giovedì 31 ottobre 2019

Un Racconto in 240 parole





Un Racconto in 240 parole

Reduce dall'assistere a una serie di letture di portfolio in quel di Trapani (TrapanInPhoto 2019), dove cinque collaudati maestri hanno condotto la lettura dei portfolio fotografici presentati da diversi autori, mi piace provocare il lettore a scrivere una propria "lettura in 240 parole" (circa), basandosi sulle immagini sopra rappresentate e seguendone la sequenza.
Non c’è niente in palio, se non la ricerca di convogliare tutti gli scritti all’indirizzo email toticle@gmail.com per poi discuterne, magari anche all’AFA, durante uno dei futuri incontri o in altre circostanze/forme.
Credo possa essere un buon esercizio per sollecitare la fantasia/creatività di ciascuno nel cercare di sviluppare con parole proprie un racconto che chi lo propone ha già nella sua mente, anche se non ha ancora scritto nulla, ma che può suscitare variegate elucubrazioni.
Il gioco/esercitazione è comunque rivolto a tutti coloro che si vogliono cimentare a sviluppare a proprio modo l'idea (indipendentemente dalla parrocchia di appartenenza).
Come esempio e a prescindere dal numero di parole ogni volta utilizzato, propongo gli scritti dell'amico Michele di qualche tempo fa http://www.toticlemente.it/public/immracc/index.html

© Essec

Per rendere maggiormente intellegibili le immagini raggruppate nella sequenza di lettura, riporto delle visioni di maggiore dettaglio:







mercoledì 30 ottobre 2019

Scritti di "Julia Jiulio" che navigano nel web



Navigando per caso su Facebook bizzarrie dell’algoritmo rivelano talvolta lati oscuri di persone che conosci. Ti capita quindi di scoprire che dietro pseudonimi che vogliono nascondere la loro identità ci sono menti che hanno una gran voglia di comunicare il loro essere, i loro sentimenti profondi, che cercano un ascolto. 
Non occorrono altre parole, perché nel caso apparirebbero solo ridondanti. Invito solo alla lettura.

© Essec

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Apro il telefono... compaiono foto di anni fa,
mia Madre mi guarda attraverso il tempo ...
Tutto è in quello sguardo...
La voce del mio cuore mi sussurra ..
ricordami,
ricorda sempre.... sempre...
che la Vita è uno stato di Grazia
e sempre...
di essere gentilezza,
di provare tenerezza e meraviglia...
Sempre

Perché mi scontro con tutti i miei limiti, con tutte le mie dissonanze, incongruenze, dolori, frustrazioni, con tutti gli urli repressi nella gola e nella pancia, con tutta la mia impotenza, disarmonia, con l'imperfezione assoluta, con la comprensione che sarò sempre imperfetta. ... Con il pensiero che tanta fatica non mi porterà a nulla
E poi ci sono attimi, in mezzo alla disarmonia che mi rappresenta come un impietoso specchio multidimensionale....
Attimi in cui una sola nota...è pura essenza di me....
E così ricostruisco altri attimi di immensa felicità...

Meditando sul futuro viaggio......
Pensando che il mondo è tutto racchiuso in un piccolissimo seme che risiede negli affetti del cuore...
E anche che siamo parte di un universo più grande e che è possibile incontrare altre anime e le loro forme del sentire e come riescono ad esprirlo nel modo unico che ognuno ha di manifestare realtá in armonia col cuore ....
Allora partire è un modo per sentire quelle parti di me che ancora non conosco e che i limiti del mio sociale non mi permettono di esprimere e conoscere pienamente...
Crescere e condividere e sentire l'amore che tiene unite le più piccole particelle del Mondo
e poi tornare nell'unico posto dove voglio vivere e morire... L'unico luogo dove l'immobilità e lo Stare prendono senso....
Tra le braccia dei miei amori

Parlami dei tuoi pensieri più belli.
Mostrami la tortura nascosta nel tuo silenzio.
Raccontami il tuo dolore tra le tue poesie.
Lascia che domani
non sorga il sole
se ci deve far pesare la sua presenza.
Sii te stessa!
Parla di te,
della tua terra,
dei tuoi sogni.
Perché la tua poesia è vera.
Perché la tua lotta è il nostro futuro.
Perché tu
e la libertà,
siete le cosa più belle al mondo.


martedì 29 ottobre 2019

Maledetta Internet e tutta quanta questa tecnologia moderna


In un corso formativo di molti anni fa cui ho partecipato la didattica era finalizzata al giusto utilizzo del materiale informativo disponibile. L’intento non era quello di insegnare ad avere prontezza di risposta di tipo nozionistico ma quello di indurre a ottimizzare l'uso degli strumenti messi a disposizione ovvero la capacità di saper condurre una ricerca mirata, finalizzata a trovare le fonti normative necessarie a gestire ogni problema, attraverso le normative vigenti.
Era un pò come una volta, quando oltre a mettere a disposizione il vocabolario per i compiti in classe, si consentiva la consultazione di tutti i libri scolastici. Ma non per procedere a un copia e incolla di frasi precostituite bensì per approntare una formula originale ed estemporanea di esposizione/traduzione come soluzione del problema.
Maledetta Internet e tutta quanta questa tecnologia moderna, si ostinano ancora a dire taluni oggi.
Ma la vera causa della potenziale negatività sta solo nel possibile errato utilizzo dello strumento che, se saputo gestire con sapienza, consente invece una consultazione d’infinite fonti e ricchissime biblioteche.
Certo nel panorama di opportunità offerte i “Social” costituiscono raramente il “verbo”; talvolta - e a ragion veduta - inducono a prospettare per buono ciò che è una “fake”, per cui è necessario sempre verificare le fonti di ogni notizia/informazione.
Al giorno d’oggi internet è proprio una finestra nel mondo che rende tutto accessibile, che azzera le distanze, che democratizza i rapporti, che distribuisce equamente le conoscenze.
In quest’ottica diventa anche uno strumento per viaggiare stando seduti, per visitare musei e visionare opere d’arte, per osservare nel dettaglio manuali e tutto quanto è reso disponibile alla consultazione altrui.
Chi non ha mai trascorso qualche ora libera a condurre ricerche attraverso una parola chiave?
Tralasciando i maniaci di patologie e di negatività estreme, che masochisticamente si rivedono poi direttamente interessati in tutte le sintomatologie rappresentate come possibili, risulta stimolante condurre ricerche nei campi che più ci sono consoni, per passioni e interessi.
Ad esempio, personalmente mi piace scoprire personaggi, figure e ogni forma creativa prossima all’arte.
In funzione di ciò approfondisco le mie indagini, ad esempio, sulla creatività di alcuni graffitari che mi intrigano, vado a ricercare le produzioni di soggetti fino a ieri a me sconosciuti, seleziono tante immagini che riconducono a tematiche, a autori, a critici, a insegnanti, a artisti vari.
Attraverso questo sistema, nel campo creativo delle immagini ho visto sul nascere tendenze di autori, ho scoperto allegorie, ironie e umorismi sapientemente nascosti, personaggi ricchi di capacità didattica che riescono a trasmettere in maniera immediata argomenti e concetti che spesso semplici non sono.
Insomma, molto risiede nella capacità nella ricerca del ricercatore curioso e al proprio potenziale di fantasia. 
Il mondo è grande ma al giorno d’oggi, grazie alla potenza di tecnologie fino a ieri impensabili, anche i granelli di sabbia sono consultabili dall’infinitamente lontano (rapportando il tutto, per quanto ovvio, alla nostra dimensione umana).
L’amico Max Serradifalco che è stato in questo un pioniere, attraverso Google Hearth, riesce a estrapolare dal video, con l'uso della sua fantasia, composizioni pittoriche che non sono altro che letture della realtà rilevata attraverso sonde satellitari.
Qualcuno sostiene che questo processo non ha nulla a che fare con la creatività, con la fotografia e men che meno con l’arte pittorica in generale: considerazioni opinabili, poiché tutto quello che oggi produciamo attraverso supporti meccanici o che è frutto di elaborazioni di softweare, è sempre conseguente a scelte programmate e gestite dal soggetto che li usa e li governa.
Per concludere, vorrei portare ad esempio alcune cose da me realizzate utilizzando materiali d'altri e che ho scoperto o acquisito semplicemente attraverso il web. Ce n’è per tutti i gusti e, nell’occasione, ne elenco alcuni:
, https://youtu.be/bUYa268WTzU, https://youtu.be/1mBvtYVmBa4 , https://youtu.be/-0FbyE3-A_4 , https://youtu.be/gWDWTKFBJTc , https://youtu.be/QWc214Wji0k , https://youtu.be/3FKupgb1uGo , https://youtu.be/5aSTTP8VCq 

© Essec


lunedì 21 ottobre 2019

L’ intento che accomuna nella fotografia.


 Nella immagine sono ritratti come duellanti gli amici Pippo Pappalardo e Arturo Safina 
(foto scattata in occasione della 9^ Edizione di TrapanInPhoto)


Cliccare con il marchingegno chiamato macchina fotografica, per chi ha la passione, è sempre gradevole. 
Ci s’infastidisce però se qualcuno tende a distrarci chiedendo di fargli una foto, magari includendone il paesaggio, peggio ancora se qualcuno viene a pretendere che tu operi lo scatto seguendo i suoi suggerimenti, riguardo a tempi, diaframmi e taglio di ripresa. 
In relazione a ciò, per chi pratica la fotografia, il migliore metodo è quello di tentare di eclissarsi rispetto alla compagnia. 
Questa tattica risulta in ogni caso premiante, sia per il fatto che, se si arriva prima, il contesto di ripresa generalmente è ancora incontaminato, e anche perché, se ci si attarda nel dopo o se ci si allontana dal gruppo, si traggono i vantaggi della distrazione che la massa indisciplinata ha arrecato già nel set di ripresa. 
Di certo non sei il solo - e non lo sarai mai - ad attuare questo escamotage e allora bisogna armarsi di santa pazienza e magari aspettare con calma il proprio turno, sempre però che valga la pena. 
In un altro scritto ebbi anche a dire su quegli strani soggetti che si muovono sempre in maniera elefantiaca, che risultano in ogni modo ingombranti e che magari ti riprendono pure pronunciando la famosa frase: “togliti che devo fare una foto”. Al riguardo, non occorre soffermarsi più sull’argomento, anche perché per questi non c’è alcuna possibilità che si emancipino e men che meno quella di un improbabile recupero. 
Tornando più in generale alla produzione fotografica, al diletto creativo che ci appaga in fase di ripresa si associano anche i momenti che seguono e connessi alla post produzione. 
Non bastano mai gli hard disk  che si acquistano per custodire gli scatti digitalizzati e diventa crescente l'onerosa elaborazione successiva da dedicare ai files immagazzinati. 
In un modo o nell’altro e per quanto si possa essere parchi nella produzione, la post-produzione necessita di serenità d’animo e richiede molto impegno. Solo tali condizioni emotive consentono di osservare con attenzione le immagini lavorate, qualche volta anche per cogliere/scoprire quei particolari che la fortuna spesso regala e dei quali non si era avuta coscienza al momento del nostro fatidico click. 
Grazie a una serie di automatismi programmati che assegniamo alla macchina di ripresa all’inizio di una battuta fotografica, oggi possiamo dedicarci di più allo studio dell’ambiente, nel leggere la qualità della luce, nel prevedere/immaginare azioni o accadimenti. 
L’esperienza del resto ci ha già insegnato su quando è utile o necessario intervenire, per apportare modifiche significative nelle impostazioni ovvero per settare diversamente la macchina al fine di ottenere quei risultati particolari che la fantasia del momento ci viene a ispirare. 
In questi particolari casi, comunque - e come si dice in gergo - "ogni testa è tribunale". 
Nessuno può sindacare cioè sull’operato e le bizzarrie dell’altro. Eventuali giudizi e possibili approvazioni o bocciature saranno espressamente collegate solo ai risultati ottenuti; sia del singolo scatto o di una serie d’immagini che vorrebbero raccontare un evento, suscitare un sentimento o una sensazione, secondo una composizione artistica e la sensibilità intima dell’autore. Da qui derivano le molteplici scuole di pensiero, gusti e mode. 
Accanto alla fotografia che potremmo definire “classica” si sono sempre mosse nidiate di fotografi dediti alla sperimentazione. Per costoro la macchina fotografica costituisce fondamentalmente uno strumento, il pennello del pittore o la matita per lo scrittore/poeta, è cioè il mezzo scelto per raccontare con immagini delle proprie “visioni”, per esternare quanto l’immaginazione e la fantasia può - in talune condizioni - essere in grado di produrre, per aprire a discorsi nuovi, tecniche innovative e a intrudurre altri possibili linguaggi espressivi. 
In ogni caso e sempre, permane un punto di contatto fra "chi scatta una fotografia solo per divertimento" e quello che per esemplificazione andremo a definire "un potenziale artista". 
In entrambe le circostanze gli autori restano accomunati nel diletto, che sta alla base della loro azione. Quello di scattare una bella foto ricordo o solamente un selfie per il primo, di introdurre al proprio racconto attraverso una forma di comunicazione culturale immediata e diretta il secondo. 
Comunque ciascuno avrà operato per un risultato. Sulla bontà del quale giudicheranno altri contemporanei e forse poi altri ancora, nel tempo e nello spazio, prescindendo pure da quello che era stato alla base l'origine del bisogno. 

Buona luce a tutti!

© Essec


martedì 15 ottobre 2019

L’albero a cui tendevi la pargoletta mano non era il verde melograno …



Quante volte, magari in un momento di riposo ci ritornano in mente momenti, cose e frasi dei nostri tempi passati. Talvolta rievocano malinconie, altre volte suscitano felicità che ti fanno accennare istintivi sorrisi.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai in una selva oscura che la diritta via era smarrita” ovvero “Cantami o diva del pelide Achille l’ira funesta che infiniti danni addusse agli achei” o ancora “La bocca sollevò dal fiero pasto quel peccator, forbendola a'capelli del capo ch'elli avea di retro guasto. Poi cominciò: Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme già pur pensando, pria ch'io ne favelli”.
Chi non ricorda, per reminiscenze scolastiche o per letture successive, i versi di queste importantissime opere che costituiscono capisaldi della letteratura.
Ma accanto o in parallelo agli originali viaggiavano nei distretti scolastici delle parodie che avevano un’efficacia tale da rimanere indelebili e che sempre erano pronte nella memoria di ciascuno.
E allora il verso omerico diventava "Cantami o diva i peli di Achille" ovvero il carducciano brano del “pianto antico” veniva trasformato in “L’albero a cui tendevi la pargoletta mano non era il verde melograno ma a ciolla ru zu Tano” (….. ma l’uccello dello zio Gaetano) oppure l’erudita frase liceale degli allievi del classico del mio tempo “ausculta germano, avvolgi il felino onde evitare il torsolo di cattiva effigie” (accompagnato dalla simultanea traduzione dialettale diventava “tal’è ‘o frati, ammuogghia sta atta pi evitare un trunsu ri malafiura”).
Dopo circa cinquanta anni, se tu accenni uno dei versi dialettali anzidetti, nel mio distretto siciliano trovi sempre chi si aggancia e ti completa la frase.
Il fatto certo che chiunque (almeno a livello generazionale) riesce a mantenere ben presente un brano parodiato conferma, senza alcun dubbio, che nell’apprendimento è fondamentale la metodologia "didattica".
Ciascuno, anche per necessità di sopravvivenza, ne elabora una propria ma è anche vero che la scarsa dinamicità dei programmi scolastici, da sempre in ritardo in tema rispetto all'adeguamento ai tempi, costituisce ancora oggi una palla al piede che, talvolta, rende inadeguate le tecniche di apprendimento e non soltanto per la poca inclinazione didattica di alcuni maestri/professori.
Ricordo a tal proposito che il mio compagno di banco Costantino era sempre preparatissimo in storia e in tutte quelle materie che presentavano aspetti nozionistici. Mi faceva rabbia la sua preparazione. Nel tempo ebbe a confessarmi che il suo metodo era abbastanza semplice (almeno per lui) ed era quello si associare i termini mnemonici a parole o frasi in codice a lui familiari, come quella famosa “Ma con gran pena le reca giù”: la filastrocca superconosciuta che aiutava a ricordare i nomi delle varie catene alpine.
Analogamente all’argomento si associano i tanti proverbi dialettali, spesso uguali e tradotti nei diversi termini in uso nei territori.
Può quindi capitare di dire in sintesi, e per esprimere l’impressione avuta da un breve incontro parlando con un professionista dopo una udienza presieduta da un giudice onorario alquanto “tronfio” nell'interpretare il suo ruolo, “culu c’u n’ha vistu mai cammisa, quannu l’avi tussa sa isa” (letteralmente tradotto: “un sedere che non ha visto mai una camicia, quando ce l’ha tutta se la alza ovvero chi ha l’opportunità di vivere una esperienza esaltante, venendo da uno status modesto, quando indossa un abito buono ha nesessità di pavoneggiarsi e metterlo tutto in mostra).
Anche in questi casi i proverbi, che in genere costituiscono perle di saggezza, se memorizzati in forma dialettale rimangono indelebili e molto più significativi.
Volete poi mettere l’insulto o l’ingiuria dialettale? Chi non riconosce la piena liberazione che arreca il pronunciarle al momento giusto e a discarica dello stato d’ira che l'ha istintivamente suscitata nel momento.
Nel mio territorio, al "top" dei brani celebri parodiati, ritengo che non tema alcuna concorrenza quello "carducciano" del fanciullo che tendeva la mano. Un verso poetico a quei tempi assolutamente innocente, che avrebbe anche potuto essere inteso come una ironia goliardica (o allusiva) riguardo  a un fenomeno patologico cui, con ogni evidenza, oggi potrebbe essere associato.

 © Essec


Massimo Fini: "Scuola: un disastro che viene da lontano"




Da un bell’articolo di Silvia Truzzi sul Fatto (10.10) apprendiamo che in Italia il 7% dei diplomati conclude il ciclo di studi “con un livello di competenze così basso che è come se non avessero mai messo piede in classe”. Ma le cose non vanno meglio, anzi peggio, per gli adulti, da una rilevazione Ocse si ricava che “il 70% degli adulti italiani risulta non in grado di comprendere adeguatamente testi lunghi e complessi”. 
La storia viene da lontano. In quasi nessun Paese in cui sono stato ho visto la scuola trattata o meglio bistrattata come in Italia. Prendiamo a titolo di esempio la Tunisia. Sotto il regime di Ben Ali i giornali impegnavano pagine e pagine in dibattiti sull’istruzione soprattutto delle prime classi: sui tempi di attenzione dei ragazzi, sulla scansione degli intervalli, sui metodi di insegnamento, sul comportamento dei docenti, sulla disciplina, sul rigore degli esami. Anche i regimi dittatoriali hanno sempre dato, e danno, una grande importanza all’istruzione se non altro per educare i cittadini alla propria visione politica. Il Fascismo, almeno nelle grandi città, costruì per i maestri elementari, cioè per il livello più basso della classe dei docenti, case che oggi fanno gola ai benestanti. I docenti dovevano godere di una considerazione sociale elevata che poi si rifletteva sul loro prestigio in aula. 
Nell’Italia repubblicana, per decenni, durante tutta l’era democristiana e oltre, il ministero dell’Istruzione andava come premio di consolazione al più sfigato dei politici o a quello che stava in ‘standby’. Sono stati ministri dell’Istruzione Giuseppe Bettiol, Egidio Tosato, Giuseppe Medici, Giacinto Bosco, Fiorentino Sullo, Riccardo Misasi, Mario Pedini, Adolfo Sarti, Guido Bodrato, Franca Falcucci, Giovanni Galloni, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi, Rosa Russo Iervolino, Francesco D’Onofrio, Giuseppe Fioroni. E fermiamoci qui per carità di patria. 
Per decenni la scuola è stata concepita come una sorta di ‘riserva indiana’ per semioccupati od occupati malpagati e frustrati, senza nessuna considerazione per il merito e la passione per il proprio lavoro (gli scatti erano solo per anzianità). Molti dei ‘babypensionati’ vengono dalla scuola e spesso erano i migliori, con una vocazione autentica per la loro delicatissima professione. Si tenga presente che il lavoro dell’insegnante scrupoloso non si esaurisce in aula ma, soprattutto per alcune materie, lettere e filosofia in particolare, continua a casa con la correzione dei compiti e la preparazione della lezione del giorno successivo. I migliori, alla lunga, hanno pensato che non ne valesse la pena e sono andati a spendere il loro talento altrove, gli altri che talento non avevano sono rimasti a scaldare i banchi. 
A tutt’oggi ogni nuovo ministro della Pubblica Istruzione elabora un suo piano di studi puntualmente sconfessato dal suo successore. Non funziona così, non può funzionare così. Anche se oggi tutto va a gran velocità (che, sia detto di passata, è uno dei drammi della vita moderna) un piano di studi va pensato con vista lungimirante, per almeno due o tre generazioni. Se il mitico ‘classico’ di Gentile ha potuto resistere decenni è perché Gentile aveva guardato avanti e soprattutto aveva ben in testa che la scuola ti deve dare, oltre alle nozioni, gli strumenti per capire la realtà. Perché capire è più importante di sapere. 
Tutti i recenti tentativi di riforma hanno cercato di adeguare la scuola alle nuove realtà. E’ inevitabile, ma si è troppo forzato sull’attualità. La scuola si deve occupare soprattutto dell’inattuale, Eraclito, Platone, Bacone se non li incontri a scuola poi non li incontri più. L’attualità ci entra ed esce da tutte le orecchie. 
Ma la distruzione o la semidistruzione definitiva di ogni capacità di comprensione e del far propria una vera cultura, e questo riguarda l’intera popolazione, giovanile e adulta come rileva l’Ocse, viene dalla tecnologia digitale. Su internet puoi trovare tutto, subito. Incameriamo una serie infinita di nozioni, ma è un generico sapere sul sapere. Paradossalmente da questo punto di vista le cose andavano meglio in era preindustriale. Scrive Johan Huizinga ne La crisi della civiltà che è del 1935: “L’uomo comune diventa sempre meno dipendente dalle proprie facoltà di pensiero e di espressione. Il contadino, il marinaio, l’artigiano di una volta, nel tesoro delle sue conoscenze pratiche trovava anche lo schema spirituale con cui misurare la vita ed il mondo. Anche dove l’individuo sia animato da un sincero impulso verso il sapere e la bellezza, dato l’ossessivo sviluppo dei mezzi di diffusione meccanica dello scibile, difficilmente potrà sottrarsi alla noia di ricevere, bell’e confezionati o strombazzati, giudizi e nozioni”.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2019)


Per dare maggiore contezza all'interessante articolo di Massimo Fini mi è doveroso pubblicare il commento postato al riguardo su FB, che completa alcuni aspetti, anch'essi - a mio modo di vedere - assolutamente condivisibili e che, in ogni caso hanno riguardato e riguardano ancora l'impegno da ciascuno profuso nel proprio lavoro e impegno sociale:

Enza Bertuglia Purtroppo, devo condividere in linea di massima ciò che sostiene Massimo Fini, anche se mi sembra doveroso puntualizzare alcuni concetti. Innanzi tutto, non è vero che sia rimasto a "scaldare i banchi" chi migliore non è. Continuano ad esserci ottimi insegnanti che dedicano tutti se stessi ai ragazzi, credendo fermamente nel loro compito e nonostante le scarsissime gratificazioni, siano esse morali o materiali. E questo, ad ogni livello e grado d'istruzione. Altro punto: capire è più importante che sapere. Io penso che, per una vera formazione, l'uno non può fare a meno dell'altro. Ed il pasticcio è cominciato da quando, andando dietro alle correnti di pensiero pedagogico (o pseudo tale), si è sostenuto l'uno a discapito dell'altro. Ed i "digitalizzati" (consentitemi un po' di amara ironia!) sono quelli che più ne stanno pagando le conseguenze, perchè è molto facile scivolare nel tritacervelli di internet, che dice (spesso in pessima lingua!) tutto e il contrario di tutto. E per chi non sa, non è certo "dolce naufragare in questo mare"!



domenica 13 ottobre 2019

“Bang-italiese”: un linguaggio non per tutti




Da ragazzino, quando andavo a scuola, i miei temi d’italiano iniziavano sempre con “fin dai tempi antichi” o qualcosa che avesse attinenza agli stessi. La verità è che non avevo quasi mai nulla da dire e men che meno da esternare al mio professore/ssa che ritenevo lontani anni luce dal mio mondo adolescenziale e il mio modo di essere.
La scuola o la si ama fin da subito o la si vive come una sofferenza, specie se si classifica come una costrizione, una realtà che non offre stimoli e in cui non riponi nessuna stima nell’insegnante di riferimento (nello specifico di italiano e storia).
Un famoso detto siciliano recita “a squagghiata ra nivi si virinu i pirtusa”, un detto che tradotto letteralmente asserisce che “quando si scioglie la neve affiorano le buche”.
Nel mio caso, in tempi scolastici, raggiungevo facilmente la sufficienza solo nelle nelle materie scientifiche, laddove non era fondamentale cioè studiare facendo i compiti assegnati per casa; nel caso era, infatti, sufficiente assistere alla lezione del professore e a qualche interrogazione dei compagni per assimilare concetti e regole. La matematica, al riguardo, costituiva il mio punto di forza.
Casualmente accadde però di scoprire la lettura, per scelta. Il primo romanzo che ebbi modo di leggere seriamente è stato “il ritratto di Dorian Gray”, il capolavoro di Oscar Wilde. Mi fu proposto mentre frequentavo gli ultimi anni della scuola  superiore e da allora rimasi per lungo tempo abbonato al neo costituito “Club degli editori”.
Come detto, la scelta affiorava dalla mia libertà di decidere, impegnandomi in un’attività culturale libera e voluta. La lettura, prima l’avevo vissuta come una sofferenza, collegata a costrizioni didattiche, a una decisione di altri, pertanto da parte mia non c’era mai stata alcuna applicazione a voler capire veramente le opere della letteratura italiana e le discipline ad essa collegate. Tali materie mi apparivano aride e noiose, essenzialmente, perché mi venivano imposte.
Ad ogni modo si arriva infine alla maturità (scolastica per intenderci) e, come dice il detto posto a cappello, affrontando il mondo del lavoro, affiorarono a poco a poco tutte le varie pecche.
Ma l’esperienza insegna che c’è sempre il tempo per cercare di recuperare, magari arrivando in ritardo e occludendo alla “meno peggio” le buche generate dal mancato apprendimento scolastico.
I variegati percorsi lavorativi diventano quindi momenti doppiamente formativi e impari a leggere e a scrivere con cognizione. Recuperi a grandi passi, affronti colline e montagne sempre più grandi, scoprendoti uno scalatore appassionato anche di cime innevate, di quelle vette dove l’aria è rarefatta e occorre dosare al meglio il poco ossigeno prezioso.
In questo, capita pure di imbattersi a dover scrivere secondo un linguaggio codificato, magari forbito e ricercato, ma che ben presto scopri, quasi sempre, ripetitivo (molto frequentemente basato su testi rituali o affastellati con frasi assemblate e quasi sempre estrapolate da dei “precedenti” che, religiosamente raccolti  in ricche copie, venivano da ciascuno custodite come un tesoro nel proprio cassetto; come fossero dei “manuali tipo”, con tracce da modellare secondo ciascuna esigenza).
Il mio ultimo mondo lavorativo è stato questo e le mie tante esperienze mi hanno consentito di focalizzare a pieno i pregi e le debolezze dello strumentario epistolare che avevo in dotazione.
Recentissime vicissitudini conflittuali, oggi, mi hanno portato a costatare quanto, col passare degli anni, si sia cristallizzato lo strumentario comunicativo e lo scritto di quell’ambiente che da tempo ho abbandonato.
Permane, infatti, ancora forbito il linguaggio epistolare, ma anche eccessivamente verboso e l’uso di terminologie periodali, poi, alimentano loop discorsivi, i quali spesso immobilizzano nel cammino verso la faticosa ricerca di una efficace conclusione, restano in pratica solo fini a se stessi.
Il “bang-italiese” del mio tempo ora mi appare inadeguato e attempato e dimostra come si avvii a divenire pretestuoso e sempre più inconcludente. Basato su frasi ambivalenti, alimentano spesso ambiguità che rendono difficoltolo poter capire, per chi legge, la sintesi della eventuale missiva.
Un uso prolifico di frasi e affermazioni - che si basano su ovvietà o riferimenti non sempre esaustivi o appropriati - non riescono più a esprimere alcuna certezza o chiarezza nei concetti espressi, bensì evidenziano quell’autoreferenzialità persistente che è rimasta insita nei modelli standardizzati, consolidati da un immobilismo “barocco”.
Il venir meno dell’efficacia di fondamentali ruoli istituzionali hanno, forse, anche influito nell’accelerare il fenomeno della "fuga di cervelli", di certo il mancato ricambio, il depauperamento delle menti critiche o l’emarginazione e la messa in ombra delle poche ancora esistenti/resistenti nella struttura, che avrebbero forse potuto aiutare in una possibile inversione di tendenza, ha fatto il resto.
Nell’assistere di recente a un dibattimento giudiziario cui sono coinvolto ho avuto nel merito un’ulteriore conferma. 
In una discussione avuta qualche tempo fa, con qualcuno che è più esperto in materie comunicative, mi è stato fatto osservare che "il problema del linguaggio è importante, è da inserire in un contesto in cui emerge la necessità di una nuova strategia comunicativa in un mondo che anche da questo punto di vista è radicalmente cambiato."
In verità, nel mio caso, sarebbe stata sufficiente l’evanescenza rilevata nella lettura di quanto risultava depositato negli esorbitanti documenti prodotti a difesa, ma il dibattimento preliminare, se ce ne fosse stato pure bisogno, ha dato una conferma del quadro di decadenza qualitativa, sia delle strutture interne di base che del funzionario chiamato fisicamente a intervenire all'udienza, che continuava a operare ancor oggi seguendo vecchi schemi operativi per quella che è stata una "istituzione di alto prestigio".
E' acclarato non solo, quindi, che il “bang-italiese” resiste, ma che ormai domina e prospera senza confini, in un’autoreferenzialità quasi patetica, incomprensibile, infinita, decadente.

 © Essec