venerdì 31 dicembre 2010

L'anno vecchio se ne va e mai più ritornerà

Quand'ero bambino la mia nonna materna mi insegnò a recitare un'ingenua filastrocca di un autore anonimo.

Ancora oggi la ricordo perfettamente ed è con questa che voglio augurare un buon 2011 a tutti:

"L'anno vecchio se ne va e mai più ritornerà,

io gli ho dato una valigia di capricci e impertinenze,

di lezioni fatte male, di bugie e disubbedienze, e gli ho detto "porta via questa è tutta roba mia".

Anno nuovo avanti avanti,

ti fan festa tutti quanti,

tu la gioia e la salute porta ai cari genitori,

ai parenti e agli amici rendi lieti tutti i cuori,

d'esser buono ti prometto anno nuovo benedetto".

(Anonimo)

Pubblicato da Rino Porrovecchio su FB


Le bugie sono libere, le verità sono proibite

Madre Teresa di Calcutta, prima di morire, aveva deciso di ammazzare il Papa“, oppure Silvio Berlusconi ha deciso di vuotare il sacco e di confessare tutto”, questi alcuni dei titoli che si potranno leggere nei prossimi giorni se il metodo Belpietro dovesse generare imitazioni. In cosa consiste tale metodo? Si prende una voce del tipo “Fini progetta un finto attentato contro sé medesimo, oppure “Qualcuno dice che Fini va in casino” e su questi ” fatti” si costruiscono titolo e pezzi. Di fronte alle smentite basterà replicare: “Correvano voci e ci sembrava giusto riportarle”, in caso di contestazione un virile: ” Me ne frego” alla Verdini o alla Storace chiuderà la discussione.
Dal momento che odiamo, in qualsiasi forma, la via disciplinare al giornalismo non ci metteremo a invocare né l’ordine dei giornalisti, né il garante per le comunicazioni, ma il rispetto delle leggi ordinarie della repubblica va invece preteso da parte di chiunque. In tutta questa vicenda non è grave solo il metodo “Boffo”, riutilizzato nuovamente contro Fini, ma è altrettanto grave il silenzio delle istituzioni, del ministro degli interni, dei rappresentanti dei servizi di sicurezza.
Delle due l’una o il presidente Fini ha davvero pensato ad un finto attentato e allora se ne deve andare, anzi io stesso presenterei la mozione di sfiducia, oppure la notizia è inventata di sana pianta e allora siamo in presenza di una menzogna, di una calunnia, di un piano mediatico e politico per colpire gli oppositori, di una forma di nuovo squadrismo non meno insidioso di quello antico in camicia nera e manganello in pugno.
Sarà davvero il caso che le opposizioni unite, almeno per una volta, chiedano a Maroni di ritrovare la voce, di far sapere alla pubblica opinione quanto sa sul complotto ordito da Fini contro Berlusconi e a quali informative riservate faccia riferimento Belpietro, a meno che i rapporti di polizia non arrivino prima al direttore e poi forse al ministro.
Naturalmente sarebbe anche il caso che il presidente Berlusconi si decidesse, come prevede la legge, a presentarsi al Copasir e a rispondere alle domande dei commissari relative proprio alla sicurezza nazionale e ai suoi singolari comportamenti, in Italia e all’estero.
Ci fa piacere, infine, notare il silenzio, non imbarazzato ma entusiastico, con il quale i mazzieri del conflitto di interessi hanno accompagnato l’ultimo assalto a Fini. Sono gli stessi che tuonarono, sbavarono, minacciarono, quando alcuni giornali, e tra questi in prima linea Il Fatto quotidiano, si permisero di rivolgere alcune argomentate domande a Berlusconi, oppure dedicarono la loro attenzione al presidente del senato Schifani. In questi casi, tuttavia, i cronisti non si limitarono a riportare voci raccolte nei corridoi, ma pubblicarono testi di intercettazioni, indagini della magistratura, riscontri dettagliati di incontri, scambi di favori, richieste di voti, tragiche esibizioni nelle aule dei parlamenti europei ed italiani.
In questi casi furono invocate dalla destra dell’olio di ricino bavagli e leggi eccezionali; ci fa piacere annotare che hanno cambiato idea, siamo sicuri che manterranno lo stesso atteggiamento quando su WikiLeaks o altrove saranno pubblicati non pettegolezzi, ma nuovi fatti incontrovertibili, argomentati,non smentibili.
Conoscendoli è assai probabile che, ovviamente in nome della libertà di informazione, predisporranno un decreto di urgenza per l’abolizione dei fatti in quanto tali.
Il nuovo motto del post giornalismo sarà: le bugie sono libere, le verità sono proibite.

Beppe Giulietti (Il Fatto Quotidiano - 31 dicembre 2010)

In Norvegia, una volta ho noleggiato un'auto.

In Norvegia, una volta ho noleggiato un'auto. E mi sono reso subito conto che lì il limite di velocità viene rispettato in modo pedissequo. Mi spiego: i norvegesi sono pochi. Quando percorri le strade, incontri un'altra auto ogni tanto. Ogni tanto vuol dire anche ogni quaranta minuti. Questa auto sta andando a cinquanta all'ora, se il limite è sessanta. Percorri molti altri chilometri, superi una curva, e vedi un'altra auto sola che (giustamente) procede pianissimo, rispetto al limite di velocità.
E allora, mentre apprezzavo sinceramente il loro livello di civiltà, altrettanto sinceramente ho scalato la marcia, ho messo la freccia e ho cominciato un unico, lunghissimo, infinito sorpasso che è talmente fuori dalla capacità di percezione degli scandinavi che dopo un paio d'ore davanti a me non c'era più nessuno.
Avevo sorpassato tutte le auto che percorrevano l'intera Norvegia quel giorno. Davanti a me non c'era nessuno, più nulla, solo io. Ero il primo fra tutti i conducenti di auto in Norvegia.
A quel punto ho accelerato, perchè per un momento mi è apparsa nella testa un'ipotesi che mi rendeva raggiante - era solo un'ipotesi, ma valeva la pena provarci: correre di più, e ancora, perchè se avessi corso così, in fondo alla strada, a un certo punto, ho pensato che sarebbe stato possibile veder apparire le auto norvegesi del giorno prima.

Francesco Piccolo (Momenti di trascurabile felicità - 2010 - Einaudi)

L’indirizzo di casa diventa virtuale. Arriva la casella ecologica, senza carta e postini

Abolire la posta tradizionale per salvare le foreste. Se il nostro indirizzo di casa fosse sostituito da un omologo virtuale, il mittente risparmierebbe carta, soldi e francobolli senza rischiare che il messaggio arrivi in ritardo o, peggio ancora, non giunga a destinazione. E anche in caso di calamità naturale, quando vie e abitazioni sono difficili da raggiungere, la posta non andrebbe smarrita. Marco Pellegrini, 45 anni e professionista ict (Information and Communication Technology) ha creato EcoPost.org, la piattaforma che consente agli iscritti di fare a meno di postini e buste.
Oggi il sistema è ancora in fase beta, sta raccogliendo le segnalazioni degli utenti per migliorare il servizio e registra accessi in aumento (per questo, in attesa di server che possano reggere il traffico, chi naviga ha solo 10 tentativi per registrarsi). “Abbiamo dato una casella di posta elettronica ad ogni indirizzo geografico stradale del mondo”, si legge sul sito. Basta localizzare la propria abitazione sulla mappa per creare la relativa mail EcoPost (nazione.regione.provincia.comune.via.civico@EcoPost.org), dove arriveranno i messaggi. La casella, proprio come quella reale, è solo ricevente e chi vuole inviare posta, conoscendo già città e via, non deve fare altro che spedire una email all’indirizzo virtuale corrispondente. Nel caso in cui il destinatario non l’avesse ancora attivato il mittente sarà avvisato e nessuna comunicazione digitale andrà persa.
Il vantaggio rispetto all’email tradizionale è che chiunque, per esempio un’amministrazione pubblica, potrà raggiungere il destinatario attraverso un dato già conosciuto e pubblico, cioè l’indirizzo di casa. “La riservatezza così è garantita”, spiega Pellegrini. “Il servizio è gratuito. Le macchine smistano la posta, noi ci limitiamo a controllare che tutto funzioni correttamente. EcoPost è nato per tutelare l’ambiente, riducendo il consumo di carta ed evitando l’uso dell’inchiostro. La tecnologia infatti ci consente di trasferire informazioni risparmiando sulle emissioni di Co2”. EcoPost può essere utile anche in caso di catastrofi naturali: “Quando le abitazioni vengono spazzate via, come nel caso del terremoto in Abruzzo o dell’alluvione in Veneto, i residenti possono continuare a ricevere la posta, basta avere un accesso a Internet. E la puntualità delle comunicazioni, soprattutto nelle situazioni di emergenza, è un fattore chiave della velocità di ripristino della normalità”.
Visto che lettere e raccomandate sono solo la punta dell’iceberg dell’universo cartaceo, Pellegrini ha già in mente modifiche che consentiranno di associare la casella virtuale a codice fiscale, patente o passaporto. Utopia difficile da realizzare? Niente affatto: “Troviamo esempi nella vita di tutti i giorni”, prosegue. “Un cittadino potrà registrare la sua carta di identità su EcoPost con il numero che la identifica, e lì ricevere gli avvisi del Comune. E ancora: ogni auto è identificata da una targa e tra pochi anni l’assicurazione invierà un messaggio direttamente sul cruscotto del guidatore. Lo stesso avverrà per le multe o le notifiche di revisione. E’ solo questione di tempo, ma il paradigma si applicherà a tutti gli oggetti che siamo soliti usare quotidianamente”. Quindi dobbiamo dire addio al vecchio indirizzo postale e al piacere di ricevere, qualche volta, lettere ‘tradizionali’? “L’indirizzo tradizionale esisterà sempre”, precisa Pellegrini, “ma sarà sempre meno conveniente usarlo. Per questo oggi si impone il salto definitivo: per comunicare non serve più la carta che è inefficiente e lenta, oltre che dannosa per l’ambiente”.

Eleonora Bianchini (Il Fatto Quotidiano - 31 dicembre 2010)

mercoledì 29 dicembre 2010

Sono morti o non residenti ma hanno il pass per disabili

Undicimila morti muniti di pass. Quasi la metà dei tagliandi "H" per portatori di handicap erano intestati a persone decedute o emigrate in altri comuni. "Morti viventi" che hanno continuato a usufruire dei vantaggi legati al tagliando giallo e che, quasi sempre, beneficiavano anche di un posto riservato sotto casa.
La polizia municipale - che ha avviato le indagini - è rimasta sbalordita: sui 25 mila pass "H" rilasciati dal Comune ben 11 mila erano intestati a persone che non ne avevano più diritto. "Non avremmo mai potuto immaginare che il fenomeno fosse così esteso", dicono da via Dogali. Tutto è cominciato a marzo, quando la polizia municipale insieme con l'ufficio "H" del Comune ha avviato un monitoraggio sui titolari di pass ultra-ottantenni: il 44 per cento dei 7.474 possessori di pass nati prima del 31 dicembre del 1930, 3.271 persone, risultava deceduto. Ce n'era abbastanza per avviare una indagine più dettagliata: così la squadra coordinata dai commissari Stefano Valerio Catania e Loredana Ravì ha deciso di andare fino in fondo avviando una verifica su tutti i 25 mila pass rilasciati negli anni dall'ufficio "H". Per la prima volta gli uffici comunali Anagrafe e "H" si sono seduti a uno stesso tavolo per avviare una verifica incrociata sull'intero database: la sorpresa è stata grande. Quasi la metà dei tagliandi continuava a essere utilizzata senza alcun titolo. "Nella maggior parte dei casi - spiegano gli agenti di via Dogali Catania e Ravì - si trattava di pass intestati a persone morte. In alcuni casi, però, abbiamo trovato tagliandi intestati a persone che risiedono fuori città o che non avevano ottenuto il via libera per il rinnovo".
Gli eredi di un titolare di pass deceduto dovrebbero riconsegnare il tagliando all'ufficio "H", ma in pochissimi finora lo hanno fatto, contando sugli scarsi controlli dell'amministrazione. Così i permessi hanno continuato a stare in bella mostra sui cruscotti permettendo a chi era alla guida di parcheggiare gratis sulle strisce blu e sugli stalli di sosta riservati, ma anche di infischiarsene dei provvedimenti antismog e - quasi sempre - di usufruire di un parcheggio assegnato sotto casa.
Adesso le indagini sono diventate più stringenti, come spiega Catania: "Appurato che 11 mila dei 25 mila pass erano intestati a persone che non ne avevano più diritto, abbiamo innanzitutto cancellato i nomi dall'elenco. Adesso stiamo scrivendo agli eredi dei titolari dei contrassegni per chiedere che restituiscano i tagliandi". Chi non lo farà rischia una denuncia per truffa, qualora il pass venga trovato ancora sul cruscotto di un'automobile. Ma l'amministrazione - su input della polizia municipale - sta lavorando anche a un regolamento che metta nero su bianco le responsabilità degli eredi prevedendo multe da 500 euro per chi non riconsegna il pass di un defunto.
"Quello che abbiamo scoperto ci ha sorpreso ma sapevamo che per un problema di organizzazione il database dei possessori di pass era viziato - dice il comandante della polizia municipale Serafino Di Peri - abbiamo cercato, con la collaborazione degli uffici, di mettere ordine nella materia e di evitare o perlomeno ridurre gli abusi. In un anno i titolari di pass sono passati da 25 mila a 14 mila".
Adesso la polizia municipale si sta concentrando sui parcheggi riservati sotto casa: verificando innanzitutto se sotto le residenze degli undicimila "morti viventi" ci siano stalli di sosta. "Ne abbiamo già rimossi, insieme con l'ufficio Traffico, oltre un centinaio", dice ancora Di Peri.
L'altra piaga - più difficile da estirpare - è quella dei falsi: in giro - assicurano i vigili urbani - ci sono migliaia di pass "H" fotocopiati o scannerizzati e utilizzati da parenti o amici del titolare. "In questo caso - spiega Di Peri - per chi viene beccato viene denunciato per truffa e per contraffazione".
I vigili urbani grazie ai controlli degli ausiliari del traffico Amat lavorano anche per stanare chi falsifica i pass per le zone blu. Nei mesi scorsi sono stati denunciati 43 "colletti bianchi", direttori di banca, architetti e pubblicitari. Parcheggiavano tutti sulle zone blu con i tagliandi contraffatti. Ma la polizia municipale ha beccato anche la segretaria di un assessore comunale e il figlio dell'ex assessore Giuseppe Scalzo denunciato perché possedeva le chiavi di una macchina parcheggiata sulle strisce blu, proprio sotto casa dell'assessore, con un pass falsificato.

Sara Scarafia (La Repubblica: Palermo - 29 dicembre 2010)

martedì 28 dicembre 2010

E io mi sento, in qualche modo incomprensibile, sollevato.

Nelle pagine romane del quotidiano, il mercoledì o a volte anche prima, vedo l'annuncio di un film che aspettavo. C'è scritto "da venerdì". Chiudo il giornale sapendo che da venerdì comincerà un segmento di tempo dentro cui una sera, presto, andrò a vederlo. Non so ancora dove, quando. Ma ci andrò.
Poi arriva il venerdì, e passa. Il primo fine settimana non se ne parla. Altrimenti anche il sapore dell'attesa durerebbe poco; e poi il primo fine settimana ci vanno tutti.
Aspetto.
Dalla settimana successiva, ogni giorno studio le sale e gli orari, il cinema più vicino o quello che mi piace di più, valuto la sala ma anche la strada, e se devo dirla tutta anche il marciapiede dove all'uscita chiederò a qualcuno una sigaretta e la fumerò con un piacere lento, ripensando ad alcuni dialoghi del film. Finirò per scegliere anche il marciapiede dove lascerò il mozzicone della mia sigaretta dopo il film. Penso di andarci da solo al primo spettacolo, oppure conh qualcuno alle otto e mezza di sera, anzi - meglio - penso di uscire di casa dopo cena e chiedere a un amico di arrivare un pò prima e passeggiare intorno all'isolato e poi entrare all'ultimo spettacolo.
E aspetto. Aspetto. Dico: ci vado la prossima settimana.
Settimana dopo settimana vedo le sale che cambiano, che si riducono; e so che il prossimo giovedì tremerò perchè da domani forse non c'è più, il film. E poi c'è, per fortuna, ma spostato in una sala piccola o periferica, come in un'agonia lenta, che non termina perchè sta aspettando me. E' più difficile, adesso, più lontano, più complesso; più arduo trovare qualcuno che non l'abbia ancora visto.
Solo a questo punto comincia a sedurmi un'idea nuova, maliziosa, e nell'attimo in cui la penso, decido, con coscienza, di metterla senz'altro in pratica - una cosa insensata ma alla quale non so resistere.
Non ci andrò.
Scalpiterò l'ultimo giorno, un giovedì, sapendo che da domani scomparirà, telefonerò a tutti quelli che conosco dicendo che forse bisognerebbe proprio andarci perchè è l'ultimo giorno; ma avendo una buona scusa per dire che non ce la faccio in tempo, se qualcuno dovesse poi essere realmente disponibile.
E poi lo faccio andare via, quel film che volevo assolutamente vedere; non potevo perderlo e me lo perdo, e da domani dirò che me lo sono perso, che mi dispiace. Il venerdì apro il giornale, scorro tutte le sale, e davvero non c'è più, è scomparso.
E io mi sento, in qualche modo incomprensibile, sollevato.

Francesco Piccolo (Momenti di trascurabile felicità - 2010 - Einaudi)

lunedì 27 dicembre 2010

Passaparola: "Le bande dei mona"

Testo:
Buongiorno a tutti, questo è uno dei due passaparola che abbiamo registrato prima di Natale e quindi mentre vi sto parlando non so quale sarà la situazione nel lunedì in cui questo passaparola va in onda, vorrei però approfittarne per fare memoria, su un fatto tragicomico.
La sicurezza della Lega - Sappiamo benissimo tutte le polemiche che sono state fatte sulla sicurezza, violenze di piazza, proposte più o meno repressive per arginare il ritorno agli anni di piombo etc., è una buona cosa che si sappia che questo governo ha, un paio di mesi fa, depenalizzato il reato di associazione militare con finalità politiche, la cosiddetta banda armata, direte: sono impazziti?
No, non sono impazziti, c’è un processo a Verona per questo reato contro una trentina di attivisti e dirigenti leghisti che coinvolgeva inizialmente i massimi vertici della Lega per avere fondato 14 anni fa le Camice verdi, un’organizzazione paramilitare, con finalità politiche, completamente illegale visto che non si possono creare bande armate a sostegno di questo o quel partito, milizie private a sostegno di questo o quel partito e quindi l’allora Procuratore Papalia avviò questo processo, processo che ne ha viste di tutti i colori per cercare di salvare i leghisti beccati con il sorcio in bocca in intercettazioni etc. a parlare di armi e di organizzazione militare, gli eventi di contrasto contro lo Stato che pretendeva addirittura di tutelare la propria unità contro la secessione vaneggiata da questi squilibrati!
Non sapendo più come salvare i loro attivisti dalle conseguenze penali di questa milizia, la Lega ha costretto il Governo a depenalizzare il reato di cui questi signori erano accusati e lo ha fatto con la frode, ragione per cui, si spera, che presto il Parlamento voterà la mozione di sfiducia che è stata sollevata dall’Italia dei valori, contro il Ministro Calderoli che si è segnalato per un notevole attivismo in questo senso, quindi dobbiamo sapere che questo governo che a parole dice da contrastare la violenza, ha depenalizzato uno dei reati chiave per punire la violenza di chi si organizza in armi per fare violenza a scopo politico.
Per salvare sé stessi hanno disarmato lo Stato di uno strumento giuridico, penale fondamentale per reprimere eventuali fenomeni di questo genere.
Partiamo dall’inizio, il 9 ottobre è entrato in vigore il Decreto Omnibus (perché dentro c’era di tutto) che contiene il nuovo codice dell’ordinamento militare, è il Decreto Legge 15 marzo 2010 N. 66 che è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’8 maggio, con il titolo “Codice dell’ordinamento militare, in questo decreto ci sono 2272 articoli, più sono meno i parlamentari quando devono approvarli in due minuti possono verificare cosa stanno facendo, come si fa a leggere e a capire 2272 articoli? Uno degli ultimi, l’articolo 2268 ha centinaia di commi, il comma 297 dell’Art. 2268 di questo decreto, abolisce un altro decreto che era stato varato nel febbraio 1948 alla vigilia delle famose elezioni del 1948, fronte popolare contro Democrazia Cristiana e i suoi alleati, momento di altissima tensione, erano le prime elezioni politiche dopo la Costituente. Il Decreto quindi che viene abolito è il Decreto 14 febbraio 1948 N. 43 e era il Decreto che puniva con il carcere da 1 a 10 anni chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni di carattere militare, le quali perseguono anche indirettamente scopi politici e si organizzano per compiere azioni di violenza o minaccia.
Il trucco l’avete capito, si fa un provvedimento che abroga una miriade di vecchie norme, anche spesso inutili, e che viene usato per nascondere, camuffare la depenalizzazione di un grave reato che è purtroppo attualissimo, il Capo dello Stato ha regolarmente firmato questo Decreto e di chi è l’idea? Ufficialmente il nuovo codice dell’ordinamento militare, è responsabilità del Ministro della Difesa, La Russa, ma può La Russa pensare di depenalizzare il reato di banda armata di fatto? No, non è stato lui, a attivarsi in questo senso è il Ministro della semplificazione normativa leghista Roberto Calderoli, cosa gli è venuto in mente a questi che sollevano sempre allarmi sulla rinascita del terrorismo, di depenalizzare le bande militari e paramilitari di stampo politico? Quello che vi dicevo prima, l’esistenza di questo processo che è in corso di 14 anni a Verona, a carico di politici, dirigenti e attivisti della Lega del Piemonte, della Liguria, della Lombardia e del Veneto e dal 1996 sono accusati di avere organizzato una formazione paramilitare, la guardia nazionale padana, quella che si vestiva con le camice verdi, i guardiani della secessione, nelle intercettazioni si sentono questi signori, compreso Bossi, parlare di armi. Il processo fino a qualche mese fa vedeva imputati anche Bossi, Maroni, Borghezio, Speroni, tutti parlamentari italiani o europei e 5 alti dirigenti della Lega in aggiunta a quelli che ho citato che nel 1996 erano parlamentari, tra questi Calderoli.
All’inizio i capi di imputazione formulati dal Procuratore Guido Papalia erano 3: attentato alla Costituzione, attentato all’unità e integrità dello Stato, costituzione di una struttura paramilitare fuori legge in virtù di quel Decreto.
Ma i primi due reati con un’altra legge ad legam, sono già stati di fatto depenalizzati nel 2005, sono stati modificati e quindi l’attentato alla Costituzione e l’attentato all’unità e integrità dello Stato sono reati soltanto quando concretamente viene usata la violenza, mentre quando uno si propone di fare queste cose, ma non ha ancora messo in campo comportamenti violenti, non è più reato e quindi i due reati, il primo e il secondo contestati da Papalia sono stati cancellati dal Parlamento per salvare gli imputati di questo processo nel 2005, uno degli ultimi atti del Governo Berlusconi 2.
Restava in piedi il terzo, quello di costituzione di una formazione paramilitare con scopi politici fuori legge e è proprio il reato che viene depenalizzato con il decreto di maggio che è entrato in vigore a ottobre, il Decreto La Russa – Calderoli. I leader leghisti rinviati a giudizio, i Bossi, i Maroni etc. erano già stati salvati dal processo perché il Parlamento li aveva protetti con insindacabilità parlamentare, sostenendo che persino il reato di banda armata, attentato alla Costituzione, all’integrità e un’unità dello Stato, fossero coperti dal diritto dei parlamentari di esprimere le loro opinioni, come se l’organizzazione di una banda paramilitare fosse un’opinione.
E’ un reato che salva le opinioni dei parlamentari e che in realtà l’istituto dell’insindacabilità nasce per difendere le opinioni dei parlamentari e invece è stato applicato, abusandone, per salvarsi dalle conseguenze di avere fondato o cofondato una banda armata, ok? Quindi improcessabili per grazia ricevuta del Parlamento.
Papalia è ricorso alla Corte Costituzionale facendo due conflitti di attribuzione contro il Parlamento che aveva impedito che venissero processati questi parlamentari, ma non è riuscito a ottenere ragione, a quel punto sono rimasti gli altri imputati, quelli che non avevano avuto la prontezza di rifugiarsi in Parlamento per farsi proteggere dai loro colleghi che erano comunque 36, tra i quali anche Giampaolo Gobbo, segretario della Lega Veneta e Sindaco di Treviso e il Deputato Matteo Bragantini che era arrivato dopo in Parlamento e che quindi quando i reati secondo i PM erano stati commessi, non era ancora parlamentare.
Ma a ottobre nella prima udienza del processo davanti al Tribunale di Verona, dopo tutto quell’andirivieni di conflitti, attribuzioni etc., gli avvocati dei leghisti si sono alzati e hanno detto ai giudici: ma lo sapete che il reato non c’è più? Anche il reato di formazione paramilitare fuori legge è stato appena cancellato dal Decreto voluto da Calderoli, da uno degli ex imputati di questo processo, i giudici allibiti non se ne erano neanche accorti che era passato dal decreto con tutte quelle norme, quindi sono andati a verificare e hanno scoperto che era vero e quindi ne hanno preso atto e hanno rinviato il dibattimento in attesa di dichiarare praticamente chiuso perché è sparito il reato, l’ultimo anche dopo gli altri due, grazie all’ennesima legge ad legam.
Esce un pezzo su Il Fatto Quotidiano, lo scrivo io a ottobre, panico, il governo si accorge di avere depenalizzato un reato così grave, La Russa tramite gli uffici del suo Ministero fa sapere che è stato un errore materiale, sapete che quando c’è un errore materiale in un decreto può essere corretto con una procedura breve, non è che bisogna rifare tutto l’iter parlamentare, ma dal Ministero della semplificazione normativa arriva l’alto là, si dice: no, non è stato un errore, era voluto, naturalmente Calderoli non dice: l’ho voluto io, altrimenti si capirebbe perché l’hanno fatto, dice: questo suggerimento di cancellare questo decreto e quindi questo reato, ci è arrivato da una Commissione ministeriale che era stata istituita a suo tempo per riformare il Codice dell’ordinamento militare dal governo Prodi, è il solito discorso, è colpa del governo precedente, sono loro che ci hanno detto: cancellate quella norma e noi l’abbiamo cancellata, ma i responsabili di quella Commissione, tra cui un generale fanno sapere che non è vero niente, loro non avevano affatto detto di cancellare quella norma, sono stati gli uffici di Calderoli a aggiungerla, quindi non si provassero a dare la colpa alla Commissione istituita dal Governo Prodi perché l’hanno fatto loro surrettiziamente, cercando poi di attribuirlo a quella Commissione.
Calderoli mente al suo stesso governo - Noi siamo di fronte a un governo che è stato raggirato, se tutte le cose che ci siamo detti sono vere. E secondo l’Italia dei valori che ha sollecitato e ha aperto la richiesta di sfiducia individuale del Ministro Calderoli, quest’ultimo ha mentito al Parlamento e al suo governo, addirittura, impedendo che venisse corretto quello che era talmente assurdo da far pensare a un errore materiale.Sostenendo che invece non era un errore materiale ma era giusto fare così e che a fare così era stato indotto da una Commissione, mentre in realtà quella Commissione non l’aveva indotto, era stato lui a prendere l’iniziativa, e sappiamo con quali conseguenze il salvataggio dei 36 imputati a Verona. Adesso bisognerà vedere quando viene fissata la votazione e la discussione in Parlamento della sfiducia individuale a Calderoli, perché quest’ultimo ha già detto: se ci fossero le prove che ho mentito al Parlamento me ne andrei io per primo, la posta in gioco l’ha sintetizzata Massimo ?Donadi?, capogruppo dell’Italia dei Valori alla Camera che ha fatto degli accertamenti sull’iter di questo strano codicillo che è stato aggiunto all’ultimo momento nel Decreto sull’ordinamento militare e che è molto interessante, soprattutto in questo periodo in cui il Governo fa la faccia feroce e finge di essere il tutore dell’ordine pubblico.
Donadi ha scritto una lettera al Presidente della Camera Fini che è stata pubblicata da Il Fatto Quotidiano che aveva tirato fuori per primo questa depenalizzazione di questo reato innescando poi tutto quello che è successo dopo, sono cose gravissime, non le avete mai sentite raccontare in televisione, sui giornali etc., ma sono cose gravissime, proprio per questo non ve le hanno raccontate! “Gentile Presidente fini – le è ben noto, scrive Donadi – che a ottobre è stata illegittimamente abrogato il reato di associazione militare con scopi politici e che di questo ritengo essere responsabile il Ministro per la semplificazione normativa – Calderoli – il Ministro che ci accusava di averlo attaccato ingiustamente, le ha scritto in una lettera che mentire al Parlamento è un fatto di tale gravità e se mai lo avesse fatto si sarebbe prontamente dimesso. Nel corso della discussione sulla mozione il Ministro ha mostrato il testo di uno schema di Decreto Legislativo, affermando che si trattava del “testo prodotto dal Comitato scientifico, la Commissione istituita da Prodi, inviato alle concertazioni interministeriali con lettera dell’aprile 2009 e che già riporta il Decreto Legislativo del 1948 tra quelli da abrogare, colpa del Comitato Prodi”. Ciò appare in netto e inconciliabile contrasto sia con la lettera inviata a me e allo stesso Ministro dal Magistrato che ha presieduto il Comitato scientifico - il quale dice: noi non abbiamo mai fatto niente di tutto questo – sia con un’altra lettera datata 6 ottobre inviata dallo stesso magistrato al Ministero per la semplificazione e al Ministero della difesa, in cui c’è scritto “il Comitato ha chiuso i lavori di collazione dell’intero corpus normativo, in vista della consegna al Signor Ministro della Difesa prevista per il successivo lunedì 30 marzo 2009, alla data di sabato 28 marzo, hanno chiuso i lavori di assemblaggio di queste norme che mandavano al Ministero perché fossero abrogate o modificate alle 21,30 del 28 marzo 2009, dopo avere scrupolosamente controllato quale ultimo adempimento l’elenco delle fonti abrogate e che a quella data l’abrogazione in questione non era presente in alcun modo negli schemi.
Già da queste due lettere emerge che o ha mentito il Ministero, o hanno mentito un magistrato del Consiglio di Stato che presiedeva quel Comitato scientifico e altri 4 magistrati di quel Comitato scientifico che non hanno mai smentito le affermazioni del Presidente della Commissione tecnica che dice “noi non abbiamo mai indicato quella norma tra quelle da abrogare”. Ci sono tuttavia altri documenti in grado di dimostrare che il testo dello schema di Decreto Legislativo che il Ministro Calderoli ha fornito ai deputati, è falso, la prova di ciò si trova nei 3 seguenti documenti protocollati presso il Ministero della difesa: 1) il verbale della riunione plenaria e del Comitato scientifico insieme con i tecnici del Ministero coinvolti, 18 febbraio 2009, nella quale si è deciso il calendario futuro delle riunioni del Comitato; 2) il verbale della riunione plenaria svoltasi dal 26 al 28 marzo 2009, nel corso della quale si è proceduto al controllo formale delle norme primarie abrogate e si è chiusa la bozza dello schema da consegnare al Ministero - non c’è l’abrogazione del decreto del 1948 -; 3) il file informatico sorgente contenente la bozza dello schema su cui ha lavorato il Comitato scientifico che è un file legale che conserva le tracce delle modifiche che si sono succedute, delle persone che le hanno apportate e dell’ora in cui sono state fatte, in questi documenti vi è la prova che il Ministro per la semplificazione normativa, Calderoli, ha mentito al Parlamento italiano e che sua è la responsabilità dell’illegittima abrogazione del reato di associazione militare con scopi politici. Ritengo che il Ministro per la semplificazione normativa debba mettere a disposizione del Parlamento i documenti che ho indicato per permettergli di valutare i fatti nella loro successione e completezza.
Le ho scritto questa lettera con grande rammarico per la gravità che i fatti accaduti hanno per le istituzioni democratiche e ho fiducia che questa vicenda, per l’importanza che riveste non venga ridotta a una mera polemica politica strumentale, mi auguro che in tutti sia forte il senso dello Stato e della difesa delle istituzioni”.
A questo punto o Donadi sta mentendo o i 5 magistrati del Comitato scientifico hanno mentito o gli uomini del Ministero della Difesa hanno mentito dicendo: noi non abbiamo proposto niente del genere, oppure noi non sapevamo niente del genere è stato un errore materiale e allora si devono dimettere il Ministro La Russa, Donadi, bisogna cacciare questi magistrati contabili che hanno formato la Commissione del Governo Prodi, oppure ha mentito Calderoli, nel qual caso se ne deve andare non dal governo, dalla politica, deve sparire perché un Ministro che mente al Parlamento presentando carte false, non può semplicemente lasciare il governo, deve lasciare la politica, secondo voi così a naso chi ha mentito? E perché l’informazione non parla di questo scandalo che se è possibile, è ancora più grave di tanti altri scandali che occupano le pagine dei giornali? Mistero ma noi di Passaparola, noi de Il Fatto, del blog di Beppe Grillo serviamo a questo, a dare le notizie che gli altri non danno e quindi sappiate che tutti quelli che pontificano, contro il ritorno agli anni 70 hanno abolito un reato fondamentale per punire eventuali comportamenti tipo anni 70, quelli che loro evocano continuamente, vogliono la galera per gli studenti e hanno abolito la galera per le bande paramilitari, per salvare dalla galera i loro amichetti della Guardia nazionale padana e questo è sicuro, chi ha mentito lo deciderà il Parlamento e speriamo che quando verrà scovato chi ha mentito, venga cacciato dal governo e dal Parlamento.
Leggeteci ancora su Il Fatto, buone feste ancora una volta, vi ricordo che c'è la possibilità fino all'Epifania di regalare a qualche amico un abbonamento de Il Fatto e essendo un abbonato che regala un altro abbonamento al suo amico, per il secondo abbonamento ci sono forti sconti sul sito de Il Fatto trovate tutto, passate parola e buon inizio di anno!

AGGIORNAMENTO.
Dopo la registrazione del Passaparola, il 22 dicembre la Camera dei deputati ha votato la mozione di sfiducia proposta dall'Idv contro il ministro Calderoli per lo scandalo della depenalizzazione del reato di associazione paramilitare con finalità politiche. E l'ha respinta grazie ai voti di Pdl e Lega, alle astensioni di Fli, Udc e dei 6 radicali eletti col Pd, ma anche grazie alle abbondanti assenze tra le file del Pd.
Tutti presenti i deputati della Lega (100%) e dell’Idv (100%), quasi tutti quelli del PdL (91,4%), mentre il Pd schierava solo l’82,9%, con ben 35 assenti. Eccoli: Bersani, Bobba, Bossa, Bressa, Bucchino, Causi, Cavallaro, D'Alema, De Micheli, De Torre, Duilio, Fadda, Fedi (malato), Ferrari, Fioroni, Garavini, Garofani, Gentiloni, Ginoble, Grassi, Letta Enrico, Lulli, Marini Cesare, Marroccu, Mastromauro, Mecacci, Melandri, Merloni, Mogherini (ha appena partorito), Nicolais, Piccolo, Pizzetti, Rigoni, Sanga. Altri 5 del Pd, quelli provenienti dal Partito radicale, han fatto di peggio e si sono astenuti insieme al Terzo Polo: Beltrandi, Bernardini, Coscioni, Turco, Zamparutti.
Risultato finale: presenti 545, votanti 481, astenuti 64, maggioranza 241, favorevoli (alla sfiducia) 188, contrari 293. Mozione respinta, Calderoli salvo.

Marco Travaglio (Passaparola del 27 dicembre 2010)

"Fil.M.ignotae"

"Mignotta" è una parola usata specialmente a Roma e di lì diffusa nel resto dell'Italia, ma si tratta di un termine di origine latina, un retaggio ecclesiastico: quando una donna voleva disfarsi della prole illegittima la andava a depositare sulla ruota del convento che si sarebbe preso cura dell'infante esposto alla pubblica carità affinchè qualcuno lo allevasse. Questa è l'origine di cognomi come Esposito, Degli Esposti e simili.
Nei registri ecclesiastici questi bambini erano indicati ciascuno come filius matris ignotae, figlio di madre ignota, semplificato nella forma abbreviata "Fil.M.ignotae", da cui "figlio di una mignotta". Per conseguenza deduttiva la "mignotta", una madre ignota come il milite dell'altare della patria dal corpo non identificato.
I bambini allevati nelle istituzioni caritatevoli simili a prigioni e conventi non erano particolarmente felici e disciplinati e si comportavano da figli di una mignotta.
Del resto la parola corrispondente in lingua, e cioè "puttana", deriva da "puta", che vuol dire semplicemente femmina: come dire che la donna per sua natura è mignotta, ma per fortuna questa sua inclinazione è temperata e corretta da una serie di istituzioni, convenzioni culturali, punizioni che permettono di limitare i danni che la natura innata della donna porterebbe in sè.

Paolo Guzzanti (Mignottocrazia: La sera andavamo a ministre - 2010 - Aliberti Editore)

Incitatus


Nel 38 dopo Cristo l'imperatore Caligola fu aggredito dalle febbri maligne. Sembrava che dovesse morire, ma sopravvisse. Però gli partì la brocca, ovvero impazzì e a contromisura del Senato ostile, e per mostrare quanto disprezzo avesse per i lacci e lacciuncoli di quell'assemblea, nominò il suo cavallo Incitatus. Fu il primo caso di cooptazione in un organo costituzionale di un essere vivente scelto per le sue caratteristiche fisiche (essere un cavallo, in questo caso) piuttosto che per le sue qualità politiche. Incitatus tuttavia se la cavò discretamente benchè scagazzasse fra scranni e laticlavi.

Paolo Guzzanti (Mignottocrazia: La sera andavamo a ministre - 2010 - Aliberti Editore)


domenica 26 dicembre 2010

Le emozioni, i dubbi, la rabbia Facebook studia il suo popolo

I giovanissimi sono i più irrequieti, con l'età si tende a parlare degli altri e pensare alla famiglia. I pensieri positivi sono molto apprezzati, quelli negativi i più discussi e commentati. Ecco cosa emerge dall'analisi dei messaggi che gli utenti del social network pubblicano sulla loro bacheca

Un milione di pensieri degli utenti passati al setaccio, tra la popolazione di madrelingua inglese. Questa la via scelta da Facebook per provare a disegnare una mappa sociale basata sulle emozioni e gli stati d'animo, attraverso l'analisi dei messaggi di "status" lasciati dagli utenti. Ne viene fuori un quadro complesso che dipinge le correlazioni tra età e sensazioni condivise, pensieri e parole, argomenti che diventano importanti in orari ben precisi. Che delinea un livello di interazione tra individui finora inedito e che esiste perché esiste lo spazio virtuale del social network.

L'analisi. Facebook ha analizzato la correlazione tra età, argomenti e linguaggio utilizzato per esprimerli. E la linea tracciata dai risultati è chiara: i messaggi con contenuti positivi, spiritosi, ironici, raccolgono molti "mi piace": gli utenti cliccano volentieri sul pulsante di apprezzamento, un'approvazione silenziosa in termini di parole ma che crea comunque un volume di interesse. Se invece i messaggi sono di tendenza negativa, pensierosa o più articolata, gli utenti/amici di chi l'ha scritto tendono a commentare ed esprimere più dettagliatamente il loro punto di vista sull'argomento. Mal comune mezzo gaudio insomma, ma in questo comportamento si può leggere una strutturazione più complessa della risposta sociale: ti rispondo per aiutarti, ma anche per aiutarmi e per vedere se qualcun altro scriverà qualcosa che potrà aiutare anche me. Insomma, la "rete sociale" nella sua realizzazione ideale.

Età e orari. Dal punto di vista dell'età, secondo i dati sono gli utenti più giovani quelli più arrabbiati, e focalizzati sulla propria persona. Nei loro messaggi ci sono più emozioni negative e parolacce rispetto a quelli degli utenti più adulti, che invece tendono a privilegiare argomenti come la famiglia, il lavoro e le vite degli altri: più si sale con l'età, più i pronomi si spostano dalla prime persone alla seconde. L'ora del giorno in cui si accede al network incide anche sulla scelta di argomenti e parole. A notte fonda, verso le 4, l'argomento più gettonato è naturalmente il sonno, mentre il lavoro è ciò di cui si parla prima di andare in ufficio. Quando il cielo è buio, intorno all'una di notte, arrivano le emozioni più negative, mentre all'alba, intorno alle sette, i commenti sono positivi e riflettono l'arrivo della luce. La linea emotiva dei pensieri accompagna infatti l'arco solare, iniziando positiva e esprimendo più negatività mano a mano che il sole tramonta.

Un quadro vivente. Con questa analisi, Facebook ha realizzato un'istantanea animata del campione sociale preso in oggetto, che probabilmente alla luce dei modelli di vita non dissimili, si può estendere all'occidente tutto e non solo ai paesi anglofoni. Sono però dati che rimangono dentro Facebook, e che studiati in dettaglio fuori dal social network potrebbero aiutare a comprendere meglio come vivono le persone, cosa spinge la gente a condividere un pensiero, e se davvero la misurazione della qualità della vita può basarsi ancora su parametri antecedenti alle reti sociali. Sono dati che dimostrano l'esistenza di una umanità che utilizza la tecnologia come ausilio alla socialità, dopo che nella scorsa era, quella della tv, l'aveva utilizzata per isolarsi.

Tiziano Toniutti (La Repubblica - 24 dicembre 2010)


sabato 25 dicembre 2010

“La magistratura? La più grande minaccia per l’Italia”. Così D’Alema in un cablo Wikileaks


D’Alema e Berlusconi la pensano allo stesso modo: la magistratura è pericolosa. I dispacci dell’ambasciata Usa, diffusi da Wikileaks, confermano l’esistenza di un inciucio tra centrodestra e centrosinistra, sospetto che insegue D’Alema dai tempi della Bicamerale del 1997. L’ex ambasciatore americano a Roma, Ronald Spogli, racconta che D’Alema, da ministro degli Esteri nel 2007 gli ha confessato che “la magistratura è la più grande minaccia per lo Stato italiano”. Il giudizio, contenuto in un cablogramma del 3 luglio 2008, è lo stesso che avrebbe potuto esprimere Berlusconi in persona. Che infatti definisce la magistratura “il più grande problema dell’Italia”, secondo quanto rivelato dal successore di Spogli, David Thorne, in un dispaccio dell’1 gennaio 2010.

Il parere di D’Alema risale al 2007, quando al governo era il centrosinistra. Il 20 luglio di quell’anno il gip di Milano, Clementina Forleo, chiede alle Camere l’autorizzazione a utilizzare le intercettazioni in cui i ‘furbetti del quartierino’ parlano delle scalate bancarie con D’Alema, Piero Fassino e Nicola Latorre. Telefonate in cui D’Alema incita l’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte impegnato nella scalata alla Bnl: “Facci sognare”. Mentre Fassino chiede conferma: “Abbiamo una banca?”. Nel 2007 inoltre il governo Prodi propone il ddl Mastella. Un disegno di legge per limitare l’uso delle intercettazioni e la loro pubblicazione: l’antenato della legge bavaglio targata Berlusconi.

Spogli scrive che le intercettazioni telefoniche sono spesso pubblicate dalla stampa. E questa situazione crea “imbarazzo”. “La fonte all’interno della magistratura responsabile della fuga di notizie viene scoperta raramente”, continua il diplomatico americano. “Sebbene la magistratura italiana sia tradizionalmente considerata orientata a sinistra, l’ex premier ed ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema ha detto lo scorso anno all’ambasciatore che la magistratura è la più grande minaccia per lo Stato italiano”. Parole che fanno il paio con quelle contenute nel dispaccio dell’1 gennaio 2010, scritte dall’attuale ambasciatore Thorne, che racconta: “Berlusconi ha affermato che un sistema giudiziario in cui i casi non sono mai definitivamente risolti, dove puoi essere assolto e poi vedere il tuo caso riaperto, mina il sistema politico ed economico del Paese”. Ragione per cui il Cavaliere ritiene che la magistratura sia “il più grande problema dell’Italia”.

La valutazione è simile a quella di D’Alema, che però smentisce e parla di incomprensione: “Accanto a osservazioni ovvie su fughe di notizie e intercettazioni – dice l’attuale presidente del Copasir – viene riportato un giudizio abnorme sulla magistratura che non ho mai pronunciato, che non corrisponde al mio pensiero e che evidentemente all’epoca è stato frutto di un fraintendimento tra l’ambasciatore Spogli e me”.

Ma nei cablogrammi diffusi da Wikileaks, oltre all’analogia di vedute tra Cavaliere e D’Alema, c’è dell’altro. Nel dispaccio dell’1 gennaio 2010, Thorne scrive infatti che Berlusconi ha detto “di essere pronto a formare un’alleanza con l’opposizione di centro sinistra per realizzare la riforma della giustizia” e di avere nell’opposizione “alleati riguardo alla necessità di una riforma, incluso il leader del Pd Bersani”. Che il premier e il sottosegretario Gianni Letta considerano persona “leale con elevata intelligenza”. I complimenti, secondo il dispaccio, ci sono pure per D’Alema, di cui Letta critica la permalosità, ma riconosce “la capacità di giudizio e l’efficacia politica, motivo per cui Berlusconi sostenne la sua candidatura per la carica di ministro degli Esteri Ue nonostante le loro differenze”.

Luigi Franco (Il Fatto Quotidiano - 24 dicembre 2010)

venerdì 24 dicembre 2010

Se l’istruzione è costosa, provate l’ignoranza

Pubblichiamo la lettera aperta arrivata in redazione di un gruppo di studenti, dottorandi e ricercatori italiani che lavorano nei Paesi Bassi.

Spett.le redazione del Fatto Quotidiano,
vi scriviamo per esprimere la più indignata disapprovazione per la cosiddetta Riforma Gelmini dell’Università e dell’istruzione in Italia.

Vogliamo anche spiegare la scelta di lavorare nei Paesi Bassi, che è strettamente legata al nostro dissenso per la cosiddetta Riforma, e più in generale per la politica intrattenuta dai diversi Governi nel corso degli ultimi trent’anni.

Sia chiaro fin d’ora che l’immagine degli emigranti costretti a partire in cerca di fortuna senza bagaglio e con le scarpe di cartone non ha nulla a che fare con noi: ciascuno ha una diversa storia che l’ha portato nei Paesi Bassi, ma ciò che ci accomuna è che partire è stata una libera decisione. Abbiamo scelto di cogliere un’eccezionale opportunità di crescita personale e professionale, di metterci alla prova in un ambiente internazionale così diverso da quello dove siamo nati e cresciuti.

Abbiamo scelto di trasferirci in un Paese in cui il nostro lavoro è valorizzato ed incoraggiato, e dove ci vengono forniti tutti gli strumenti necessari a svolgerlo nelle migliori condizioni possibili, senza essere costretti ad implorare per due soldi e un po’ di considerazione.

Abbiamo scelto di trasferirci in un Paese in cui chi decide di lasciare la carriera accademica dice che “cambia mestiere”, non che “va a lavorare”: perché il nostro è considerato un lavoro, al pari di un poliziotto, un impiegato o un carpentiere, e non siamo costretti a vivere con l’umiliazione quotidiana di essere bollati come un peso per lo Stato e per i contribuenti, come se non fossimo noi stessi dei contribuenti.

Abbiamo scelto di trasferirci in un Paese in cui la cultura è realmente considerata importante e, sebbene la crisi economica abbia colpito anche qui, non si perde occasione di promuovere attività divulgative nelle scuole, per le strade, alla radio e alla televisione, affinché la cultura sia un bene accessibile a tutti.

Abbiamo scelto di trasferirci in un Paese in cui, per il posto di lavoro che occupiamo, dobbiamo ringraziare solo noi stessi e il nostro impegno, e non la benevolenza pelosa di qualche protettore.

Per tutte queste ragioni, quella che abbiamo fatto potrebbe essere ritenuta la scelta più semplice. Non è così, e non è stata indolore o a cuor leggero.

Abbiamo lasciato il nostro Paese e le nostre famiglie, senza una chiara prospettiva di tornare in Patria. I dottorandi e ricercatori olandesi, per contro, vanno all’estero consci che arricchiranno il loro curriculum vitae e, forti delle loro nuove esperienze, torneranno dopo qualche anno a lavorare nei Paesi Bassi. Noi questa consapevolezza non l’abbiamo, né possiamo averla, e la ragione di ciò è che l’educazione e la cultura non sono considerati valori in cui investire, bensì un privilegio che non ci possiamo permettere.

La mentalità diffusa che la ricerca di base sia inutile, che gli universitari (studenti e lavoratori) siano dei fannulloni privilegiati, va sradicata e sostituita dalla consapevolezza che la cultura e l’istruzione sono l’acqua potabile di una Nazione.

Siamo convinti di questo: l’unico modo per ottenere questo cambio di mentalità è investire nell’istruzione.

Derek Bok disse: “Se pensate che l’Istruzione sia costosa, provate l’ignoranza.” In Italia sono anni che stiamo “provando l’ignoranza”, e il degrado culturale della nostra Nazione è il risultato di questo.

Fino a quando il valore della cultura non sarà riconosciuto e la dignità di chi lavora nell’istruzione e nella ricerca non sarà rispettata, fino a quando le uniche parole spese su questi argomenti saranno gli sterili piagnistei per la “fuga dei cervelli”, fino ad allora noi non avremo la possibilità di tornare a casa.

Carlo Abate
Sara Dal Gesso
Fred Benedosso
Fulvia Ferri
Andrea Cimatoribus
Stefano Messina
Anna Rabitti

Il Fatto Quotidiano - 22 dicembre 2010

L’insostenibile leggerezza del pixel

Non sono né il sindacalista dei fotografi, né l’avvocato d’ufficio dei giornalisti, e neppure l’ufficio reclami di Repubblica. Ma la lettera che mi è giunta qualche giorno fa mi chiede di discutere di una questione controversa e complessa, ovvero la ripubblicazione su Internet di fotografie prese da altri siti Internet, in termini non solo stimolanti ma anche appropriati agli scopi e agli interessi di questo blog, quindi non posso e non voglio eluderla.
Prima la lettera, della cui civiltà vi ringrazio. Poi quello che mi sento di rispondere. Mi scuso se la lunghezza del post risulterà imbarazzante. Ma credo che molti saranno interessati.

Gentile Michele Smargiassi,
siamo dei fotografi ai quali
repubblica.it ha sottratto le foto prelevandole a nostra insaputa dalle proprie pagine Flickr. Ognuno di noi era in piazza durante i cortei del 14 dicembre per documentare un momento importante della vita pubblica di questo paese. Le fotografie sono state caricate sui nostri siti personali e anche su Flickr, forse la più importante vetrina di fotografia online a livello mondiale. Il giorno seguente non le dico lo stupore di trovarle nelle gallerie di repubblica.it! Ci piacerebbe poter discutere con lei e conoscere la sua opinione su alcuni temi legati a questa vicenda, quali l’informazione, l’eticità professionale e lo stato di salute del mestiere di fotografo oggi.
Qualche nostra considerazione. Sotto ognuna delle nostre foto era riportata la dicitura “
© Tutti i diritti riservati“. A quanto pare questo non è bastato a impedire che le foto venissero prelevate senza il nostro consenso e ripubblicate sul primo sito di informazione italiana, seppur riportando nome e cognome sotto ogni foto. Molte delle foto ripubblicate sono state modificate. Alcune convertite in bianco e nero, forse per aumentarne la drammaticità, scardinando totalmente la semiologia dell’immagine e quindi la significazione attribuita dal fotografo. A chi aveva apposto nella parte bassa della fotografia un watermark “© nome cognome”, per rimarcare ulteriormente il tipo di licenza comunque già presente sotto l’immagine, le foto sono state tagliate per escludere quel tipo di informazione. Le risposte alle nostre richieste di chiarimento pervenuteci dal desk di repubblica.it evidenziano un modus operandi abitudinario e consolidato, un atteggiamento culturale per il quale le fotografie presenti su Internet sono gratis.
Se pensiamo a
Flickr o a un sito fotografico come una vetrina, dove puoi mostrare quello che vendi tutelato dalle norme vigenti sul diritto d’autore e chi è interessato può contattare l’autore e comprare, c’è chi si sente legittimato a rompere questa vetrina e trafugare il contenuto per farne un uso pubblico e commerciale. Un’importante testata giornalistica legittima questo atteggiamento con un ritorno in termini di immagine per il fotografo: si prelevano delle foto, se gli autori se ne accorgono nella maggior parte dei casi si accontenteranno della gloria di essere finiti su un’importante testata, se sorgono problemi con qualcuno è questione di pochi attimi sostituire gli scatti con quelli di qualcun altro che probabilmente si accontenterà della gloria, il tutto con un meccanismo conseguente di qualità a ribasso. Ci chiediamo dov’è finita a questo punto l’etica professionale? Oltre a una mancanza di rispetto verso la persona e il non vedere riconosciuta una nostra professionalità, la nostra preoccupazione riguarda tutta la categoria, già sofferente in un periodo di crisi editoriale, tra stock images e archivi royalty free. Se la più importante testata online di informazione si sente autorizzata a un tale procedimento, la cosa non potrà non influenzare le altre testate, anche più piccole? C’è bisogno di un albo professionale che tuteli il fotografo? Sappiamo che il suo blog è ospitato da repubblica.it per cui probabilmente non ci sarà spazio per una discussione, ma la stima nei suoi confronti ci ha portato alla ricerca di un dialogo e un confronto nei modi e nei luoghi che riterrà opportuni,
distinti saluti, i fotografi
Adriano Caldiero, Remo Cassella, Alessandro Ciccarelli, Luca Farinelli, Marco Gioia

È molto leggera la fotografia ai tempi di Internet. Vola via al minimo vento.
Mi sono informato un po’ su come sono andate le cose: so che ci sono stati contatti diretti fra i fotografi che si sono sentiti espropriati del proprio lavoro e la redazione di repubblica.it, sono state offerte spiegazioni, sono state proposte soluzioni che in qualche caso hanno portato a una conciliazione e alla permanenza delle foto nella galleria online, in altri no; credo che la strada giusta per risolvere queste controversie sia stata dunque già percorsa. E non mi intrometto.
Facciamo dunque un salto in alto? Seguitemi. Forse vi irriterò, ma leggetemi fino in fondo.

Se continuiamo a versare vino vecchio nelle botti nuove rischiamo di spillarne aceto.
Bisognerà che ci rendiamo conto tutti, operatori dei media che siamo, di quanto è drammaticamente mutato il contesto della condivisione dei contenuti culturali da quando c’è Internet. Lavorare, e reagire, con gli schemi ereditati dall’era Gutenberg non può bastare. Mettersi in viaggio con un codice della strada scritto al tempo delle diligenze non solo non ci servirà a guidare sull’autostrada, ma ci esporrà a incidenti mortali.
Flickr dunque sarebbe per voi la vetrina del pasticciere che il ladro spacca a martellate per rubarne le torte e rivenderle. È la metafora giusta? Ve ne propongo un’altra. Il pasticciere spedisce migliaia di torte direttamente a casa di chiunque, dentro una fragile scatola di cartone. Con un biglietto: se la volete mangiare, speditemi prima un assegno. Potete provare a immaginare quanti assegni arriveranno, e quante torte saranno mangiate gratis? Il pasticciere potrà denunciare i golosoni avari come ladri, se crede; ma non dovrà almeno un po’ dolersi del suo incauto marketing? Troverebbe quel pasticciere un’assicurazione disposta a sottoscrivere una polizza contro il furto delle torte?

Daniel Morel è un fotografo free lance di Haiti che lo scorso gennaio ebbe la possibilità di fotografare le devastazioni del terremoto appena accaduto, e immediatamente caricò una dozzina di immagini su Twitter. Sapete come funziona Twitter? Le immagini furono ri-twittate immediatamente in centinaia di “copie”. L’agenzia France Press le incontrò sull’account Twitter di un altro fotografo, per copiò e le diffuse per i suoi canali (con credit sbagliato). Un bel pasticcio vero? Di questa vicenda mi interessa la reazione di Jean-François Leroy, il padre-padrone di Visa pour l’Image di Perpignan, il più rinomato festival di fotogiornalismo del mondo, che non credo possa essere sospettato di volere la rovina e la depredazione dei fotografi; eppure la sua reazione è tutt’altro che simpatetica per Morel: «I fotografi devono assumersi le loro responsabilità. Non puoi caricare le tue immagini su Twitter e pensare che nessuno te le prenda».

Intendiamoci. Io non sono fra gli estremisti della cultura open, del tutto-gratis, dell’hackeraggio come ideologia “rivoluzionaria” del Web e come sfida al capitalismo. Anzi vedo grandi rischi per la democrazia della cultura da un approccio di questo tipo, ma l’argomento è enorme e non lo affronto qui. Però non sono così cieco da non capire che Internet è il giardino delle tentazioni. Il gesto dell’appropriazione di un contenuto qualsiasi, sul Web, è leggero come l’aria, rapido come un clic di ciglia e moralmente leggerissimo. Quanti di voi non hanno mai scaricato una canzone o un film da eMule o qualche altro sito di file sharing? È illegale, lo sapete? Ma l’avete fatto senza sentirvi ladri. Prevengo l’obiezione: scaricare un file per uso personale è diverso che scaricarlo per ripubblicarlo su un sito d’informazione. No, non è così diverso. Chi mette un brano musicale a disposizione di milioni di potenziali consumatori, lo pubblica né più e né meno (forse molto di più) di una rivista che facesse un cd pirata e lo mandasse in edicola. Che ci sia o non ci sia un profitto non cambia la sostanza dell’appropriazione e della ridiffusione. E allora, pensate che le immagini siano esenti da questa tormenta del “serviti a tuo piacimento, è tutto gratis” che è la Rete?

Sto giustificando l’appropriazione libera dei contenuti protetti da copyright? No. Chiunque di noi, con qualunque mezzo si esprima, ha diritto al riconoscimento del proprio lavoro. Sto però descrivendo la fluidità e la fragilità del concetto di copyright nel Web, anzi la vera e propria mutazione genetica del rapporto fra diritti di proprietà intellettuale, diritti d’autore e diritti di riproduzione che è avvenuta nell’infosfera di Internet. Il diritto d’autore esiste ancora, certo. Molti giornali, incluso il mio, hanno cominciato a ricordarlo mettendo il “© proprietà riservata” in calce a tutti gli articoli, compresi i miei. Ma sapete quante volte trovo i miei articoli copincollati su altri siti? Non so proprio come il mio giornale pensi di difendere quel © ampiamente eluso, per quanto mi riguarda ho protestato solo una volta, senza pretendere però null’altro se non di copincollare anche la mia firma e la provenienza dell’articolo, insomma di non spacciare per altrui quel che è mio. Il riconoscimento della titolarità intellettuale è la soglia minima sotto cui nessuno dovrebbe scendere. Ma per il resto, tutto ormai è molto, molto fluido. Mi rendo conto che la fluidità che ho descritto, e che non credo sia contestabile, può essere il paravento per ogni genere di operazioni scorrette o semplicemente ambigue; ma c’è anche un’ambiguità reale, insita nel carattere della Rete, che va al di là delle reali o presunte cattive intenzioni dei singoli gestori dei siti. Vi faccio qualche domanda dalla risposta non scontata: a) se repubblica.it, anziché riprodurre le vostre foto, avesse solo inserito un link ai vostri siti, le vostre foto non sarebbero state ugualmente viste gratis? b) un aggregatore di notizie è solo una specie di indice, un motore di ricerca, o è paragonabile a una testata che ripubblica articoli e immagini altrui a sbafo? c) un’immagine può essere essa stessa oggetto di notizia, e dunque diventare una sorta di “citazione”, che è per principio libera e gratuita? (Nel caso specifico, mi sembra di capire, repubblica.it intendeva dare ai suoi lettori notizia di come la comunità di Flickr si era occupata degli scontri di piazza; più o meno come si fa quando si riproducono le prime pagine dei giornali internazionali per far vedere come la stampa mondiale ha dato una certa notizia).

Personalmente credo che, una volta che un prodotto comunicativo viene pubblicato, diventi in qualche modo patrimonio di tutti, e sia difficile e forse ingiusto vietare che altri possano utilizzarlo come fonte, citazione, oggetto di analisi e di ri-presentazione. Non credo nel tutto-gratis ma mi pare che regole aperte come quelle della licenza Creative commons siano una buona mediazione fra la tutela dei diritti intellettuali e la libertà di condivisione della conoscenza. Regole più rigide rischiano solo di essere aggirate e ignorate, come infatti avviene. Non facciamo gli ingenui: il Web è un gigantesco gioco di specchi dove l’immissione di nuovi contenuti è minima rispetto alla replica di contenuti già presenti. Giusto o sbagliato, bello o deprimente, questo è. Direte: sì, ma i tuoi articoli sono già stati pubblicati, le nostre foto no, sono in vetrina in attesa di acquirente. Attenzione, attenzione. La differenza fra una vetrina commerciale, un luogo d’incontro e una testata giornalistica nel Web è ormai così sfumata da non essere più percepibile. Flickr, come Facebook, Twitter e qualsiasi sito della galassia social network, sono siti di condivisione di contenuti prima che cataloghi commerciali; sono bacheche che offrono gratuitamente accesso a materiali mediatici, né più ne meno del sito che state leggendo ora.

Direte ancora: ok, ma tu per quell’articolo hai già preso uno stipendio, noi invece ci campiamo, o ci vorremmo campare (non so se siate fotografi professionisti), sulle nostre foto. Giusto. Corretto. Ma di nuovo, cos’è diventato il mestiere del fotoreporter nell’era Internet? Potete pensare che sia rimasto come nell’epoca in cui nelle redazioni si presentavano solo i fotoreporter professionisti con i loro plasticoni di diapo sotto il braccio? Nella vostra lettera leggo, anche esplicitamente, il disagio per la concorrenza feroce delle immagini gratuite o low-cost di cui la Rete trabocca. Voi puntate il dito sulle agenzie di stock, ma almeno per le foto di news non è quella la vera concorrenza che vi mette in difficoltà. È quella inaspettata, feroce, soverchiante del citizen journalism, dei contenuti generati dai lettori, dei reportage fatti coi fotocellulari, delle foto dei testimoni per caso. Immagini che le redazioni dei giornali online non solo accettano volentieri, ma ormai sollecitano apertamente e sempre più spesso. Sperare di arginare questo tsunami di immagini crude chiedendo o imponendo alle redazioni di limitarle o escluderle in nome di qualche etica della comunicazione, è una pia illusione, è retrogrado e perdente in partenza: è invocare un protezionismo che non reggerebbe un solo secondo.

La strada che io intravedo è un’altra: accettare che il panorama è cambiato, e cambiare il nostro posto nel panorama. Ragioniamo ancora: che cosa sono le immagini del cosiddetto (e detto malissimo) citizen journalism? Non sono reportage fotografico più di quanto la voce spezzata di un testimone sia un articolo giornalistico. Sono fonti. Sono testimonianze. Che una testata seria utilizza, ma completa, seleziona, mette in relazione con altre fonti: insomma lavora ed elabora giornalisticamente. Sul luogo di un evento, l’ho scritto da poco, ci sono ormai sempre decine di fotocamere, spontanee e professionali. Se le seconde mi portano un contenuto dello stesso spessore delle prime (e badate, non sto dicendo che sia il vostro caso, anzi da quel che vedo sono generalmente interessanti), se non sono un prodotto giornalisticamente, consapevolmente lavorato, per me avranno lo stesso valore delle fotografie dei passanti.

Catturare immagini di un evento non è più fare foto-giornalismo. Forse lo era, quando i fotografi professionisti erano anche gli unici testimoni visuali in circolazione in grado di registrare immagini. Non lo sono più. Ora una foto di cruda testimonianza (”ero lì e ho visto questo”) me la porta, spesso con più tempestività e dettagli, la foto del ragazzino col cellulare. Da un professionista io, testata giornalistica, voglio di più, e forse sono ancora disposto a pagare per averlo. E questo di più non può essere solo la quantità di pixel, o una maggiore accuratezza nella composizione. Ai fotografi io chiedo di creare contenuti che vadano molto oltre la testimonianza cruda. Di darmi quello che non potrei vedere altrimenti. Fotografie uniche perché elementi di un progetto ragionato, di uno “sguardo di tempi lunghi” e non di un prelievo occasionale. Chiedo al fotografo di di essere là dove nessun ragazzino col fotocellulare andrà mai, nei luoghi dove nessuno capita per caso, nelle situazioni dove serve competenza, studio, esperienza, e non la banale fortuna dell’esserci, per produrre un’immagine dotata di significato. La stessa sfida riguarda anche noi che lavoriamo con le parole: i giornali non sono più il luogo dove il lettore incontra la notizia, ma quello dove incontra spiegazioni, approfondimenti, collegamenti, ragionamenti.

Non è detto che basti. Il festival di Perpignan è pieno di splendidi reportage invenduti. La vita è dura per professionisti costretti dall’evoluzione del sistema mediatico ad essere tutti più o meno free-lance. Credetyemi, capisco la condizione dei fotografi. Ma credo che questa che ho provato a descrivfere sia l’unica strada, se ancora ce n’è una, per salvare quel ruolo di mediatori, di narratori, di costruttori del racconto che è sempre più necessaria per la qualità e per la democrazia stessa dell’informazione, per salvare insomma l’esistenza indispensabile dei fotografi professionisti, dei nostri delegati alla visione.

Michele Smargiassi (La Repubblica - 21 dicembre 2010)