mercoledì 31 dicembre 2014

Il mio discorso di fine anno per Giorgio Napolitano

Signor Presidente, quando uno dei suoi migliori predecessori, Sandro Pertini, fu eletto capo dello Stato nel 1978, Indro Montanelli gli inviò il seguente telegramma: “Che Dio le conceda il coraggio, Presidente, di fare le cose che si possono e si debbono fare; l’umiltà di rinunziare a quelle che si possono ma non si debbono, e a quelle che si debbono ma non si possono fare; e la saggezza di distinguere sempre le une dalle altre”. È un vero peccato che Montanelli, essendo scomparso nel 2001, non abbia potuto inviarlo anche a lei quando fu eletto nel 2006 e rieletto nel 2013. Le sarebbe senz’altro servito a evitare un sacco di errori, abusi di potere e deragliamenti dai confini fissati dalla Costituzione, che invece hanno costellato l’intero suo settennato e anche il post-scriptum degli ultimi 20 mesi. Manca lo spazio per riassumerli tutti: li troverà, nel caso in cui le servisse un ripasso, nel libro Viva il Re! uscito un anno fa. Qui ci limitiamo a quelli del suo secondo mandato, che da soli bastano e avanzano a fare di lei il peggior presidente della storia della Repubblica.
A termine e a condizione. Lei, il 20 aprile 2013, quando smentì ciò che aveva ripetutamente giurato agli italiani e accettò la rielezione al Colle su richiesta delle cancellerie europee, di Mario Draghi, del governatore di Bankitalia Ignazio Visco, ma soprattutto dei vecchi partiti (terrorizzati dalla candidatura di Stefano Rodotà, che avrebbe impedito la riedizione delle larghe intese Pd-Berlusconi, già peraltro bocciate dagli elettori due mesi prima), annunciò subito che il suo secondo mandato sarebbe stato “di scopo”, limitato a misteriosi “termini entro i quali ho ritenuto di poter accogliere in assoluta limpidezza l’invito ad assumere ancora l’incarico di presidente”. Sarebbe così gentile da indicarci quale articolo della Costituzione prevede l’elezione condizionata e temporanea del capo dello Stato, visto che l’articolo 85 stabilisce in assoluta limpidezza che “il presidente della Repubblica è eletto per sette anni”?
L’abbraccio allo Statista. In quei giorni il Corriere scrisse che – per indurla ad accettare il bis – “decisivo sarebbe stato il colloquio tra Napolitano e Berlusconi. Il presidente avrebbe dato atto all’ex premier di avere avuto, in questa difficile fase, un ‘comportamento da statista’. Prima del congedo, fra i due vi sarebbe stato un lungo, caloroso abbraccio, talmente toccante da suscitare emozione nel portavoce di Napolitano, Pasquale Cascella”. Dal Quirinale, nessuna smentita. Davvero, Presidente, bastava un sì alla sua rielezione per trasformare un pluriprescritto per reati gravissimi, plurimputato per concussione e prostituzione minorile e per corruzione di senatori, nonchè condannato in appello per frode fiscale, in un insigne “statista”?
La Repubblica di Falò. Il 22 aprile 2013, mentre lei preparava il suo discorso di reinsediamento, i giudici di Palermo erano costretti da un’inaudita sentenza della Corte costituzionale a distruggere i cd-rom contenenti le quattro conversazioni legittimamente intercettate sui telefoni di Nicola Mancino, coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. Vuole spiegarci, una volta per tutte, cosa contenevano di tanto imbarazzante per lei quelle telefonate, al punto da spingerla a sollevare un inaudito conflitto di attribuzioni con la Procura di Palermo per sottrarre ai cittadini un fondamentale elemento di conoscenza su un capitolo così buio della storia d’Italia?
Il Discorso del Re. Lo stesso 22 aprile 2013, nel pomeriggio, lei si affacciò alle Camere riunite per un discorso programmatico del tutto sconosciuto alla Costituzione e alle democrazie parlamentari, tipico dei discorsi della Corona e dei capi delle repubbliche presidenziali. Dopo aver giustificato il suo bis con la favola del “drammatico allarme” per l’“impotenza” del Parlamento a eleggere il suo successore (si era votato per appena due giorni, mentre in passato i tentativi a vuoto per l’elezione del Presidente erano durati anche 12 giorni), lei intimò al Parlamento di “riformare la seconda parte della Costituzione” in base ai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo” (i famosi “saggi” nominati al di fuori del Parlamento, non si sa bene con quale legittimità democratica). A che titolo lo fece, visto che aveva appena giurato per la seconda volta di difendere la Costituzione, non certo di rottamarla? Non contento, lei minacciò il Parlamento che l’aveva appena rieletta e il governo che lei stava per formare: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese… Eserciterò le funzioni fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”. Cioè: se e finchè fate come voglio io, resto e vi salvo dai guai; se mi disobbedite, me ne vado e vi lascio nelle peste. Si è mai reso conto che questo si chiama ricatto a due poteri dello Stato – il legislativo e l’esecutivo – che da quel momento non sono stati più liberi né sovrani di operare, sotto la spada di Damocle della sua minaccia?
Il Governo del Presidente. Incurante del popolo sovrano che appena due mesi prima aveva platealmente bocciato le larghe intese (e dell’impegno preso da Pd e Pdl con i rispettivi elettori di non governare mai più insieme), lei aggiunse di aver accettato la rielezione per propiziare un governo di “convergenza fra forze politiche diverse”. Ma non tutte: solo quelle dell’“appello rivoltomi due giorni orsono”. Cioè dei partiti che le avevano chiesto il bis (Pd, Pdl, Centro montiano, Lega Nord). Esclusi dunque i 5Stelle, Sel e Fratelli d’Italia. S’è mai reso conto che il capo dello Stato, durando in carica 7 anni e avendo il potere di nominare il capo del governo e i ministri (che durano in carica al massimo 5 anni), non può subordinare la sua elezione al crearsi di questa o quella maggioranza governativa? Appena due giorni dopo, lei incaricò Enrico Letta, scelto da Silvio Berlusconi in persona, cioè da colui che aveva perso sonoramente le elezioni con 6,5 milioni di voti in meno. E fece subito capire chi era il vero premier, imponendo al Letta travicello cinque suoi fedelissimi in altrettanti ministeri-chiave: Saccomanni all’Economia, Bonino agli Esteri, Cancellieri alla Giustizia, Giovannini al Lavoro, Quagliariello alle Riforme. Conosce qualche precedente simile, nella storia delle democrazie perlamentari?
Saggi su saggi. Il 29 maggio il governo Letta, in accordo con lei, nominò altri 35 “saggi” extraparlamentari, quasi tutti di stretta obbedienza quirinalesca, per scrivere le riforme costituzionali da approvare – assicurò il premier – in Parlamento “entro 18 mesi” per “dare immediato seguito all’impegno preso nel momento in cui si è chiesto a Napolitano di essere rieletto”. E, per abbreviare i tempi, partorì un ddl costituzionale che stravolgeva tempi e modi dell’articolo 138 della Costituzione, quello che regola le riforme costituzionali, e apriva la strada a ogni possibile scassinamento della Carta a tappe forzate. Il 1° giugno lei diede a governo e Parlamento un anno per varare le riforme che le garbavano: “Di qui al 2 giugno del prossimo anno l’Italia dovrà essersi data una prospettiva nuova”, anche perchè l’esecutivo “è una scelta eccezionale e senza dubbio a termine”. Come lui. Il 5 giugno Barbara Spinelli criticò sul Fatto l’ennesima sua interferenza nel potere esecutivo e legislativo, e lei si autosmentì, definendo “ridicolo falso” la notizia che lei avesse “posto un termine al governo”. Poi il 6 giugno, non si sa a che titolo, ricevette i nuovi saggi ricostituenti col ministro Quagliariello, per giunta a porte chiuse. Può dirci quali articoli della Costituzione le consentivano quelle invasioni di campo?
Un condannato al Quirinale. Il 24 giugno Berlusconi fu condannato a 7 anni dal Tribunale di Milano per concussione e prostituzione minorile e sparò a palle incatenate sulla magistratura, paragonata a un “plotone di esecuzione”. Due giorni dopo lei invitò e ricevette il neocondannato “per un ampio scambio di opinioni sul momento politico e istituzionale”. Tutto normale, Presidente?
Cicciobomba cannoniere. Il 29 giugno Camera e Senato approvarono una mozione Sel-M5S che impegnava il governo a sospendere l’acquisto di cacciabombardieri F-35 dall’americana Lockheed fino al termine di un’indagine conoscitiva del Parlamento sui costi e la sicurezza dei velivoli. Lei, furibondo, il 3 luglio riunì il Consiglio Supremo di Difesa ed esautorò il potere legislativo: “La facoltà del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni che… rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”. Se n’è mai pentito?
Dissidente deportata, Alfano salvato. Il 16 luglio il ministro dell’Interno Angelino Alfano lesse in Parlamento una relazione piena di bugie sul rapimento in Italia e la deportazione in Kazakhstan di Alma Shalabayeva – moglie di un dissidente kazako – e della figlioletta Alua a opera della polizia e dei vertici del Vi-minale. I 5Stelle e Sel presentarono una mozione di sfiducia individuale contro di lui. Il Pd di Epifani, su pressione di Matteo Renzi, chiese le sue dimissioni, ma poi fece marcia indietro quando lei monitò: “È assai delicato e azzardato invocare responsabilità oggettive per dei ministri”. Presidente, s’è poi accorto dell’articolo 95 della Costituzione: “I ministri sono responsabili… individualmente degli atti dei loro dicasteri”?
Troppa grazia, San Giorgio. Il 1° agosto 2013 la sezione feriale della Cassazione presieduta da Antonio Esposito emise la sentenza definitiva del processo Mediaset: B. condannato a 4 anni per frode fiscale. Mentre il Caimano tuonava contro i giudici in un video-messaggio eversivo, lei monitò dalla Val Fiscalina un incredibile elogio per il “clima più rispettoso e disteso” che aveva accompagnato il verdetto e auspicò “che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli” per la riforma della giustizia. I berluscones chiesero a gran voce la grazia presidenziale per il capo. Lei, il 2 agosto, non la escluse, anzi: “C’è la legge a stabilire quali sono i soggetti titolati a presentare la domanda di grazia”. Poi ebbe una lunga conversazione telefonica col neopregiudicato. Bondi, Cicchitto e Santanchè intanto le rammentavano i protocolli segreti della sua rielezione e delle larghe intese: “pacificazione”, cioè grazia. Il 5 agosto, di ritorno dalle ferie, lei ricevette i capigruppo Pdl Brunetta e Schifani venuti a chiederle la grazia e promise di “esaminare con attenzione tutti gli aspetti delle questioni prospettate”. Csm e Pg della Cassazione avviarono col suo consenso un procedimento disciplinare e una pratica di trasferimento per il giudice Esposito, imputandogli un’intervista a Il Mattino e ignorando che era stata manipolata per inserirvi riferimenti alla sentenza su B., mai pronunciati dal magistrato. Il 13 agosto lei diramò una lunga nota in cui spiegava a B. che fare per ottenere la grazia: “presentare una domanda”; accontentarsi di una grazia sulla “pena principale” (quella detentiva e non quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici); “prendere atto” della sentenza e rispettare i giudici, anche se è “comprensibile” il “turbamento e la preoccupazione per la condanna a una pena detentiva di personalità che ha guidato il governo… leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza”; sostenere lealmente il governo. Ripensandoci, non trova incredibile che lei, appena 12 giorni dopo una sentenza, abbia speso tanto tempo e tante parole per far balenare una grazia incostituzionale a un politico condannato per un delitto così grave e ancora imputato in altri processi?
Lodo Napolitano-Violante. A settembre la giunta per le elezioni del Senato iniziò a discutere della decadenza del condannato B., prevista in automatico dalla legge Severino. Ma ecco farsi avanti un plotoncino di giuristi legatissimi al Quirinale e capitanati dal “saggio” Luciano Violante che invocavano uno stop in attesa che la Consulta e le Corti europee si pronunciassero sulla legittimità della Severino e della sentenza della Cassazione, per salvare il seggio al neopregiudicato che ricattava tutti minacciando il governo. Lei fece sapere di aver “letto con attenzione e apprezzamento” il “lodo Violante” (poi fortunatamente ignorato dalla maggioranza in Senato). Presidente, s’è mai vergognato di quell’ennesima interferenza? E, già che ci siamo: intervistato da Bruno Vespa per il suo ultimo libro, il ministro Alfano ha rivelato che lei, in un incontro a quattr’occhi nel settembre 2013, si disse “pronto a concedere la grazia”, anche motu proprio (cioè senza domanda), se B. si fosse dimesso da senatore prima che il Senato votasse la sua decadenza e, per soprammercato, a lanciare un appello al Parlamento per un provvedimento di amnistia e indulto (cosa che fece l’8 ottobre, fortunatamente inascoltato). Lei non ha mai smentito. Sono dunque ridicole panzane quelle che lei ha poi raccontato il 20 ottobre 2013, quando definì “ridicole panzane” le notizie sulla sua promessa di grazia a B.?
Testimone obtorto Colle. Da quando, il 17 ottobre 2013, la Corte d’Assise di Palermo la convocò come teste nel processo Trattativa, lei fece il possibile e l’impossibile per sottrarsi al suo dovere di testimoniare, sostenendo di non aver “alcuna conoscenza utile da riferire” su quanto le scrisse il suo consigliere Loris D’Ambrosio (poi scomparso) su confidenze fattele a proposito di “indicibili accordi” fra Stato e mafia. Perchè allora quando il 28 ottobre 2014 si decise finalmente a testimoniare, parlò per più di tre ore, rivelando importanti fatti che aveva taciuto per vent’anni (il progetto di attentato mafioso contro di lei e Spadolini nel luglio ’93; il timore di un “colpo di Stato”; la consapevolezza dei vertici dello Stato che le bombe mafiose fossero finalizzate a ricattare il governo Ciampi per ottenere l’alleggerimento del 41-bis)?
Nessuno tocchi Nonna Pina. Nel novembre 2013 finì nei guai la ministra della Giustizia Cancellieri, indirettamente intercettata sui telefoni della famiglia Ligresti mentre solidarizzava con gli amici imprenditori plurinquisiti per il crac della Fonsai (di cui era manager il figlio), si metteva a loro disposizione, brigava per fare scarcerare Giulia Ligresti e si abbandonava a dure critiche ai magistrati. Dinanzi alla mozione di sfiducia di M5S e Sel e alla richiesta di dimissioni avanzata anche da Renzi, lei tornò a interferire, ricevendo la ministra e auspicando “l’ulteriore pieno sviluppo dell’azione di governo da lei avviata”. Letta telefonò a Renzi: “Ho sentito il presidente della Repubblica, ti chiediamo di ritirare la tua richiesta”. E l’indecente ministra si salvò, come Alfano. Signor Presidente, che cos’è per lei il Parlamento?
Parlamento abusivo, dunque è ok. Il 4 dicembre 2013 la Consulta cancellò il Porcellum, giudicandolo illegittimo sia per l’abnorme premio di maggioranza al partito o alla coalizione più votati, sia per le liste bloccate che “alterano per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti… coartano la libertà di scelta degli elettori… contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto”. E così delegittimò in radice l’attuale Parlamento eletto con quella legge, il presidente della Repubblica e il governo da esso espressi, nonché la maggioranza che non esisterebbe senza il premio abnorme ora cassato. Ce n’era abbastanza per mettere subito in cantiere una riforma elettorale purchessia (semprechè non si condividesse quella disegnata dalla Corte depurando il Porcellum dai suoi profili incostituzionali: il proporzionale puro con preferenza unica, simile alla legge elettorale con cui si votò nel 1992) e poi sciogliere le Camere infette e restituire rapidamente la parola agli elettori, cioè al popolo sovrano. Lei invece, il 5 dicembre, prim’ancora che la Corte depositasse le motivazioni della sentenza, se ne infischiò: decise che “questo Parlamento è legittimo” e gli dettò un programma per l’intera legislatura: “riforma elettorale che superi il sistema proporzionale” e “modifiche costituzionali almeno per il numero dei parlamentari e per il bicameralismo perfetto”. Ma come si permise il presunto “garante della Costituzione” di imporre a un Parlamento appena dichiarato antidemocratico e abusivo dalla Consulta di restare in piedi sino a fine legislatura, e addirittura di modificare la Costituzione e la legge elettorale, dandogli per giunta precise indicazioni sui modelli da seguire?
Un anno vissuto indecorosamente. Il 2014, che sta sta per concludersi, è stato l’anno di Matteo Renzi. Che il 18 gennaio siglò, con la benedizione del Colle, il Patto del Nazareno con B. per farlo rientrare dalla finestra dopo che era uscito dalla porta a fine novembre, abbandonando il governo Letta all’indomani della sua decadenza da senatore. Il giovane e spregiudicato segretario del Pd, a metà febbraio, defenestrò Enrico Letta per prenderne il posto e il 22 febbraio giurò nelle mani di un Napolitano inizialmente contrariato, poi sempre più rassegnato, infine addirittura complice. Lei comunque, Presidente, non rinunziò a mettere le mani nella lista dei ministri: non per escluderne gli impresentabili , ma per cancellare dalla casella della Giustizia l’elemento migliore della lista renziana: il pm anti-’ndrangheta Nicola Gratteri, cassato in nome di un’inesistente “regola non scritta” che escluderebbe a priori i magistrati dalla carica di Guardasigilli (e allora perchè lei, nel 2010, nominò a quell’incarico il magistrato forzista Francesco Nitto Palma, nel terzo governo B.?). Con Renzi a Palazzo Chigi, i suoi moniti ed esternazioni si sono fatti più radi, ma non per questo meno discutibili o indecenti (almeno quanto certi suoi silenzi).
Presidente, non conosceva proprio un giurista meno compromesso con l’Ancien Regime e in conflitto d’interesse di Giuliano Amato da nominare alla Consulta? Sicuro di aver detto tutta la verità sulla nascita del governo Monti nel novembre 2011, alla luce delle rivelazioni di Alan Friedman sui suoi abboccamenti col Professore fin dall’aprile di quell’anno?
Perché lei ha smesso di sferzare il Parlamento affinché elegga il quindicesimo giudice costituzionale, lasciando la poltrona vacante ormai da sei mesi?
Anziché telefonare un giorno sì e l’altro pure ai due marò imputati in India di un duplice omicidio ed elevarli a eroi nazionali, perché non ha mai trovato il tempo e le parole per esprimere la solidarietà e la vicinanza dello Stato al pm Nino Di Matteo, condannato a morte da Cosa Nostra (con tanto di tritolo già acquistato dai boss e nascosto a Palermo) e al pg Roberto Scarpinato, minacciato fin dentro il suo ufficio da uomini di apparato ben sicuri dell’invisibilità e dell’impunità?
Con che faccia il 2 aprile scorso ha ricevuto al Quirinale il pregiudicato B. “per parlare delle riforme e del fronte giudiziario” (Corriere della sera, mai smentito)?
Come si è permesso, a luglio, di bloccare il Csm che stava per votare per Guido Lo Forte come nuovo procuratore di Palermo, costringendo il Plenum a seguire l’ordine cronologico delle nomine (mai seguito prima) solo per rinviare la decisione al successivo Consiglio, che poi ha nominato Franco Lo Voi, guardacaso il candidato meno titolato ed esperto, ma più gradito ai politici di destra e di sinistra, e naturalmente a lei?
A che titolo una figura super partes quale dovrebbe essere la sua ha continuato a difendere il Jobs Act e le controriforme della giustizia e della Costituzione, invitando opposizioni, sindacati e Anm a non opporsi?
Come si è permesso di imporre al Csm, con una lettera rimasta segreta, di sbianchettare le critiche all’operato del procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nella gestione del conflitto aperto con il suo aggiunto Alfredo Robledo, incancrenendo così lo scontro nell’ufficio giudiziario più cruciale d’Italia?
Quando ha scoperto che “il bicameralismo perfetto fu un errore dei padri costituenti”, visto che lei entrò in Parlamento nel lontano 1953 senza mai dire una parola? E perchè non s’è accorto che “il Senato è un inutile doppione della Camera” nel 2005, quando accettò la nomina a senatore a vita senza fare un plissè?
Che le è saltato in mente di cerchiobottare fra guardie e ladri, mettendo sullo stesso piano il dilagare di corruzione e crimine organizzato – divenuti un tutt’uno nel sistema Mafia Capitale – e il presunto e imprecisato “protagonismo dei pm”?
Come può chiedere ai magistrati di “non guardare con diffidenza i politici”, quando i politici sono i più corrotti dell’Occidente? E con che faccia può definire “eversiva” la cosiddetta “anti-politica”, quando la politica si riduce alla fogna degli scandali Expo, Mose e Mondo di Mezzo, questi sì “eversivi”?
Perchè non ha detto una parola – da garante della Costituzione – sull’Italicum che riproduce gran parte dei profili di incostituzionalità già sanzionati dalla Consulta nel Porcellum?
Quando invoca il “rinnovamento” contro i “conservatorismi”, non le viene da ridere, essendo il primo freno al cambiamento, con la sua rielezione a 88 anni e con l’imbalsamazione dell’Ancien Regime di cui è sempre stato il santo patrono e il lord protettore?
Non s’è pentito di aver così platealmente attaccato, anche in campagne elettorali, un movimento politico con milioni di voti come i 5Stelle, tacendo invece sull’ultima versione sempre più razzista e fascistoide della Lega Nord?
Perché, dopo averlo duramente censurato ai tempi di Prodi e in parte di B., ha smesso di denunciare l’abuso di decreti e fiducie da parte dei governi Monti, Letta e Renzi, guardacaso i tre creati o avallati da lei all’insaputa degli elettori?
S’è mai domandato perché, fino a tre anni fa, lei godeva di oltre l’80% di consenso nei sondaggi, mentre dal governo Monti in poi è sceso sotto il 50?
§Non crede di aver abusato del suo potere lanciando continue minacce al governo e al Parlamento, tipo “riforme o me ne vado”, ma anche “riforme o resto”?
Siccome tutti nel Palazzo sanno che il 14 gennaio 2015 lei annuncerà le sue dimissioni, non le pare il caso di comunicarlo anche ai cittadini italiani, anziché seguitare a sfidarli con sciarade e indovinelli?
Siccome è al passo d’addio, non crede che il bilancio del suo secondo mandato sia un fallimento totale, con tutti gli indicatori economici in picchiata (tranne quelli della corruzione, dell’evasione e delle mafie) e nessuna delle riforme da lei dettate nel messaggio di reinsediamento approvate?
Può rassicurarci sul fatto che ora non interferirà nella scelta del suo successore per rifilarci un suo clone, tipo Giuliano Amato o Sabino Cassese?
E, siccome considera il Senato un ente inutile, si impegna a evitare di frequentarlo da senatore a vita e a ritirarsi a vita privata?
È un peccato che Montanelli non sia più fra noi. Altrimenti potrebbe dedicarle il Controcorrente che riservò nel 1985 a Sandro Pertini quando lasciò il Quirinale: “Il senatore Pertini ha annunciato che intende rientrare nella vita politica e ingaggiare battaglia per il riavvicinamento tra Psi e Pci. Con quest’uomo abbiamo sbagliato due volte. La prima, mandandolo al Quirinale. La seconda, rimettendolo in libertà”.

L'Italia dei corrotti e la politica del fumo negli occhi

Il premier Matteo Renzi, dopo il marciume emerso dalle inchieste della procura di Roma che vede coinvolti amministratori del Pd, di ieri e di oggi, della destra politica e criminali cosiddetti comuni che solo a sentirne il linguaggio un uomo con responsabilità pubbliche dovrebbe tenersi a distanza di sicurezza, ha deciso di commissariare il Pd della Capitale. Per dare un segno di rinnovamento morale. Peccato che solo il giorno dopo il Senato, con il voto determinante dei parlamentari Pd, abbia respinto la richiesta del Tribunale di Palermo di poter utilizzare delle intercettazioni telefoniche di Antonino Papania ex senatore dem coinvolto in gravi reati di corruzione. Finché si scherza si scherza, finché si parla si parla, ma poi quando si arriva al sodo, e cioè alla concreta possibilità che un politico possa finire nei guai, la classe politica, se appena ne ha la possibilità grazie alle innumerevoli guarentigie giudiziarie di cui gode, si ricompatta immediatamente e si chiude a testuggine a difesa di quei privilegi. Ne è riprova che quello stesso giorno il Senato non ha autorizzato l'utilizzo di intercettazioni riguardanti il presidente della commissione Bilancio di Palazzo Madama, Antonio Azzolini (Ncd), anch'elli indagato per corruzione, con il voto del Pd, di Forza Italia, della Lega e dello stesso Ncd.
A botta calda, nei giorni dell'esplodere dello scandalo, Renzi ha dichiarato che, per carità, «le inchieste devono andare fino in fondo», ma ha anche ammonito i magistrati che «i processi devono essere veloci». Ma come fanno a «essere veloci» se sono almeno vent'anni, da Mani Pulite in poi, che gli amichetti parlamentari di Renzi aggiungendosi a quelli di Berlusconi stanno inzeppando il Codice, soprattutto per i reati contro la Pubblica Amministrazione, cioè i reati di corruzione, quelli commessi dai 'colletti bianchi', di un tal numero di norme cosiddette 'garantiste' che è quasi impossibile portarli a termine? E' il solito, sporco, giochetto: da una parte si fanno leggi impossibili, dall'altro si accusano i magistrati di applicarle.
Adesso Renzi annuncia -si sa che il suo è il governo dei tweet- misure severe anticorruzione: innalzamento delle pene minime, allungamento dei termini di prescrizione, minori agevolazioni nei patteggiamenti. «Io voglio che questo sia un segno che l'Italia è cambiata» dice il premier. In realtà è solo fumo negli occhi per placare, sul momento, l'esasperazione montante dei cittadini che si vedono quotidianamente derubati da questi farabutti politici o politici farabutti (chiamarli mafiosi è fare un torto all'Onorata società) mentre loro, i cittadini, sono massacrati se ritardano un pagamento Equitalia. Fumo negli occhi è il commissariamento del Pd romano di cui peraltro non ci potrebbe importar di meno poiché è un'associazione privata. Come, per lo stesso motivo, non ci importa nulla che Alemanno si sia autosospeso dai suoi incarichi in Fratelli d'Italia (se Gianni Alemanno vuole recuperare la dignità che aveva quando lo conobbi ragazzo, sinceramente tormentato, si dimetta da parlamentare). Ma fumo negli occhi sono anche le 'grida' che Renzi ha annunciato. Perché devono comunque passare al vaglio di un Parlamento di corrotti, di corruttori, di corruttibili che difficilmente le approverà così come sono. E comunque dovessero anche passare integralmente, verranno in seguito rese inservibili da altri provvedimenti. Come puntualmente avviene da decenni. Poi ci sarà un nuovo scandalo che farà scordare il precedente. E tutto finirà nel dimenticatoio.
Non c'è nessuna 'nuova Italia' risorgimentale. C'è la solita, sempiterna, Italia dei furbastri, dei furvi e dei furbissimi. Oggi veste Fonzie al posto del doppiopetto.


martedì 30 dicembre 2014

Ti porterà fortuna


Con il volume “Ti porterò fortuna”, edito da Mondadori nello scorso mese di settembre, ancora una volta Luciano De Crescenzo torna a stupire.
Con inesauribile fantasia ed originalità creativa De Crescenzo trova una nuova formula per narrare la sua amata Napoli.
Confrontandosi nel racconto con una giovanissima fan bolognese, impegnata a realizzare una tesi universitaria su di lui ed intanto ignara di stare contribuendo alla realizzazione di un’ennesima felice opera letteraria dell’eclettico e imprevedibile scrittore, torna con una sua nuova formula editoriale.
Nel libro, al particolare ruolo di guida “insolita” della città, De Crescenzo interpola anche una serie di aneddoti e nuovi racconti ovvero, richiamando alcuni suoi precedenti scritti e tanti suoi famosi personaggi, ne approfondisce i tratti, attutalizzando con ciò i profili filosofici della quotidianità partenopea.
Come sempre è difficile trovare nelle opere di Luciano De Crescenzo delle ripetizioni. Nei suoi libri egli ogni volta trova modo per leggere le molteplici sfaccettature che gli offre la realtà che lo circonda, della società civile, della sua Napoli e del suo passato; angolature nuove che gli consentono di fare affiorare nuovi personaggi, ruoli e aneddoti sempre particolari.
Tra i tanti, ad esempio, riesce oggi a romanzare e a rendere un po’ ilare la qualifica di “interprete” esercitata dal padre in tempi di guerra, per poi rivendicare seriamente la valenza insostituibile degli idiomi dialettali, ricchi di essenze filosofiche e piena espressione di localismi nati da spunti di vita reale.
Spaziando nei luoghi della capitale campana, De Crescenzo ancora una volta eccelle nel mescolarli con tesi e teorie dei filosofi del passato e con la semplicità del quotidiano, del popolo che ivi vive.
Un sempre prolifico Luciano De Crescenzo, frizzante e lucido, anche in questo suo nuova opera letteraria viene a raccontare cose nuove e, con la sua fervida fantasia, riesce sempre a mescolare personaggi nel tempo, rivitalizzando il passato e focalizzando risvolti di attualità apparentemente nascosti.
Per chi ama De Crescenzo, un ulteriore libro che non si può fare a meno di leggere, ottima strenna per un buon regalo di natale; leggero e profondo come i tanti suoi altri, scritto sempre con estro e piglio genialoide.


Essec


Mafia Capitale, il mondo di mezzo e il mondo al contrario

Cittadini!
Vi ricordate le parole che le intercettazioni pubblicate sui giornali attribuiscono a Salvatore Buzzi?
Lo sai quanto ce guadagno sugli immigrati?” dice l’indagato nell’inchiesta su Mafia Capitale, “il traffico de droga rende de meno”.
Cittadini!
Il topo va dove sta il formaggio e dove c’è il denaro sarebbe strano non trovarci anche la criminalità. Gli stranieri poveri, soprattutto quelli che scappano per salvarsi la vita, vengono rinchiusi e ammassati come animali, schiavizzati nella campagne, sfruttati come facchini nei magazzini della grande distribuzione e della logistica. I più fortunati riescono a lasciare l’Italia per raggiungere i parenti in altri Stati o semplicemente per andare a vivere in paesi più accoglienti del nostro. A loro i soldi non arrivano mai, ma su di loro si specula assai. La Mafia non è solo spaccio e prostituzione.
Saviano lo ripete da anni. Parlando dei rifiuti tossici delle imprese settentrionali sversati al sud punta il dito contro l’intero sistema sostenendo che “cio’ che ha fatto la politica è disastroso, (…) tutti hanno fallito. A guadagnare è un’azienda, la più grande, la Camorra: che gestisce il tutto perché garantisce i prezzi migliori. Smaltire legalmente i rifiuti tossici costa 62 centesimi al chilo, ma la camorra a 8 centesimi risolve tutto”.
Cittadini!
Le mafie gestiscono servizi che costano meno e fanno guadagnare di più. Lo fanno con i rifiuti, ma anche con le energie rinnovabili. Guadagnano e fanno guadagnare con la droga e non solo spacciandola.
Sempre Saviano scriveva in Gomorra che i clan coinvolgevano la piccola borghesia “stanca di affidare alle banche i propri averi” e si inventava un “azionariato popolare della cocaina” nel quale “pensionati, impiegati, piccoli imprenditori davano denaro ad alcuni agenti che poi lo reinvestivano per l’acquisto di partite di droga”. Lo stesso meccanismo può essere replicato ovunque. E infatti a Roma si fa il business a spese degli ultimi: Rom e stranieri.
“L’ultima indagine di Roma dimostra che la corruzione è un cancro che spesso si sposa con organizzazioni criminali che creano un vincolo di intimidazione e si procurano affari” questo ha dichiarato la settimana scorsa il ministro Alfano. E invece no. O meglio: succede anche questo, ma non solo.
Le indagini di Roma sono l’ennesima dimostrazione che il sistema ha bisogno della Mafia per gestire denaro, potere e conflitti propri di una società capitalista. C’è da gestire la presenza dei Rom nelle nostre città? Non importa che siano italiani o stranieri. Ci si inventa che siano nomadi (anche se non lo sono) e li si chiude nelle riserve indiane. Gli italiani che stanno fuori sono contenti e non si chiedono: se fossero davvero nomadi dovrebbero stare in giro, perché li chiudono lì dentro? Una volta creato il meccanismo dell’esclusione bisogna gestirlo. Ci sono cooperative e associazioni che fanno un ottimo lavoro, ma spesso il criterio non è la qualità. E allora arriva il mafioso (magari un po’ fascistello, che non guasta) romano che si mette a disposizione. Se lavori con lui potrai ricevere un aiuto per la campagna elettorale, una buona parola per avere una poltrona e magari qualche altro servizio stuzzicante.
Cittadini!
E se uscissimo fuori dal nostro paese? Passando dagli sfruttati nostrani a quelli planetari lo spettacolo è ancora più vario. Come faresti a comprare un paio di jeans a pochi euro se li confezionasse un operaio italiano che lavora 8 ore e quando torna a casa ha luce elettrica e acqua calda? Ci sono paesi dove gli operai lavorano il doppio e non ce l’hanno una casa: vivono nei dormitori della fabbrica e comprano l’acqua calda dal padrone. Eppure i jeans prodotti da un operaio schiavizzato sono legalmente venduti nei nostri negozi. Il sistema capitalista non solo accetta lo schiavismo, ma ne ha bisogno.
Una multinazionale che fornisce gratuitamente latte agli ospedali favorisce l’insuccesso dell’allattamento al seno. Io ho due figli: il primo è cresciuto col latte in polvere, la seconda con quello naturale. Non mi pare che il primo abbia meno salute della seconda, ma io lavoro e vivo in un paese ricco e posso, con qualche sacrificio, permettermi di acquistare latte costoso per alcuni mesi. Una famiglia indigente nel nostro paese o addirittura in un paese estremamente povero può farlo? In più mescolare polvere e acqua può recare due danni: una madre povera diluisce eccessivamente e tiene il figlio in stato di malnutrizione; in molti paesi l’acqua è inquinata e ciò può causare la morte.Cittadini!
Questi sono piccoli esempi di un meccanismo planetario che distrugge le foreste, inquina le acque, schiavizza milioni di persone. Un meccanismo che è via via meno visibile se dalle fasce più indigenti si sale verso quelle più benestanti, se dai paesi totalitari e poveri si sale verso quelli ricchi e democratici.
Le indagini di questi giorni su Mafia Capitale ci dicono che i boss amano gestire il potere e gli piacciono i soldi, ma in una società capitalista, sia a livello globale che locale, questi due elementi si rafforzano grazie ai conflitti.
È la teoria del mondo di mezzo compà. Ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo” dice Carminati in un’intercettazione. Ma non c’è un solo mondo di mezzo, ce ne sono tanti e hanno la stessa funzione: fare in modo che quelli di sopra sfruttino quelli di sotto. L’importante è trasformare la rabbia contro i potenti in un odio sterile e far capire a quelli di sotto che c’è sempre qualcuno più giù col quale prendersela. Un conflitto che deve somigliare a una catena alimentare dove il pesce medio mangia quello piccolo e il piccolo si nutre del piccolissimo, e tutto ciò per alimentare il pesce più grosso e distribuire poche briciole a cascata per tenere tutti i pesciolini tranquilli.
Se la catena si rovesciasse sarebbe drammatico per chi gestisce questo sistema.Cittadini!
Ve li immaginate gli stranieri del centro di Tor Sapienza che rimproverano gli italiani poveri del quartiere perché stanno indirettamente sfruttando i bambini dell’estremo oriente? Sarebbe interessante che si indignassero per gli occidentali che comprano scarpe cucite da bambini orientali per i piedini dei propri figli. Ve li immaginate quei cittadini italiani che smettono di acquistare i prodotti dei supermercati e si affidano esclusivamente ai GAS? Ve li immaginate i lavoratori europei delle multinazionali che invece di scioperare per l’aumento di stipendio manifestassero contro l’inquinamento prodotto dalle loro aziende e contro le speculazioni dei finanzieri che siedono nei loro consigli di amministrazione? Ve l’immaginate se i militari delle opposte fazioni invece di spararsi stupidamente tra di loro rivolgessero (magari simbolicamente) le loro armi contro i politici e i generali che li mandano a morire?
Cittadini!
Ve lo immaginate quest’altro mondo?
 
 

lunedì 29 dicembre 2014

Sull'Intolleranza e sulla tolleranza

Sull’intolleranza
Un vizio attraversa tutte le culture: l'intolleranza, quella individuale e quella sociale. In nome di principi etici, di fondamenti religiosi, di concezioni del mondo diverse, di ingiustificati pregiudizi, gli uomini si aggrediscono fra loro, irrazionalmente. Nelle sue forme estreme, l'intolleranza si intreccia al fanatismo. Una razza si ritiene superiore ad un’altra e si genera il razzismo. Più che di razzismo è legittimo parlare di razzismi, basati su pregiudizi e discriminazioni e di forme di negazione del dialogo fra gruppi titolari di culture diverse, fondato sull’incomunicabilità delle culture.
Come fermare la storia? Dalla depenalizzazione dell’omosessualità, dai tempi del divorzio e dell’aborto ad oggi, molte cose sono cambiate. Diritti ed equità non possono essere più disattesi in una civiltà e società cosiddetta evoluta. Non esiste alcun motivo razionale per il quale i cittadini con caratteristiche sessuali diverse non possano avere gli stessi diritti degli altri. In tale ottica sia l’intolleranza sessuale che la morale religiosa vanno di pari passo per impedire che ciò avvenga. Di contro il sistema consumistico basato sui processi economici scopre che la tolleranza, in tal senso, è fonte di un grande profitto. E non per ragioni di rispetto dei diritti dei singoli ma per interessi di mercato, sostengono la parcellizzazione della famiglia, sostengono le associazioni di lesbiche, gay, transessuali, bisessuali poiché sottendono nuovi mercati. “La tolleranza è un buon affare”, dicono gli esperti di marketing e di vendite. I maggiori istituti finanziari del mondo sostengono manifestazioni ed iniziative di gay pride a New York, a Londra e in molte città italiane.
I problemi che si sono sviluppati negli ultimi decenni diventano dibattiti, interrogazioni parlamentari, discussioni senza fine e politici e non, sono impegnati a cercare nuove regole, nuovi compromessi, pari opportunità, quote rosa, quote gay. La Chiesa diventa intollerante, rivendica i cosiddetti “valori non negoziabili”, sostenuti da politici conservatori e bigotti che si fingono democratici ma nella realtà difendono l’indifendibile. Secondo le convinzioni religiose i “valori non negoziabili”, in termini morali, determinano l’orientamento delle scelte individuali e pubbliche. Non ammettono compromessi, deroghe, interpretazioni sul diritto alla vita dall’origine al termine dell’esistenza, il valore della famiglia fondata sull’unione perenne tra uomo e donna, il valore della giustizia sociale, il valore della pace. I legislatori, dovendo affrontare tali problematiche, devono, secondo questa ottica, essere guidati dalla morale umana. Ma in una società laica e pluralista, multiculturale e per ciò indipendente da una morale di tipo religioso, su quali basi autenticamente democratiche si baserebbe il principio d’eguaglianza dei diritti umani se nei termini morali che sono le basi delle convinzioni religiose, si discute di “valori non negoziabili” palesemente equivocando sui valori e diritti cattolici come valori e diritti umani? Perchè sconoscere che il destino dell’umanità è unico? Come non riconoscere che il rispetto, (nelle diversità culturali prodotte dalla storia e dalla sua memoria) di ogni uomo, del suo pensiero, della sua identità culturale è il vero insostituibile e condivisibile patrimonio dell’umanità?
Che dire delle convinzioni di altre confessioni religiose fondamentaliste e intolleranti, anch’esse basate sulla morale, che rifiutano ciò che contrasta con le convinzioni di verità rivelate, ovviamente non dimostrabili, che tanti disastri e dolore regalano? Ma questo è un altro discorso.
Queste brevi considerazioni, basate sulla verità di ragione, contrapposte alla verità di fede e che attivano il fenomeno dell’intolleranza che tanta parte ha negli assetti e negli equilibri dell’uomo e del cittadino. In Italia l'intolleranza sta diventando un problema sempre più grave. Lo riscontriamo giorno dopo giorno. L’uno contro l’altro sia nella sfera privata che nel pubblico, asserragliati nelle proprie convinzioni e certezze senza se e senza ma. La politica è gridata, si esprime ad insulti,  per diffamazioni; è diffusa l’ostilità preconcetta con la tifoseria per le proprie convinzioni di parte e i problemi di qualsivoglia natura creano discussioni continue con un’intolleranza individuale di fondo insostenibile. In Italia per qualsiasi cosa non si discute ma si polemizza.
La gente dice di non sentirsi a suo agio, tende a chiudersi sempre più nel privato, è sospettosa degli altri, si autodifende, litiga su ogni cosa contro tutto e tutti, non dialoga ritenendo di essere sempre da un’altra parte. Giudica gli altri senza conoscere. Appare chiaro che tutto ciò esprime un disagio sociale collettivizzato prodotto da un sistema generalizzato che esprime differenze, stili di vita, modelli diversi sempre più incomprensibili. Un ruolo fondamentale è imputabile alla mancanza di cultura e alla perdita progressiva di valori che hanno sostenuto per secoli la gente. Su questo accidentato terreno sociale i pregiudizi, gli stereotipi mentali determinano l’intolleranza collettiva, discriminazioni gratuite sempre più radicali.
Nel nostro paese in un momento come questo che stiamo attraversando, di crisi economica, politica, morale e culturale si va assottigliando sempre più il senso della solidarietà, della reciprocità che rendono nazione un popolo. Prevale l’indifferenza ad ogni cosa. Prevale il rifiuto dell’altro. Perdiamo progressivamente la memoria del nostro percorso culturale millenario. Tutto si concentra sull’incertezza politica, sul catastrofismo, sui dissesti economici sempre più gravi. Incombe una grande paura del futuro. Si coltiva così un territorio conflittuale di insofferenza diffusa che si manifesta in una vera e propria cultura dell’intolleranza. Non è facile trovare soluzioni immediate. Si aggirano i problemi, non li si affronta. Non se ne parla, si esprimono disagio e intolleranza.
Eppure il concetto di tolleranza enunciato da Voltaire nel suo Dizionario filosofico dovrebbe far riflettere. “Siamo tutti deboli, incoerenti, volubili, soggetti all'errore. Una canna piegata dal vento nel fango dice forse alla canna vicina, piegata in senso contrario: Prostrati come me, miserabile, o presenterò istanza perché ti strappino e ti brucino? ... perdoniamoci reciprocamente i nostri errori; la discordia è il grande male del genere umano, e la tolleranza ne è il solo rimedio”.

Sulla tolleranza
Cos'è la tolleranza? Ci vieneancora in aiuto Voltaire, nel suo “Dizionariofilosofico” del 1763: “Che cosa è la tolleranza? È l'appannaggio dell'umanità. Noi siamo tutti impastati di debolezza e di errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre balordaggini, è la prima legge di natura”.
I grandi filosofi dell’era moderna Voltaire, padre dell’illuminismo e John Locke, nella celeberrima Lettera sulla tolleranza condannano tutte quelle Chiese che tentano di imporre il proprio culto agli altri, appellandosi alla coscienza di ognuno. A distanza di due secoli le parole di tolleranza sono sempre più attuali ed urgenti. Quelle di Voltaire: “Odio quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”.Quelle di Locke: “Nessuno può dirsi Cristiano se impone ad altri la sua religione con la forza e la violenza”. Tra le numerose affermazioni del Trattato, dai toni provocanti e spesso graffianti, molto eloquente è quella tratta dal ventiduesimo capitolo: “...Questo piccolo globo, che non è che un punto, ruota nello spazio come tanti altri globi; noi siamo sperduti in tanta immensità. L’uomo, alto circa cinque piedi, è certamente poca cosa nella creazione. Uno di questi impercettibili dice a qualcuno dei suoi vicini, nell’Arabia o sulla terra dei Cafri: “Ascoltatemi, perché il Dio di tutti questi mondi mi ha illuminato! Ci sono novecento milioni di piccole formiche come noi sulla Terra, ma non c’è che il mio formicaio ad essere caro a Dio; tutti gli altri Egli li ha in orrore fin dall’Eternità; solo il mio formicaio sarà beato, tutti gli altri saranno dannati in eterno!”. I miei interlocutori allora mi catturerebbero e mi domanderebbero chi è il folle che ha affermato questa stupidaggine. Sarei costretto a rispondere: voi stessi. Cercherei in seguito di placarli, ma sarebbe troppo difficile...”.
In verità non è semplice, affrontando queste problematiche, ipotizzare soluzioni concrete. Come comunemente avviene nei momenti di maggior pericolo e difficoltà dell’esistere, in questi anni confusi e drammatici ci affidiamo, come riflessione ad alta voce, alla metaforica “Preghiera a Dio” di Voltaire: Non è più dunque agli uomini che mi rivolgo ma a te, Dio di tutti gli esseri, di tutti i mondi, di tutti i tempi: se è lecito che delle deboli creature, perse nell'immensità e impercettibili al resto dell'universo, osino domandare qualche cosa a te, che tutto hai donato, a te, i cui decreti sono e immutabili e eterni, degnati di guardare con misericordia gli errori che derivano dalla nostra natura. Fa sì che questi errori non generino la nostra sventura. Tu non ci hai donato un cuore per odiarci l'un l'altro, né delle mani per sgozzarci a vicenda; fa che noi ci aiutiamo vicendevolmente a sopportare il fardello di una vita penosa e passeggera. Fa sì che le piccole differenze tra i vestiti che coprono i nostri deboli corpi, tra tutte le nostre lingue inadeguate, tra tutte le nostre usanze ridicole, tra tutte le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le nostre convinzioni così diseguali ai nostri occhi e così uguali davanti a te, insomma che tutte queste piccole sfumature che distinguono gli atomi chiamati “omini” non siano altrettanti segnali di odio e di persecuzione. Fa in modo che coloro che accendono ceri in pieno giorno per celebrarti sopportino coloro che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro che coprono i loro abiti di una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che dicono la stessa cosa sotto un mantello di lana nera; che sia uguale adorarti in un gergo nato da una lingua morta o in uno più nuovo. Fa che coloro il cui abito è tinto in rosso o in violetto, che dominano su una piccola parte di un piccolo mucchio di fango di questo mondo, e che posseggono qualche frammento arrotondato di un certo metallo, gioiscano senza inorgoglirsi di ciò che essi chiamano “grandezza” e “ricchezza”, e che gli altri li guardino senza invidia: perché tu sai che in queste cose vane non c'è nulla da invidiare, niente di cui inorgoglirsi. Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Abbiano in orrore la tirannia esercitata sulle anime, come odiano il brigantaggio che strappa con la forza il frutto del lavoro e dell'attività pacifica! Se sono inevitabili i flagelli della guerra, non odiamoci, non laceriamoci gli uni con gli altri nei periodi di pace, ed impieghiamo il breve istante della nostra esistenza per benedire insieme in mille lingue diverse, dal Siam alla California, la tua bontà che ci ha donato questo istante.
Questa lunga, ma ritengo non troppo gratuita, chiacchierata introduttiva potrebbe servire per identificare alcuni spunti di riflessione collettiva, sulle problematiche particolarmente complesse circa i rischi sociali, rispetto al passato, che stiamo vivendo con difficoltà e che costituiscono le motivazioni culturali.  Bisogna promuovere l’indispensabile “cultura del rispetto” della persona,  dei diritti dell’uomo e delle differenze e sollecitare la consapevolezza della dignità della persona umana.  
 
(Una parte del  mio testo tratto dalla  presentazione per la mostra fotografica di Francesco Seggio: “Rispetto” 100 faccecontro l’intolleranza", gennaio 2013)


Tanti auguri di collasso economico. Per salvarci

In un suo recente 'Cucù' sul Giornale Marcello Veneziani lamentava «la disfatta dell'intelligenza». Non mi pare sia così. Non è certo l'intelligenza che manca ai Ferrara, ai Battista, ai Della Loggia. Gli manca l'onestà intellettuale, deficit che poi, discendendo giù per rami meno nobili, diventa anche disonestà materiale. Di intelligenze, in Italia, ne abbiamo a carrettate. Siamo diventati tutti furbissimi. E i fessi, cioè le persone magari intellettualmente modeste ma oneste, rispettose della propria come dell'altrui dignità, sono una minoranza, ridicola, patetica, da rinchiudere in qualche riserva, per conservarli se non altro come curiosità antropologica.
Più convincente mi sembra il discorso di Veneziani quando osserva che alla politica, di sinistra o di destra, manca una visione d'insieme. Ma questo non è un problema precipuamente italiano ma occidentale. Fin dagli albori della nostra civiltà sono stati i filosofi a orientare la politica. Nella Grecia antica Aristotele e Platone, nell'Alto Medioevo ancora Aristotele (ipse dixit) e i Padri della Chiesa, nel Basso Medioevo la Scolastica (Tommaso d'Acquino, Alberto Magno, Raymond de Pennafort, Enrico di Langenstein, Nicola Oresme) che condusse una generosa battaglia, a lungo vincente, contro il profitto e contro non solo l'usura, come si cerca di far credere, ma anche contro l'interesse con la sottile motivazione che «il tempo è di Dio e quindi di tutti e non può essere quindi oggetto di mercato». In seguito, con l'Illuminismo, Kant, Hegel, la sinistra e la destra hegeliana, Marx e tutti i discendenti di queste linee, liberiste o marxiste in economia. L'ultimo filosofo degno di questo nome è stato Martin Heidegger, attivo negli anni Trenta, che ha posto la questione cruciale, nella modernità, della tecnica. Da allora il pensiero è morto. E anche la filosofia politica. Perché si basa su due categorie, la Destra e la Sinistra, che, oltre a non differenziarsi quasi più in nulla da quando anche la Sinistra ha accettato le regole del mercato, sono vecchie di due secoli, due secoli che hanno corso a velocità cosmica, e non sono in grado di comprendere le esigenze più profonde dell'uomo contemporaneo che, al di là delle apparenze, non sono economiche ma esistenziali. Ci muoviamo determinati da un meccanismo, «il produci, consuma, crepa» per dirla con i CCCP (che negli ultimi tempi è diventato, paradossalmente, «consuma per produrre» e, naturalmente, crepa). Ma non ci chiediamo nemmeno più se questo meccanismo abbia un senso e quale e dove ci stia portando. Beppe Severgnini scrive sul Corriere (22/12): «Il mondo ci riconosce che, per adesso, non si è inventato niente di meglio della democrazia e del mercato». Mi sembra un modo molto autoreferenziale, e anche un tantino infantile, di ragionare. Quel mondo che «ci riconosce» siamo noi. In altri mondi la si pensa diversamente. E anche nel nostro mondo c'è molta gente, meno intelligente di Severgnini, che sente, intuisce, che siamo al tracollo. Si possono immaginare, per parafrasare Isaac Asimov, un paio di 'catastrofi a piacere'. Un collasso del mondo economico globale, perché abbiamo immesso nel sistema una quantità di denaro talmente enorme da non corrispondere più a nulla se non a una scommessa su un futuro così sideralmente lontano da essere inesistente. Oppure un collasso ambientale. Il primo precederà, molto probabilmente, e fortunatamente, il secondo, evitandolo. E dobbiamo sperare che arrivi al più presto. Perché almeno le nuove generazioni possano ricominciare da capo.
Questo, cari lettori del Fatto, è il mio augurio di un Buon e Santo Natale.


LA COERENZA È MERCE RARA MA IN ITALIA LA CONOSCE SOLO LA MAFIA

Prima di affrontare il tema mi corre tuttavia l'obbligo di dire alcune verità (così almeno credo che siano) su tre questioni di bruciante attualità: il Jobs Act, la legge delega approvata dal Parlamento ha dato luogo ai primi due decreti attuativi; la legge elettorale che sarà tra breve trasmessa in Parlamento e la riforma della legge di Bilancio che il governo proporrà alle Camere il prossimo autunno.
Tre temi della massima importanza, i primi due hanno già suscitato profonde divisioni e aperto un confronto molto serrato con le organizzazioni sindacali dei lavoratori, mentre il terzo è finora ignorato da giornali e pubblica opinione, ma il governo ci sta lavorando e susciterà anch'esso nel momento in cui sarà presentato in Parlamento, proteste altissime e profonde divisioni. *** Ho già scritto domenica scorsa che il Jobs Act non crea alcun nuovo posto di lavoro, semmai può distruggerne alcuni. Saranno infatti assunti altri precari per un periodo massimo di tre anni, con salari inizialmente assai bassi ma lentamente crescenti. Dopo tre anni gli imprenditori decideranno se assumerli con un contratto a tempo indeterminato ma fermo restando che non godranno — come invece ancora accade per i vecchi assunti — dell'articolo 18. Per i nuovi assunti il 18 non esiste più; ci sarà dunque una diversa contrattualità per lavoratori che fanno il medesimo lavoro nella medesima azienda. La questione potrebbe creare imbarazzi con la Corte costituzionale.
Il Jobs Act non crea dunque alcun posto di lavoro. Potrà forse promuovere i precari in dipendenti regolari di quell'azienda (ma senza articolo 18) concedendo contemporaneamente un forte risparmio agli imprenditori che saranno premiati con l'esenzione dai contributi e con la piena libertà di licenziare i neoassunti durante i primi tre anni ma anche dopo, contro pagamento di un indennizzo da trattare tra le parti.
Il Jobs Act ha avuto nel corso del suo iter parlamentare sotto forma di legge delega molteplici mutamenti, quasi tutti in maggior favore degli imprenditori. In questi ultimi giorni sono usciti i due primi decreti attuativi che saranno presentati alla commissione parlamentare incaricata di fornire al governo un parere puramente consultivo, ma già si sa che in quei decreti c'è anche un trattamento per i licenziati collettivamente (in numero da cinque in su): anche in questo caso indennizzi ma non reintegro deciso — come era un tempo — dal giudice del lavoro.
Grande soddisfazione degli imprenditori ma altrettanto grande opposizione dei sindacati che protestano, invieranno ricorsi alla Corte di Bruxelles contestando i licenziamenti collettivi e forse indiranno nuovi scioperi di categoria o generali. Si può ovviamente dissentire in merito ma sta di fatto che il governo ha scelto da che parte stare e non è una scelta accettabile quella dei forti mettendosi sotto i piedi i deboli.
Si dice che leggi di questo tipo sono gradite dalla Commissione europea, dalla Bce e dal Fmi. A me non pare. Quei tre enti desiderano che l'Italia, come tutti i governi dell'Eurozona, rispetti gli impegni presi: il "fiscal compact", una politica tendente a ridurre il debito pubblico sia pure con qualche concessione nei tempi e nella quantità, l'aumento della produttività e della competitività. Con quali strumenti questi due ultimi obiettivi debbano essere realizzati non c'è scritto da nessuna parte. Secondo me dovrebbero essere realizzati dagli imprenditori attraverso la creazione di nuovi prodotti e nuovi metodi di produzione e distribuzione. Dell'articolo 18 all'Europa non interessa nulla, riguarda il governo italiano. Produttività e competitività riguardano le aziende e chi le guida, il costo del lavoro, i licenziamenti eventuali e quanto ne deriva pesano esclusivamente sui lavoratori. Per un partito che si definisce di sinistra democratica questa scelta non mi sembra molto coerente.
*** 
La legge elettorale approderà in Parlamento la prossima settimana e il primo voto dovrebbe avvenire prima del 14 gennaio, giorno in cui sembra che Napolitano lascerà il Quirinale. A me quella legge complessivamente sembra una buona legge che contiene nell'ultimo articolo la clausola di garanzia secondo la quale non potrà essere applicata prima dell'autunno 2016.
La chiamano l'Italicum e — lo ripeto — mi sembra efficace ma è aggrappata all'abolizione del Senato, riforma che mi sembra invece pessima. Ne ho spiegato più volte i motivi e non starò dunque a ripetermi, ma è evidente che la legge elettorale della Camera senza più un Senato crea un regime monocamerale che rafforza moltissimo il potere esecutivo e attenua i poteri di controllo del potere legislativo.
Questo è l'aspetto estremamente negativo: non l'Italicum ma il Senato relegato ad occuparsi delle attività delle Regioni essendo i suoi membri eletti dai rispettivi Consigli regionali. Per un governo che vuole rafforzare i propri poteri questa riforma è l'ideale.
*** 
 Terzo argomento la legge di Bilancio. Attualmente ce ne sono tre: quello che fu un consuntivo del bilancio alla fine dell'anno; quella che un tempo si chiamò legge finanziaria e indica la politica economica e i suoi obiettivi per l'anno futuro; la terza è il trattato europeo dal quale deriva il "fiscal compact" applicato all'Italia da una deliberazione di Bruxelles che ha valore costituzionale per tutti i Paesi dell'Unione. Ricordo tra parentesi che nella Costituzione italiana esiste l'articolo 81 (che fu ispirato da Luigi Einaudi, a quell'epoca ministro del Bilancio e ancora governatore della Banca d'Italia).
Era molto semplice l'articolo 81: tre commi in cui la frase decisiva diceva: «Non può esser fatta alcuna spesa senza che ne sia indicata l'entrata corrispondente ». Ricordo che negli anni Sessanta esisteva alla Camera un comitato di Bilancio (del quale io feci parte nella legislatura 1968'72) al quale andavano tutte le leggi di spesa per un controllo preliminare. Il comitato aveva a disposizione tutti i dati necessari per valutare se il dettato dell'articolo 81 fosse stato rispettato. Se il parere era negativo il governo ritirava il disegno di legge per rifarlo su basi completamente diverse.
Credo che quel comitato sia stato sciolto e forse ricostituito con nuove e più elastiche mansioni. Ma la legge di Bilancio, sia pure attenuata, esiste tuttora e discute, approva o respinge il bilancio sempre sulla base dell'articolo 81 che però è stato alleggerito con l'abolizione del terzo comma dal governo Monti nel 2012.
Nel prossimo autunno quella legge sarà fusa con l'attuale legge di stabilizzazione. Nel frattempo la parola pareggio è stata sostituita (negli studi preparatori in corso) dalla parola equilibrio. La legge deve cioè dimostrare per il passato e promuovere per il futuro l'equilibrio tra le entrate e le spese. All'articolo 81 dunque diamo addio. È chiaro che l'equilibrio sarà anche valutato dal Parlamento cioè dalla Camera ed è chiaro altrettanto che la Camera è un'assemblea in gran parte di "nominati" dalle segreterie del partito che vincerà le elezioni. E poiché siamo un Paese di spendaccioni, è legittimo pensare che il debito continuerà ad aumentare come del resto sta già avvenendo sia pure in regime di "fiscal compact". Avveniva perfino con l'81 vigente, aggirato in vari modi; figurarci ora che sarà completamente abolito che cosa farà la "Compagnia dei magnaccioni". Dio ci scampi, ma temo che il Padreterno sia in tutt'altre faccende affaccendato.
 *** 
Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò.
Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano.
Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il "fai da te". È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene.
Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell'organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L'esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui "fai da te" ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro.
Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo "padri della Patria", una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l'obiettivo era unico.
Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano.
Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei "Promessi Sposi" e pensate a Jean Valjean dei "Miserabili" di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d'Assisi e Benedetto.
Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un'opera santa e fornirebbero un'educazione che costituisce la base di un Paese civile.

Eugenio Scalfari (La Repubblica, 28 dicembre 2014)