venerdì 20 aprile 2018

Da una scolaresca in treno ho capito che l’Italia non è la razza bianca



A Milano Centrale il treno spalanca le porte e nella carrozza irrompe la tanto temuta scolaresca. Decine di ragazzi che travolgono ogni cosa. Riempiono ogni silenzio. Scaricano vita e ormoni e secchiate. Spandono profumi e aromi più o meno gradevoli.
È la scolaresca tanto temuta dal viaggiatore pieno di spirito poetico perché il suo spazio vitale si riduce. Temuta anche perché di fronte alla scolaresca deve dire, con Mario Luzi, “quanta vita!”. Insomma, i ragazzi ti fanno sentire vecchio.
In mezzo alla marea diretta con te a Venezia un anziano professore che riesce a mantenere la calma contro ogni aspettativa. Che controlla flemmatico la situazione. Poi una giovane prof che viene dal sud con pantaloni attillati e occhi freschi come gli alunni.
Due contro sessanta. Ce la faranno a domare la classe?
Ma non è soltanto la vita a colpirti. Dei ragazzi di questa scuola milanese, gli “italiani” saranno la metà. Quattro continenti in una classe. Quanti colori della pelle: bianco – caro al governatore lombardo Fontana – mulatto, nero. E si fa presto poi a dire asiatici guardando le mille curve degli occhi, le virgole dei sorrisi a volte malinconiche altre piene di ironia. E i capelli! Neri opachi, lucidi, a ricci, crespi.
Li guardi – ragazzi e ragazze – e non puoi fare a meno di immaginarti il loro destino, i lineamenti mischiati tra una, due generazioni. Magari con un tuo figlio: “Indovina chi viene a cena”, a casa tua. Per un attimo te lo chiedi anche tu: l’Italia rischia davvero di sparire, come i colori e i lineamenti sui volti dei ragazzi di domani?
Eppure c’è qualcosa di molto italiano in questa classe così mista. C’è la briscola che il professore propone di giocare; “prof, è roba vecchia”, ma poi tutti mettono via gli smartphone e partecipano. Ci sono le canzoni di Tiziano Ferro che sfuggono dagli auricolari. C’è il paesaggio della Pianura oltre il finestrino che diventerà per tutti misura dello spazio, della ricerca di un orizzonte.
C’è soprattutto la lingua, il nostro italiano. La ragazza cantonese e quella albanese con uguale accento lombardo. Ma le parole sono molto di più: aiutano a mettere insieme i pensieri, ne condizionano la forma. A volte addirittura il contenuto. “Ti voglio bene”, che forse qualche ragazzo si sta dicendo nella carrozza si può dire solo in italiano. Se lo ripeti lentamente ne ritrovi il significato: voglio il tuo bene.
Non esiste in altre lingue.
Anche le battute, gli scherzi, l’ironia dipendono dalla lingua. Perfino gli stati d’animo, in fondo.
Ed è italiano lo spirito del professore – giacca, pullover e cravatta di una volta – mentre raccoglie le confidenze del ragazzo ecuadoriano accanto a lui. Sorride, il prof, anche un po’ di se stesso. Non prendersi troppo sul serio per essere rispettati. Forse anche questo tratto è un po’ italiano. Come le battute del capotreno che passa e dopo aver controllato i primi biglietti finge di svenire in braccio a una ragazzina.
Strana sensazione: si vedono pochi “italiani”, ma ritrovi lo stesso l’Italia. E vedi il Paese di domani.
Caro Fontana, vorresti dirgli, per salvare se stessi non serve preservare la RAZZA BIANCA. Bisogna sapere chi siamo. Su questa carrozza di treno si vede l’Italia di domani. Ed è bella.




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