domenica 31 agosto 2014

Renzi, cono d’ombra

Con tutti i problemi che abbiamo non si sentiva proprio il bisogno di un replay di Berlusconi che fa il clown e passeggia per il cortile di Palazzo Chigi leccando un gelato. Anzi, duole dirlo, ma perfino l’ex Cavaliere avrebbe evitato di fare il pagliaccio con il governo nel bel mezzo di una crisi economica ogni giorno più devastante.
Ma, come il Pregiudicato (con il quale non a caso è culo e camicia e stringe patti segreti), Renzi pensa di fare fessi gli italiani con queste piccole armi di distrazione di massa. Non gira un euro, i negozi sono vuoti, le imprese chiudono, le famiglie affrontano il peggiore autunno dagli anni 50, ma il premier giovanotto viene immortalato mentre mangiucchia banane o si tira una secchiata d’acqua in testa.
Come dire: ragazzi va tutto benone, e se i gufi dell’Economist mi dipingono come un adolescente immaturo accanto a Hollande e alla Merkel mentre la barchetta dell’euro affonda, io ci rido sopra e fo il ganzo. Purtroppo, la bibbia della grande finanza voleva comunicargli che i grandi investitori non sanno che farsene del governo degli annunci ai quali quasi mai seguono i fatti. Dopo la figuraccia della riforma scolastica (con i centomila precari assunti da un giorno all’altro, secondo i giornali di corte) che aveva detto “vi stupirà” e che infatti molto ci ha stupito per la sua assenza, Renzi invece di chiudersi in un imbarazzato silenzio si è sparato la mirabolante riforma della giustizia civile che, venghino signori venghino, durerà la metà e mi voglio rovinare.
Se continua così, lo statista di Rignano non farà l’annunciato big bang, ma un grosso botto sì. Al gusto di limone.


giovedì 28 agosto 2014

L’ULTIMO BACIO

Ventun anni dopo le prime rivelazioni del suo ex autista pentito Balduccio Di Maggio ai pm di Palermo, Salvatore Riina conferma – intercettato mentre si confida con il suo compagno di ora d’aria – ciò che chiunque conosce le carte del processo ha sempre saputo: e cioè che nel 1987 il capo di Cosa Nostra incontrò per davvero il sette volte capo del governo Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, in casa di Ignazio Salvo a Palermo. Lo incontrò, ma non lo baciò. Quante ironie, aggressioni e lapidazioni hanno subìto i pm Caselli, Lo Forte, Natoli e Scarpinato che ebbero l’ardire di istruire il processo al politico più potente della Prima Repubblica, indagando su quel summit e portandone le prove. Ironie che partivano da un dettaglio trascurabile, il bacio, anziché dalla sostanza: il colloquio col boss.
Ora a quelle prove si aggiunge l’ammissione di Totò ‘u curtu, ma c’è da giurare che anche questa cadrà nel dimenticatoio: Andreotti è morto da padre della patria, omaggiato dal presidente della Repubblica Napolitano, del Consiglio Letta e del Senato Grasso (già capo della Procura di Palermo e poi di quella Nazionale Antimafia). Tutti sanno benissimo che fu per decenni un complice della mafia, ma questa verità non si poteva dire prima della confessione di Riina, e non si può dirla nemmeno ora. Sarebbe la miglior conferma del patto occulto fra Stato e mafia che aveva retto fino a metà degli anni 80 e che, dopo una breve crisi, fu rinnovato nel 1992-‘93 con la trattativa aperta dai politici della Prima Repubblica tramite il Ros e chiusa dagli alfieri della Seconda tramite Dell’Utri (non a caso condannato per mafia e ora recluso a Parma a poche celle di distanza da Riina). Del resto, non c’era bisogno delle parole di Riina per provare la mafiosità di Andreotti: bastava la sentenza definitiva della Cassazione, che dava per assodati i suoi incontri con i boss Frank “Tre Dita” Coppola, Tano Badalamenti, Stefano Bontate (due volte, per discutere del delitto Mattarella, prima e dopo che venisse perpetrato), Nino e Ignazio Salvo e Andrea Maciaracina (fedelissimo di Riina). Il tutto fino alla primavera del 1980. Ora sappiamo, dalla viva voce dell’unico superstite insieme a Di Maggio, che ci fu pure il summit con Riina nell’87. Che avrebbe comportato per il Divo Giulio non la prescrizione, ma la condanna per mafia, se i giudici non l’avessero considerato insufficientemente provato. 
E dire che, anche senza la parola di Riina, il processo già pullulava di prove. Cosa raccontò Di Maggio il 16 aprile 1993 ai pm Giuseppe Pignatone e Franco Lo Voi? Di aver accompagnato Riina in casa Salvo all’incontro con Andreotti, iniziato con il bacio rituale del boss al ministro. Ciccio Ingrassia, grande attore siciliano, commentò: “Non so se i due si siano incontrati. Ma, se si sono incontrati, sicuramente il bacio c’è stato”. Dopo Di Maggio, di quell’incontro parlano altri 7 collaboratori di giustizia, tutti considerati attendibili: Enzo ed Emanuele Brusca, Calvaruso, Cannella, Cancemi, La Barbera e Camarda. Ma per il Tribunale diventano di colpo inattendibili. Tutti. Di Enzo Brusca i giudici scrivono che “la sua collaborazione è stata preceduta da reticenze, menzogne e persino progetti, concordati col fratello Giovanni, di inquinamento di processi e falsi pentimenti”. Quali? Il Tribunale non lo dice. Per la semplice ragione che ha sbagliato persona: quelle condotte disdicevoli le ha commesse il fratello Giovanni. Non Enzo, che anzi aiutò gli inquirenti a smascherarle. Al processo succede di tutto. I pm dimostrano che il 20 settembre 1987, giorno dell’incontro con Riina, Andreotti è a Palermo per la Festa dell’Amicizia Dc. E, secondo unanimi testimonianze, scompare dall’hotel Villa Igiea dall’ora di pranzo fino quasi alle 18, quando parla alla Festa. Dunque ha tutto il tempo di raggiungere casa Salvo, parlare con Riina e tornare in albergo. Brutto affare, per il senatore. Gli serve un alibi. Così manda avanti ben tre testimoni a giurare di averlo visto ben prima delle 18, per riempire l’imbarazzante buco di 5-6 ore. 
A deporre in suo favore si presentano un regista Rai, il segretario di un ex deputato Dc e l’amico giornalista Alberto Sensini (che risultava nelle liste della P2). Peccato che i tre si rivelino tutti farlocchi, o almeno “smemorati”. Il caso di Sensini è avvincente: l’allora inviato del Corriere della Sera giura di aver intervistato Andreotti quel pomeriggio poco prima del suo comizio alla Festa dell’Amicizia, che secondo la cronaca del “Popolo” si svolse alle 16. Dunque l’intervista fu intorno alle 15. Ma poi i pm scoprono che all’ultimo momento il comizio venne spostato, per il caldo, alle 18. E che Andreotti giunse stranamente in ritardo: dopo le 18,30. Dunque, stando al ricordo di Sensini, l’intervista era iniziata verso le 17,30. E prima, dalle 14 alle 17,30, Andreotti ebbe tutto il tempo per incontrare segretamente chi gli pareva. Fa fede la chiusura dell’intervista di Sensini, uscita l’indomani sul Corriere: “Così Andreotti Belzebù si congeda e va a parlare sotto i terribili tendoni del festival…”. Il buco temporale che Sensini doveva riempire si riapre. Come la risolvono, a questo punto, i giudici del Tribunale? Semplice: “Il Sensini ha espressamente affermato che si trattò di un ‘artificio letterario’”. Peccato che Sensini abbia dichiarato al processo che Andreotti, subito dopo l’intervista, si congedò da lui: l’artificio letterario non era la frase “Andreotti si congeda”, semmai la definizione di “Andreotti Belzebù”. In appello i giudici, che pure ebbero il coraggio di affermare la mafiosità del senatore a vita fino al 1980 ribaltando il verdetto di primo grado, preferirono sorvolare su queste anomalie a proposito del vertice con Riina, confermando per quell’episodio l’insufficienza di prove. 
Ora vedremo come la metteranno quanti sostengono che la storia non si fa nelle aule di tribunale. Giusta teoria, se avessero la decenza di aggiungervi un “soltanto”: la storia si fa anche nell’ora d’aria. Soprattutto se a parlare è il boss che incontrò Andreotti. Il bacio è un apostrofo rosa fra le parole “Stato” e “mafia”.


 

mercoledì 27 agosto 2014

La ricetta anti-crisi è trovare il coraggio della decrescita

Secondo l’Istat a luglio i prezzi al consumo sono aumentati solo dello 0,1% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso. Ancora più significativi sono i dati del ‘carrello della spesa’: frutta e verdura costano il 10% in meno, sempre rispetto al 2013 e i prodotti per la cura delle persone e della casa registrano un   -0,6%. L’inflazione è sotto l’1%. “Siamo legati agli oggetti, non buttiamo via mai niente” dice il sociologo dei consumi Italo Piccoli e l’economista Fausto  Panunzi aggiunge: “Si è portati a risparmiare quasi compulsivamente, a comprare solo lo stretto necessario”.
Sembrerebbero tutte notizie positive. Se l’inflazione è all’1% vuol dire che i 100 euro che ho in tasca ne valgono 99, se l’inflazione è al 20% i miei 100 euro ne valgono ottanta così come il mio stipendio reale è il 20% in meno di quello nominale. E vorrei vedere il consumatore che si lamenta perché paga le pesche il 10% in meno. Non buttare via i frigoriferi che rendono ancora decentemente il loro servizio o non farsi attrarre, in questo caso sì ‘compulsivamente’, da ogni sciocchezza che offre il mercato, vivere del necessario invece che del superfluo  fa bene al nostro equilibrio psicologico ed è un risparmio   oltre che economico anche ecologico perché evitiamo di ammonticchiare rifiuti che poi non sappiamo come smaltire.
E invece in termini macroeconomici tutti questi dati sono negativi. Dove sta il marcio? Nella crescita. Un modello economico basato sulla crescita quando non riesce o non può più crescere collassa (che non è la situazione solo dell’Italia ma di tutti i paesi che sono dentro questo modello, compresi anche quelli che in questo momento viaggiano col vento in poppa perché anche loro prima o poi si troveranno davanti al limite, dato che le crescite all’infinito esistono in matematica ma non in natura). E il collasso è  piuttosto rapido. E’ come la cassetta di un film che arrivata alla fine si riavvolge in pochi secondi. Se i cittadini consumano poco le imprese saranno costrette a ridurre la produzione e a liberarsi di molti lavoratori i quali, in cassa integrazione o disoccupati, consumeranno ancora meno, le imprese produrranno meno e manderanno a casa altri lavoratori in un circolo vizioso vorticoso. In un sistema come questo gli uomini sono costretti a consumare per produrre invece di produrre per consumare.
Tutto ciò in nome della macroeconomia e del Pil, cioè della ricchezza complessiva di un Paese. Ma la ricchezza di un Paese ha poco o nulla a che fare con la ricchezza dei suoi abitanti. La Nigeria è il paese più ricco dell’Africa ma ha il più alto numero di poveri dell’ex Continente nero. E’ la ricchezza che crea la povertà come si accorse Alexis De Tocqueville che nel suo saggio ‘Il pauperismo’ del 1835 notava, con stupore, che i Paesi rimasti fuori dalla Rivoluzione industriale avevano il minor numero di poveri.
C’è una soluzione a questo busillis infernale? Bisognerebbe avere il coraggio di decrescere, di diminuire la produzione, il lavoro, la ricchezza complessiva e di portarsi a un livello di equilibrio dove non si avanza più ma nemmeno si retrocede, redistribuendo la minor ricchezza rimasta in modo più equo. Ma ci vorrebbe un’intelligenza, una visione del futuro che le élites politiche mondiali, ansiose solo di consenso qui e ora, non possono avere.


DAI RITI CELTICI ALLA MACUMBA: L’EVOLUZIONE DI CALDEROLI

Secondo fonti sperabilmente non autorevoli, Roberto Calderoli avrebbe chiesto la revoca della macumba orchestrata ai suoi danni dal padre del ministro italoafricano Cécile Kyenge (clicca qui) , offeso per le dichiarazioni razziste del politico italopadano. Una macumba fortunatamente non è una fatwa.
Ma sfortunatamente ha coinciso con una consistente raffica di sciagure ai danni del suo destinatario: ricoveri in ospedale, acciacchi di varia entità, lutti familiari, infine l’intrusione in casa di un ragguardevole serpente (enorme per i parametri italiani), un magnifico biacco di un paio di metri, non velenoso, che Calderoli ha accoppato a randellate attirandosi la peggiore di tutte le disgrazie, l’ira degli animalisti che vogliono vederlo ai ceppi.
Va detto che la superstizione è un territorio nel quale anche il più savio e ragionevole degli umani rischia di perdere la trebisonda, e dare il peggio di sé. Ma che un così autorevole leader (sta lavorando, anzi ri-lavorando al riassetto istituzionale della Repubblica italiana, già da lui ampiamente manomesso in passato) possa collegare eventi della propria esistenza a una maledizione tribale, non è una notizia che rallegri. O meglio: fa ridere. Ma non rallegra. Perché rivela una vulnerabilità culturale piuttosto rattristante, e davvero inspiegabile in uno dei capi più insigni di un movimento identitario come la Lega, che alle macumbe dovrebbe guardare con irridente distacco, come l’evoluto uomo bianco guarda al folklore primitivo.
Lo stesso ministro Kyenge, che il macumbato paragonò a un orango confermando — vedi biacco — un rapporto totalmente scriteriato con il mondo animale, ha in qualche modo richiamato Calderoli alle credenze e ai costumi a lui propri, tipo il cattolicesimo (che condanna severamente magia e superstizione). Ma non è certo che l’invito possa essere raccolto, e sia di conforto al nostro. I più attenti osservatori del costume nazionale, nonché regionale, ricorderanno infatti che Calderoli volle prendere moglie, a suo tempo, secondo il rito celtico, con tiritere druidiche e costumi boschivi, chissà se importati da un varietà di Las Vegas o cuciti da sartine padane (comunque su cartamodelli di Las Vegas).
Giù in quella pittoresca cerimonia, a ripensarci, si poteva intuire un notevole eclettismo religioso, e una lodevole apertura a culture anche molto distanti dalla Padania odierna. Levato il razionalismo, che è l’ideologia morente di un’Europa in totale crisi di panico, dalle parti di Calderoli il terreno è fertile per credenze di ogni natura e di ogni taglia, macumbe, pozioni magiche, gli elmi cornuti, Braveheart che corre urlando nella brughiera, i dolmen che comunicano con gli alieni, perfino il Sole delle Alpi, simbolo cultuale così poco conosciuto fino a ieri l’altro che neppure la redazione di Voyager sarebbe in grado di costruirci sopra un servizio decente.

Le statistiche, del resto, dicono cose molto poco confortanti sul dilagare delle pratiche magiche in proporzione all’aggravarsi della crisi e al sentimento dell’insicurezza, economica e personale. Nel Nord Italia il fatturato del comparto è fiorentissimo, anche se in nero (la fattura senza fattura piace molto a maghi e fattucchiere). Almeno in questo senso, tra eletti ed elettori la sintonia è perfetta. Si convochi a Pontida una cerimonia di guarigione e salvezza contro la macumba, elmi cornuti e cornamuse contro il suono minaccioso del tam tam (lo stesso dei telefilm di Tarzan). Facendo attenzione, per carità, a non calpestare i serpenti.


 

martedì 26 agosto 2014

Caro Craxi, ti sei venduto anche Nenni.

Caro Craxi, sono socialista da quando ho l'età della ragione. E lo rimango. Perchè quella di sposare libertà e giustizia sociale mi pare ancora l'idea più bella. Ma, insieme a quelli ideali e politici, mi legano al socialismo italiano anche motivi affettivi. Ho cominciato, come forse ricordi, la mia carriera all'"Avanti!", quando era ancora un giornale, nel '71, e benchè vi sia rimasto solo due anni sono stati i più belli, i più sereni, i più intensi della mia vita professionale. Era un bell'ambiente, umano e politico, un pò bohèmien, un pò hippy, quello dell'"Avanti!" di Milano di allora. Il partito era all'opposizione (mi pare che ci fosse il governo Andreotti-Malagodi) e si poteva scrivere quel che si voleva.
Ma non si era liberi solo nei confronti degli avversari politici. Mi ricordo di aver potuto criticare con durezza dalle colonne dell"Avanti!", primo giornale di sinistra a farlo, le violenze vili e sciocche del Movimento studentesco nonostante il partito fosse schierato politicamente a favore degli extraparlamentari. Ma belli erano anche i nostri lettori che io, con l'entusiasmo del neofita, andavo a spiare alle edicole: vecchi e giovani operai milanesi, e certi anziani, provenienti per lo più dalle professioni (ingegneri, avvocati, medici), con delle grandi cravatte alla Lavallière. Gente perbene, insomma. Si era orgogliosi di essere e di dirsi socialisti, allora.
Ma nei miei ricordi c'è anche dell'altro. Credo di essere stato un "craxiano" ante litteram. Quando ero all"Avanti!" pernsavo che la dirigenza dei De Martino e dei Mancini dovesse essere liquidata. Il primo mi sembrava già bollito allora e troppo succube dei comunisti, il secondo l'ho sempre considerato un uomo moralmente discutibile anche se adesso va in giro dicendo di essere stato trombato perchè si è opposto alla mafia calabrese e che fra gli eletti "c'è gente che fa paura" (secondo me chi fa paura è lui, se ci si ricorda dello scandalo Anas). E quando i compagni mi chiedevano con quali forse si potevano mandare a casa i De Martino e i Mancini, io rispondevo - cosa che allora era blasfema - che si poteva fare un'alleanza fra la destra e la sinistra del partito, fra autonomisti e lombardiani: nei lombardiani c'era lo spirito libertario del socialismo, negli autonomisti quel pragmatismo di cui il Psi di allora, velleitariamente massimalista, aveva sicuramente bisogno.
Quello che qualche militante pensava confusamente, come me, tu l'hai realizzato lucidamente. Tu hai fatto l'alleanza fra autonomisti e lombardiani, tu hai riorganizzato il partito, tu gli hai tolto il complesso di inferiorità nei confronti dei comunisti, tu l'hai indirizzato verso un pragmatismo da socialdemocrazia europea. Tu hai incarnato una speranza: la speranza che fosse finalmente possibile liberare il paese dall'egemonia democristiana.
Tutto dunque andava per il meglio. Ma a un certo momento tutto ha cominciato a girare all'incontrario, come un brutto film sbobinato a rovescia. Il partito ha perso dapprima la sua anima libertaria . Il dissenso interno non era più possibile. Ma anche all'esterno il Psi ha preso a portarsi con un'arroganza e un'intolleranza sgradevolissime. Voi eravate la famosa "pattuglia di mischia" (tu, Martelli, Tognoli, Pini) e guai a contraddirvi.
E così gli intellettuali di libero pensiero si sono a poco a poco allontanati da voi. Non parlo, naturalmente, di me, che conto niente, ma di Giorgio Bocca, di Andrea Barbato, di Norberto Bobbio e di decine di altri con nomi nemo altisonanti ma di sentimenti socialisti sinceri. Al loro posto sono spuntati personaggi, spesso dal passato politico oscuro, la cui unica prerogativa era quella di stendersi come sogliole ai piedi tuoi o ai piedi dei tuoi tirapiedi.
E questa è stata la prima mutazione. Poi sono cominciati ad arrivare nel Psi damazze, contesse, favorite di regime, stilisti dalla dubbia fama, pubblicitari pronti a vendere tutto, compresa l'anima, rosei architetti dalla faccia di culo, oncologi di rapina, cantantuncoli televisivi in cerca di fortuna. Voi li chiamavate i "ceti emergenti" e dicevate di rappresentarli. Vi siete ben presto dimenticati, completamente dimenticati (è incredibile), che il socialismo nasce per difendere innanzitutto gli "umiliati e offesi", i deboli, i poveri.
Ma mentre carrieristi di ogni genere salivano sul trionfale carro socialista, contemporaneamente avveniva la terza e più grave mutazione. Quella per cui i socialisti hanno cominciato a essere presi con le mani nel sacco un pò dappertutto. S'è scoperto che i socialisti rubavano come e più dei democristiani. Anzi, mentre i democristiani avevano almeno l'aria di vergognarsi, i socialisti lo facevano spudoratamente, con la iattanza di quelli che si credono i più furbi di tutti.
Non c'è ormai città in cui non siate indiziati, inquisiti, perquisiti, arrestati. E la cloaca delle cloache è Milano, la tua Milano. Non si tratta semplicemente del "caso Chiesa" (che comunque non è un "mariuolo" o un "tangentomane" come tu e Martelli l'avete affettuosamente definito, è un ladro), ma di un sistema di potere per cui a Milano il cittadino non può, in pratica, esercitare nessuno dei propri diritti senza "ungere le ruote" dei socialisti.
E' patetico che Gianni De Michelis dichiari che "socialista" è diventata una brutta parola perchè "in Europa soffia un vento di destra". Ma via! In Italia "socialista" è una brutta parola perchè è diventato sinonimo di ladro, di concussore, di ricattatore, di clientelare, di mafioso. Così vengono visti oggi quei socialisti di cui negli anni Cinquanta, la borghesia, con un misto di timore e di rispetto, diceva "massimalisti, pericolosi, ma onesti", così proprio tu, che ne fosti l'allievo prediletto, hai dilapidato l'eredità morale di Pietro Nenni che terminò i suoi settant'anni di carriera politica avendo come tutto premio una modesta villetta a Formia.
Peccato. Avete sprecato la vostra parte. Andate nella pattumiera della storia.

Massimo Fini (L'Indipendente - 30 aprile 1992 - tratto dal volume "Senz'anima - Italia 1980/2010" - Chiare Lettere - maggio 2010)


 

Antonio Billeci: “Oggi vi presento il grande frocione”


C’è modo e modo di attuare il proprio ruolo di insegnante ed ogni allievo, nel tempo, ne conserverà sicuramente la valenza, non solo in relazione ai ricordi ed alle concettualizzazioni di fondo che avrà assimilato ma, soprattutto, in funzione della originalità ed efficacia dei tempi e dei modi prescelti dal docente di turno.
Una mattina il mitico professore Antonio Billeci, iniziando la sua ora di lezione di ragioneria, disegnò alla lavagna un grandissimo rubinetto da cui sgorgavano al posto dell’acqua una serie di conti e sottoconti economici, sotto un grande colapasta che setacciava il tutto. Ultimato l’emblematico  disegno si rivolse a noi dicendo: “vi presento il grande frocione[1]; oggi, ragazzi, parleremo del Conto Economico”. Nonostante fossimo già avvezzi alle genialità del nostro imprevedibile docente, una risata generale accolse il proclama del giorno.
Nello specifico, in questo caso, il messaggio era che, a completamento di quanto fino ad allora studiato sulle scritture di partita doppia, da quell’unico condotto transitavano tutte le componenti economiche (negative e positive) di una contabilità aziendale che filtrate, in ultimo generavano un unico elemento: l’utile o la perdita d’esercizio. Quindi, a fine anno, sarebbe stata un’unica voce di sintesi filtrata attraverso il conto “Profitti e perdite”, positiva o negativa, che avrebbe portato a pareggio un bilancio.
Era uno dei suoi tanti modi creativi per catturare l’attenzione di noi allievi ancora acerbi ma, soprattutto, di farci associare concetti fondamentali del programma scolastico a figure e schemi più comuni, ma penetranti in fantasia, che avrebbero cesellato per sempre le nostre giovani menti.
I bravi maestri si apprezzano spesso solo quando si è cresciuti. Nel caso dell’amato professore Billeci, sono tanti gli aneddoti che riaffiorano. Per la storia, l’ultimo suo anno di docenza all’istituto tecnico Francesco Crispi di Palermo coincise con l’anno del mio diploma. Venimmo a sapere successivamente che continuò il suo insegnamento all’’ISIDA di Palermo,  curando la formazione postuniversitaria di futuri dirigenti.
Solo in occasione di un ritrovo di ex alunni, fatto moltissimi anni dopo, ebbe a confessarci che la sua vera passione era sempre stata la filosofia. Ci disse che aveva sempre fatto parte di un gruppo impegnato in studi e ricerche in materie filosofiche e che, in questa veste, aveva pubblicato diversi articoli e libri.
Ricordo che nel corso di un ricevimento di professori ebbe a dire di me ciò che conservo come uno degli apprezzamenti più belli mai ricevuti: “in una classe di orbi, il ragazzo ci vede con un occhio solo”.

ESSEC


[1] Nel gergo palermitano per “frocione” s’intende la portata di liquido che un rubinetto riesce ad erogare nella sua massima apertura.


venerdì 22 agosto 2014

Renzi, la solitudine di Eugenio S.

Forse non sbagliamo se, nel leggere l’ultimo Eugenio Scalfari, siamo portati a pensare che ogni tanto si sentirà un po’ solo. Non parliamo, per carità, dei suoi fans che sono ancora legioni, pronti a centellinare le omelie domenicali con religioso fervore. E neppure alludiamo ai colleghi giornalisti che non cessano di tributare al Fondatore il rispetto e la considerazione che merita. Del resto, se non ci fosse stato Scalfari, non ci sarebbe stata Repubblica. Ogni tanto però sorge il dubbio che, se oggi ci fosse ancora la Repubblica di Scalfari, su un punto soprattutto somiglierebbe poco alla Repubblica di Ezio Mauro: il giudizio sul governo di Matteo Renzi. Scalfari ha sicuramente una qualità (sui difetti noi del Fatto abbiamo già dato): dall’alto della barba bianca e della storia personale, può permettersi di non essere ipocrita. Se disistima qualcuno (o se non lo ritiene degno della sua attenzione), prima o poi glielo farà capire. 
Rivelatore di questo stile è una piccola confidenza che mi fece Eugenio (quando ci chiamavamo per nome) a proposito dei tanti libri, spesso inutili, di autori altrettanto superflui, spesso giornalisti, che intasavano e ritengo ancora intasino gli scaffali del Fondatore, accompagnati da dediche anelanti benevolenza. Quando a Scalfari capitava di incrociare lo sguardo supplichevole di uno di questi presunti Hemingway, alla fatale domanda “direttore hai ricevuto il mio libro?”, al tapino era riservata la seguente formula standard: “Certamente, caro, e mi compiaccio con te”. Mi spiegò, se ben ricordo, che questo modo di congratularsi aveva il pregio di evitare un qualunque pronunciamento sul contenuto del tomo (che evidentemente neppure era stato sfogliato). Ma tutto col dovuto garbo e lasciando il resto alla libera interpretazione del romanziere o del saggista di turno, che infatti ringraziava riconoscente immaginando il meglio. Qualche tempo dopo mi capitò incautamente di far pervenire a Scalfari non ricordo più quale mio capolavoro editoriale e infatti di lì a poco la sua voce inconfondibile al telefono sentenziò: “Caro, mi è arrivato il tuo libro e mi compiaccio con te”.
Il motivo di questa digressione è presto detto. È immaginabile che, all’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi, E. S. abbia nutrito più di una riserva sulla cultura governativa dello scout di Rignano, pur riconoscendogli, come tanti, quella vitalità caotica ma salutare degli uomini nuovi che irrompono in una situazione stagnante. La predilezione di Scalfari per Enrico Letta non era un mistero, come non lo fu il suo disappunto per l’improvvisa giubilazione del “nipote” preceduta da un mancato invito al Quirinale dove al posto dell’allora premier, considerato non certo un fulmine di guerra, ratto si presentò l’altro. Ecco, a noi piace pensare che per dare una mano al suo grande amico Giorgio Napolitano evitando sgradevoli finzioni, almeno all’inizio Scalfari abbia adottato nei confronti del nuovo arrivato l’infallibile metodo del “mi compiaccio”. Ovvero: garbo istituzionale con cauta sospensione di giudizio. Quando però Renzi ha cominciato sul serio a fare Renzi, Scalfari non si è trattenuto. Prima ha rispolverato la favola del Pifferaio di Hamelin che ammaliava le turbe conducendole dove più gli conveniva. Poi ha smontato alcuni dei capisaldi del renzismo, a cominciare dagli 80 euro e dal Senato.
Quindi, domenica scorsa, ha impartito una lezione al giovane presidente del Consiglio sulle differenze tra deflazione e depressione. Il tutto condito da un attacco finale alle riforme renziane, ipotizzando che esse mirino esclusivamente al rafforzamento del rottamatore attraverso forme rischiose di “democrazia individuale e sovranità popolare fittizia”. Definizione che ha lo stesso suono di quella “democrazia autoritaria” denunciata da questo giornale in una petizione che in un mese ha già raccolto più di 233 mila adesioni.
Non pretendiamo certo che Scalfari unisca la sua firma a quella di quei molti giuristi e personaggi della cultura che certamente stima o che gli sono amici. Non siamo ipocriti neppure noi. Si parla tuttavia di una crescente insofferenza del Fondatore per la sudditanza nei confronti di Renzi dimostrata dalla cosiddetta grande informazione, con frequenti cadute di stile e di gusto. Si dice anche che all’inizio di agosto, conversando amabilmente nella sede di Largo Fochetti sulla decadenza degli imperi nella storia, egli abbia ricordato come pur di assecondare le voglie dell’imperatore Tiberio, i cortigiani ricorressero a bassezze di ogni genere e tipo, descritte queste con dovizia di particolari. Chissà a quale giornale si riferiva. Ma, se avesse voluto dire che la libera stampa, se ancora libera, piuttosto che assecondare i governanti dovrebbe incalzarli con qualche salutare sferzata, ebbene su questo non potremmo che dichiararci d’accordo.



I Diavoli - La finanza raccontata dalla sua scatola nera.


Opera prima di Guido Maria Brera ("chief investiment officer" di una non meglio precisata società di gestione patrimoniale) pubblicata nel maggio 2014 dalla Mondadori.
Un romanzo incentrato sulle oscure manovre che dominano un mondo della finanza spregiudicato e che, in assenza di normative nazionali ed internazionali che ne delimitino con regole certe l'azione, mostra ed estremizza i rischi di default finanziari finalizzati essenzialmente al mantenimento di egemonie politiche di stati più forti e a speculazioni di occulte lobby finanziarie che spesso ne accompagnano ed assecondano le strategie egemoniche.
Un romanzo, ben scritto nell'azione principale, stenta un pò nel suo inizio, evidenziando pecche nei capitoli introduttivi che si  disperdono nel descrittivo.
Di contro l'autore descrive con efficacia e ricchezza di dettagli i retroscena organizzativi e il pathos che governano l'operatività del trading, volto a creare ricchezza speculativa con spread manovrabili e che talvolta espone a  rischi di default anche stati sovrani.
Delimitando il campo d’azione al solo mondo finanziario istituzionale Brera crea, con una articolata trama, una racconto fluido e verosimile, attualizzandolo e ricollegabile, in qualche modo, alle complesse e non sempre chiare vicissitudini della realtà contemporanea.
Nel racconto, dove si accompagnano figure rivenienti da  mondi e generazioni differenti, si confrontano e contrappongono personalità diverse, traspaiono di certo anche molti aspetti autobiografici, specie nelle specificità tecniche che arricchiscono la trama economico-finanziaria del romanzo.
Forse una ripetuta rivisitazione del testo scritto è causa di un eccesso di eventi nel finale, che appesantiscono la trama, intrisa di tanti colpi di scena temporalmente troppo vicini (magari preludio di un proseguo della storia in un secondo romanzo).
Il vissuto professionale traspare, da forza e imprime una dinamica alla narrazione che aggancia il lettore con un ritmo incalzante, che mantiene giusta la tensione, e fa affiorare tante originalità peculiari che caratterizzano l'intera storia.
Un romanzo che sullo sfondo lascia solo intravedere e immaginare quanto sia complesso e opaco il mondo affaristico mondiale.
Un racconto che fa riflettere sul fatto di come ci si soffermi troppo poco su una realtà che da tempo ha fatto registrare, fra politica e finanza, un inconfessato sostanziale ribaltamento gerarchico, con una progressiva commistione fra i due campi sempre più inscindibili.
In conclusione un buon romanzo, con un buon costrutto, consigliabile, di gradevole e facile lettura. 

Essec