martedì 26 giugno 2018

#senzadivoi


Non so chi sia davvero Elena Ferrante. Ma so, dopo aver letto l’ultima sua rubrica sul Guardian, che oltreché una grande scrittrice, è anche una delle migliori teste della sinistra italiana. In poche righe spiega meglio di qualunque trattato politologico quel che accade dopo il 4 marzo: “La guerra contro il Movimento 5Stelle ci ha impedito di vedere che il pericolo è un altro: la Lega di Matteo Salvini”. La Ferrante non ha votato 5Stelle, ma centrosinistra. Eppure del M5S dice: “Mi è estraneo il suo linguaggio confuso, a volte ingenuo, a volte banale. Ma penso anche che sia un grave errore considerarlo un pericolo per la democrazia italiana e, più in generale, per l’Europa… Non ho mai condiviso l’apprensione per l’ascesa politica dei 5Stelle. Mi è sembrato un importante contenitore per lo scontento generato dal modo disastroso con cui i governi di destra e di sinistra, in Italia come in Europa, hanno affrontato la crisi economica e il cambiamento epocale che stiamo vivendo”. Su un unico punto, secondo me, la Ferrante sbaglia: là dove parla di “errore”. La sistematica demonizzazione-emarginazione dei 5Stelle nell’ultimo quinquennio non è stata un errore: ma una scelta precisa. Una sera, prima di un dibattito a La7, l’ho sentita teorizzare dall’allora premier e segretario del Pd Matteo Renzi: “Per me Salvini è l’avversario ideale. Se continua a crescere e a frenare l’avanzata 5Stelle, per noi è una pacchia, perché spaventa la maggioranza degli italiani che fra noi e lui, magari turandosi il naso, preferiranno sempre noi”.
Era, credo, l’autunno del 2014: il Pd era reduce dal trionfo (40,8%) alle Europee, aveva tutta la grande stampa e i poteri forti ai suoi piedi, controllava militarmente ogni angolo della Rai. Eppure – guardacaso – Salvini scorrazzava da un programma all’altro, dal “servizio pubblico” a Mediaset a La7, e rubava voti al M5S (sceso sotto il 20%) con le solite sparate sui migranti e i diversi: tant’è che la Lega, presa al 4%, veleggiava nei sondaggi oltre il 10. E così per un anno, fino all’inatteso stop della tarda estate 2015, per la celebre immagine di Aylan Kurdi, il bimbo siriano in fuga dalla guerra trovato morto a testa in giù sulla spiaggia turca. Una foto storica che fece il giro del mondo, ribaltò per qualche mese il sentire comune sull’immigrazione e tappò la bocca al Cazzaro Verde. Poi, col nuovo boom di sbarchi, il pendolo dell’opinione pubblica tornò indietro. E quando nel 2017, dopo quattro anni di vacanza (cioè di Alfano), al Viminale arrivò Minniti, la sua politica di rigore e pragmatismo fu troppo tardiva per non sembrare concorrenza sleale a Salvini.
Il quale, intanto, era stato risparmiato dal fuoco concentrico della propaganda dei media renzian-berlusconiani (quasi tutti). Anzi era stato invitato al tavolo del Rosatellum con Renzi e B., per tener fuori il M5S. E anche quando, in campagna elettorale, il Pd gli improvvisò una marcia antifascista contro, dipingendolo come il nuovo Mussolini, non fece altro che renderlo ancora più popolare: tra chi notava l’eccessiva iperbole propagandistica e tra chi un ducetto l’aveva sempre sognato.
Frattanto l’unico vero bersaglio della demonizzazione di massa erano i 5Stelle. Le favolose fortune della Casaleggio Associati (sempre in perdita). Le parolacce di Grillo. I crimini contro l’umanità della Raggi (origine e causa di tutti i mali del mondo, dal famigerato Spelacchio in su). Gli efferati delitti dei putribondi Appendino e Nogarin. L’orrore senza fine perché 6-7 parlamentari su 130 non si erano tagliati la paga (come da sempre tutti quelli di tutti i partiti). I sarcasmi razzisti e classisti per la tesi di laurea di Fico sui neomelodici napoletani e per la non-laurea di Di Maio, scandalosamente privo di un posto fisso nel Sud della piena occupazione. Il pregiudizio universale su Conte, dipinto come una nullità che ci avrebbe mandati tutti in malora perché non frequenta i cocktail, le cene, le terrazze, i salotti e i giri giusti.
Mutatis mutandis, la sinistra politica, mediatica e intellettuale ha replicato con la Lega lo schema adottato per 25 anni con B.: fingere di combatterlo, ma in realtà tenerlo in vita come comodo spaventapasseri per costringere tanta brava gente a votare il “meno peggio” dall’altra parte; e fucilare chiunque altro (Di Pietro, Girotondi, Cofferati ecc.) osasse far concorrenza a quelli “giusti”. Questa destra orrenda (prima con B. e ora con Salvini) per il centrosinistra non solo non è mai stata un problema: ma è sempre stata una benedizione, l’unica ragione di sopravvivenza di un ceto politico che altrimenti non avrebbe alcun senso. Finché dall’altra parte c’è il babau, da questa si può continuare in eterno con le vecchie facce e le vecchie pratiche, senz’alcuno sforzo di rinnovamento. Se invece c’è un movimento di facce nuove, ingenue e impreparate finché si vuole, ma pulite e sintonizzate sui bisogni di milioni di esclusi, è finita. Perciò il Sistema ha sempre accettato la Lega, anche quella salviniana, come una forza addomesticabile e utilizzabile (infatti ora ci si aggrappa come all’ultima zattera per riciclarsi o almeno non estinguersi). Ma ha sempre vomitato gli incontrollabili 5Stelle come corpi estranei, marziani, barbari, usurpatori. Il gioco però non ha funzionato, perché la maggioranza degli elettori era talmente schifata dal passato da premiare sia il nuovo dei 5Stelle sia l’usato finto-nuovo della Lega, portandoli al massimo storico di voti.
Così la geniale strategia di Renzi & B. di scatenare Salvini contro Di Maio per far perdere i 5Stelle, far vincere Pd e FI e propiziare il governo Renzusconi ha sortito l’effetto opposto. E continua a sortirlo dopo il gran rifiuto dem di qualunque dialogo coi 5Stelle per spingerli tra le fauci di Salvini, confidando nel controesodo degli elettori. Che invece restano dove sono o stanno a casa, ma una sola cosa non fanno: tornare all’ovile, visto che non sono pecore. Anche perché quel che vuol fare la maggioranza giallo-verde, l’hanno capito tutti. Ma cosa voglia fare il Pd, a parte quel che ha già fatto con banche, lobby, vitalizi, rimborsopoli, scandali, Ilva e grandi opere inutili, non lo capisce nessuno.
Renzi si arma di pop-corn e sfida 5Stelle e Lega a mantenere le promesse, che lui però considera pericolose, letali e un po’ fasciste, dunque non si vede il senso dei pop-corn e di tutto il resto. A meno che i pop-corn non siano per l’eventuale pubblico dei format tv che, archiviata la trovata del partito Micron (dato dai sondaggi al 4%), il Matteo minor si propone di scrivere nella sua ultima reincarnazione di autore e conduttore tv (lo vedremo presto a fare il valletto di Paola Perego in Pomeriggio in famiglia con la Boschi o a Forum con babbo Tiziano e mamma Laura imputati per false fatture). Calenda, che è un Renzi con più pancia, rilancia l’ideona del “fronte repubblicano”, senza spiegare con chi ce l’ha (coi monarchici?). E vuole “andare oltre il Pd”, come peraltro fanno gli elettori da mo’. Per le ragioni che spiega bene la Ferrante.
L’autoreggente Martina dice che “dal Pd non si po’ prescindere”, mentre gli italiani ne prescindono benissimo. Il capogruppo renziano Marcucci si consola a modo suo: “Visto? Il Pd perde anche senza Renzi”. E sono soddisfazioni: manco fosse una gara a chi riesce a perdere di più. Da oggi il Fatto ascolta le voci più autorevoli della sinistra sul fu Pd e su come ridare forma a un patrimonio politico e culturale, senza il quale la democrazia diventa zoppa: per mancanza di opposizione ed eccesso di maggioranza.
Infatti, mentre lorsignori si accapigliano sulla parola “oltre” (che sostituisce, negli onanismi dem, il celebre “trattino” fra centro e sinistra) e su concetti astrusi come congressi, primarie, assemblee e direzioni, il bipolarismo che sognano di riesumare per tornare in gioco come baluardi al “populismo” si realizza alle loro spalle, tutto interno alla maggioranza “populista”: chi teme Salvini guarda a Conte, Di Maio e Fico, sperando che lo tengano a bada. Non chiede certo aiuto al Pd, che nessuno calcola più. Ricordate il geniale hashtag renziano contro il dialogo con i 5Stelle? Diceva così: #senzadime. Ora è il motto degli elettori in fuga.

Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 26 giugno 2018)


sabato 23 giugno 2018

Lo stadio non serve quindi si deve fare


Cominciamo col fatto più semplice, quello che ha dato inizio a una sorta di ‘Mafia Capitale 2’: lo stadio della Roma. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché mai nella Capitale la Roma dovrebbe costruirsi un nuovo stadio quando uno stadio già c’è, efficiente e sufficiente. Qualcuno dovrebbe spiegarci perché mai si dovrebbe fare questo nuovo stadio quando negli stessi uffici amministrativi della Capitale, nel 2017, si riteneva che sarebbe stato “una schifezza”. Così lo definiva Carlo Notarmuzi, titolare dell’ufficio per la concertazione amministrativa. Una schifezza, ma necessaria secondo lo stesso Notarmuzi. Perché necessaria? Elementare Watson. Lo spiega quanto è avvenuto, nel 1990, per lo stadio di San Siro. Secondo i preventivi doveva costare 35 miliardi di lire e invece arrivò a 170, rovinando oltretutto “la Scala del calcio”, il miglior stadio d’Europa insieme a Wembley e al Prater di Vienna. Necessario quindi perché si sapeva che il nuovo stadio avrebbe scatenato gli appetiti illegali di costruttori, amministratori, politici e partiti. La nuova giunta di Virginia Raggi inizialmente si oppose anche perché il nuovo stadio avrebbe distrutto un altro tempio dello sport, l’ippodromo di Tor di Valle. Ma per non fare la parte del nuovo Molotov, il diplomatico sovietico famoso perché diceva niet a tutto, la Raggi, che aveva già dato il suo no alle Olimpiadi, si accontentò di un ragionevole compromesso: il dimezzamento delle cubature in cemento. Ma la sostanza non è cambiata. Gli appetiti si sono ugualmente scatenati dando origine al cosiddetto ‘caso Parnasi’, il costruttore romano che, come a suo tempo Ligresti, ha le mani dappertutto e su tutto. Ma rispetto alla già grave vicenda Ligresti ci sono due differenze. Parnasi non ha solo “le mani sulla città”, per usare il titolo di un film di Rosi, cioè su Roma, ma anche su Milano e altri centri nevralgici del Paese. La seconda differenza è che qui sono coinvolti tutti, ma proprio tutti, gli strati sociali: partiti, politici, amministratori di ogni rango, palazzinari, imprenditori, brasseur d’affaires, avvocati di grido, docenti universitari, l’Opus Dei. Che Roma sia corrotta e parassitaria lo si sa dai tempi dell’Impero. Ma adesso questa corruzione, discendendo giù per li rami, ha creato metastasi in tutto il Paese.
Lo spartiacque sono state le inchieste di Mani Pulite del 1992-94 quando i magistrati di Milano chiamarono anche ‘lorsignori’ a rispondere a quelle leggi che tutti noi siamo tenuti a rispettare. Per un momento sembrò che questa fosse l’occasione per la nostra classe dirigente per emendarsi di atavici vizi che avevano già fatto capolino fin dai primi anni Sessanta e che poi si erano estesi a tutti i partiti e a buona parte degli imprenditori. Il pool di Milano acquisì una risonanza non solo nazionale ma anche internazionale e l’Italia venne indicata come “Paese esemplare” che sapeva rimediare ai propri atavici difetti. Antonio Di Pietro divenne un eroe nazionale omaggiato e corteggiato da tutti (le famose “dieci domande a Tonino” di un editoriale di Paolo Mieli sul Corriere; il nuovo premier Berlusconi voleva fare di lui il proprio ministro degli Interni). Fu solo un lampo. Bastarono due anni per capovolgere, in un drammatico gioco delle tre tavolette, l’orientamento non solo della classe politica ma anche, attraverso i media berlusconiani e non solo, della popolazione: i magistrati divennero i veri colpevoli, i ladri le vittime e Di Pietro l’uomo più attaccato d’Italia.
Da allora, nel totale disgregamento etico degli italiani, non è venuta a mancare di fatto solo la sanzione penale, ma anche quella, forse ancor più importante, sociale, che pur nei primi anni ‘90 esisteva ancora. Emblematico è il caso di Luigi Bisignani. Piduista, condannato a due anni e sei mesi di reclusione per reati contro la PA e radiato dall’Ordine dei giornalisti. Si penserebbe che un simile soggetto non avrebbe più potuto metter piede nemmeno nel più marginale degli uffici pubblici. Invece lo ritroviamo coinvolto come consigliere dell’amministratore delegato delle Ferrovie Lorenzo Necci nella cosiddetta ‘Tangentopoli due’. Diventa poi consigliere di Scaroni presidente dell’Eni, per i suoi rapporti privilegiati con la Libia. Coinvolto poi ancora nella vicenda 'P4' lo troviamo oggi indagato per lo scandalo dello stadio della Roma. Nel frattempo è diventato editorialista e un ambito ospite dei talk show televisivi.
Adesso nel malcostume generale sono stati coinvolti anche dei rappresentanti dei 5Stelle, i vessilliferi della legalità. Credo che rimontare una situazione del genere che perdura da quasi quarant’anni sia impossibile anche per chi abbia le migliori intenzioni. Come scrissi in un articolo sul Fatto di qualche tempo fa: in Italia ci sarebbero così tante cose da fare, che ormai non c’è più nulla da fare.



venerdì 22 giugno 2018

S.


Mentre il premier Giuseppe Conte ottiene il primo successo internazionale, incassando dalla Merkel la retromarcia di Berlino e Parigi sulla bozza d’accordo Ue che ancora una volta penalizzava l’Italia sui migranti, il vicepremier Matteo S. s’incarica puntualmente di oscurarlo con la sua sparata quotidiana a costo zero e a danno mille (per l’Italia e alla lunga anche per lui). Stavolta ce l’ha con Roberto Saviano, che si è permesso di criticarlo: “Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero. Valuteranno come si spendono i soldi degli italiani. Gli mando un bacione”. 
La tentazione ormai è quella di ignorare tutto ciò che esce dalla bocca del cosiddetto ministro dell’Interno, che muore dalla voglia di dominare ogni santo giorno le aperture di tg e giornali. E di concentrarci sui fatti e gli atti concreti, finora pochini (almeno da parte sua). Presto inaugureremo la rubrichetta “Il Cazzaro Verde”, per riportare le sue quotidiane scemenze e incontinenze alle dimensioni che meritano: 10 righe. Il che non vuol dire mettergli il silenziatore sulle questioni di sostanza. Per esempio, l’annunciato e poi ritirato censimento etnico sui Rom: è vero che non porterebbe ad alcun risultato pratico neppure se si facesse (i Rom sono un po’ italiani, un po’ romeni, un po’ slavi, dunque comunitari, ergo nemmeno uno – anche volendo – può essere espulso), ma solo a evocarlo già produce nuovo razzismo a buon mercato nella nostra società avvelenata. 
Queste sono le critiche da muovere a Salvini: non gridare ogni giorno al fascismo, magari senza riconoscere i risultati ottenuti dal governo (come lo storico precedente di un posto non italiano, ma spagnolo, che accoglie migranti dalla nave di un’Ong). Idem per la polemica sulla scorta di Saviano, che non è la solita flatulenza uscita dal buco sbagliato: è una questione di sostanza che ci portiamo dietro dai tempi di Giovanni Falcone, quando alcuni signorini molto perbenino del suo quartiere nel centro di Palermo si misero a strillare perché, signora mia, tutte quelle sirene li innervosivano. Qualche tempo dopo, forse per non disturbare altri sensibilissimi cittadini, forse per ragioni più inconfessabili, il prefetto e il questore pensarono bene di non vietare i parcheggi in via D’Amelio, dove abitava l’anziana madre di Paolo Borsellino. Col risultato di agevolare il lavoro dei killer mafiosi, che poterono posteggiarvi indisturbati la Fiat 126 imbottita di tritolo e farla esplodere al suo arrivo il 19 luglio 1992. Sulle scorte non si scherza. 
Saviano non è l’oracolo di Delfi (nessuno lo è) e si può tranquillamente dissentire da lui, come ogni tanto amichevolmente facciamo anche noi. Sui migranti criticò la linea dura di Minniti e ora critica la linea durissima di S.: tutto gli si può dire, tranne che non sia coerente o agisca per conto terzi. Ai tempi del governo Renzi, criticò i silenzi del presunto rottamatore sulle mafie e chiese le dimissioni della Boschi per i conflitti d’interessi su Etruria, beccandosi gli insulti dei rottweiler pidini (Rondolino lo paragonò sull’Unità a un “mafiosetto di quartiere” nel silenzio di tutti, compreso il suo giornale, ma non del Fatto). 
Ora S. vuole rispondergli nel merito, opponendogli le sue ragioni (vere o presunte)? Lo faccia. Ma la smetta di tirare in ballo la sua scorta (non è la prima volta che lo fa). Perché Roberto non se l’è data da solo. Perché chiunque ce l’abbia fa una vita di merda. E perché non si può minacciare di levarla a chi dissente. Altrimenti è un ricatto, minaccioso e pericoloso: se mi elogi ti proteggo, se mi critichi ti lascio ammazzare. E nessun uomo delle istituzioni – parrà strano, ma anche S. da 21 giorni lo è – può permettersi questi messaggi mafiosetti: lo Stato non è roba sua, e nemmeno le forze dell’ordine o le scorte. 
Che vanno assegnate a chi è in pericolo, per i più svariati motivi, a prescindere da chi è e come la pensa. A questo proposito, ieri il pm antimafia Nino Di Matteo ha rivelato a un convegno che il suo ex collega Antonio Ingroia è senza scorta da maggio. Guardacaso gliel’hanno tolta 15 giorni dopo le condanne degli imputati all’ultimo processo istruito da lui: quello sulla trattativa Stato-mafia. Stiamo parlando di un ex pm molto noto e riconoscibile che per 35 anni ha dato la caccia ai mafiosi e anche ai loro complici nelle istituzioni, nei servizi segreti, nella politica, nell’economia (facendo condannare in via definitiva, fra gli altri, Bruno Contrada e Marcello Dell’Utri). 
Che molti mafiosi (e non solo mafiosi) lo vogliano morto, non è un mistero per nessuno. Chi ha deciso, ai tempi supplementari del governo Gentiloni e del ministro Minniti, di lasciare Ingroia senz’alcuna protezione? Sappiamo benissimo che il pensionamento o le dimissioni di un magistrato non bastano a metterlo al sicuro: le condanne a morte delle mafie durano in eterno, qualunque cosa facciano i condannati (Falcone fu ucciso quand’era fuori servizio, prestato al ministero della Giustizia). Quindi il nuovo governo, nella persona di S., provveda subito, senza neppure porsi il problema delle idee di Ingroia, che sono affar suo. E, se tiene alla poltrona, provi a ricordare quel che accadde a un suo predecessore: il ministro dell’Interno Claudio Scajola, che nel 2002 dovette dimettersi per aver definito “rompicoglioni” il professor Marco Biagi, consulente del suo governo, appena ammazzato come un cane mentre tornava a casa in bicicletta sotto i portici di Bologna, dopo aver ripetutamente segnalato al Viminale le minacce subìte e chiesto invano protezione. Anche Ingroia e Saviano sono “rompicoglioni”. E a noi, per solidarietà di categoria, i rompicoglioni piacciono un sacco. Li preferiamo vivi.

Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2018)


Gab Loter e il rap spiegato a chi vuol vivere con lentezza


Su Youtube si assiste a un fenomeno curioso, interessante e anche vagamente inquietante. Un certo Gab Loter, nome chiaramente di fantasia, che preferisce restare nell’anonimato (si sa solo che ha una trentina d’anni), ha la stessa, identica, voce, lo stesso timbro, le stesse lente cadenze, le stesse pause di Fabrizio De André. Ma non canta i brani del celeberrimo aedo (che Paolo Villaggio, esagerando un po’ come suo solito, definiva “il più grande poeta del Novecento”) ma dei rapper oggi in voga, da Fedez in giù. Ora, i versi dei rapper paiono non solo a noi, che siamo del pleistocene, ma anche a un sessantenne, a un cinquantenne, a un quarantenne, di una banalità sconcertante (“Tu sei come il mare/ volevo dirtelo” di Ermal Meta, ma che roba è?). Cantate però dallo pseudo De André acquistano se non un’abissale profondità certamente un senso che a noi ‘vegi’ (intendo le persone dai quaranta in su) senza l’intermediazione di Gab Loter sfugge. Evidentemente riportati su codici musicali che conosciamo o riconosciamo, quelli di De André, riusciamo a capirne anche i testi. Per i ventenni e i trentenni invece la comprensione è immediata. Non hanno bisogno di codici. Li hanno già dentro di sé.
Bravo, dirà il lettore, hai scoperto l’acqua calda: il gap generazionale, che è sempre esistito. Fino a un certo punto. Un tempo, non poi così lontano, diciamo nei Cinquanta, i sociologi e la gente comune misuravano il gap generazionale in vent’anni. Se andiamo solo un po’ più indietro, i valori della generazione di mio padre, che era del 1901, restavano ottocenteschi, non molto dissimili quindi da quelli delle generazioni precedenti. Il gap c’era, ma molto più dilatato nel tempo. Andando ancora più indietro, scavalcando a ritroso la Rivoluzione industriale, nella società statica medioevale il gap era praticamente inesistente.
Una ventina di anni fa ho assistito a un divertente siparietto fra mio figlio, che aveva allora 22 anni, e un ragazzetto di 17 che c’era capitato in casa. Naturalmente per mio figlio, che era allora appassionato, mi pare, di R&B (anche se c’era una fondamentale distinzione fra l’R&B classico e quello contemporaneo) io non capivo nulla di musica moderna, e non solo, ero un uomo del pleistocene. I due si misero a discutere: secondo il piccolo ospite era mio figlio a non capire un cacchio di musica, era lui il pleistocenico. Eppure fra i due correvano solo cinque anni di differenza (se mio figlio legge queste righe anticipa l’eutanasia cui gli ho dato diritto).
Ritorniamo a Gab Loter. Mi pare che il suo esperimento metta il dito, non so quanto coscientemente, su uno degli ‘idola’ della nostra società: la velocità. Il ritmo di Gab Loter è lento e quindi il suo dire comprensibile a tutti, quello dei rapper precipitoso e quindi ciò che vogliono comunicare incomprensibile se non ai loro adepti.
Usciamo dal campo della musica. Sono le violente e continue accelerazioni cui ci costringe la società tecnologica a farci viver male. Negli Stati Uniti, soprattutto in campo digitale, si è obsoleti già a quarant’anni. Se in Italia i cinquantenni non trovano lavoro non è solo perché non c’è ma anche perché il loro know-how è superato (qualcuno ricorderà, forse, il bel film di Soldini “Giorni e nuvole”). E’ difficile, logorante, sfibrante tener dietro ai continui cambiamenti.
Ma c’è qualcosa di più profondo e di più grave. La velocità ci impedisce di riflettere. C’è un bel libro, “La scoperta della lentezza” di Sten Nadolny. Racconta la storia di un ragazzo che, rispetto ai suoi coetanei, è lento di riflessi, quasi torpido, sempre ultimo nei giochi. Si chiama John Franklin. Diventerà un grande esploratore polare e lo scopritore del leggendario passaggio a nord-ovest nell’Artico. Cos’era successo? Mentre i suoi compagni si sfrenavano nei giochi lui rimuginava, osservava, incamerava, assimilava.
Sì, dovremmo andare più lenti, molto più lenti. Perché la velocità ci impedisce di riflettere e finisce per offuscare l’intelligenza e la sensibilità. Non è un caso che non nascano più, almeno nell’ultradinamico Occidente, scrittori del livello di Proust, di Céline, di Kafka, di Dostoevskij e di tutta la straordinaria filiera dei grandi autori russi. Non è certamente un caso che l’ultimo filosofo degno di questo nome sia stato Martin Heidegger, attivo negli anni Trenta del Novecento, che pose al centro della sua riflessione proprio la Tecnica. E mi rifiuto di pensare che se, imitando Gab Loter in altro campo, leggessimo Massimo Cacciari con i ritmi della scrittura heideggeriana il pensiero del filosofo veneziano risulterebbe diverso da quello che appare: privo di senso.



mercoledì 20 giugno 2018

La (non) Divina Commedia e i Brutti, sporchi e cattivi.



Quello che desta stupore nella vicenda delle intemerate sparate salviniane non è il contenuto delle stesse, abbastanza  prevedibili e, se vogliamo scontate, in quanto riconducibile alle tradizionali  “retoriche del disumano” di stampo leghista, bensì il largo consenso popolare che le stesse suscitano; stando ai sondaggi la Lega è virtualmente diventato il primo partito in Italia.
Le categorie economicamente e socialmente più deboli (migranti, rom), usate come bersagli politici, riescono a solleticare con potente forza emotiva i sentimenti di intolleranza e addirittura di invidia sociale.
L’intolleranza verso gli altri, gli “ultimi” che, in quanto tali, sarebbero espressione di una umanità di grado zero in preda a istinti poco nobili se non addirittura delinquenziali,  trova perfetta sintesi nel noto motto “prima gli italiani!”, che fa pensare alle suddette categorie come beneficiari di diritti non dovuti  e immeritati. E pure fino a non molti anni fa gruppi sociali non meno numerosi, che versavano in analoghe condizioni di completo decadimento sociale ed economico, erano costituiti da italiani. Chi non ricorda il bel film di Scola degli anni settanta, il cui titolo “Brutti, sporchi e cattivi” è diventato addirittura proverbiale?
Perché l’invidia sociale non è indirizzata, come dovrebbe essere più naturale, verso chi occupa i livelli più alti di benessere sociale ed economico?  
Qualcuno sostiene che ci troviamo in una società bloccata verso l’alto e le classi intermedie, impoverite dalla lunga crisi, mirano a riacquisire un livello adeguato di status e di autostima che, non potendo essere conquistato con la riduzione delle distanze  dalle classi più agiate, è perseguito cercando di aumentare le distanze dagli ultimi spingendoli sempre giù fino ad una totale esclusione.
Questo atteggiamento di ostilità distruttiva porta ad escludere, in modo quasi irrazionale, la possibilità di realizzare politiche di integrazione sociale (cosa che in effetti non è mai  stata fatta in maniera adeguata)  che pure consentirebbero di alleviare le situazione di disagio e degrado sociale.
L’irrazionalità è forse derivante dal sentimento di invidia (collettiva) prima richiamato che come mirabilmente Dante definisce nel Purgatorio comporta un maggior godimento dai mali altrui che dai vantaggi propri (“Fui de l’altrui danni più lieta assai che di ventura mia”).
Il sommo Poeta rappresenta gli invidiosi come ciechi con gli occhi cuciti, che sembrano oggi raffigurare un Paese accecato dai risentimenti e guidato con arroganza da chi sembra vedere solo con un occhio dallo sguardo rancoroso e intollerante (e anche qui viene in mente la potenza simbolica dell’occhio guercio del protagonista del film di Scola, magistralmente interpretato da Nino Manfredi).
 A questo punto non resta che richiamare, in tema di solidarietà sociale, gli autorevoli e reiterati inviti del Papa “ad aprire gli occhi” (oltre che il cuore, naturalmente).

P.T.


lunedì 18 giugno 2018

Finanziamento alla politica, la riforma che vuole Di Maio: “Bilanci pubblici per partiti e fondazioni e registro donazioni”


Un’operazione di trasparenza che obblighi partiti e fondazioni a rendere completamente pubblici i loro bilanci. Una riforma sul finanziamento ai partiti che potrebbe essere anche retroattiva. E che, secondo il Corriere della Sera, potrebbe prevedere tra l’altro un tetto di 10mila euro alle donazioni e l’obbligo di rendere pubblici i bilanci e i nomi di chi finanzia le forze politiche. E’ l’ossatura della legge a cui sta pensando il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio che così cerca di superare la situazione di impasse e di imbarazzo dovuta al caso Lanzalone, nell’inchiesta sullo stadio di Roma. Una mossa per dimostrare che il movimento non ha nulla da nascondere e soprattutto mettere alla prova gli avversari politici che attaccano come Matteo Renzi che ieri ha chiesto al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede riferisca in Parlamento. Una mossa, d’altra parte, che si tiene insieme con l’altra iniziativa di governo del M5s, proprio da parte del guardasigilli Bonafede che ieri sul Blog delle Stelle ha rilanciato il programma del contratto di governo sulla lotta alla corruzione: “I corrotti devono andare in carcere – ha detto Bonafede – Solo la certezza della pena può dare credibilità allo Stato”. Due questioni che evidentemente si legano all’inchiesta di Roma, dalla quale emergono i finanziamenti dell’imprenditore Luca Parnasi alla politica.
Nel merito, l’obiettivo del vicepresidente del Consiglio è riformare la legge approvata dal governo Letta nel 2014 che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti, ma ha lasciato fuori tutto il capitolo delle donazioni verso i singoli candidati e verso le fondazioni politiche (altro tema dell’inchiesta sullo stadio romano). Su questo Di Maio ha già messo al lavoro i suoi assistenti legislativi, in contatto con i ministri competenti. “Noi non abbiamo paura” è il refrain che rimbalza dallo staff del capo politico che esibisce nomi e numeri delle donazioni emersi fino ad ora: “Dimostrano che il M5s non ha preso un centesimo”. 
Orfini: “Il movimento meno trasparente d’Italia vuole trasparenza? Viva” 
La sfida della trasparenza di Di Maio, dunque, è agli altri partiti. “Vediamo ora chi ci sta, vediamo chi la vota in parlamento” è il ragionamento. L’intesa con l’alleato di governo per ora sembra esserci. “L’importante è che tutto venga fatto in maniera trasparente, senza segreti e raggiri – dice a Non è l’Arena l’altro vicepremier, Matteo Salvini – I cittadini possono farlo compilando la dichiarazione dei redditi, è una cosa democratica e trasparente”. Tra gli altri, il Pd è l’unico che per il momento risponde a Di Maio: “Di Maio vuole nuove norme sulla trasparenza nei partiti – twitta il presidente Matteo Orfini – Di Maio. Cioè il capo politico di un movimento che è quanto di meno trasparente esista in Italia. Vuole maggiore trasparenza? Evviva. Inizi a fare chiarezza sui suoi rapporti con Lanzalone. E la smetta di prenderci in giro”. Ironica anche la deputata Giuditta Pini: “Di Maio chiede norme sulla trasparenza del finanziamento ai partiti. BUONGIORNISSIMO. Noi lo facciamo da sempre, non solo lo chiediamo ma la applichiamo. Quello che non lo fa è il M5s. Forse ora si costituiranno partito politico e ci diranno quanti soldi girano nel loro labirinto di scatole cinesi tra fondazioni associazioni e blog?”. 
Cantone: “Anche per le fondazioni bilanci certificati e sanzioni” 
Sul tema delle fondazioni parla intanto anche il presidente dell’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone: “Soldi a politici piccoli o grandi fatti arrivare attraverso fondazioni, associazioni e persino a onlus – dice in un’intervista a Repubblica – Insomma: quello che emerge dall’ultima inchiesta romana mostra ancora la volta la necessità di regolamentare il finanziamento alla politica. Il finanziamento pubblico è stato abrogato in modo molto frettoloso, senza introdurre uno scudo fisiologico, un contrappeso all’inevitabile ruolo che avrebbero avuto le sovvenzioni dei privati. Inoltre erano stati previsti meccanismi di controllo solo sui bilanci dei partiti tradizionali, mentre già nel 2013 esistevano fondazioni e associazioni che raccoglievano fondi per i politici”. Per il capo dell’Anac “bisogna introdurre una trasparenza a prescindere dalla natura dell’ente, imponendola sulla base dell’attività sostanziale svolta se l’attività è di natura politica, allora ci deve essere massima chiarezza sulle entrate e anche sulle spese. Credo che andrebbero previste regole non diverse da quelle delle società quotate in Borsa, con bilanci chiari e certificati. E non sarebbe illogico ipotizzare sanzioni penali analoghe a quello dell’illecito finanziamento, che invece ora riguardano solo i partiti tradizionali e non fondazioni e associazioni politiche”.



mercoledì 13 giugno 2018

La fotografia naturalistica



Su wikipedia si legge, fra gli altri, che “la fotografia naturalistica è un genere fotografico che concentra la propria attenzione sulla natura. Essa comprende sia la paesaggistica terrestre sia quella astronomica come anche quella subacquea e naturalmente tutta la fauna e la flora selvatica immersa nel proprio ambiente naturale, arrivando alla più piccola e concentrata ripresa macro, intendendo per lo più soggetti comunemente visibili più o meno anche ad occhio nudo”. Inoltre, che “lo scopo di questo genere fotografico è quello di mostrare la bellezza intrinseca della natura”. Infine, “per la tipologia dei soggetti trattati e per l'indole del generico fotografo naturalista, si può parlare di una particolare etica associata a questo genere fotografico che, attraverso la divulgazione delle riprese fotografiche, educa e sensibilizza verso modelli di coscienza ecologica e di responsabilità verso l'ambiente”. (wikipedia.org)

Fotografare un paesaggio è bello, in qualche modo anche facile, il problema rimane sempre il risultato, perché non basta fare un click per riuscire a raccontare con una immagine una sensazione.
Premesso che le sensibilità intrinseche in ciascuno di noi sono alla base del bello individuale, canoni oggettivi legati anche alla cultura del tempo aiutano a scrivere e leggere in modo corretto tutto quello che si intende narrare con l'arte visiva, fotografia compresa.
In ogni caso fondamentale è cercare di mantenere comunque un approccio asettico, non legato cioè a pregiudizi. E questo vale per l'autore, artista o neofita che sia e anche per l'osservatore, occasionale, studioso o critico di professione.
Una condizione nella fotografia naturalistica orientata al paesaggio è anche una questione musicale. In qualche modo, infatti, chi fotografa associa alla visione una certa armonia compositiva che non necessariamente risponda a canoni di musiche da camera. Del resto paesaggi urbani spesso vengono associati a brani duri e i tanti videomakers moderni ne sono prova.
Più in generale, quindi, la complicanza nella fotografia naturalistica rimane quella della perenne ricerca di una congiunzione fra chi effettua lo scatto ed il fruitore finale dell'immagine.
Poi, mentre il pittore che immortala un paesaggio ha dilatati i tempi di realizzazione, il fotografo deve necessariamente elaborare il suo prodotto in tempi brevissimi, condizionato dagli elementi atmosferici ed espositivi (tempi e luce) del momento. Ciò pur conoscendo a priori le caratteristiche delle temperature della luce nei vari momenti del giorno, della latitudine del luogo ed a secondo delle stagioni.
In conclusione però chi vuole potrà sentire nella visualizzazione di un paesaggio la musica soggettiva insita nella sua cultura, che per alcuni sarà una sinfonia di Beethoven, per altri un delicato arpeggio al pianoforte di Listz, per altri ancora una musica country, per i più giovani un brano d’autore contemporaneo, anche metallaro.
Rimane l'onere di innescare quell'associazione automatica fra il fotografo autore e l'osservatore finale indipendente (nello spazio e nel tempo) e non è impresa da poco.

In conclusione mi piace citare un sapiente commento ad un mio precedente articolo (“Leggere in positivo”) dell’amico Pippo Pappalardo che ha scritto come “da sempre abbiamo mosso il nostro sguardo da un pensiero negativo verso un altro positivo. Perchè il primo non ci liberava, ci chiudeva in noi stessi, non ci rivelava al mondo. L’immagine era, appunto latente, non importa se negativa o positiva: era latente, quindi, sfuggente. Quando ci siamo decisi di non rincorrere la sua latitanza ci siamo accorti che la realtà, se amata, se contemplata, ci ricambiava sorridendoci: ci siamo accorti che il mondo che ci circonda è esso stesso immagine e la nostra rappresentazione (in qualunque modo avvenga) riflette questa natura, e ci riflette proprio la sua bellezza che non va solo ammirata ma, fondamentalmente, riconosciuta come somma di verità e bontà (e quindi deposito di senso e ... pretesto per dialogare)”.

Buona luce a tutti.


© Essec





Per l'Africa Nera il problema siamo noi



Sulla questione della nave Acquarius Salvini ha ragione nella sostanza, ma un grave torto nella forma e crediamo non innocente. Ha ragione perché è un messaggio forte alla Ue perché vengano finalmente sancite e imposte, con leggi europee, le quote di migranti di cui ogni Paese del Vecchio continente deve farsi carico. Ha torto nella forma perché non si può all’improvviso fermare una nave con più di 600 migranti il cui recupero era stato coordinato dal centro di Roma, come ha obbiettato il governo maltese per giustificare il diniego dell’approdo nei suoi porti. Lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere mandando una nota preventiva a Bruxelles più o meno di questo tenore: d’ora in poi non accoglieremo più le navi o i barconi dei migranti finché l’Unione europea non avrà stabilito, con una legge valida per tutti i Paesi della stessa unione, un’equa ripartizione. In questo modo chiunque avesse voluto approdare con un carico di migranti in un porto italiano sarebbe stato avvertito che non era cosa. Poiché, come diceva quello, “a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre” Salvini ha giocato cinicamente, per motivi propagandistici, sulla pelle di questi disperati. Bastava, ripeto, invertire i tempi: prima l’avvertimento alla Ue e poi la chiusura delle frontiere.
Detto questo due osservazioni. Una di portata interna l’altra più generale e drammatica.
1) I sindaci dem di Palermo e Messina, per fare le ‘anime belle’, si sono dichiarati disponibili ad accogliere l’Acquarius. Non sta né in cielo né in terra che dei sindaci possano andar contro una decisione del Ministro degli Interni, cioè dello Stato italiano di cui fan parte.
2) Purtroppo, se alziamo un po’ lo sguardo, la questione delle migrazioni verso l’Europa in particolare l’Italia sembra irrisolvibile. L’80% di questi migranti non arrivano da guerre, che prima o poi finiranno, ma dall’Africa subsahariana cioè da quella che un tempo chiamavamo Africa Nera. Non cercano approdo in Europa perché attratti dalle bellurie del modello occidentale, come fu per la prima migrazione albanese (gli albanesi vedevano la Tv italiana e immaginavano il nostro come il paese di Bengodi).
Vengono per fame. Perché la loro economia, autoproduzione e autoconsumo, oltre che la loro socialità, è stata distrutta dall’introduzione in quelle terre del nostro modello di sviluppo. In genere si crede nell’ignoranza generale che l’Africa Nera sia sempre stata alla fame. Non è così. Agli inizi del Novecento, l’Africa Nera era totalmente autosufficiente dal punto di vista alimentare. Lo era ancora, sostanzialmente, (al 98%) nel 1961. Ma da quando ha cominciato a essere aggredita dall’integrazione economica occidentale –prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante- le cose sono precipitate. L’autosufficienza alimentare è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978 (P.N. Bradley, Produzione e distribuzione degli alimenti: la fame nel mondo in Geografia di un mondo in crisi, Franco Angeli, 1992). Per sapere come stanno le cose oggi, anno 2018, basta osservare, appunto, la fiumana di emigranti che tanto ci preoccupa. Ma quello che vediamo oggi non è che un pallido fantasma di ciò che vedremo domani. L’integrazione globale in Africa non fa che aumentare (adesso ci si sono messi anche i cinesi) e quindi non può che aumentare anche la fame. Per questo la posizione dell’”aiutiamoli a casa loro” è ipocrita e priva di senso. Perché più li “aiutiamo”, più li vincoliamo al nostro modello e li strangoliamo, riducendoli da poveri a miserabili. Ora, gli abitanti dell’Africa subsahariana sono 720 milioni (lasciando da parte il Sudafrica che fa caso a sé). Basta che una quota rilevante di questa gente, spinta dalla fame, cerchi la salvezza presso noi europei e non ci sarà chiusura delle frontiere che tenga. Non basteranno a far guardia le navi da guerra, i cannoni o qualsiasi altra misura. Saremo sommersi.
Chi dice, fra la gente comune e anche fra i politici (per esempio Giorgia Meloni) “via gli africani dall’Europa, ognuno deve restare a casa propria” avrebbe ragione se aggiungesse che anche noi avremmo dovuto restare a casa nostra e non invadere l’Africa Nera e i Paesi che con ipocrisia e drammatica ironia chiamiamo “in via di sviluppo ”, con le nostre industrie, con le nostre aziende, con i nostri “aiuti” pelosi e anche non pelosi, insomma col nostro modello di vita. Chi è causa del suo mal, oltre che di quello altrui, pianga se stesso.