma i tribunali, spesso, nicchiano riscontrando difformità fra il diritto italiano e quello comunitario. Così a sequestro segue dissequestro, a denuncia una controdenuncia, a maggior ragione dopo l’ultima sentenza della Cassazione, nel 2012, che dava ragione di nuovo alla Stanleybet.

UN LIMBO SOPRA LA LEGGE
L’ultimo che ci sta provando è proprio il questore di Cagliari, Filippo Dispenza. Non si capacita che nella sua provincia, dove c’è il mare più bello del mondo, ripete sempre, «qualche brocker straniero possa pensare che l’Italia sia una terra di conquista per chiunque. Dove c’è più depressione, c’è più gioco. In quelle sale ci vanno studenti, disoccupati, madri di famiglia. Abbiamo visto gente simulare rapine di stipendi e pensioni per giustificare scommesse e perdite al gioco», denuncia. Per quanto riguarda lui, non ha dubbi. «Tutto questo non si chiama “limbo”, ma si chiama “illegale”». E infatti nel cagliaritano sale scommesse e sale da gioco non autorizzate si sono moltiplicate. «Ne abbiamo più di cento, una cosa che non ha senso», spiega il questore.
E così, una settimana fa, ha disposto l’ultimo sopralluogo. Meta dei suoi uomini sono state otto di quelle sale. Tutte aperte con il meccanismo del Ctd: uffici in Sardegna, tasse chissà dove. «L’ho fatto perché c’è un profilo di sicurezza che lo Stato ha il compito di garantire e siccome questi signori non chiedono la licenza al Questore, noi abbiamo disposto il sequestro preventivo dei personal computer e delle attrezzature informatiche con cui effettuano le giocate», continua Dispenza. Martedì mattina la buona notizia. Il Gip di Cagliari ha convalidato i provvedimenti, che potrebbero diventare una testa d’ariete e modificare la percezione del fenomeno anche in altre province italiane, dove finora era stato difficile intervenire con strumenti repressivi. «Quando ero in servizio ad Alessandria», spiega ancora il questore,«avevo tentato la strada del sequestro, ma il magistrato l’aveva stoppata. La decisione del Gip di Cagliari, invece, per noi è fondamentale perché afferma che stiamo operando all’interno del diritto e della legge».

TASSE, QUESTE SCONOSCIUTE
Intanto a rimetterci sono le casse dello Stato. E se a giugno 2013 proprio gli inglesi di Stanleybet, pionieri del mercato non autorizzato in Italia, avevano annunciato di voler versare l’imposta unica – come tutti i concessionari autorizzati – all’Agenzia la pratica è classificata sotto l’etichetta “non pervenuto”. Parole, parole, parole, ripetono a piazza Mastai. Annunci, quando invece il vulnus resta aperto. Anzi, spalancato: pochi mesi fa, infatti, era stato siglato un accordo di conciliazione proprio tra Monopoli e società inglese dopo le verifiche fiscali dello scorso anno. Ma, nemmeno in questo caso, «alla firma è per ora seguito alcun versamento».
Per capire di quanti soldi parliamo, basta fare un calcolo a spanne. Se si raffronta il giro d’affari delle agenzie autorizzate – di cui si conoscono le cifre esatte – a quello dei Ctd, il conto è presto fatto: «La rete legale delle scommesse, nel solo 2013, ha restituito in vincite mediamente l’80 per cento della raccolta, lasciando quindi in mano ai bookmaker esteri, secondo una stima per difetto, circa 500-600 milioni di euro, cioè un fiume di soldi che non paga tasse, non è censito, non è controllato», proseguono ai Monopoli. Non solo, c’è pure la concorrenza sleale. I Ctd, infatti, non essendo formalmente agenzie di scommesse e non pagando quindi le concessioni, hanno meno spese per fare lo stesso lavoro, e possono quindi offrire ai giocatori condizioni migliori rispetto ai concessionari regolari, con offerte più vantaggiose, puntate più basse, moltiplicatori più appetibili per lo scommettitore: «Un elemento che rende probabile che l’introito finale della rete dei Ctd sia addirittura superiore alle stime», concludono ai Monopoli.

TASK FORCE TRA MINISTERI
E così Polizia, Monopoli e Guardia di Finanza cercano di affinare un sistema coordinato per fermare l’espansione dei Ctd. E per aprirsi un varco nel complicato puzzle giuridico che finora ha difeso le strutture parallele delle scommesse. Fino all’ultima sentenza chiave, datata 2012, che ha visto la Stanlaybet vincere in Cassazione dopo avere impugnato un provvedimento che voleva fermarne l’attività.
Una sentenza dai contorni ambigui, secondo la task force interministeriale. È vero che assolve il Ctd, ma afferma anche che «essi godono di una situazione di ingiustificato privilegio commerciale e giuridico rispetto alla rete autorizzata». E, in più, possono «stipulare contratti con persone non sottoposte a controlli». Cioè gente sconosciuta alle forze dell’ordine, che schiva la radiografia imposta a chi opera nel settore del gioco.
Perché degli operatori dei Ctd, in realtà, lo Stato non sa nulla. Schivano le norme, sono esclusi dalle verifiche. Sia da quelle antimafia, secondo cui per aprire un’agenzia di scommesse è obbligo dichiarare le persone che detengono una partecipazione nella società concessionaria. Sia da quelle sulle condanne: «La società non può ottenere o mantenere la concessione se uno di questi soci assume la qualifica di imputato o condannato per una serie di reati che vanno dalla corruzione, concussione, abuso d’ufficio, peculato, associazione a delinquere, anche semplice, frode fiscale», elencano al ministero dell’Interno, titolare delle licenze. Ma tutto questo non vale per i gestori dei Ctd. I bookmaker esteri lavorano per società che potrebbero essere controllate da chiunque, anche da italiani, schermati dietro le solite scatole cinesi.

BATTAGLIA IN PARLAMENTO
E così il caso dei Ctd è approdato in Parlamento. A sollevarlo un’interrogazione del Movimento 5 stelle che, per la prima volta, mette il dito nella piaga, chiedendo al governo Renzi se sia vero che «gli esercizi irregolari in Italia per l’attività di gestione e di raccolta delle scommesse, fra cui molti Ctd, siano circa seimila», ancora più del censimento ufficiale, e secondo i pentastellati «un numero superiore a quello dei punti legali, con un’evasione che si aggira attorno ai 400 milioni di euro, un’immensa cifra sottratta al Paese». Con un monito all’esecutivo perché intervenga presto anche contro l’uso del contante.
Denuncia che sale anche dal mondo del gioco autorizzato, in prima fila la Snai, il concessionario storico delle scommesse. Fra i privati, invece, il leader in Italia si chiama “Intralot”, che opera nel nostro Paese dal 2006, con un investimento di circa 90 milioni di euro e l’apertura di 500 punti vendita. La guida Emilio Iaia, che mette al lavoro circa 2.500 addetti (fra diretti ed indiretti) e fattura oltre 300 milioni: «Malgrado la concorrenza dei Ctd, anomalia esclusivamente italiana nell’intera Unione europea, il panorama del gioco legale sta maturando», dice Iaia. «C’è sempre una maggiore attenzione e responsabilità contro tutti i fenomeni compulsivi e vi è il rigido rispetto delle regole per la tutela dei minori e delle fasce di soggetti considerati più deboli». Come a dire che la guerra contro il gioco legale, alla fine, ha portato al proliferare di quello senza controlli. Con maggiori rischi per il giocatore. «Il panorama futuro del gioco legale passa proprio per un maggior livello qualitativo dell’offerta ma anche per l’ampliamento di tutte le necessarie tutele per i più deboli». Con investimenti anche nella prevenzione delle dipendenze. Anello debole. Ancora più debole quando la catena dei controlli si spezza. All’insaputa del legislatore.




Immunità parlamentare e Nazionale di calcio va in onda l'Italia peggiore

Mentre la Nazionale italiana perde la faccia (tranne Buffon, ma Buffon, come il suo grande predecessore Zoff, è friulano, appartiene a un'altra razza, Gemona insegna), i nostri uomini politici, che la faccia non l'hanno mai avuta, si azzuffano sulla questione se i componenti del nuovo Senato debbano godere dell'immunità parlamentare, come i loro colleghi deputati, pur non essendo eletti dal popolo.
La questione è molto semplice: l'immunità va tolta a tutti, senatori e deputati, tranne che per «le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni» come recita l'articolo 68 della Costituzione. I nostri padri fondatori garantirono una serie di guarentigie, tra cui l'immunità, ai parlamentari in un'epoca storica completamente diversa, culturalmente e moralmente, dall'attuale. Esisteva allora un'etica condivisa, di tradizione ottocentesca, per cui si riteneva che l'onestà fosse un valore per tutti, classe politica, borghesia, proletariato, mondo contadino. Si giudicò quindi opportuno tutelare i membri del Parlamento, massima espressione della volontà popolare, da qualche iniziativa avventata della magistratura requirente. Il solo sospetto era considerato già di per sè così infamante da poter distruggere una carriera politica. Un ministro della Destra storica si suicidò perché accusato di essersi portato a casa dall'ufficio un po' di cancelleria. Siamo ai primi del Novecento. Ma la moralità personale degli uomini politici del primo dopoguerra, selezionati dal conflitto, dei De Gasperi, degli Scelba, degli Andreotti, dei Saragat, dei Nenni, dei Togliatti, degli Almirante e dei loro seguaci era fuori discussione. Pietro Nenni, tanto per fare un esempio, finì la sua lunghissima carriera politica avendone come ricavato una modesta villetta a Formia. Da allora le cose in materia di moralità pubblica sono andate radicalmente cambiando in un crescendo di marciume morale che è sotto gli occhi di tutti. Oggi un ex ministro degli Interni ritiene normale che una metà di una sua casa sesquipedale gli sia stata pagata da un imprenditore, «a sua insaputa» (quel povero ministro novecentesco si rivolterà nella tomba). Dal 1948 fino al 'caso Genovese' le Camere non hanno mai concesso l'autorizzazione a procedere a un arresto con la sola eccezione per un missino che durante una manifestazione aveva sparato e ucciso. L'immunità si era trasformata in impunità. E fu proprio questo senso di impunità assoluta che convinse i partiti che potevano fare tutto quello che volevano, taglieggiare gli imprenditori, e indirettamente i cittadini, né più né meno come fa la mafia. Nel 1993, sull'onda dell'indignazione per la corruzione emersa da Tangentopoli, l'art.68 fu modificato concedendo alla Magistratura di avviare indagini su un parlamentare senza dover chiedere l'autorizzazione delle Camere. Ma questa autorizzazione resta obbligatoria per procedere ad arresti, perquisizioni, intercettazioni. Particolarmente grottesca è l'autorizzazione per le perquisizioni e le intercettazioni telefoniche. E' chiaro che il parlamentare, avvertito, farà sparire dalla sua casa, dai suoi uffici, dalle sue pertinenze ogni documento compromettente e si guarderà bene dall'usare il telefono.
Intanto l'ex parlamentare Dc, Gianstefano Frigerio, in carcere a Milano per l'Expo, chiede a varie cariche dello Stato di essere interrogato da un Pubblico ministero a lui gradito. Cioè non è più il Capo dell'ufficio a scegliere il Pm che deve interrogare un arrestato, ma l'arrestato a scegliersi il Pm. Viviamo in un mondo capovolto. Dove la figuraccia rimediata dalla Nazionale, cui i giornali hanno dato tanto spazio, perde ogni importanza.


“Il ritorno del Principe” è uno di quei volumi che non merita di accumulare polvere nello scaffale di una libreria


Oggi, che si parla molto di riforme istituzionali, ritorna d’attualità il libro “Il ritorno del Principe”, pubblicato nel giugno 2008 dalla casa editrice Chiare Lettere.
L’acutezza ed al contempo la semplicità con le quali vengono trattati i complessi argomenti, mostrano tuttora la validità di un saggio che avrebbe meritato maggiore eco e di certo degno di poter figurare fra i migliori prodotti socio-politici editi nell’ultimo decennio.
Utilizzando un classico schema di scrittura il giornalista Saverio Lodato pone una serie di questioni al Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato che, con estrema chiarezza  le disamina, leggendone le varie sfaccettature.
Uno scritto a quattro mani, che si incentra su una serie di aspetti riguardanti il potere: dal raggiungimento alla gestione, dal suo mantenimento al consolidamento.
La sicilianità e la competenza specifica di entrambi gli autori li porta ad addentrarsi nelle questioni di mafia, focalizzandone anche l’espansione finanziaria, ma non solo.
Del resto è ormai storia il fatto che la domanda di taluni di acquisire capitali per alimentare investimenti e sviluppo, incontrandosi con quello di chi necessita di riciclare eccessi di disponibilità liquide in un’economia reale, ha facilitato flussi osmotici opachi e fatto si che, nel tempo, un modello in qualche modo poco trasparente venisse progressivamente interiorizzato non soltanto nell’Italia del Nord; il tutto facilitato o reso percorribile attraverso legislatori sempre più favorevoli.
Richiamandosi al Machiavelli, risultano centrali dei passaggi che riguardano il governo di una comunità (“Dobbiamo tornare alla consacrazione nazionale del Principe del Machiavelli. Lo spirito e la cultura del Principe - proprio perchè costitutive della normalità italiana nel senso che ho precisato - non sono mai morte. Trasmettendosi di generazione in generazione, hanno continuato ad attraversare nei secoli la nostra storia nazionale, riciclandosi nelle varie forme di Stato che si sono succedute nel tempo; dall'Italia preunitaria alla monarchia, al fascismo, alla prima e seconda Repubblica, giungendo sino ai nostri giorni”).
Di assoluta attualità e freschezza risultano altresì le osservazioni sul sistema elettorale vigente, parzialmente bocciato e corretto recentemente dalla stessa Corte Costituzionale (“Il Parlamento, come è noto, è eletto dal popolo solo formalmente. In realtà è "nominato" da ristrettissimi gruppi, una trentina di persone in tutto; componenti organiche del Palazzo, come lo definiva Pasolini, o del "circolo dei grandi decisori", come gli analisti del potere definiscono i luoghi nei quali un ristretto nucleo di detentori del potere reale assume decisioni che poi vengono ratificate nei luoghi formali del potere istituzionale.
Grazie alla nuova legge elettorale che ha abolito il voto di preferenza, gli elettori non possono scegliere i rappresentanti da eleggere, ma solo ratificare a scatola chiusa le scelte effettuate dall'alto, compresi personaggi impresentabili e pregiudicati”
).
Al di la dei due esempi estrapolati, l’analisi risulta ampia, si sviluppa nell’esame dei diversi aspetti del potere, dell’amministrazione della cosa pubblica, focalizzandone le variegate e spesso complesse interconnessioni (più o meno visibili).
La lettura del volume risulta scorrevole, sollecita interrogativi e illumina sulla genesi delle questioni. Quanto trattato e le considerazioni ben esposte dagli autori non sono mai banali, né limitate ad aspetti evidenti; esse palesano la piena coscienza e conoscenza dei fenomeni, ma giammai una resa e, men che meno, una rassegnazione.  
Appare superfluo raccomandarne una attenta lettura. “Il ritorno del Principe” è uno di quei volumi che merita di non accumulare polvere nello scaffale di una libreria, è un libro da tenere sempre sottomano, insomma. 

Essec