giovedì 28 dicembre 2023
“UGO e il costo delle suole: Forse ….. domani piove”
"Per individuare i costi sociali dell'inflazione gli economisti parlano metaforicamente di costo delle suole per indicare il fatto che la gente è costretta, in tempi di aumenti dei prezzi, ad andare più frequentemente a prelevare in banca, con conseguenti scomodità e maggiore consumo delle suole delle scarpe."
Negli ultimi tempi con il mio amico Pasquale, autore della citazione virgolettata posta in premessa, abbiamo preso l’abitudine di andare in giro per la città durante in nostri incontri nella Capitale. Anche questa volta il nostro itinerario era libero, alla ricerca di punti caratteristici romani e a caccia di opere di street art meritevoli di essere fotografate, per un utilizzo successivo nei nostri scritti.
Il percorso irrazionale si muoveva, quindi, lungo grandi linee alla ricerca di curiosità.
Chi nutre analoghe passioni sa bene che, oltre alle periferie, sono diversi i quartieri cittadini dove vigono delle tacite liberatorie per i graffitari e gli artisti in genere desiderosi di lasciare un loro messaggio.
In una precedente passeggiata in comune, ci eravamo pure avventurati nei quartieri vicini a Piazza Tuscolo, che erano stati immortalati nelle scene finali del film “I Soliti Ignoti”. Luoghi allora quasi deserti e dove “Peppe” (alias Vittorio Gasman) si ritrovò casualmente - e a suo malgrado - fagocitato in un gruppo di lavoratori presi a cottimo da dei “caporali del tempo”, in un cantiere edilizio.
Oggi, il nostro girovagare doveva approdare a Torpignattara e l’attraversamento della zona del Pigneto ci aveva quasi casualmente portati nei luoghi dove erano state girate le scene più emblematiche di “Roma Città Aperta”, un film drammatico e di guerra del 1945 diretto da Roberto Rossellini.
In particolare sulla via dove venne girata la famosa sequenza in cui Anna Magnani, mentre tenta d’inseguire il camion che sta deportando via suo compagno, viene sparata dai tedeschi e pietosamente raccolta dal prete, nel film magistralmente interpretato dall’indimenticabile Aldo Fabrizi.
Pasquale, che è anche un appassionato del cinema neorealista italiano, ricordava anche bene le scene del film.
Spingendoci verso via Prenestina era sicuro di avere individuato il posto ma non riusciva a localizzare la chiesa collegata anch’essa alla scena. Nessun problema, perché bastò attendere che passasse una signora dai capelli argentati del luogo per averne conferme e delucidazioni, anche sulla chiesa apparentemente mancante.
Venne fuori che le location, che apparivano limitrofe nel film, erano state assemblate e la chiesa era quella di Sant’Elena, ubicata nella vicina via Casilina. Il successivo sopralluogo e le informazioni ricevute in loco ci fecero pure scoprire che anche parte delle scene erano state girate nel cortile interno e attiguo al luogo di culto.
Per raggiungere la meta prefissata mancava da percorrere un lungo tragitto che andava a sommarsi a quello già fatto da San Giovanni ci aveva portato al Pigneto. Decidemmo pertanto di proseguire lungo la via Casilina, lambendo via del Mandrione e la Tuscolana. Un percorso ad entrambi sconosciuto che intrigava per potenziali sorprese fotografiche, che del resto non mancarono.
Lungo l’acquedotto romano, in alcune parti quasi integro, oltre ad evidenti abusi e discutibili proprietà private, si articolavano passaggi pedonali raccontati e che ora avevamo modo di scoprire.
Ci avventurammo come piccoli boy scout (attempatelli preciserebbe qualcuno) lungo una strada parallela alla ferrovia, ma chiusa da tempo al traffico automobilistico, apparentemente poco raccomandabile ove si erigeva la fermata quasi abbandonata della Stazione Casilina. Continuando nel sottopasso approdammo alla fine alla nostra meta finale.
Se vi capita di passare per Torpignattara in orario di pranzo suggerisco di far tappa da Ugo, titolare de “Il Pomo D’Oro”, un ristorante-pizzeria senza particolari pretese, che consente di respirare a pieni polmoni anche l’aria della caratteristica miscellanea etnica del luogo, che vede coesistere una vasta comunità cosmopolita popolare di Roma.
Entrando nel locale è affisso ben chiaro un cartello indicante la possibilità di poter optare anche per un menù fisso della casa, che nei giorni feriali viene proposto al costo 10 euro (15 nei festivi), comprendente un primo, un secondo con contorno, compresa bevanda e coperto. A questo punto devo pure riportare l'ineccepibile considerazione fatta da Pasquale: "Di questi tempi un bello schiaffo all'inflazione!"
Appena arrivati c’erano pochi avventori, dopo pochi minuti la sala era piena di gente. Per lo più operai e anziani abitudinari che forse fruivano anche di abbonamenti, chissà?
Ugo in sala era affiancato da un collaboratore dinamico come lui. Entrambi indossavano una maglietta nera recante un retroscritto con una frase equivoca: “Forse … domani piove”.
Chiesta la spiegazione il socievole Ugo rispose che l’interpretazione della frase era da intendere come un’opera aperta ……. Un modo di dire che ciascuno avrebbe potuto interpretare come meglio credeva, ma che ogni attore poteva anche recitare a suo piacimento e per gli scopi voluti (costatazione dell'assolutezza del dubbio, quindi anche sfottò o presa in giro e, perché no, pure un modo soft per mandare beatamente qualcuno a quel paese).
Dopo pranzo la passeggiata continuava per verificare se erano sorte altre opere artistiche in zona. Qualcosa di nuovo c’era ….. ma poca roba, il tempo del Covid aveva frenato anche le produzioni dei Graffitari.
In inverno le giornate sono corte, non restava quindi che avviarsi al ritorno. Percorrendo la strada verso via dei Quintili scoprimmo che uno scellerato writer aveva del tutto ricoperto un famosissimo murale di via Anton Ludovico Antinori che era stato realizzato da Alice Pasquini.
Ma gli altri, i murales storici, resistevano bene, anche la bellissima giapponesina protetta dalla solita autovettura che la copre in parte.
Durante il tragitto ebbi modo di individuare anche un famoso murale che si ispirava a Modigliani e che ricercavo da tempo.
Una bella passeggiata salutare di oltre quindici chilometri che a noi "diversamente giovani" poteva fare solo bene.
Anche perché per voler fotografare occorre guardarsi intorno e usurare le scarpe, soprattutto se, inflazione o no e come suole dire "UGO", forse ... domani piove!.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
mercoledì 27 dicembre 2023
Destinazione Garbatella
Raccontare non è sempre un’operazione semplice e farlo con le parole non sempre aiuta. Quanto ci può succedere durante gli accadimenti giornalieri potrà essere sempre descritto compiutamente a mo’ di diario, ma il più delle volte nella narrazione è possibile risultare banali e, quindi, difficilmente in grado di attrarre curiosità o attenzione in chi si prospetta come lettore.
Vi sono spesso imprevedibili combinazioni di piccoli eventi che nei fatti confezionano un racconto interessante. Ad esempio può accadere che alla fermata del trenino Ostia Lido – Roma Piramide, ad un certo punto l’altoparlante informi che la linea rimarrà temporaneamente interrotta e che i passeggeri in attesa vengano invitati a utilizzare i bus navetta accessibili alle fermate della Strada Statale 8 bis, meglio nota come Via Ostiense.
La massa di utenti che staziona in attesa lentamente “trasmigra” verso la nuova fermata, formando un gruppo che da semplici passeggeri silenziosi e anonimi, da metropolitana, si trasforma in cittadini parlanti e colorati che, in veste “transumante”, hanno ora voglia di comunicare le proprie sensazioni e i propri problemi. Per il disservizio insorto si ascoltano i pareri univoci e non certo benevoli sulla inefficienza dei nuovi gestori (Cotral e Astral), subentrati nella gestione delle ferrovie Roma-Lido e Roma-Nord.
A detta di tutti, al di là di treni nuovi, la dilatazione degli orari delle corse hanno reso ancora più complicati gli spostamenti dei molti pendolari, che costituiscono la maggioranza degli utenti. Ed è forse anche per questo che nella maggior parte dei discorsi affiorano vecchie tematiche di una nostalgica sinistra proletaria che, anche se oggi annovera tanti cittadini delusi che alimentano il bacino dei non votanti, rimane fedele ad antichi ideali di solidarietà, che difficilmente si possono sciogliere e ancor meno scomparire.
Il tempo intanto trascorre inesorabile e non si vede passare nessuna delle navette promesse. Alcuni si stanno organizzando chiamando parenti, amici o taxi vicini. Altri decidono di riprendere l’auto che hanno parcheggiato alla fermata del trenino. Tra questi c’è Maestra Esterita appena conosciuta attraverso scambi di frasi quasi in codice; avendo la necessità di non accumulare l’ennesimo ritardo al lavoro, ella decide di raggiungere con l’auto la fermata della linea metropolitana più vicina. Mi propone, quindi, un passaggio che accetto volentieri. La sua automobile è a pochi passi, ma sufficienti a far sì che nel breve tratto altri due soggetti si aggiungano a noi, richiedendo il passaggio che la sorte offre loro.
Tra questi c’è “Maestra Esterita”, appena conosciuta con reciproci scambi di frasi quasi codificanti; lei aveva la necessità di non accumulare l’ennesimo ritardo al lavoro e decideva di provare ad agganciare in autonomia la fermata della linea metropolitana più vicina.
Mi proponeva, quindi, un passaggio che accettavo volentieri. La sua automobile era proprio a pochi passi, ma sufficienti a far sì che altri due soggetti si proponessero per richiedere e ricevere a loro volta un fortunato passaggio.
Il quartetto occasionale risulta rappresentativo di un piccolo spaccato sociale. Dei due imbucati, uno, il più giovane, è da quattro anni impiegato in un supermercato appartenente a una nota catena, l’altra è una donna di origini sudamericane, da sedici anni in Italia, che lavora a Roma e che conosce assai bene le problematiche riguardanti i collegamenti locali.
Io sono l’unico libero d’impegni, che si muove da pensionato turista, con l’obiettivo di recarsi a una mostra fotografica allestita alla Garbatella dal titolo “Confini”. La proprietaria dell’auto, che generosamente si è offerta per i passaggi, è un’insegnante di scuola elementare che rischia l’ennesimo ritardo nella presa di servizio mattutino.
Lasciati i due lungo il percorso, il nuovo problema che si presenta è costituito dal parcheggio. E’ diventato pressoché impossibile per le congestioni improvvisamente insorte, che convogliano verso quel punto i passeggeri rimasti appiedati nelle diverse fermate bloccate nella tratta Ostia-Lido. Unica soluzione per l’insegnante resta quindi quella di raggiungere con l’auto la borgata romana della Garbatella; che peraltro viene a coincidere con la mia meta di quel giorno. Come succede nei casi in cui si sviluppa una spontanea empatia, i pochi minuti dell’ulteriore viaggio sono sufficienti per rapidi confronti. Con scambi d’idee che si focalizzano sulle storie di ciascuno, utili per stabilire la vicinanza in molti interessi e passioni culturali.
Affiorano anche evidenti due filosofie di creatività fattiva, diverse ma, in qualche modo, parallele e in divenire, indefinite e aperte: lei collaudata scrittrice di libri per l’infanzia… io con l’eterno spirito predisposto al culto del sano e imprevedibile “cazzeggio” favorito dalla fotografia.
Attraverso informazioni, assunte successivamente dalle pagine social, emergono anche nuovi dettagli che mettono in luce altre combinazioni. Si vanno, infatti, a collegare a comuni conoscenze e a singolarità che dimostrano ancora una volta come nella vita il mondo reale appaia spesso molto più piccolo di quel che sembra. Ancora una volta sperimento aspetti personali che da sempre rafforzano le mie convinzioni che, a prescindere del giudizio in merito all’esistenza di Dio, ci fanno casualmente imbattere in ciò che non può mai essere razionalmente spiegato.
Questo tipo d’incontri, come quello con Maestra Esterita costituiscono prova della casualità che ci governa nella vita reale e del come una serie infinita di “sliding doors” spesso ci incanalano, decidendo incontri, esperienze, conoscenze, attraverso incroci d’esistenze.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
giovedì 7 dicembre 2023
Le immagini che, con il loro immediato linguaggio, veicolano l'attenzione
Ciascuno avrà già sicuramente avuto modo di sperimentarlo. Oramai sono sempre più le immagini che, con il loro immediato linguaggio, veicolano la nostra attenzione.
In questi giorni, girando per le strade di Roma, alla continua ricerca di nuovi scorci e pretesti fotografici, la mia attenzione è rimasta attratta da una pittura, prossima alla street art, che si intravedeva allocata all’interno di una galleria d’arte.
Avvicinandomi per guardare meglio ho notato la presenza anche di altre opere artistiche intriganti che, per i miei gusti estetici, meritavano d’essere documentate.
La titolare dell’atelier artistico non si vedeva, perché intanto impegnata nel ridotto ambiente adiacente, intenta a recuperare una tela da esporre nell’ambiente principale.
Posso fotografare? Chiedo alla vista e ricevendone l’assenso mi sono introdotto per cercare di fissare in pixel i tanti spunti artistici che mi avevano intrigato.
Per l'appunto: le immagini che, con il loro immediato linguaggio, veicolano la nostra attenzione.
Da qui un’empatia spontanea veniva a mescolare fra il fotoamatore e l’artista.
Tanto che oltre a essere invitato a visionare delle altre opere risposte nella saletta adiacente, venivo anche coinvolto nel tentativo di cercare di appendere la tela recuperata, destinata ad essere esposta a bella vista nell’ambiente d’ingresso.
Le poche foto realizzate credo che riescano a supportare questo breve racconto e saranno sufficienti anche a far verificare quanto detto in premessa, ovvero di come le immagini spesso catturano.
Per chi volesse verificare di persona, non resta che passare da Via del Gesù a Roma, per trovare presso la Galleria Borzelli molte interessanti e recenti opere d’arte contemporanea. Per chi è lontano un piccolo slide show consente di avere un'idea su quello che potrù trovare.
Buona luce a tutti!
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Buona luce a tutti!
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martedì 5 dicembre 2023
“Narrazioni diversive”, sottotitolo “Come il complottismo protegge il potere”
Nella genesi di questo articolato saggio, Tobia Savoca indica in suo padre colui che ha acceso in lui la luce e nello zio chi ha innescato l’evoluzione del suo pensiero critico. Lo studio e continui approfondimenti hanno fatto il resto.
Innescando così reazioni a catena volte alla ricerca di verità forse impossibili, in un vortice senza fine che trova un positivo sfogo nell’attività didattico-scientifica in cui si avventura per documentare tante possibili tracce, in una meritevole mission d’indubbio valore divulgativo.
In ogni caso, a prescindere dal livello dottrinale, anche analisi derivanti da assunti popolari (socialmente aggettivate come “dal basso”) presi in esame, forniscono chiavi di lettura sapienti, basate su esperienze culturali consapevoli dei limiti umani.
Emblematico, al riguardo, appare utile osservare anche il diffuso “lapsus froidiano” che viene spesso manifestato dall’attuale classe politica – neoliberista e non soltanto - quando si auto definisce, nel ruolo istituzionale di rappresentanza, come nell’esercizio di un “lavoro” e non già come nel pieno svolgimento di una missione sociale, seppur remunerata nel libero e autonomo nobile esercizio.
Riguardo al complottismo intrinseco, oggetto centrale del saggio di Tobia Savoca, occorre osservare con maggiore attenzione l’assetto sociale contemporaneo, che organizza e accomuna in sette/tribù, lobbie e gruppi vari, dove elementi anche variegati condividono passioni o - più pragmaticamente - si inter-relazionano per mantenere privilegi e scambiandosi favori.
Augusto Cavadi, nella sua recensione, ha efficacemente sintetizzato la “sinapsi sintattica” del saggio, concludendo con questa considerazione: "Il libro di Savoca mi ha evocato l’immagine dei giochi pirotecnici: non fai in tempo a seguire le tracce luminose successive a un primo scoppio in cielo che ciascuna di queste scie esplode a sua volta, diramandosi in tante altre direzioni."
Un libro che affronta questioni d’attualità con analisi articolate che mettono in luce i tanti aspetti correlati negli argomenti trattati. La formazione classica, rafforzata dalle diverse lauree specialistiche, consentono all'autore di diversificare i punti d'osservazione e di mettere in risalto spunti e considerazioni focalizzanti, corroborate da citazioni e pensieri di filosofi e letterati di ogni tempo. Un saggio fitto di concetti e informazioni che merita attenzione.
Oggettivamente, nella lettura delle pagine si vola alto e si atterra per rispiccare nuovamente in volo. Fotografando i tantissimi punti possibili su ogni tipologia di complottismo: sostenitori e negazionisti compresi.
Credo che non si può, anche volendo, aggiungere altro. Per rendersene conto occorrerà procurarsi copia del libro, di poco meno di duecento pagine, dal costo di venti euro e pubblicato da Diogene Multimedia.
Buona luce a tutti!
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domenica 3 dicembre 2023
“Ricordando Ivo’” di Francesco Cito
È morto Ivo Saglietti, 75 anni, premio World press foto nel 1992 nella categoria “Daily life, stories” con un servizio su un'epidemia di colera in Perù, e nel 1999 “menzione d'onore” allo stesso concorso per un reportage sul Kosovo.
Ci sono personaggi che hanno il dono di saper rendere gradevoli anche ricordi che altrimenti potrebbero costituire solo momenti di tristezze.
Con lo scritto riportato di seguito - che ho copiato da Facebook - il Francesco Cito fotografo viene a raccontare a tutti noi il suo amico Ivo.
Un testo che rievoca anche avvenimenti e situazioni belliche di grande attualita' e che sembrano quasi destinati a non trovare mai una fine.
Un ricordo che rappresenta l'intima raccolta di fotografie, composte non di pixel ma fatte di parole, che realizzano un ritratto delicato, ricco di molte tonalita' sottolineate da tanta stima.
Un regalo all'amico scomparso e come lo stesso Cito conclude "come se fotografasse sé stesso"
Buona luce a tutti!
© ESSEC
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"Ricordando Ivo
Se ne andato in punta di piedi questa mattina alle otto, come suo solito, senza rumore, senza un saluto.
È partito per questo ennesimo viaggio, il suo viaggio verso una meta ignota, al di là dei confini conosciuti, ma di cui ha voluto mantenere il segreto, geloso del suo lavoro come sempre guardingo nel raccontare i suoi progetti, di cui anche questo ultimo, il più impegnativo, preparato con cura e in silenzio già da lungo tempo.
Ci eravamo incontrati la prima volta verso gli inizi degli anni 80 nella stazione di Porta Nuova a Torino.
Un incontro casuale, io avevo appena lasciato la redazione di Infinito, il magazine dello Editore Vivalda, che si apprestava a pubblicare il mio Afghanistan. Lui tornava ad Alba dove viveva, anche se il suo mondo era l’America latina, e il suo amore la Cuba di Fidel Castro.
Fu la sua quasi una visione celestiale l’aver visto Fidel mentre attraversava in auto il Malecòn, il lungomare dell’Havana. Questa apparizione solenne del leader di “Hasta la victoria siempre, Patria o muerte”, era tante volte motivo di conversazione tra uno spaghetto carbonara o spaghettino alle cozze di cui andava ghiotto e qualche bicchiere di vino in più, quando si trascorreva il tempo insieme seduti alla mia tavola in via Leoncavallo 17, a Milano.
Io avevo lasciato Londra definitivamente, lui il sud America. Le nostre conversazioni difficilmente vertevano sugli aspetti lavorativi, anche se era ancora il tempo bello della fotografia, quella di reportage, la fotografia tanto ricercata dai giornali e soprattutto dai settimanali, disposti ad investire e inviarci in giro per il mondo.
Ciò nonostante si fantasticava in altri progetti, di cui uno dei quali, aprire un ristorante a Managua nel Nicaragua della guerriglia Sandinista. Un pranzo o una cena a soli due dollari e cinquanta con l’aragosta. Era una sua proposta, conosceva quei luoghi, e la mia obiezione, pratica era: A quei prezzi, quando riusciremo a mettere i soldi da parte per tornare a casa?
Era la nostra un’amicizia sincera, ma anche conflittuale.
Non sempre le nostre idee combaciavano, il suo carattere spigoloso e schivo emergeva quando i contrasti su faccende che il più delle volte e in linea teorica manco ci appartenevano, ci hanno per qualche ragione senza una logica precisa, allontanati l’uno dall’altro. Eravamo entrambi reduci da altre vite e aggiungerei differenti affetti e, forse sono stati questi affetti mancati ad entrambi in forma diversa a renderci troppo uguali.
Erano i tabù delle nostre vite che immancabilmente ci siamo sempre trascinati lungo il percorso delle nostre esistenze. Il nostro guardarci in uno specchio, le nostre immagini riflesse si dissolvevano in un'unica sofferta esistenza.
L’aver perso la madre in giovane età, credo sia stata per lui una ferita insanabile. Era il tabù della vita, il non voler riconoscere noi stessi ad averci allontanati.
Ci siamo rincontrati in Palestina durante uno dei tanti drammi di quella martoriata terra.
Era a Bethlehem con Paolo Pelligrin durante l’assedio alle città palestinesi nel 2002, a seguito della seconda intifada.
Qualche giorno dopo Paolo era altrove e io lui e l’amico di lunga data John Tordai, riuscimmo attraverso i campi, ad entrare a Jenin assediata dell’esercito israeliano. Il campo profughi di Jenin era stato raso a suolo per rappresaglia. Durante i combattimenti fra i miliziani palestinesi e l’esercito di Tzahal, furono uccisi 23 soldati della stella di Davide.
Tempo dopo insieme a Ramallah, per recarci sul luogo dove il carissimo amico Raffaele Ciriello il 13 marzo 2002, fu falciato da sei proiettili di grosso calibro sparati dalla mitragliatrice di un carrarmato e ucciso all’istante. Le autorità israeliane hanno sempre negato l’evidenza anche se la morte di Raffaele fu ripresa in diretta dall’operatore Rai che accompagnava l’inviato Amedeo Ricucci.
Qualche tempo fa Durante il foto Lux di Lucca, al termine di una lunga giornata di incontri, ci siamo ritrovati seduti nella magnifica piazza con sullo sfondo la Chiesa di San Michele.
Un’occasione per ritrovarci e dissipare quei contrasti celati per troppo tempo, e ancora ad Orbetello lo scorso anno, in cui erano esposte le nostre foto “Zone di Conflitto” nello stesso spazio, uno di fronte all’altro.
Mi aveva mostrato altresì le foto del suo progetto sui Balcani.
Guardando le tue foto mi fai ritornare il desiderio di tornare a fotografare fu il mio commento.
Gli si illuminarono gli occhi, credo non si aspettasse da me un simile commento, ma sono convinto che in quel momento sia stato felice nel sentirmi esprimere ciò che veramente credevo e sentivo di dovergli dire.
Non era la mia una gratuita smanceria, era dettato dal cuore nel vedere la bellezza ritratta attraverso i suoi occhi.
Schivo com’era, mi ha sempre tenuto nascosto il suo male, al telefono e ancora pochi giorni addietro mi rispondeva sempre di star bene, ma sapevo che così non era, ero informato del suo dramma, che forse più che la malattia, è stato capire di non poter proseguire nel suo progetto, di non poter più trasmettere quella bellezza da me tanto amata e anche invidiata, anche se voglio credere che il suo viaggio è appena iniziato.
Io lo ricorderò sempre su quell’angolo dove i palestinesi avevano eretto un cippo per ricordare Raffaele Ciriello, il fotografo italiano sgradito ai soldati israeliani e che di quel cippo ne hanno fatto scempio.
Ivo fotografava quel muro ormai annerito e imbrattato, sul quale era impressa indelebile la memoria dell’amico gentile quale era Raffaele, ed è stato in quel momento in cui Ivo apparve ai miei occhi in tutta la sua sofferta umanità.
Era come se fotografasse sé stesso.
Buon viaggio Ivo, con un grande abbraccio Francesco"
Ci sono personaggi che hanno il dono di saper rendere gradevoli anche ricordi che altrimenti potrebbero costituire solo momenti di tristezze.
Con lo scritto riportato di seguito - che ho copiato da Facebook - il Francesco Cito fotografo viene a raccontare a tutti noi il suo amico Ivo.
Un testo che rievoca anche avvenimenti e situazioni belliche di grande attualita' e che sembrano quasi destinati a non trovare mai una fine.
Un ricordo che rappresenta l'intima raccolta di fotografie, composte non di pixel ma fatte di parole, che realizzano un ritratto delicato, ricco di molte tonalita' sottolineate da tanta stima.
Un regalo all'amico scomparso e come lo stesso Cito conclude "come se fotografasse sé stesso"
Buona luce a tutti!
© ESSEC
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"Ricordando Ivo
Se ne andato in punta di piedi questa mattina alle otto, come suo solito, senza rumore, senza un saluto.
È partito per questo ennesimo viaggio, il suo viaggio verso una meta ignota, al di là dei confini conosciuti, ma di cui ha voluto mantenere il segreto, geloso del suo lavoro come sempre guardingo nel raccontare i suoi progetti, di cui anche questo ultimo, il più impegnativo, preparato con cura e in silenzio già da lungo tempo.
Ci eravamo incontrati la prima volta verso gli inizi degli anni 80 nella stazione di Porta Nuova a Torino.
Un incontro casuale, io avevo appena lasciato la redazione di Infinito, il magazine dello Editore Vivalda, che si apprestava a pubblicare il mio Afghanistan. Lui tornava ad Alba dove viveva, anche se il suo mondo era l’America latina, e il suo amore la Cuba di Fidel Castro.
Fu la sua quasi una visione celestiale l’aver visto Fidel mentre attraversava in auto il Malecòn, il lungomare dell’Havana. Questa apparizione solenne del leader di “Hasta la victoria siempre, Patria o muerte”, era tante volte motivo di conversazione tra uno spaghetto carbonara o spaghettino alle cozze di cui andava ghiotto e qualche bicchiere di vino in più, quando si trascorreva il tempo insieme seduti alla mia tavola in via Leoncavallo 17, a Milano.
Io avevo lasciato Londra definitivamente, lui il sud America. Le nostre conversazioni difficilmente vertevano sugli aspetti lavorativi, anche se era ancora il tempo bello della fotografia, quella di reportage, la fotografia tanto ricercata dai giornali e soprattutto dai settimanali, disposti ad investire e inviarci in giro per il mondo.
Ciò nonostante si fantasticava in altri progetti, di cui uno dei quali, aprire un ristorante a Managua nel Nicaragua della guerriglia Sandinista. Un pranzo o una cena a soli due dollari e cinquanta con l’aragosta. Era una sua proposta, conosceva quei luoghi, e la mia obiezione, pratica era: A quei prezzi, quando riusciremo a mettere i soldi da parte per tornare a casa?
Era la nostra un’amicizia sincera, ma anche conflittuale.
Non sempre le nostre idee combaciavano, il suo carattere spigoloso e schivo emergeva quando i contrasti su faccende che il più delle volte e in linea teorica manco ci appartenevano, ci hanno per qualche ragione senza una logica precisa, allontanati l’uno dall’altro. Eravamo entrambi reduci da altre vite e aggiungerei differenti affetti e, forse sono stati questi affetti mancati ad entrambi in forma diversa a renderci troppo uguali.
Erano i tabù delle nostre vite che immancabilmente ci siamo sempre trascinati lungo il percorso delle nostre esistenze. Il nostro guardarci in uno specchio, le nostre immagini riflesse si dissolvevano in un'unica sofferta esistenza.
L’aver perso la madre in giovane età, credo sia stata per lui una ferita insanabile. Era il tabù della vita, il non voler riconoscere noi stessi ad averci allontanati.
Ci siamo rincontrati in Palestina durante uno dei tanti drammi di quella martoriata terra.
Era a Bethlehem con Paolo Pelligrin durante l’assedio alle città palestinesi nel 2002, a seguito della seconda intifada.
Qualche giorno dopo Paolo era altrove e io lui e l’amico di lunga data John Tordai, riuscimmo attraverso i campi, ad entrare a Jenin assediata dell’esercito israeliano. Il campo profughi di Jenin era stato raso a suolo per rappresaglia. Durante i combattimenti fra i miliziani palestinesi e l’esercito di Tzahal, furono uccisi 23 soldati della stella di Davide.
Tempo dopo insieme a Ramallah, per recarci sul luogo dove il carissimo amico Raffaele Ciriello il 13 marzo 2002, fu falciato da sei proiettili di grosso calibro sparati dalla mitragliatrice di un carrarmato e ucciso all’istante. Le autorità israeliane hanno sempre negato l’evidenza anche se la morte di Raffaele fu ripresa in diretta dall’operatore Rai che accompagnava l’inviato Amedeo Ricucci.
Qualche tempo fa Durante il foto Lux di Lucca, al termine di una lunga giornata di incontri, ci siamo ritrovati seduti nella magnifica piazza con sullo sfondo la Chiesa di San Michele.
Un’occasione per ritrovarci e dissipare quei contrasti celati per troppo tempo, e ancora ad Orbetello lo scorso anno, in cui erano esposte le nostre foto “Zone di Conflitto” nello stesso spazio, uno di fronte all’altro.
Mi aveva mostrato altresì le foto del suo progetto sui Balcani.
Guardando le tue foto mi fai ritornare il desiderio di tornare a fotografare fu il mio commento.
Gli si illuminarono gli occhi, credo non si aspettasse da me un simile commento, ma sono convinto che in quel momento sia stato felice nel sentirmi esprimere ciò che veramente credevo e sentivo di dovergli dire.
Non era la mia una gratuita smanceria, era dettato dal cuore nel vedere la bellezza ritratta attraverso i suoi occhi.
Schivo com’era, mi ha sempre tenuto nascosto il suo male, al telefono e ancora pochi giorni addietro mi rispondeva sempre di star bene, ma sapevo che così non era, ero informato del suo dramma, che forse più che la malattia, è stato capire di non poter proseguire nel suo progetto, di non poter più trasmettere quella bellezza da me tanto amata e anche invidiata, anche se voglio credere che il suo viaggio è appena iniziato.
Io lo ricorderò sempre su quell’angolo dove i palestinesi avevano eretto un cippo per ricordare Raffaele Ciriello, il fotografo italiano sgradito ai soldati israeliani e che di quel cippo ne hanno fatto scempio.
Ivo fotografava quel muro ormai annerito e imbrattato, sul quale era impressa indelebile la memoria dell’amico gentile quale era Raffaele, ed è stato in quel momento in cui Ivo apparve ai miei occhi in tutta la sua sofferta umanità.
Era come se fotografasse sé stesso.
Buon viaggio Ivo, con un grande abbraccio Francesco"
sabato 25 novembre 2023
“Il Velo”, Mostra fotografica di Marica Di Bartolo
In un altro scritto mi ero voluto avventurare, a mio modo e con l'uso del mio vocabolario, nel cercare d'interpretare la creatività artistica di Sid, un visionario che - con le sue variegate opere pittoriche, scultoree e tanto altro - rappresenta, come costante, i suoi stati d’animo e momenti intimi.
Con la sua mostra, intitolata “Il Velo”, Marica Di Bartolo viene sostanzialmente a sviluppare tematiche analoghe ma, questa volta, rappresentate attraverso la fotografia.
A suo modo, con le sue immagini propone, infatti e in modo delicato, anche lei molto di sé stessa. Utilizzando sapientemente simboli e metafore o lasciandosi intravvedere attraverso veli allusivi che, come essa stessa afferma, hanno costituito nel suo tempo contemporaneamente delle protezioni e limiti.
Con coraggio esterna oggi la sua voglia repressa di mostrarsi agli altri come la vera Marica disvelata.
Ricorrendo anche ad elaborazioni tecniche, che mostrano efficacemente le complessità insite che sono sempre presenti in una narrazione, permette di percorrere più efficacemente i multiformi sentieri della psiche umana.
Di Donato che l’ha aiutata nell’editing della mostra e della relativa fanzine, in sede di presentazione, ha anche detto che il suo lavoro si presta anche a una facile lettura perché appare semplice ma, per la pulizia sintattica, non facile da realizzare.
Concordo nell’aggettivazione aggiungendo che la semplicità del progetto è però fortemente ricercata dall’autore che non ha mai avuto l’idea di impegnarsi nel cercare di proporre immagini complicate, bensì volte a sviluppare il suo vero intendimento, che era quello di volersi raccontare in modo diretto.
Alternando immagini estetiche e nascoste, per rappresentare attraverso la fotografia il suo modo di essere, ha peraltro scelto e messo a frutto le tecniche elaborative necessarie allo scopo. La mela matura simboleggia la sua immagine della Marica attuale, che potremmo intendere come "disvelata".
Con un messaggio immediato anche se assai complesso; che porta a tanti sottintendimenti e che si sviluppa leggero, in modo armonioso e gradevole, come se si venisse a trattare di un gioco.
I tanti veli in verità disvelano ecografie dell’intimo, che nel loro insieme formano una cartella e che consentono, come spesso accade a chi osserva l’arte – e come è ampiamente dimostrato - di rispecchiarsi.
In questi casi, quindi, le immagini dicono molto più di quanto possa essere espresso con le parole, quindi, per chi è curioso e volesse capire di più, non rimane che fare un salto all’ARVIS per costatare di persona.
Della mostra, Michele Di Donato ha scritto su Facebook: “una mostra di cui ho avuto l’onore di curare sia l’installazione che la realizzazione del catalogo/fanzine e che potrete visitare, presso la Galleria FIAF Arvis Palermo fino al 3 dicembre prossimo”.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
venerdì 17 novembre 2023
"Cu e' chiu´babbu. u cannalivari o cu ci va appressu?"
Se si vogliono approfondire le conoscenze scientifiche su funzioni caratteristiche di parti del corpo umano, già sul web è possibile facilmente leggere che “i testicoli (o gonadi maschili) sono due e rappresentano le ghiandole sessuali maschili. Nel feto sono collocati nell’addome e solitamente discendono nello scroto (ovvero il sacchetto che li contiene) poco prima della nascita. Queste due ghiandole non sono sempre della stessa grandezza nel corso della vita: di piccole dimensioni durante l’infanzia, aumentano di volume durante la pubertà fino al raggiungimento della piena maturità sessuale, per poi subire un’involuzione fisiologica nella tarda età.”
Inoltre: “Due sono le funzioni svolte dai testicoli a partire dalla pubertà: una funzione endocrina e una funzione esocrina. La funzione esocrina consiste nella spermiogenesi, ovvero nella produzione degli spermatozoi, necessaria per la riproduzione. Può essere svolta anche da un solo testicolo. La funzione endocrina consiste nella secrezione del testosterone: la presenza di questo ormone nell’organismo maschile è indispensabile, oltre che per l’induzione della spermiogenesi, per lo sviluppo dei cosiddetti caratteri sessuali secondari (aumento della massa muscolare, abbassamento del timbro della voce, aumento della peluria sul corpo).”
Se ne dedurrebbe che la funzione degli organi in questione è alquanto importante, soprattutto indispensabile per assicurare una continuità esistenziale, a prescindere dal genere, della specie homo sapiens.
Nella quotidianità il termine coglione (o più affettuosamente “coglionazzo”) viene soprattutto usato per identificare un soggetto vuoto, propenso a un modo superficiale e bizzarro di ragionare, peculiarità che rappresentano anche una costante in individui che vedi impegnati in discorsi articolati e di frequente prolissi ma che, al tirar delle somme, risultano sempre del tutto vacui e inconcludenti.
Il modello di sviluppo o il substrato culturale del “coglione” avrebbe poco da incidere nel sociale se allo stesso non corrispondessero analoghi soggetti passivi (definibili: “coglioni specchio”) che sempre più massicciamente assorbono le loro teorie indimostrate, assumendole come fatti veri e contemplando chi le proferisce con venerazione, assurgendoli quasi a portatori di verità profetiche.
Il termine metaforico usato in questi casi prescinde dal genere, pertanto può indifferentemente ben accostarsi nel qualificare individui machi o femmine. Del resto è sempre più diffuso il l’attributo (“ha i coglioni” o “porta lei i pantaloni”) per quelle femmine che denotano personalità “testosteronate”.
La problematica insorge e assume questioni socialmente delicate quando il fenomeno prende troppo piede ed entra anche nella politica.
Da un po’ di tempo politici lungimiranti e di lungo corso amano attorniarsi di un plancton costituito da individui senza ombra ….. ma non perché dotati di profili lindi o trasparenti, ma perché di proprio talmente inconsistenti da non generare ombre.
La cosa potrebbe pure non risultare importante se, stante la carenza delle moltitudini di politici che necessitano alle cariche istituzionali, venga a succedere che anche i “coglioni” riescano a ricoprire incarichi anche di rilievo in relazioni ai compiti da assolvere.
Peggio mi sento quando taluni di essi vengano pure chiamati a diventare sindaci, assessori, fino ad assurgere a ruoli di onorevole e perfino segretario di partito.
Nell’attuale contesto occidentale che falsamente si autodefinisce “democratico” ormai tutto e possibile e il neoliberismo - che spesso sorvola sulle regole – facilitando ogni arrivismo, ha anche aperto le porte a tanti “coglionazzi” che sciorinano sermoni e attuano trasformismi in una società profondamente malata e affollata di cittadini confusi assoggettati ai media.
Non c’è quindi da stupirsi della qualità della classe politica che attualmente ci governa perché, in fondo ad ogni possibile ragionamento, non trovando ormai più coinvolti i personaggi assenti (per astensionismo crescente di potenziali validi candidati e, ancor più, di votanti), rispecchia perfettamente solo lo spaccato della società che vuole il potere e che intende contare.
È pertanto sufficiente appollaiarsi nelle curve, Nord o Sud secondo le appartenenze, per fare il tifo da stadio, anche se non si capisce il gioco, ovvero limitarsi a seguire i sondaggi per cercare di trovare un posto nel carro che si prefigura vincente.
In conclusione, non rimane che riesumare e rivitalizzare quel valido il vecchio detto siciliano che recita: "Cu e' chiu´babbu. u cannalivari o cu ci va appressu?" (trad. Chi e' piu' stupido Carnevale o chi lo segue?)”
Buona luce a tutti!
© ESSEC
martedì 14 novembre 2023
Photo Happening a Palermo organizzato all’ARVIS
Discutendo di fotografia l’amico Michele, fotografo palermitano di lungo corso, ha sostenuto che trova sempre particolare interesse nel visitare tutte le mostre, indipendentemente da chi sia l’autore, ponendosi ogni volta attento e curioso, con un approccio costantemente improntato a osservare senza pregiudizi.
Ogni mostra/evento artistico costituisce un messaggio autonomo; può risultare ai nostri occhi eccelso o può anche non piacere o, più semplicemente, risultare incomprensibile o - ancora - non corrispondere alle nostre aspettative.
Rimane il fatto che tutte le proposte culturali meritano di essere sempre trattate con rispetto, non ultimo perché forniscono occasione atte a stimolare profili interessanti che avviano momenti di riflessione e, in ogni caso, spunti/argomenti che vanno oltre l'eventuale critica estemporanea.
In questa chiave sono da porre anche le iniziative che molte associazioni e circoli fotografici vengono a organizzare per tenere viva le passioni e favorire sempre nuove proposte.
Il primo Photo Happening che è stato organizzato in questi giorni dall’ARVIS di Palermo, in collaborazione con il Dipartimento Cultura FIAF diretto da Silvano Bicocchi, ha voluto percorrere questo solco e, visti i risultati, c’è pienamente riuscito.
L’ARVIS (Associazione per le arti visive in Sicilia) è associata da tempo alla Federazione Italiana Associazioni Fotografiche e ha di recente organizzato a Palermo il 74^ Congresso Nazionale negli spazi comunali ubicati presso i Cantieri Culturali alla Zisa.
Forte del successo organizzativo conseguito e dell’intensa attività di formazione costantemente rivolta principalmente ai giovani ha voluto avviare anche a Palermo questa ormai collaudata formula composita di appuntamento (Photo Happening per l'appunto), che contempla lo sviluppo in parallelo di diverse attività fotografiche, per fornire opportunità di conoscenze, agevolare la creatività e alimentare i momenti di crescita per chi pratica la fotografia come passione.
Proposito e obiettivo principale non è stato pertanto quello di creare il dictat per ricercare ossessionatamente di arrivare i primi, bensì quello mettersi in gioco proponendosi nello svolgimento di estemporaneità tematiche ovvero di confrontarsi con altri nell’esame dei lavori realizzati, con l’opportunità di vedere contemporaneamente l’attività e le proposte altrui, nonchè di assistere agli esami incrociati che si sviluppano sempre nel corso delle diverse letture.
Questo primo evento palermitano, efficacemente coordinato dal socio Giacomo Barone, si è svolto nell'arco di due giornate; articolate in differenti iniziative costituite da: “set/uscite” supportate da un tutor nella redazione di tre tematiche fotografiche; seminari e conversazioni il sabato (Gianluca De Dominici, Sergio Perez e Ornella Mazzola) e con letture di fotografie che si sono svolte nella giornata di domenica (curate da Brigida Lunetta, Michele Di Donato e Marco Fantechi).
Tutto quanto realizzato è stato esaminato pubblicamente, consentendo a chi fosse interessato (anche a non soci e ospiti) di potere seguire le fasi dei vari lavori e degli eventi.
Tenuto conto che si è trattata di una prima edizione, svolta per ovvi aspetti logistici negli stessi locali dell’associazione, stante le disponibilità economiche limitate per assenza di sponsor, i numeri sono da considerare assai soddisfacenti (con 22 letture portfolio, 7 letture di cinque foto singole per autore e 10 persone partecipanti ai tre set fotografici).
Riguardo alle premiazioni, foto di Giusi Inzinna e Davide Pizzo sono state giudicate come migliori; nelle Serie fotografiche dei set - legate a lavori tematici estemporanei - sono stati prescelti Oscar Nicosia (Il Quartiere Ebraico di Palermo), Stella Gentile (La piaga degli incendi stagionali) e Leandro Faustino (Sulla via di Rosalia).
Nelle letture portfolio secondo si è classificato Salvatore Titoni (Emozione numero cinque) e vincitrice è stata Valeria Monte (Kintsugi). Le motivazioni espresse dai tre lettori sono state rispettivamente “Una emozione, un’idea antica, una speranza di rinascita trovano voce in un racconto fotografico ben strutturato” e “Per aver saputo racchiudere in un racconto efficace una storia intima di ricerca del proprio equilibrio interiore, attraverso immagini evocative, simboliche, potenti”.
Come ha ricordato in sede di presentazione Gianni Nastasi (Presidente ARVIS) e più volte pure sottolineato da Marco Fantechi (Docente FIAF), a prescindere dagli aspetti competitivi, forse necessari per stimolare l'approccio al confronto, partecipare a manifestazioni come queste o similari costituiscono tappe importanti, per poter verificare quanto si produce e appuntamenti utili per alimentare idee creative fondamentali necessarie per sviluppare la crescita individuale di ciascuno.
Costituiscono altresì occasioni per conoscere e farsi conoscere, stabilire interscambi sempre utili per affinare la lettura della luce e le scritture attraverso immagini (in chiave sia autoriale che nell'aspetto di lettura); elementi tutti indispensabili che educano ad affinare sempre più il proprio modo di comunicare e di leggere e anche riuscire ad a far propria la sintassi insita se ci si vuole proporre come autore.
A conclusione dei lavori, organizzatori, collaboratori esterni e partecipanti sono rimasti entusiasti per come sono andate le cose e si sono ritrovati concordi a voler ripetere l’iniziativa anche nei prossimi anni. Del resto la formula ha soddisfatto, funzionato, il materiale è stato abbondante e di qualità, registrando anche una larga partecipazione giovanile che fa ben sperare per la futura crescita dell'ARVIS.
Buona luce a tutti!
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sabato 11 novembre 2023
“Se ne vanno sempre i migliori”
Un uno dei suoi tanti film che hanno rappresentato la società italiana c’è una scena emblematica di un Totò pragmatico e cinico che porta a ripetere una consueta considerazione ovvero che “se ne vanno sempre i migliori” (https://www.youtube.com/watch?v=KC6h6oHvOPM).
Il detto appare calzante anche per il compianto sociologo Domenico De Masi che avrebbe avuto ancora molto da dire e da insegnare.
Chi ha avuto la fortuna di averlo incontrato testimonia dell’ampia visione sui fenomeni e le caratteristiche del contesto umano in cui sempre più confusamente noi tutti ci barcameniamo.
Per alcuni aspetti ho sempre associato il suo personaggio al mitico Luciano De Crescenzo, come lui campano, anche lui per genialità e i variegati impegni culturali portato naturalmente a saper comunicare, in modi semplici e solo apparentemente leggeri, aspetti della vita assai complicati e complessi.
Un regalo che Domenico De Masi ha voluto lasciare sono i libri: “Felicità negata” e “Destra e Sinistra”. Eccellente condensato degli sviluppi socio-economici (principalmente rappresentate dalle Scuole di pensiero contrapposte di Francoforte e Vienna) che hanno costituito da preludio alla realtà neoliberista che sempre più sovrasta gli assetti politici e l’economia reale attuale il primo libro (Giulio Einaudi editore). Una pacata messa a confronto dei pensieri di diversi intellettuali, di scuole di pensiero contrapposte, sugli eterni problemi e concetti socio-politici di destra e sinistra (Dialoghi su: DPF ovvero Dio, Patria, Famiglia / e su LUF ovvero Libertà, Uguaglianza, Felicità) il secondo (con scritti di Sergio Belardinelli, Massimo Cacciari, Franco Cardini, Dino Cofrancesco, Donata Francescato, Eernasto Galli della Loggia, Gad Lerner, Giacomo Marramao, Tomaso Montanari, Marco Revelli, Marco Tarchi, Marcello Veneziani e dello stesso Domenico De Masi che ne ha anche curato il progetto edito da PiperFirst).
Il convincimento di De Masi, esplicitato in copertina di “Felicità negata”, è che “non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele. Questo è l’esito raggiunto da una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obiettivo l’infelicità”. In entrambi, poi, si sofferma sulle conseguenze occupazionali che verrebbero prodotte dalla IA (Intelligenza Artificiale), introducendo anche il termine “Ozio Creativo”, definendolo come “quella parte del nostro tempo, sempre più estesa, che noi trascorriamo in ufficio, al bar, in viaggio, al cinema, leggendo, ascoltando musica, parlando con gli amici, cenando, durante la quale non ci limitiamo a lavorare, o a studiare, o a giocare ma facciamo qualcosa di indeterminato in cui queste tre funzioni e questi tre stati d’animo convivono potenzialmente a vicenda.” Prosegue affermando che “questa parte crescente della nostra vita non è regolamentata e tantomeno contrattualizzata, non rientra nelle leggi dello Stato o negli accordi sindacali. Eppure, sta ormai determinando la qualità della nostra vita e del nostro grado di felicità.” Considerazioni positive che dovrebbero tranquillizzare, se gestite con sagacia e lungimiranza dalla classe politica che sarà chiamata ad amministrare il futuro assetto sociale che ci aspetta.
Quanto si potrebbe ulteriormente aggiungere, per recensire adeguatamente entrambi i volumi, non potrebbe essere mai esaustivo rispetto alle tante sfaccettature affrontate nei rispettivi saggi.
Se adeguatamente incuriositi, non rimane pertanto che procedere all’acquisto di entrambi i volumi per una spesa complessiva di euro 28 (per le edizioni cartacee che io preferisco: 12 + 16) e ancor più modica se si opta per gli ebook. Due libri che intrigano, allargano gli orizzonti e inducono a pensare, al di là d'ogni propria convizione politica consolidata.
Buona luce a tutti!
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mercoledì 8 novembre 2023
La “munnizza differenziata” all’Accademia Belle Arti di Palermo
Di recente sono intervenuti dei significativi cambiamenti alla Biennale di Venezia. Occorrerà quindi verificare ciò che verrà proposto e realizzato dal nuovo direttore artistico incaricato prima di venire ad avventurarsi in critiche affrettate influenzate da pregiudizi.
In ogni caso la Biennale è sempre stato luogo artistico dove i pionieri dell’arte hanno avuto ampi spazi per proporre nuovi percorsi. La seppur breve storia della fotografia si è anch'essa sempre storicamente allineata su analoghi solchi.
Queste premesse e le relative logiche possono forse aiutare a meglio addentrarsi - con adeguata prudenza – su quanto è di recente accaduto riguardo alle tante problematiche e ai molteplici dissensi emersi a seguito delle premiazioni negli ultimi appuntamenti FIAF di Portfolio Italia.
Senza volere per nulla entrare nel merito, sia riguardo alle specifiche critiche avanzate o nel voler discutere sulle motivazioni rese pubbliche dalle qualificate giurie, potrebbe tornare vantaggioso richiamare tutte le parti in causa a riflettere maggiormente sui fondamentali e, magari, tenere anche in giusto conto il fatto che la fotografia è pure essa una forma d’arte soggetta a mode e a continui cambiamenti.
Per avere maggiori elementi e poter focalizzare meglio gli aspetti che hanno innescato le molte discussioni, potrà tornare utile leggere l'intervista rilasciata ad Angelo Zzaven dalla vincitrice dell'ultimo portfolio Italia Caterina Codato, al 13° Premio Maria Luigia di Colorno (PR), che si rivela alquanto interessante oltre che esaustiva.
A mio modesto parere e per inciso, credo che, qualora ci si dovesse allontanare troppo dai principi qualificanti della fotografia, si potrebbe correre il rischio di venire a realizzare altro, seppur creando un qualcosa che sia anch'esso di artisticamente valido.
Ma, come mi ricorda spesso un amico, proprio il genere corrispondente al portfolio fotografico continua ad essere un ibrido, un Giano bifronte che - in mancanza di regole certe, mai consolidate e da tutti riconosciute - scorre di per sé in equilibrio, sul filo di una lama, con i rischi intrinsechi che ne conseguono.
Allontanandomi dalla tipologia fotografica specifica, nata in Italia e sostanzialmente perchè introdotta e storicamente immaginata dal duo Fiaf Magni/Torresani, propenderei per il cercare di allargare l'argomento, nell'intento di rivisitare i presupposti essenziali insiti al fenomeno artistico denominato Fotografia.
Per meglio ottenere chiarimenti su un tema e argomenti assai complessi che, probabilmente, difficilmente potranno mai ritrovare tutti d’accordo, invito pertanto a perdere un paio d’ore nel vedere (soprattutto ascoltare) due video postati su You Tube riguardanti due autori siciliani, da subito artefici di percorsi fotografici creativi affermati ormai da molto tempo: Carmelo Bongiorno e Franco Carlisi.
Un modo per stoppare le polemiche e ritornare alla storia della fotografia e ai variegati sviluppi collegati allo scrivere immagini attraverso la cattura della luce.
Video “Bongiorno” – https://youtu.be/PSX10mei_uM?si=y2x8XVxChOu1xvpy (h. 1,30 circa)
Video “Carlisi”- https://youtu.be/37XK0xu3kv0?si=7SEl7AoXsU19GFRV (h. 1 circa)
I suddetti video, ripresi al Cinema De Seta (Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo) e realizzati in occasione del 74^ Congresso Nazionale Fiaf, nel corso d'incontri moderati entrambi dall'esperto Pippo Pappalardo.
Si avrà modo di constatare come certi temi, pur diversamente affrontati dai due autori siciliani, per i contenuti concettuali abbastanza sperimentali realizzati, specie se riferiti ai tempi, hanno seguito un percorso, senza mai abbandonare tracce esistenti.
Buona luce a tutti!
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P.S. - Il titolo assegnato all'articolo, non vuole in alcun nodo alludere al contenuto, bensì intende attenzionare sul come l'arte è spesso legata a tanta casualità. Nello specifico si riferisce all'immagine di copertina che ritrae delle opere artistiche realizzate da alunni dell'Accademia delle Belle Arti ubicata presso i Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, che evidentemente non hanno trovato fortuna e fanno parte della spazzatura ingombrante destinata allo smaltimento dei rifiuti urbani. Ancora una volta è un esempio di quanto possa essere discutibile l'arte, specie se dissociata dall'artista che l'ha creata o dal curatore che lo sostiene/rappresenta.
IS-LAND - Slide Show d'immagini sulla Mostra fotografica di Fabio Sgroi al Real Albergo delle Povere di Palermo
Per chi non l'avesse ancora fatto, visitabile fino a domenica 12 la mostra fotografica "IS-LAND" di Fabio Sgroi al Real Ambergo delle Povere di Corso Calatafimi a Palermo https://youtu.be/LdL0qOh71iU
La mia recensione sulla mostra a suo tempo pubblicata su: https://laquartadimensionescritti.blogspot.com/2023/09/is-land-di-fabio-sgroi-curated-by-n38e13.html
Buona luce a tutti!
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domenica 5 novembre 2023
“Coumba Freida” di Massimiliano Gaglio dal 4 al 18 novembre
Nel variegato panorama artistico ogni opportunità appare utile a ciascun autore per comunicare i propri punti di vista.
La fotografia si presta molto a questi scopi, per l’abilità di alcuni fotografi che riescono a confondere il mondo reale attraverso immagini mistiche o allusive.
Capita così di vedere quasi per caso una mostra e di trovare esposte fotografie che costituiscono condensati comunicativi, riuscendo a rendere visibili e a far percepire a pieno concetti complessi non facilmente classificabili.
È quanto succede visitando la mostra di Massimilano Gaglio che “Collettivo F – Anno Zero” ha voluto proporre come appuntamento di chiusura nel suo ciclo espositivo del 2023.
Come accennato nella presentazione dallo stesso autore, il suo carnevale non è per nulla banale, specie per le forti allusioni anche alle maschere di Jung, presentato con una proposta in bianco e nero che risulta ben calzante per meglio veicolare le sue visioni.
Ne deriva una ricerca che viene a raccontare, attraverso una serie di immagini, individui e collettività in maschera, tutti metaforicamente focalizzati in una vallata coperta di neve.
Gli stessi soggetti mascherati, successivamente colti negli ambienti chiusi, mescolandosi al popolo rivelano la loro promiscuità, vengono a confondersi con altri umani dalle sembianze riconoscibili che appaiono quasi fossero degli alter ego o loro stessi fantasmi che vagano negli ambienti.
Una mostra fotografica che sicuramente tende a spiazzare l’osservatore. Per il semplice fatto che oltre a una mostra fotografica potrebbe essere letta verosimilmente come un trattato di sociologia o psicologia, anche per i tanti elementi d’aspetto psichiatrico che risultano ampiamente visibili.
Questa “Coumba Freida”, a mio parere, potrebbe quindi costituire un emblematico esempio di scrittura visiva di una diagnosi che, senza uso esplicito di didascalie, sottende a trasmettere messaggi che ciascun visitatore potrà liberamente interpretare e modellare a sua immagine e somiglianza.
La mostra sarà esposta fino al prossimo 18 novembre a Palermo, presso la Chiesa dei Santi Crispino e Crispiniano” (Casa Professa).
A completamento è giusto citare quanto riportato dalla locandina della mostra: “In Valle d’Aosta si trova la Valle del San Bernardo, detta anche Coumba Freida per il vento gelido che spira nel periodo invernale. Durante il carnevale gli abitanti del luogo partecipano alla festa cercando di rendere la stagione meno triste e fredda. Le landzette (1), maschere tipiche del luogo, visitano le case della gente cantando e ballando, bevendo e rievocando il passaggio delle truppe napoleoniche attraverso il colle del Gran San Bernardo. I costumi usati sono una trasposizione allegorica delle uniformi dei soldati francesi che seminarono il terrore tra la popolazione nel maggio del 1800. In questo lavoro fotografico non si vuole semplicemente raccontare la festa, quanto cercare di analizzare gli aspetti sociali e la relazione tra l’uomo e la natura. Il progetto è stato realizzato dal 2013 al 2019.”
Una mostra che merita di essere vista e letta con attenzione, magari ripetendone il giro.
Buona luce a tutti!
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(1) Landzette sono delle Maschere della Valle d’Aosta, il cui volto è coperto da una maschera un tempo di legno; in mano tengono crine di una coda di cavallo e in vita hanno una cintura munita di un campanello. Questi ultimi elementi vengono interpretati dagli antropologi come strumenti simbolici per scacciare gli spiriti avversi (fonte web).
lunedì 30 ottobre 2023
27 ottobre / 05 novembre 2023: "Marocco -/+ 40″ – Mostra di Pippo Consoli e Rosario Barone all'ARVIS
Sinossi della Mostra fotografica "Marocco -/+ 40″
Le diverse etnie, organizzazioni sociali e i sistemi politici di riferimento, basati su culture spesso profondamente differenti, stabiliscono anche i ritmi di sviluppo interni, pur se orientati dalla globalizzazione che interessa ormai tutto il pianeta. Ci sono, quindi, luoghi e paesi dove i cambiamenti scorrono molto velocemente e altri dove il tempo sembra trascorrere con maggiore lentezza, tendendo a mantenere quasi integre le usanze e le tradizioni indigene .L’iniziativa di Pippo Consoli e Rosario Barone di mettere in mostra – e quasi a confronto – immagini analogiche e digitali (scattate negli anni ottantadue, con pellicole in bianco/nero e fotocamera manuale le prime, con una moderna reflex super sofisticata le foto più recenti) che, oltre a documentare le realtà corrispondenti a due periodi storici (a distanza di quaranta anni), vuole anche focalizzare gli aspetti etnici e sociali citati in premessa.
Il Marocco, che fino agli inizi del novecento è stato un protettorato francese, influenzato anche dalla vicinanza fisica e l’interscambio che ha sempre avuto con la vicina Spagna, costituisce una delle nazioni fra quelle più avanzate del Nord Africa. Vige una monarchia costituzionale abbastanza illuminata che, grazie anche ad aiuti occidentali che hanno agevolato l’apertura verso i loro mercati mediterranei, consente una pacifica convivenza di diverse etnie, distribuite in un variegato e vasto territorio, riducendo al contempo progressivamente tanti espatri clandestini.
Soffermandosi sulle foto in mostra, le immagini esposte dai due autori testimoniano le diversità che hanno da sempre caratterizzano il paese. Le fotografie di Barone si soffermano principalmente sui territori desolati del sud marocchino, dai connotati prettamente berberi e comuni ai confinanti paesi del Nord Africa occidentale (Algeria in particolar modo), allocati a ridosso della cordigliera dell’Atlante, dove si trovano maestosi villaggi fortificati interamente costruiti in terra con una sapienza antica tramandata e che oggi rischiano di scomparire per sempre. Le foto di Pippo Consoli, più datate, si concentrano invece sulla parte più nord occidentale del paese, con immagini che documentano angoli delle città imperiali (Fès, Marrakech, Rabat e Meknès), soffermandosi sugli aspetti architettonici di importanti edifici che su talune abitudini, caratteristiche degli abitanti del Marocco del nord.
Evidenti risultano le differenze di epoche, per i costumi – arabi o occidentalizzati - indossati da taluni abitanti che sono stati ritratti nei vicoli e nei mercati da Consoli (tenda del barbiere, abbeverarsi alla fontanella); anche se in altri casi talune delle scene fotografate nel 1982 potrebbero essere simili a quelle che si ancor oggi potrebbero incontrare; specie se riferite a classi sociali meno abbienti (decapitazione del pollo, tatuaggi temporanei all’henné, la tenda con il barbiere all’opera). In sintesi, i due spaccati diversi con i quali i due autori vengono a raccontare il loro personale modo di vedere il Marocco (analogico e digitale, quindi d’ieri e di oggi) si integrano perfettamente. Le foto del Sud, che solo in rari casi propongono presenze umane, potrebbero essere ben associate ad un unico periodo, atteso che le abitudini berbere e gli insediamenti urbani sono gli stessi da sempre.
Jamaa el Fna, la piazza centrale di Marrakech fotografata da Rosario Barone nel 2022 costituisce di fatto l’unico documento che identifica il Marocco moderno, a cui Consoli contrappone le foto dell’incantatore di serpenti, e i lettori dei testi del corano che raccolgono fedeli di religione islamica. Marrakech, luogo marocchino dove s’incontrano tutte le culture del paese, costituisce una meta fissa del turismo internazionale. Chi ha avuto la fortuna di visitare il paese, attraverso le fotografie della mostra, saprà riconoscere e rivivere luoghi e personaggi. Per chi non lo ha ancora visitato, le foto possono costituire uno stimolo per avventurarsi e intraprendere un’interessante avventura. Magari aspettando che vengano intanto sanificati i gravi danni procurati dal recente movimento tellurico, che ha quasi distrutto l’intera cittadina e parte dei muri dai tratti architettonici fortemente feudali.
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27 ottobre – 05 novembre 2023 / Marocco -/+ 40″ – mostra di Pippo Consoli e Rosario Barone
Buona luce a tutti!
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giovedì 26 ottobre 2023
Photoshop, assai utile ma anche .....
Capita talvolta di rivisitare dei vecchi scritti che, specie in fotografia, avevano lo scopo di chiarificare alcuni aspetti controversi. Nonostante il tempo, oltre a continuare ad essere irrisolti, alimentano evoluzioni o involuzioni concettuali che, in assenza di autorevoli e motivati chiarimenti mantengono ancora confusioni. A completamento il testo che avevo proposto è datato aprile 2015. In ogni caso l'attualità prospetta novità più importanti che vengono a complicare l'autenticità della fotografia per come l'abbiamo sempre intesa. L'IA (intelligenza artificiale) sta rivoluzionando il concetto intrinseco della fotografia classica e chissà cosa si verrà a prospettare in un domani assai prossimo.
Buona luce a tutti!
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"Può capitare ed a me è già più di una volta accaduto di riscontrare, in riunioni di giurie chiamate ad ammettere e premiare fotografie in concorsi fotografici, foto manipolate con interventi di postproduzione che cambiavano significativamente le immagini rispetto alla realizzazione originaria.
In particolare, non mi riferisco alle usuali classiche correzioni di esposizioni, tonalità e/o saturazioni e nemmeno a conversioni dal colore in b/n.
Accade sempre con maggiore frequenza che più o meno abili utilizzatori di Photoshop o di programmi similari (potrei definirli anche "i soliti noti") creino nuove realtà attraverso sovrapposizioni di livelli o con più semplici copia-incolla, scontornando poi le sovrapposizioni o gli arditi inserimenti.
Per quanto ovvio, nella maggior parte dei casi ed in particolare per foto amatori più bravi in questi artifizi, le predette operazioni di modifica non sono visibili con immediatezza ma presuppongono attente osservazioni delle immagini opportunamente ingrandite.
Per quanto ovvio, qualora il concorso bandisca elaborazioni e manipolazioni, l'eventuale infausta ammissione e/o premiazione espone le Giurie a magre figure. Mi resta in ogni caso difficile capire la soddisfazione di chi tenti raggiri nelle regole per accaparrarsi un premio e/o i relativi punteggi connessi.
Quanto fin qui osservato, vista la persistenza del fenomeno, necessita, a mio parere, di urgenti interventi regolamentari.
Nello specifico suggerirei una soluzione radicale, prevedendo sempre delle sezioni speciali dedicate a dette forme di elaborazioni e "smanettamento"; ciò allo scopo di evitare il far concorrere in una medesima sezione - libera o a tema che sia - di fotografi che presentano foto compositivamente integre con gli amanti di immagini artefatte.
Credo che comunque non si può più sottacere sul problema, stante anche la verificata proposizione in serie di foto, nei diversi concorsi, da parte di medesimi autori avvezzi a dette pratiche."
Buona luce a tutti!
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"Può capitare ed a me è già più di una volta accaduto di riscontrare, in riunioni di giurie chiamate ad ammettere e premiare fotografie in concorsi fotografici, foto manipolate con interventi di postproduzione che cambiavano significativamente le immagini rispetto alla realizzazione originaria.
In particolare, non mi riferisco alle usuali classiche correzioni di esposizioni, tonalità e/o saturazioni e nemmeno a conversioni dal colore in b/n.
Accade sempre con maggiore frequenza che più o meno abili utilizzatori di Photoshop o di programmi similari (potrei definirli anche "i soliti noti") creino nuove realtà attraverso sovrapposizioni di livelli o con più semplici copia-incolla, scontornando poi le sovrapposizioni o gli arditi inserimenti.
Per quanto ovvio, nella maggior parte dei casi ed in particolare per foto amatori più bravi in questi artifizi, le predette operazioni di modifica non sono visibili con immediatezza ma presuppongono attente osservazioni delle immagini opportunamente ingrandite.
Per quanto ovvio, qualora il concorso bandisca elaborazioni e manipolazioni, l'eventuale infausta ammissione e/o premiazione espone le Giurie a magre figure. Mi resta in ogni caso difficile capire la soddisfazione di chi tenti raggiri nelle regole per accaparrarsi un premio e/o i relativi punteggi connessi.
Quanto fin qui osservato, vista la persistenza del fenomeno, necessita, a mio parere, di urgenti interventi regolamentari.
Nello specifico suggerirei una soluzione radicale, prevedendo sempre delle sezioni speciali dedicate a dette forme di elaborazioni e "smanettamento"; ciò allo scopo di evitare il far concorrere in una medesima sezione - libera o a tema che sia - di fotografi che presentano foto compositivamente integre con gli amanti di immagini artefatte.
Credo che comunque non si può più sottacere sul problema, stante anche la verificata proposizione in serie di foto, nei diversi concorsi, da parte di medesimi autori avvezzi a dette pratiche."
sabato 21 ottobre 2023
Come tutto cominciò.
Un lavoro di ricostruzione storica dell’origine dello stato moderno di Israele è stato quello realizzato e pubblicato a puntate su Il Fatto Quotidiano dal suo direttore nel corso di questo mese. La nostra memoria registra il sovrapporsi di tante informazioni e la massa mediatica che ogni giorno ci bombarda porta spesso a dimenticare tanti aspetti.
La ricostruzione realizzata da Marco Travaglio, anche se ad alcuni potrà apparire faziosa, racconta ed è un utile strumento per richiamare e valutare tantissimi accadimenti, che dovranno essere tenuti in conto prima di procedere a riconoscersi acriticamente in qualsiasi schieramento.
Del resto la storia è scritta sia dai vincitori che dai popoli oppressi, con versioni quasi sempre differenti nel sottolineare reciprocamente aspetti palesemente di parte.
La riproposizione degli editoriali di Travaglio in questo spazio web non ha quindi alcun intento di pirateria o di violazione di copyright poiché, tenuto conto dell’importanza dell’argomento trattato e indipendentemente da come la si pensi o ogni schieramento, si ritiene appunto molto utile - magari per i più distratti - postarli per intero.
Di seguito si riporta il testo integrale assemblato delle diverse puntate pubblicate.
Buona luce a tutti!
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Come tutto cominciò. All’alba del 14 maggio 1948 il sole picchia forte su Tel Aviv, mentre un ometto polacco canuto e commosso si alza in piedi e dà l’annuncio che tutti aspettano. Si chiama Micha Berdichevsky, ma tutti lo chiamano David Ben Gurion, detto anche “il figlio del leone”. È il capo del governo provvisorio di Israele. Parla scarno, ma solenne: “Proclamo la fondazione nazionale dello Stato ebraico indipendente di Palestina, che si chiamerà Israele”. Pochi minuti prima, l’ultimo soldato inglese ha lasciato il Paese, ponendo fine al mandato di Sua Maestà Britannica sulla Palestina, la lingua di terra stretta fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, spartita l’anno prima dall’Onu con la risoluzione numero 181 in due Stati: uno ebraico, l’altro arabo. Mentre Ben Gurion viene sommerso dagli applausi, qualcuno tra i più anziani ricorda la profezia lanciata mezzo secolo prima dal padre del sionismo, il giornalista ungherese Theodor Herzl: “Oggi la gente riderebbe se annunciassi che ho fondato lo Stato ebraico. Ma forse, fra cinquant’anni, mi darete ragione”.
“A morte gli ebrei!”. A Parigi, nel gennaio del 1895, Herzl ha visto degradare in piazza un ufficiale ebreo d’artiglieria, Alfred Dreyfus, condannato per alto tradimento su false accuse, tra la folla che urla “A morte gli ebrei!”. E, sconvolto per quel rigurgito di antisemitismo nel cuore d’Europa, ha scritto un libriccino ben oltre i limiti della follia: Lo Stato ebraico. Nel 1897 presiede a Basilea il primo congresso mondiale sionista. E le sue parole accendono la speranza in decine di migliaia di ebrei, soprattutto russi, in fuga dai pogrom: gli stermini di massa ispirati dalla polizia zarista. Negli ultimi vent’anni del secolo, un milione di israeliti fuggono dalla Russia negli Stati Uniti. Poche centinaia scelgono la via più difficile verso la terra dei loro padri, la Palestina. Qui, nel XIX secolo, gli ebrei sono ridotti a un villaggio di Asterix di 25 mila anime, affogate fra 450 mila arabi. Dalla fine dell’antico Stato ebraico con la conquista romana di Tito nel 70 d. C., non hanno visto che dominazioni straniere: bizantini, arabi, crociati, mamelucchi, turchi ottomani. In 17 secoli di “diaspora”, il popolo ebraico si è disperso in ogni angolo di mondo, ma non ha mai perso la speranza. Ogni anno, a ogni cena pasquale, ogni ebreo osservante ha rinnovato la promessa: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.
La svolta arriva a Natale del 1901. Il 5° congresso sionista di Basilea decide di distribuire a tutti gli ebrei del mondo un salvadanaio di latta bianco e azzurro. L’anno seguente, con i risparmi raccolti, nasce il Fondo Nazionale Ebraico per acquistare terreni in Palestina e ospitarvi i primi insediamenti.
Quelle messe in vendita dai grandi feudatari arabi sono terre di scarto: incolte e desertiche, o malsane e paludose, per giunta cedute a prezzi esorbitanti. Nascono così, tra mille difficoltà, i primi kibbutz, comunità agricole a gestione collettivistica, molto vicine agli ideali del socialismo. In pochi anni deserti e paludi si trasformano in agrumeti e campi coltivati. Attirando nuove e continue ondate migratorie, anche sulla spinta dei nuovi pogrom nell’Europa centro-orientale. La popolazione ebraica, nel 1914, è di 85 mila unità, nel 1923 di 120 mila, nel 1928 di 160 mila. Poi, dal 1932 al ’38, il grande esodo degli “indesiderati” dalla Germania hitleriana. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, gli ebrei di Palestina raggiungono quota 400 mila.
Balfour e il Focolaio. Sconfitto nel Primo conflitto mondiale, l’Impero ottomano si è sbriciolato e la Palestina è passata all’Impero britannico, che fa sperare gli ebrei. Nel 1917 il ministro degli Esteri, Arthur James Balfour, rilascia una celebre dichiarazione: “Il Regno Unito vede con favore la fondazione in Palestina di un Focolare nazionale per il popolo ebraico”. Poi però sono soltanto delusioni. Nel 1939 Londra pubblica un Libro Bianco che limita severamente l’immigrazione ebraica, impedendo a migliaia di ebrei di sfuggire alla persecuzione nazista. Gli ebrei di Palestina si schierano comunque in guerra a fianco degl’inglesi contro i tedeschi. Ma nel 1946 la tensione è di nuovo all’acme. Navi cariche di profughi scampati ai lager si presentano sulle coste palestinesi e vengono ricacciate indietro dalle autorità britanniche. Per rappresaglia, il 22 luglio l’Irgun Zwei Leumi, formazione paramilitare sionista, fa saltare in aria un’ala del King David Hotel, sede del quartier generale inglese: 90 morti. Il comandante della spedizione è Menachem Begin, futuro premier d’Israele e premio Nobel per la Pace. Poi finalmente il 2 aprile 1947, Londra annuncia il ritiro dalla Palestina entro due mesi.
L’Onu e i due Stati. Alle Nazioni Unite si inizia a discutere della spartizione della Palestina cisgiordana in due Stati. Anche l’ambasciatore sovietico Andrej Gromyko si dice favorevole. E alla fine i Sì sono 33, contro soli 13 No. Lo Stato ebraico comprenderà il deserto del Negev, la fascia costiera centro-settentrionale e la Galilea orientale: complessivamente il 55% del territorio, dove vivono 500 mila ebrei e 497 mila arabi. Lo Stato arabo avrà il restante 45%, con la parte centrale della Palestina, più la striscia di Gaza e la fascia sottostante tra il Negev e il Sinai, dove risiedono 725 mila arabi e 10 mila ebrei. E Gerusalemme? “Zona internazionale” sotto l’egida dell’Onu. Gli inglesi, prima di andarsene, fanno un ultimo dispetto a Israele, permettendo che il grosso delle loro armi e munizioni passi agli arabi. I quali però, aizzati dagli Stati “amici”, non accettano la risoluzione Onu. Scioperi, devastazioni, incursioni armate, massacri di ebrei. Poi, nei primi mesi del 1948, un “esercito di liberazione arabo” di 5 mila uomini attacca Israele e in pochi giorni isola Gerusalemme, il Negev e la Galilea dai restanti territori ebraici. Ma in aprile gli ebrei riprendono il controllo delle principali città, da cui – in parte spontaneamente e in parte spintaneamente – fuggono in massa le popolazioni arabe.
Battesimo di sangue. Rieccoci a Gerusalemme sotto il sole cocente di quel 14 maggio 1948. Il battesimo di Israele si celebra con una breve e frugale assemblea in una saletta del museo di Tel Aviv. Tutto in pochi minuti: il discorso di Ben Gurion e la firma di una pergamena con la dichiarazione d’indipendenza. Poi tutti in strada per un corteo festoso: in prima fila, al fianco di Ben Gurion, ci sono Golda Meir, Levy Eshkol, Yitzhak Rabin e altri padri fondatori che si alterneranno alla guida del Paese per oltre 40 anni. Piangono, ridono, si abbracciano con la folla in delirio che intona l’Halikyah (“speranza”): l’inno ebraico, più simile a una preghiera che a una marcia. Lo Stato di Israele è nato, anzi è rinato. È l’unica democrazia del Medio Oriente e viene subito riconosciuta, tra gli altri, dall’Urss e dagli Usa. Ma non c’è tempo per festeggiare. È un battesimo di sangue.
Mentre ancora Ben Gurion sta parlando, i sei eserciti della Lega Araba – Egitto, Libano, Siria, Transgiordania, Iraq e Arabia Saudita – muovono all’attacco da ogni punto cardinale per “cancellare dalla faccia della terra il cosiddetto Stato d’Israele”. L’Occidente solidarizza a parole, ma non muove un dito per difendere la risoluzione Onu del 1947. Anche l’Urss condanna l’invasione (la Pravda, da Mosca, parla di “aggressione araba contro Israele” e difende “il diritto degli ebrei a costituirsi un loro Stato indipendente; l’Unità si accoda). Ma lì si ferma. Israele deve imparare subito a combattere da solo, a mani nude. Tante mani, però: l’esodo del dopoguerra dall’Europa ha portato nella terra degli avi oltre 200 mila ebrei, scampati ai lager nazisti e ai pogrom russi, forzando il blocco britannico e aggiungendosi ai 600 mila che già vi risiedevano. Un’iniezione di forze e di intelligenze fresche che fa di Israele il Paese col più alto tasso di laureati, specialisti e tecnici del mondo. La loro competenza, capacità organizzativa e volontà di sopravvivenza diventano l’arma in più del neonato esercito Haganah (Difesa), capitanato da ufficiali giovani e agguerriti. Uno su tutti: il 33enne Moshe Dayan. Gli uomini non mancano.
Scarseggiano però i quadri militari e gli armamenti: soprattutto l’artiglieria (pochissimi cannoni), i mezzi corazzati e l’aeronautica (una trentina di vecchi aerei incollati con lo sputo), perfino le uniformi. Non basta l’esperienza di due corpi speciali che affiancano le truppe regolari: il Lehi e l’Irgun, specializzati in terrorismo e antiterrorismo negli anni del mandato britannico e delle imboscate arabe. Troppo poco, almeno sulla carta, per fronteggiare l’esercito egiziano, la Legione Araba transgiordana guidata dal mitico Glubb Pascià, le quattro divisioni siriane e irachene e un corpo di volontari libanesi e sauditi: 150 mila uomini con 800 cannoni, 120 carri armati, 80 autoblindo e 150 aerei. Davide contro Golia.
La prima guerra. Le prime ore di combattimenti, per Israele, sembrano l’inizio della fine. Le truppe egiziane, da Sud, affondano come il coltello caldo nel burro e raggiungono le porte di Tel Aviv. Gli altri eserciti, da Nord, puntano su Gerusalemme e sul porto petrolifero di Haifa. L’Onu però impone una tregua di sei settimane. E quando gli arabi la violano, ripartendo all’offensiva dopo un mese, non hanno più di fronte l’Armata Brancaleone raccogliticcia e male in arnese dei primi giorni. In quel breve lasso di tempo Israele è riuscito a mettere in piedi un miracolo di esercito e anche a procurarsi qualche arma pesante e qualche aereo in più, mentre migliaia di volontari – ebrei e non – sono sopraggiunti dai campi di battaglia di mezza Europa per dare una mano.
Gli egiziani vengono travolti sul fronte Sud da un blitz ribattezzato col nome biblico “Operazione Dieci Piaghe”. E a Nord gli altri eserciti arabi sono colti di sorpresa. Gli Spitfire israeliani, residuati bellici comprati al mercato dell’usato, sorvolano e bombardano indisturbati Damasco e Amman. E i bazooka con la stella di David distruggono la metà dei carri armati nemici. L’Onu ordina una seconda tregua e nomina mediatore il conte Folke Bernadotte, un diplomatico e filantropo svedese nipote di re Gustavo IV. Mediatore si fa per dire: impone altre due tregue, ma parteggia apertamente per gli arabi. Di lui si occupa la banda Stern, organizzazione paramilitare sionista di estrema destra dove milita il futuro premier Yitzhak Shamir: il conte viene assassinato il 17 settembre a Gerusalemme. La tregua salta e la guerra ricomincia. L’Haganah affronta separatamente gli eserciti arabi e li sbaraglia l’uno dopo l’altro.
La prima guerra arabo-israeliana si conclude alla fine del 1948. Israele non solo ha riconquistato le posizioni di partenza, ma si è ingrandito di oltre un terzo, conquistando Gaza, l’intero Negev e la Galilea occidentale. Il bilancio delle vittime è pesante: 6 mila morti ebrei (di cui 2 mila civili) e 10 mila arabi. Poi c’è l’esodo (in arabo nakba, “catastrofe”) di 711 mila profughi palestinesi musulmani e cristiani che – cacciati dalle proprie case o spinti dagli orrori della guerra – lasciano Israele e si rifugiano in Transgiordania e nella West Bank (la Cisgiordania formata da Gerusalemme Est, Giudea e Samaria). La nakba apre la piaga purulenta e mai sanata dei campi profughi per molti rifugiati e loro discendenti (censiti nel 2015 dall’Onu in 5.149.742, sparsi fra Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano). Anche perché, nel dicembre del 1948, l’Onu approva la risoluzione 194 che consente “ai rifugiati che lo vogliano di tornare alle proprie case e vivere in pace coi loro vicini” e promette “indennizzi per le proprietà di quanti scelgano di non tornare”, ma a patto che arabi e israeliani siglino un trattato di pace. Cosa che non avverrà mai, o troppo tardi, per il rifiuto degli Stati arabi di riconoscere Israele. In parallelo, 600 mila profughi ebrei abbandonano le loro case nei Paesi arabi e trovano riparo in Israele.
Nel febbraio del 1949, dopo la Conferenza di Rodi, gli arabi sconfitti firmano con Israele, ciascuno per suo conto, degli armistizi che di fatto gli riconoscono la sovranità sui territori assegnati dall’Onu nel 1947, più una piccola parte di quelli appena conquistati: una porzione di Galilea, subito annessa da Israele. Che si ritira dagli altri territori occupati: la striscia di Gaza viene occupata militarmente dall’Egitto e la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Transgiordania (d’ora in poi Giordania). Così neppure ora i palestinesi e i loro presunti alleati arabi danno vita allo Stato di Palestina. Anzi, rinnegano gli armistizi appena siglati, pronti a tornare all’attacco per cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, usando i palestinesi nei campi profughi come scudi umani e armi di propaganda.
La crisi di Suez. Nel 1955 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il generale che tre anni prima ha rovesciato re Farouk, assume il controllo del Canale di Suez scippandolo al Regno Unito. Londra interrompe i rifornimenti di armi e i finanziamenti per la diga di Assuan e Nasser, per tutta risposta, nel 1956 nazionalizza il Canale, lo chiude alle navi commerciali di Israele, si allea con l’Urss e avvia un poderoso piano di riarmo. Francia, Gran Bretagna e Israele intervengono militarmente, con l’appoggio Usa. È la seconda guerra arabo-israeliana. Fra il 29 ottobre e il 5 novembre, l’esercito di Nasser tracolla, mentre le truppe con la stella di Davide dilagano fino a Sharm-el-Sheik al comando di Moshe Dayan, il generale con la benda nera sull’occhio sinistro perduto nella Seconda guerra mondiale. Se a bloccarle non intervenisse l’Onu per ordine americano, arriverebbero al Cairo. Bilancio finale: mille caduti e 6 mila prigionieri egiziani; 180 morti e 4 prigionieri israeliani.
La tensione si placa per dieci anni, ma il fuoco cova sempre sotto la cenere, per la gran voglia di rivalsa dell’Egitto umiliato e per la Guerra fredda tra Usa e Urss, che giocano sullo scacchiere mediorientale una partita tutta loro.
La guerra dei Sei Giorni dura quanto la creazione del mondo e scoppia per una serie incredibile di equivoci. Il 7 aprile 1967 il governo israeliano del pur mite presidente Levi Eshkol (che ha preso il posto di David Ben Gurion) risponde all’ennesimo attacco siriano dalle alture del Golan contro contadini e pescatori dell’Alta Galilea: sei Mig sovietici nuovi di zecca appena arrivati da Mosca a Damasco vengono abbattuti. Così anche la Siria – che ha iniziato a foraggiare al Fatah, l’organizzazione palestinese fondata da Yasser Arafat e protagonista di continui attacchi terroristici contro Israele – ha una gran sete di vendetta. Il 3 maggio re Hussein di Giordania, inviso alla Siria per il suo doppiogiochismo, firma un accordo militare con Nasser, pone il suo esercito (la mitica Legione Araba) sotto il comando egiziano e consente il rientro del capo dell’Olp Ahmed Shukeiri a Gerusalemme Est per riprendere la propaganda di annientamento d’Israele. L’Urss preme su Nasser perché solidarizzi con Damasco, con cui ha siglato nel novembre 1966 un patto di mutua assistenza militare. Nasser non è pronto a un’altra guerra (il meglio del suo esercito è impegnato nello Yemen) e nicchia. Ma Mosca lo imbottisce di fake news su un imminente attacco israeliano alla Siria. Nasser se la beve e si prepara allo scontro con la più classica delle provocazioni. Il 14 maggio, mentre Israele festeggia il 19° compleanno, ammassa truppe nel Sinai. In ossequio all’armistizio, il governo Eshkol evita di far sfilare i carri armati nella parata militare. Ma i sovietici convincono Nasser che è perché i mezzi corazzati israeliani sono già dislocati altrove, contro di lui. Così, in una settimana, le truppe egiziane nel Sinai salgono a 100 mila soldati e quasi mille carri armati. Il 16 maggio l’Egitto chiede e ottiene il ritiro dei caschi blu dell’Onu che, dopo la guerra del 1956, fanno interposizione nel Sinai. Il 22 maggio Nasser annuncia il blocco navale allo stretto di Tiran, sul golfo di Aqaba, dove si affaccia il porto israeliano di Eilath, cruciale per i rifornimenti petroliferi a Tel Aviv. E precisa graziosamente che “la questione per i Paesi arabi non riguarda la chiusura del porto di Eilat, ma il totale annientamento dello Stato di Israele”. Non che voglia la guerra, anzi: le solite fonti diplomatiche farlocche gli assicurano che gli Usa fermeranno Israele. Ma non è vero. Washington, impegnata nella disastrosa guerra del Vietnam, ha altro a cui pensare.
E l’Unione sovietica non vede l’ora che scoppi la guerra, per assestare agli israeliani, dunque agli americani, un colpo mortale dopo il golpe dei colonnelli in Grecia propiziato dalla Cia. Del resto, per lo Stato ebraico, lo strangolamento economico è la goccia che fa traboccare il vaso.
Assediato da assembramenti di truppe ai suoi confini su tre fronti (egiziano, siriano e giordano), minacciato dagli urli di guerra in tutte le capitali arabe, Israele è visto di nuovo dal mondo come Davide contro Golia e riceve un’ondata di solidarietà da tutto l’Occidente, anche e soprattutto a sinistra. In Francia intellettuali come Jean-Paul Sartre firmano un appello pro Tel Aviv. Pietro Nenni, leader del Psi, annota nei suoi diari: “Per primo ha sparato Nasser quando ha chiuso il golfo di Aqaba”. Molti giovani, ebrei e non, si arruolano volontari nei vari consolati israeliani d’Europa per andare a combattere. Il presidente Eshkol vara un governo di unità nazionale, con Menachem Begin (leader del Likud, l’opposizione di destra finora esclusa dagli esecutivi laburisti) ministro senza portafoglio e Dayan alla Guerra. Laburista ma inflessibile, Dayan è il generale-eroe del ’56, noto per il rispetto dei diritti umani anche nella più cruenta delle battaglie: “Il massimo di tortura che un prigioniero deve subire – raccomanda ai suoi uomini – è mangiare il rancio dell’esercito israeliano”. Al solo annuncio del suo ritorno, i soldati di Tsahal s’abbracciano in lacrime. Il piano d’attacco lo mette a punto il capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin, futuro premier e Nobel per la pace.
I Sei Giorni. Con un blitz a sorpresa, tipico della “guerra preventiva”, scattato alle ore 7.10 del 5 giugno 1967 e battezzato Operazione Focus, l’aeronautica di Tel Aviv guidata dal generale Motti Hod vola a bassa quota per sfuggire ai radar, raggiunge 13 basi egiziane e annienta quella del Cairo senza lasciare il tempo a uno solo degli aerei di Nasser di levarsi in volo. Un pilota su tre ucciso, 286 aerei da combattimento su 420 polverizzati sulle piste. La stessa sorte, in simultanea, tocca a quelli siriani e giordani. Le truppe della Lega Araba restano decapitate della copertura aerea. Nel Sinai egiziano una divisione corazzata al comando del trentanovenne generale Ariel Sharon occupa la penisola in un batter d’occhio. La battaglia più aspra è quella tra giordani e israeliani per Gerusalemme, finora spaccata in metà. I cecchini di re Hussein, sostenuti da una divisione inviata dall’Iraq, sono nascosti ovunque nei luoghi santi, persino dentro le moschee. Ma Dayan resiste alle pressioni dei falchi e vieta l’attacco frontale e le armi pesanti: “Circonderemo Gerusalemme, se necessario, ma non entreremo. Niente artiglieria né appoggio aereo. Nessun danno ai luoghi santi”. È un soldato, ma anche un archeologo e il secondo prevale sul primo. Il 7 giugno gli israeliani raggiungono il Muro Occidentale (o “del pianto”, ultimo residuo di quello distrutto da Tito nel 70 d. C.): è il momento che il popolo ebraico attende da 2 mila anni e a cui non vuole mancare il vecchio Ben Gurion. Dayan proclama: “Siamo tornati nei nostri luoghi più sacri. E tendiamo la mano ancora oggi ai nostri vicini arabi, con più solennità che mai”. Torna la libertà di culto per tutti, negata agli ebrei nei 19 anni di occupazione giordana e ora suggellata dal generale bendato con una preghiera insieme ai palestinesi nella moschea Al-Aqsa.
Si combatte anche sul fronte siriano, ma molto meno del previsto. Damasco, rimasta finora a guardare, il 9 giugno lancia un debole attacco via terra, subito respinto dall’esercito di Israele, che occupa l’altopiano del Golan. E potrebbe arrivare a Damasco se non fosse fermato da Dayan, nel timore di un intervento sovietico.
Il cessate il fuoco scatta l’11 giugno. Israele ha occupato in sei giorni territori tre volte più grandi di sé (68 mila chilometri quadrati) perdendo 700 uomini; gli arabi, sbaragliati su tutti i fronti, piangono quasi 20 mila caduti. Nasser dà le dimissioni, poi le ritira a furor di popolo. La Giordania deve ripiegare dietro il Giordano e cedere Cisgiordania e Gerusalemme Est; l’Egitto mollare Gaza, il Sinai fino a Suez e Sharm-el-Sheik; la Siria rinunciare a parte del Golan. Territori che Israele non può annettere per non snaturarsi in uno Stato a maggioranza arabo-islamica, e che afferma di voler restituire in cambio della pace. Mentre gli israeliani festeggiano la riconquista di Gerusalemme Vecchia, il mite presidente Eshkol fa stecca nel coro: “Abbiamo ricevuto una buona dote, purtroppo accompagnata da una sposa che non ci piace”. Si è aperto il vaso di Pandora della città santa per le tre religioni monoteiste. E Davide è diventato Golia.
Il 22 novembre 1967 l’Onu adotta la risoluzione 242 per la pace nei territori occupati e il ritorno ai confini pre-guerra. Israele la viola annettendo Gerusalemme Est, e proclamando sua capitale la città santa riunificata. Anche i paesi arabi la infrangono, rifiutando di negoziare la pace con Israele. Egitto e Siria in primis iniziano a fomentare il terrorismo palestinese dentro e soprattutto fuori lo Stato ebraico. Ma senza riuscire a controllarlo, come apprendisti stregoni.
Il Settembre Nero. A farne le spese è l’Egitto, con la polveriera di Gaza, dove sono stipati centinaia di migliaia di palestinesi sempre più inferociti nei campi profughi, a cui il regime di Nasser – come tutti i governi arabi – si guarda bene dal concedere la cittadinanza e il diritto di voto. Ma soprattutto la Giordania. Qui, fra il 1968 e il ’69, le organizzazioni dei fedayìn palestinesi riunite nell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) usano i campi profughi della West Bank come avamposto per attaccare il regime di re Hussein, ritenuto troppo remissivo con Israele. Si comportano come uno Stato nello Stato scorrazzando con rapine, estorsioni, stragi e scontri con le forze armate del Regno, fino a tentare di uccidere o di rovesciare il sovrano.
Il leader più carismatico della galassia di sigle riunite nell’Olp è Yasser Arafat, detto anche Abu Ammar, nato nel 1929 al Cairo anche se dirà sempre di aver visto la luce a Gerusalemme. Il padre è un palestinese di Gaza, la madre di Gerusalemme. Al Cairo, Arafat compie gli studi fino alla laurea in Ingegneria civile. Non va d’accordo col padre, mentre il suo vero mentore è lo zio paterno Haj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme (una delle massime autorità religiose dell’Islam sunnita), animato da un forte antisemitismo e antisionismo al punto da allearsi negli anni 30 e 40 con la Germania nazista di Hitler e l’Italia fascista di Mussolini e da reclutare truppe palestinesi per le SS durante la Seconda guerra mondiale.
Dopo il conflitto, il Muftì si trasferisce al Cairo diventando il padre spirituale di Yasser. Che, dopo la débâcle di Nasser nel ’56, si avvicina ai Fratelli Musulmani. A Gaza non può stare perché i fedayìn ne sono banditi, così va a lavorare in Kuwait. E lì, alla fine degli anni 50, fonda con un gruppo di rifugiati palestinesi il gruppo Al Fatah (acronimo arabo di Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese), che si propone la lotta armata per liberare tutta la Transgiordania e distruggere Israele, ma da posizioni più autonome dagli Stati arabi rispetto alle altre formazioni dell’Olp. Nel 1969 diventa il portavoce dell’Olp e si installa in Cisgiordania sotto l’occupazione di Amman.
Quando, fra il 6 e il 9 settembre 1970, i guerriglieri dell’Olp dirottano e fanno esplodere quattro aerei nell’aeroporto di Zarqa, re Hussein scatena una ferocissima repressione militare contro guerriglieri e civili, sterminandone fra i 3 e i 5 mila. È il Settembre Nero: la più grande strage di palestinesi della storia è opera di un regime arabo. Seguono mesi di guerra fratricida in tutto il Regno, con decine di migliaia di morti. Alla fine il regime di Hussein riprende il controllo del Paese ed espelle l’Olp in Libano. Un gruppo di terroristi palestinesi si stacca da al Fatah per fondare Settembre Nero, un gruppo estremista che nel 1972 sequestra e stermina undici atleti olimpici israeliani a Monaco di Baviera.
Lo Yom Kippur. Il 6 ottobre 1973 Israele celebra la festività più sacra del calendario ebraico, lo Yom Kippur. Gli eserciti di Egitto e Siria, col supporto di unità inviate da Giordania, Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Marocco, Libia e Algeria, lo colgono di sorpresa con un attacco concentrico. Otto giorni di resistenza e terrore per lo Stato ebraico, che rischia un’altra volta di scomparire. Poi l’esercito si riorganizza a tempo di record e sferra una micidiale controffensiva, riesce a scavalcare le linee egiziane e ad accerchiare la III Armata di Anwar el Sadat, il successore di Nasser. Un apporto decisivo lo dà quel cavallo pazzo di Sharon, che dopo la guerra del 1967 ha lasciato l’esercito in polemica con l’arcirivale Dayan ed è stato appena eletto deputato del Likud. Ma ora, dopo lo choc, la premier Golda Meir e il ministro Dayan lo richiamano in servizio. Lui miete successi nel Sinai, ma con le sue insubordinazioni si scontra con i vertici militari che chiedono a Dayan di destituirlo, stavolta invano. È lui, con un’azione temeraria, ad attraversare il Canale di Suez e a fissare la testa di ponte sulla riva occidentale da cui altre unità israeliane partono per aggirare a sud le truppe egiziane. Poi marcia dritto verso il Cairo, ma l’11 novembre, quando è alla periferia di Ismailia, a 115 km. dalla capitale egiziana (e mentre Tsahal a Nord è a 30 km da Damasco), viene fermato da Tel Aviv su pressione degli alleati occidentali. Gli arabi, sconfitti un’altra volta, accettano il cessate il fuoco. Sharon lascia definitivamente la divisa, in polemica col governo Meir che preferisce negoziare anziché stravincere. La conferenza di pace di Ginevra, sotto l’egida dell’Onu, tenta di far applicare la risoluzione 338 (che a sua volta richiama al rispetto della 242), ma fallisce per il solito rifiuto dei Paesi arabi a negoziare con Israele. Che nel 1974 accetta unilateralmente la richiesta del segretario di Stato Usa Henry Kissinger di ritirarsi dai territori egiziani e siriani appena occupati. Intanto l’Onu attribuisce all’Olp lo status di rappresentante del popolo palestinese, mentre il suo leader ribadisce il proposito di cancellare Israele dalla faccia della terra.
Camp David. Nel novembre del 1977, invitato dal premier israeliano Begin, il presidente egiziano Sadat rompe 30 anni di ostilità e visita Gerusalemme. Poi riconosce il diritto di Israele esistere e inizia a negoziare la pace. Che viene firmata il 26 marzo 1979 nello storico vertice di Camp David sotto gli occhi del presidente Usa Jimmy Carter. Israele restituisce il Sinai all’Egitto, che però non rivuole Gaza, divenuta con i suoi campi profughi invivibili una terribile incubatrice di odio, estremismo e anche terrorismo. La striscia-polveriera rimane dunque sotto occupazione israeliana.
Nuovo fronte: il Libano. Nel 1976 la Siria invade il Libano, dilaniato da anni di guerra civile fra le milizie delle varie tribù islamiche (proprio nel 1982 nasce Hezbollah, il “partito di Dio” foraggiato da Teheran) e quelle cristiano-maronite, ciascuna aizzata da Usa, Urss, Israele, Iran, Siria, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo, con l’aggiunta della presenza destabilizzante delle varie sigle dell’Olp cacciate nel ’70 dalla Giordania. Dopo i giordani, anche i siriani fanno a pezzi i palestinesi. Nel 1981 l’Olp di Arafat&C. attacca il Nord di Israele dal Sud del Libano e si scontra con i cristiano-maroniti alleati di Tel Aviv. Il governo Begin risponde nel 1982 invadendo il Paese dei Cedri. L’operazione è diretta dal ministro della Difesa Sharon. Il quale non muove un dito quando le milizie falangiste maronite entrano nei campi profughi di Sabra e Chatila facendo strage di palestinesi, senza distinguere fra miliziani dell’Olp e civili inermi, per vendicare l’assassinio del presidente cristiano Amin Gemayel (reo di avere firmato un accordo di pace con Israele). Un’inchiesta imposta dalla Corte Suprema israeliana incolpa i comandanti militari locali e il capo di Stato maggiore dell’esercito. Sharon, pur scagionato da responsabilità dirette negli eccidi, lascia il ministero della Difesa. Alla fine, ritirandosi dal Libano, Israele manterrà (fino al 2000) una “fascia di sicurezza” di 10 miglia lungo il confine, affidata agli alleati maroniti.
Vincere senza reagire. La guerra libanese del 1982 e l’indagine su Sabra e Chatila lasciano Israele sotto choc per un bel pezzo. I nemici, anziché indebolirsi, si rafforzano e si moltiplicano. Soprattutto l’Iran dell’ayatollah Khomeini, che nel ’79 ha spodestato lo Scià, prepara la bomba atomica (Tel Aviv ha bombardato il suo reattore nucleare di Osiraq nell’Operazione Babilonia del 1981) e patrocina Hezbollah, il “partito di Dio” che riunisce un milione di sciiti nel Sud del Libano, ma è presente anche in Siria e nel Golan occupato da Israele. E martella con missili e razzi i kibbutz dell’Alta Galilea. Ogni guerra fomenta nuovo terrorismo, anziché spegnerlo. E dal 1981 è venuto a mancare un argine fondamentale all’estremismo: il presidente egiziano Sadat, assassinato da un killer della Jihad per punirlo della pace con Israele e rimpiazzato dal vice Hosni Mubarak. Neppure i palestinesi se la passano bene, sempre più ostaggi di Israele nei Territori, ma anche stritolati dai finti amici arabi che li usano per giocare ciascuno la propria partita. Arafat e gli altri capi dell’Olp, espulsi nel 1971 dalla Giordania dopo averla incendiata, vengono cacciati anche dal Libano e traslocano in Tunisia, con strascichi di polemiche interne per i troppi lussi.
La spaccatura nell’opinione pubblica israeliana si fa sentire alle elezioni del 1984: il Likud di Yitzhak Shamir, subentrato nell’83 a Begin, perde la maggioranza. Nasce un governo di unità nazionale guidato dal laburista Shimon Peres. Nel 1985 l’Olp di Arafat dimostra un’altra volta tutta la sua ambiguità: il gruppo Fplp del filosiriano Abu Abbas dirotta e sequestra in acque egiziane la nave da crociera italiana Achille Lauro. Arafat fa il doppio gioco: si dichiara estraneo al gesto, ma poi media col premier Bettino Craxi e il ministro degli Esteri Giulio Andreotti per la liberazione degli ostaggi. Però si scopre che i feddayin hanno trucidato a sangue freddo un anziano ebreo americano paraplegico, Leon Klinghoffer, gettandone il corpo e la carrozzella in mare. Il presidente Usa Ronald Reagan sospetta che Craxi voglia sottrarre i terroristi alla giustizia, fa dirottare l’aereo che li trasporta e lo costringe ad atterrare nella base Nato di Sigonella, per portarli in America e processarli. Craxi si scontra violentemente con lui e schiera i carabinieri sulla pista, bloccando il blitz dei marines. Poi però, dopo aver giurato che l’intero commando sarà giudicato in Italia, lascia fuggire Abu Abbas su un aereo jugoslavo a Belgrado, ospite del maresciallo Tito, da dove il capo del Fplp raggiungerà lo Yemen e poi l’Iraq di Saddam Hussein. Le truppe di invasione americane lo scoveranno nel 2003 in una villetta appena fuori Baghdad e lo uccideranno.
L’Intifada. Nel 1987, ventennale dell’occupazione di Gaza e Cisgiordania, i palestinesi si rivoltano in massa contro Israele: è l’Intifada (“sollevazione”). Durerà sei anni, fra proteste, scioperi, boicottaggi, violenze e repressioni. Alla fine i morti palestinesi saranno circa 2 mila e gli israeliani 160. Le immagini dei ragazzini armati di fionde che lanciano sassi contro i soldati fanno il giro del mondo, campeggiano a lungo sui notiziari e sono un altro duro colpo per Israele, sempre meno Davide e sempre più Golia. Ma l’aspetto più mediatico dell’Intifada nasconde quello più truculento: il ruolo del neonato Hamas (acronimo di Movimento Islamico di resistenza), un’organizzazione politico-militare palestinese sunnita e fondamentalista filiata dai Fratelli musulmani egiziani, installata soprattutto a Gaza e finanziata dai regimi sunniti. Hamas ha un volto pubblico, che gestisce programmi sociali portando nella Striscia ospedali, scuole e biblioteche, si propone di distruggere Israele e tornare alla Palestina pre-1947 e polemizza con i vertici corrotti dell’Olp. Ma anche uno clandestino: l’ala militare delle Brigate al-Qassam, che organizzano e rivendicano attentati kamikaze contro obiettivi civili israeliani. Gli Scud di Saddam. Nel 1988 Arafat dichiara di rinunciare al terrorismo e nel 1989 crolla il Muro di Berlino. La dissoluzione dell’Urss sembra portare un po’ di calma anche in Medio Oriente, ma è solo il preludio a una nuova tempesta. Il 2 agosto 1990 l’Iraq di Saddam invade e annette il Kuwait, minacciando l’Arabia Saudita. Il 17 gennaio 1991 la coalizione fra gli Usa di George Bush e altri 34 Paesi, inclusi gran parte di quelli arabi, ottiene l’avallo dell’Onu e scatena l’operazione “Desert Storm”, che in poco tempo caccerà l’Iraq dal Kuwait senza però rovesciare Saddam. La sera dell’attacco, Tel Aviv e Haifa vengono colpite da missili Scud iracheni: otto il primo giorno e 33 nelle cinque settimane successive, quasi sempre di notte. Israele, che non fa parte della coalizione, ripiomba nell’incubo: è dal 1948 che le sue città non venivano bombardate. I cittadini vivono per due mesi barricati nelle case o nei bunker, con le maschere antigas e le finestre sigillate col nastro adesivo, mentre l’esercito distribuisce fiale di atropina, nel timore – per fortuna infondato – che qualche testata sia caricata con agenti biologici o chimici, tipo Sarin e gas nervino. Arafat, in barba alla rinuncia al terrorismo, si schiera con Saddam: invita “musulmani e arabi a opporsi alla guerra americana e sionista contro un Paese fratello”, esalta “l’epica determinazione del popolo iracheno sotto il comando del mio fratello Saddam”, sostiene che l’uso del napalm da parte degli Usa dà all’Iraq “le ragioni e il diritto di usare armi chimiche” contro Israele. Ma il suo appello cade nel vuoto, a parte i giovani palestinesi dei Territori che esultano sui tetti a ogni suono di sirena e schianto di missile. Il bilancio delle vittime sarà molto più contenuto dello choc emotivo: due israeliani morti per gli Scud, qualche decina per infarto, migliaia di feriti e di senzatetto. E una vittoria ottenuta senza muovere un dito: una lezione che vale anche oggi.
Shamir vince, Arafat no. Al governo, dal 1986, c’è di nuovo il Likud di Yitzhak Shamir, che sotto la pioggia di Scud dà una formidabile prova di sangue freddo e lungimiranza: per la prima volta nella sua storia, Israele non risponde a un attacco nemico. Bush parla con Shamir e lo convince a soprassedere al blitz già pronto contro l’Iraq. In cambio, installa subito in Israele batterie anti-missile Patriot e dalle portaerei nel Golfo bombarda le rampe di lancio irachene. È chiaro che Saddam tenta di nobilitare con la causa palestinese la sua bieca mossa imperialista in Kuwait, trascinare in guerra Israele e spaccare la coalizione arabo- occidentale. Missione fallita.
A fare le spese della doppiezza di Arafat, che ancora una volta ha puntato sul cavallo sbagliato, è il suo popolo: appena liberato dagli invasori, il Kuwait espelle il mezzo milione di palestinesi che lì vivevano e lavoravano (il 30% della popolazione). Intanto le monarchie e gli emirati d’Arabia tagliano i fondi all’Olp. Il vecchio leader è a un bivio: o sparigliare i giochi e trattare la pace, o sparire. E sceglie la prima strada. Anche perché, dopo sei anni di Likud, nel 1992 in Israele tornano i laburisti: Rabin premier e ministro della Difesa, Peres ministro degli Esteri.
Miracolo a Oslo. Il 13 settembre 1993, dopo un anno di trattative top secret, mediate in parte dalle amministrazioni americane di Bush padre e di Bill Clinton (che s’è insediato alla Casa Bianca in gennaio) e in parte dall’Ue con l’avallo della Russia di Boris Eltsin, Rabin e Arafat firmano a Oslo uno storico accordo di pace. L’Olp rinuncia formalmente alla lotta armata e riconosce a Israele il diritto di esistere; Israele riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese, con il diritto di governare su una buona porzione dei territori occupati nel 1967. Nella Dichiarazione di principio su un’autonomia palestinese transitoria di cinque anni siglata dai due leader, Israele si impegna a ritirarsi entro il 1998 da gran parte della striscia di Gaza e Cisgiordania e di affidarle a una Autorità nazionale palestinese (Anp). La Cisgiordania sarà divisa in tre zone: la A sotto il pieno controllo dell’Anp, la B cogestita da palestinesi (per gli aspetti civili) e israeliani (per la sicurezza), la C (la più folta di insediamenti ebraici) ancora sotto Israele. Alcuni dei nodi più intricati – Gerusalemme, i rifugiati palestinesi e le colonie israeliane – sono rinviati a un nuovo negoziato. Rabin e Arafat vengono ricevuti sul prato della Casa Bianca da Clinton e dall’altro garante dell’accordo: il ministro degli Esteri russo Andrei Kozyrev. Un anno dopo vengono insigniti, insieme a Peres, del premio Nobel per la Pace.
L’effetto-Oslo, oltre alla fine dell’Intifada, produce il secondo accordo arabo-israeliano fra Stati dopo quello di Camp David del 1978 fra Israele ed Egitto. Nel 1994 anche la Giordania fa pace con Tel Aviv, dopo una storica stretta di mano fra re Hussein e Rabin alla Casa Bianca. Nascono l’Autorità nazionale palestinese e la sua polizia nei Territori. Israele lascia subito una parte di Gaza e si ritira dall’enclave di Gerico, anche se non allenta la morsa sui lavoratori palestinesi della West Bank e di Gaza, sigillate anche per chi va a lavorare nello Stato ebraico. La Lega Araba, dopo 46 anni, toglie l’embargo a Israele e ai Paesi che vi fanno affari. Sembra scoccata l’ora della pace. Ma è solo un’altra quiete prima dell’ennesima tempesta.
10 anni di stop&go. I sogni muoiono all’alba, ma anche la sera. Tel Aviv, piazza dei Re d’Israele, 4 novembre 1995, ore 21.30. Il premier Yitzhak Rabin termina il suo discorso a una manifestazione di sostegno agli accordi di Oslo che dilaniano il Paese: “Vorrei ringraziare ognuno di voi che è venuto qui oggi a manifestare per la pace e contro la violenza. Questo governo, che ho il privilegio di presiedere con il mio amico Shimon Peres, ha scelto di dare una possibilità alla pace, una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele… La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. Poi scende dal palco e, mentre sta per raggiungere l’auto blindata della scorta, uno studente israeliano di estrema destra, Yigal Amir, gli spara due colpi di pistola. Rabin muore poco dopo in ospedale: ucciso, come Sadat 14 anni prima da un fanatico jihadista, per avere firmato la pace proibita. Ai suoi funerali a Gerusalemme, insieme a un milione di israeliani e a molti capi di Stato e di governo da tutto il mondo, partecipano diversi leader arabi che non hanno mai messo piede in Israele.
La prima volta di Bibi. A Rabin succede Peres, ma dura pochi mesi. Le elezioni del 1996 le vince il nuovo leader del Likud, il 47enne Benjamin Netanyahu detto “Bibi”, che diventa il primo premier israeliano nato nello Stato ebraico. Militare, politico, uomo d’affari e di malaffari, vissuto per anni negli Usa, in campagna elettorale Bibi ha vellicato la pancia e le viscere degli ebrei più diffidenti sul percorso di pace, promettendo agli elettori di fare a pezzi gli accordi di Oslo. Mette in piedi il governo più a destra della storia di Israele, alleandosi con gli ultranazionalisti e i partiti religiosi. E inizia a demolire tutto ciò che non solo Rabin e Peres, ma anche i padri del suo partito Begin e Shamir, hanno costruito negli ultimi 18 anni da Camp David in poi. La nascita del suo governo è il “tana liberi tutti” per il ritorno all’odio e alla violenza. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, frenati da Rabin, riprendono a spron battuto. Intanto Arafat è stato eletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Netanyahu, pur ritirando l’esercito dai territori occupati come previsto dagli accordi di Oslo, li sabota nei fatti con continue provocazioni. E così, come già aveva fatto Rabin prima di Oslo, rafforza consapevolmente Hamas, suo vero alleato occulto all’insegna del “tanto peggio tanto meglio”, che moltiplica gli attentati suicidi contro i civili israeliani. Clinton si danna l’anima per ricucire la tela e sembra farcela: Bibi, complice il suo primo scandalo di corruzione, vede sfarinarsi la sua coalizione di governo: nel 1999 perde le elezioni anticipate e lascia la politica per dedicarsi ai suoi affari.
Barak, l’occasione mancata. Il nuovo premier è il generale ed economista laburista Ehud Barak, ritira subito Israele dalla “fascia di sicurezza” nel Libano del Sud e riprende i negoziati con l’Olp. È convinto che perpetuare l’occupazione dei Territori “condurrà inevitabilmente o a uno Stato non-democratico o ad uno Stato non-ebraico. Infatti, se i palestinesi voteranno, saremo uno Stato binazionale; se non voteranno, saremo uno Stato segregazionista”. E nel 2000, a Camp David, sotto lo sguardo di Clinton, offre ad Arafat una soluzione tutt’altro che perfetta, ma la più vantaggiosa mai proposta da Israele dal 1967: uno Stato palestinese nel 73% della Cisgiordania (che entro 25 anni salirebbe al 90% e intanto verrebbe integrato da una porzione di Negev) e nel 100% della striscia di Gaza, con Gerusalemme Est capitale, il ritorno di un certo numero di profughi e un indennizzo per quelli restanti. Arafat rifiuta senza neppure avanzare una controproposta, fa fallire il summit e imbocca il viale del crepuscolo. Anche il governo Barak, rimasto col cerino in mano, entra in crisi. E il Likud torna a spopolare, non più con Netanyahu, ma con Sharon.
L’eroe del Kippur, azzoppato dalla guerra libanese e dall’inchiesta su Sabra e Chatila (nel 1983 la Corte Suprema israeliana ne aveva ordinato la rimozione da ministro della Difesa), si rilancia con uno dei suoi temerari gesti dannunziani. Il 28 settembre 2000 passeggia platealmente e provocatoriamente sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, con un migliaio di militari di scorta, per proclamare anche la città orientale “eternamente israeliana”. Le furibonde proteste palestinesi sfociano nella seconda Intifada, molto più cruenta della prima, sia per la sempre più massiccia presenza di Hamas con i suoi attentati ormai fuori dal controllo dell’Anp, sia per la durezza della repressione israeliana. Durerà fino al 2005, mietendo oltre 4 mila vittime palestinesi e mille israeliane.
Muore Arafat, risorge Sharon. Nel 2001 l’Onu torna protagonista sullo scacchiere mediorientale dopo decenni di latitanza per la Guerra fredda: il segretario generale Kofi Annan convince gli Usa di George W. Bush, la Russia di Putin e l’Unione europea a dare vita insieme con lui a un “Quartetto per il Medio Oriente” per riannodare il filo spezzato di Oslo. Nello stesso anno Israele torna alle urne e vince Sharon. Il suo primo atto è chiudere ogni rapporto con l’ormai inutile e screditato Arafat, confinato e assediato nel suo quartier generale di Ramallah. Il secondo è una raffica di bombardamenti su Gaza e Cisgiordania, con almeno tremila case distrutte, oltre al porto della Striscia. Nel 2004 un missile israeliano uccide lo sceicco Ahmed Yassin, cofondatore e capo spirituale di Hamas, mentre esce da una moschea a Gaza. Israele inizia a costruire un muro divisorio dai Territori: ufficialmente serve a fermare gli attentati kamikaze, che si assottigliano drasticamente; nei fatti complica vieppiù la vita già infame dei palestinesi. Sembrano tutte mosse per seppellire gli accordi di Oslo, ma ciò che accade di lì in poi dimostra che c’è dell’altro.
Arafat è ormai isolato anche fra i suoi, dopo tanti errori politici e sospetti di corruzione. Il suo ultimo atto è licenziare il suo stesso premier Abu Mazen. Poi entra in coma e l’11 novembre muore. Di cosa, nessuno lo saprà mai, perché sul corpo non viene effettuata alcuna autopsia prima della sepoltura a Ramallah. Qualcuno parlerà di Aids, chi di altre cause naturali, chi di avvelenamento da polonio. Sepolto il vecchio Yasser, sparita la sua corte, si rafforza una nuova classe dirigente palestinese in grado di trattare con Israele attorno ad Abu Mazen, confermato dalle elezioni come premier dell’Anp. Addio a Gaza. Nell’estate del 2005 Sharon fa la mossa del cavallo: ritira unilateralmente l’esercito da Gaza. Il 12 settembre l’ultimo soldato di Tsahal lascia la Striscia, che passa sotto il pieno controllo dell’Anp. Israele però vigila a distanza via terra, cielo e mare. Il momento più drammatico del “disimpegno” è la rimozione forzata degli 8.500 coloni ebraici, che non vogliono saperne di sloggiare da Gaza e vengono sgomberati con le maniere spicce dai loro 21 insediamenti. Altri sgomberi di coloni Sharon li ordina dal Nord della Cisgiordania, scatenando altre proteste e scontri con l’esercito. Che succede nella testa del superfalco? Si è rammollito? No, sta soltanto seguendo il percorso di altri “duri”, come Begin, Shamir e Rabin: la Storia chiama anche lui a guardare oltre se stesso, a elevarsi da politicante a statista. E lui, a 77 anni, risponde. Il suo discorso alla nazione del 15 agosto 2005 dice tutto: “Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me è un momento particolarmente difficile… Come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo Paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione. Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza… Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati. Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai”.
La strana coppia. Ormai, nel Likud, Sharon è guardato con sospetto, come una specie di traditore. Il redivivo Netanyahu, tornato alla politica come ministro delle Finanze, lascia il governo in polemica col ritiro da Gaza. Ariel taglia corto: il 21 novembre pianta in asso il suo partito e ne fonda uno nuovo di centro liberale, Kadima (“Avanti”), a cui aderisce subito l’avversario di sempre, Shimon Peres, che molla i laburisti. I due grandi vecchi, il simbolo del pugno di ferro e quello del guanto di velluto, gli ultimi statisti nati prima di Israele si danno la mano per accompagnarlo nella traversata del deserto più difficile: quella verso il futuro. Ma la nuova speranza durerà meno di un mese.
Un ictus cambia la storia. Il 18 dicembre 2005, quattro mesi dopo il ritiro da Gaza e un mese dopo la fondazione del partito Kadima, Sharon è colpito da ictus. Viene dimesso dall’ospedale due giorni dopo, ma il 4 gennaio 2006 una grave emorragia cerebrale lo mette definitivamente ko. A marzo, mentre è in coma, il suo vice Ehud Olmert vince le elezioni e diventa premier ad interim in attesa del suo risveglio. Che non arriverà mai: il suo cuore smetterà di battere otto anni dopo, nel 2014, quando il successore Netanyahu avrà riportato Israele indietro anni luce, vanificando gli sforzi degli ultimi statisti. Hamas vince le elezioni. Il 25 gennaio 2006, mentre Sharon lotta fra la vita e la morte in ospedale, i palestinesi di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est vanno alle urne per eleggere il loro Parlamento, il Consiglio legislativo dell’Autorità nazionale (Anp). Il presidente Abu Mazen, con mossa lungimirante, ha convinto Hamas a partecipare al voto con suoi candidati, in cambio della fine degli attacchi e degli attentati a Israele. Sharon s’è opposto all’idea, ma il Quartetto per il Medio Oriente Onu-Usa-Ue-Russia l’ha incoraggiata. E Hamas ha accettato di formare una sua lista, ha smesso di predicare la distruzione di Israele e ha accettato, almeno a parole, l’ottica di Oslo: “due popoli, due Stati”. Dalle urne esce un risultato a sorpresa: vince Hamas, battendo al Fatah di Abu Mazen col 44% contro il 41. E va al governo: un po’ grazie all’apparente svolta moderata, un po’ per la disciplina e la sobrietà dei suoi leader opposta alle spaccature e alla corruzione di al Fatah. Il 30 gennaio il Quartetto si congratula col popolo palestinese per come ha partecipato alle elezioni, ma subito dopo si attiva per isolare il nuovo governo democraticamente eletto. Usa e Ue intimano ad al Fatah di non entrare nel governo di coalizione proposto Hamas e bloccano gli aiuti (e financo i rapporti bancari) non ad Hamas, ma all’Anp. Il boicottaggio crea gravi danni alla sanità, all’istruzione e all’occupazione nei Territori, prima incoraggiati a votare e poi puniti per aver scelto il partito sbagliato. È un altro regalo dell’Occidente ad Hamas che, forte dei finanziamenti dal Qatar e dalle monarchie sunnite, si accredita sempre più come unico baluardo del popolo alla fame. D’ora in poi Abu Mazen non indirà più elezioni per evitare di riperderle. E si condannerà a un crescente discredito agli occhi dei suoi. Ancora fuoco. Il risultato è il ritorno dell’estremismo e della violenza. A giugno Hamas rapisce il soldato israeliano Ghilad Shalit (sarà liberato solo cinque anni dopo, in cambio del rilascio di 1.027 detenuti palestinesi) e Israele ne approfitta per scatenare nella striscia le operazioni Pioggia d’Estate e Nuvole d’Autunno.
Intanto il governo Olmert lancia un’altra offensiva nel Sud del Libano contro Hezbollah che bombarda la Galilea: 1100 morti in un mese.
Nel 2007 esplode una sanguinosa guerra civile fra palestinesi. Le milizie di Hamas cacciano con la forza al Fatah da Gaza e ne assumono il controllo, mentre in Cisgiordania al Fatah uccide o rimpiazza molti deputati di Hamas, messa fuori legge da Abu Mazen. Con tanti saluti alle elezioni democratiche, al Fatah torna al potere in Cisgiordania con l’appoggio di Usa e Ue. Israele e l’Egitto mettono Gaza sotto embargo, peggiorando vieppiù la vita della popolazione (oltre la metà è disoccupata). E la Striscia diventa la rampa di lancio per razzi e missili di Hamas contro Israele. Che nel 2008 riparte all’assalto di Gaza con le operazioni Inverno Caldo e Piombo Fuso (1.200 morti).
Il ritorno di Bibi. Il governo dello sbiadito Olmert, azzoppato da un processo per finanziamenti illeciti e dal flop della campagna libanese, cade nel 2009. Le elezioni le rivince Kadima con la nuova leader Tzipi Livni, ma non ha i numeri per governare. Ce la fa Netanyahu, grazie a un accordo col capo dell’estrema destra Avigdor Lieberman. È il suo secondo governo, a cui ne seguiranno altri cinque: Bibi batte il record di Ben Gurion come premier più longevo della storia d’Israele con 13 anni di potere ininterrotto, dal 2009 al 2023, tranne la parentesi dei governi Bennett e Lapid (giugno 2021-dicembre 2022). Nel 2010 Obama riavvia negoziati a distanza fra Netanyahu e Abu Mazen, che però si interrompono quando Bibi riprende a spron battuto la colonizzazione della Cisgiordania. Straccia gli accordi di Oslo. E torna a colpire Gaza nel 2012 con l’operazione Colonna di Nuvola e nel 2014 con Margine di Protezione (2.200 palestinesi e 71 israeliani uccisi). Nel 2015 riesce a dichiarare al Congresso sionista mondiale che “Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli”, poi però fu traviato dal Muftì di Gerusalemme (lo zio di Arafat). Ma la maggioranza degli elettori continua a votarlo. Anche quando dopo che va a giudizio in tre processi per corruzione, frode e abuso d’ufficio. E persino quando inizia a foraggiare Hamas contro l’Anp di Abu Mazen.
L’amico di Hamas. Nel 2018 accetta che il Qatar trasferisca milioni di dollari all’anno al governo di Hamas a Gaza. In una riunione del Likud ammette che “chiunque vuole ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi di Giudea e Samaria” (anche con il famoso muro divisorio ampliato con una barriera sotterranea). Concetto ribadito persino davanti alla polizia che lo interroga in uno dei suoi processi: “Abbiamo dei vicini che sono nostri acerrimi nemici… Io mando loro messaggi in continuazione, li inganno, li destabilizzo, li prendo in giro e li colpisco in testa… Noi controlliamo l’altezza delle fiamme”. S’illude, da apprendista stregone, di pilotare le fiamme di Hamas per bruciare Abu Mazen. Così come pensa di rimuovere il bubbone palestinese senza curarlo, ma ignorandolo in attesa che scompaia da solo. Il refrain è lo stesso di Zelensky: “Non si tratta con il nemico”. Infatti il 13 agosto 2020 firma gli Accordi di Abramo con gli Usa di Trump, gli Emirati Arabi e il Bahrein, in attesa di farlo con l’Arabia Saudita. Il tutto sulla testa e sulla pelle dei palestinesi: l’ideona prevede l’annessione del 30% della Cisgiordania.
Ma i dati demografici sono impietosi: Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e 500 mila di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza 2,4. Traduzione: i palestinesi sono ormai più degli ebrei e fanno più figli. Un’annessione della Cisgiordania consegnerebbe loro la maggioranza parlamentare e addio Stato ebraico. Sharon l’aveva capito nel 2005. Netanyahu neppure ora: nasconde la vecchia polvere sotto il tappeto e ne accumula di nuova. Nove mesi di proteste. Nel 2022, per tornare al potere, arriva ad allearsi con Potere Ebraico del fanatico suprematista Itamar Ben-Gvir: condannato per istigazione al razzismo contro i palestinesi, varie volte incriminato, celebre per aver minacciato pubblicamente Rabin due settimane prima del suo assassinio, Ben-Gvir diventa ministro della Sicurezza nazionale. Il duo inizia a picconare la democrazia israeliana con due controriforme che demoliscono la divisione dei poteri: quella della giustizia espropria la Corte Suprema del potere di cassare le decisioni “irragionevoli” del governo (come ha appena fatto bloccando la nomina a ministro di un pregiudicato per corruzione e frode fiscale e come potrebbe rifare se Netanyahu fosse condannato); e quella dell’ordine pubblico crea una polizia speciale, la Guardia Nazionale per Israele, alle dipendenze di Ben-Gvir. Due vergogne che spaccano il Paese: 40 settimane di proteste con migliaia di persone in piazza, inclusi militari e riservisti.
Netanyahu frattanto continua a finanziare nuovi insediamenti in Cisgiordania: nel 1993, l’anno di Oslo, i coloni erano 110 mila, ora sono circa 500 mila (più 220 mila a Gerusalemme Est). Occupando ben 157 kmq di Territori, sono invisi ai palestinesi invasi ed espropriati di terre e falde acquifere. E costringono Israele a sforzi immani per proteggerli: 500 posti di blocco e gran parte dell’esercito ridotto a loro scorta armata.
L’ultima mattanza. Infatti è lì, sul fronte Nord cisgiordano e libanese, che il 7 ottobre 2023 stazionano 26 battaglioni, lasciando senza bussola i servizi segreti (un tempo i migliori del mondo) e sguarnito il fronte Sud di Gaza, presidiato da appena due compagnie di reclute e dalla polizia locale. E proprio sul fronte Sud alle 6.30 del 7 ottobre 2023, all’indomani del cinquantennale della guerra del Kippur, mentre Israele festeggia il Simchat Torah (“Gioia della Torah”), Hamas sferra l’operazione Alluvione Al-Aqsa: 2.500 terroristi s’infiltrano da Gaza in Israele su autocarri, camioncini, moto, persino deltaplani e colpiscono vari kibbutz e un rave party. Lo Stato ebraico viene colto totalmente impreparato, malgrado gli allerta dei servizi egiziani e americani su un pericolo imminente. È una mattanza, la più grave strage di civili subìta da Israele: circa 1.400 uccisi in un giorno, compresi molti bambini e donne, e oltre 200 ostaggi. Netanyahu, giunto ormai al capolinea, tenta di ricompattare il Paese che lui stesso ha spaccato con un governo di unità nazionale. E scatena su Gaza l’operazione Spade di Ferro: 3.500 palestinesi morti, di cui mille bambini, in undici giorni. Si avvera la profezia di Gandhi: “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”.
(Fonte: articoli de Il Fatto Quotidiano acquisiti dal web)
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Buona luce a tutti!
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Come tutto cominciò. All’alba del 14 maggio 1948 il sole picchia forte su Tel Aviv, mentre un ometto polacco canuto e commosso si alza in piedi e dà l’annuncio che tutti aspettano. Si chiama Micha Berdichevsky, ma tutti lo chiamano David Ben Gurion, detto anche “il figlio del leone”. È il capo del governo provvisorio di Israele. Parla scarno, ma solenne: “Proclamo la fondazione nazionale dello Stato ebraico indipendente di Palestina, che si chiamerà Israele”. Pochi minuti prima, l’ultimo soldato inglese ha lasciato il Paese, ponendo fine al mandato di Sua Maestà Britannica sulla Palestina, la lingua di terra stretta fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo, spartita l’anno prima dall’Onu con la risoluzione numero 181 in due Stati: uno ebraico, l’altro arabo. Mentre Ben Gurion viene sommerso dagli applausi, qualcuno tra i più anziani ricorda la profezia lanciata mezzo secolo prima dal padre del sionismo, il giornalista ungherese Theodor Herzl: “Oggi la gente riderebbe se annunciassi che ho fondato lo Stato ebraico. Ma forse, fra cinquant’anni, mi darete ragione”.
“A morte gli ebrei!”. A Parigi, nel gennaio del 1895, Herzl ha visto degradare in piazza un ufficiale ebreo d’artiglieria, Alfred Dreyfus, condannato per alto tradimento su false accuse, tra la folla che urla “A morte gli ebrei!”. E, sconvolto per quel rigurgito di antisemitismo nel cuore d’Europa, ha scritto un libriccino ben oltre i limiti della follia: Lo Stato ebraico. Nel 1897 presiede a Basilea il primo congresso mondiale sionista. E le sue parole accendono la speranza in decine di migliaia di ebrei, soprattutto russi, in fuga dai pogrom: gli stermini di massa ispirati dalla polizia zarista. Negli ultimi vent’anni del secolo, un milione di israeliti fuggono dalla Russia negli Stati Uniti. Poche centinaia scelgono la via più difficile verso la terra dei loro padri, la Palestina. Qui, nel XIX secolo, gli ebrei sono ridotti a un villaggio di Asterix di 25 mila anime, affogate fra 450 mila arabi. Dalla fine dell’antico Stato ebraico con la conquista romana di Tito nel 70 d. C., non hanno visto che dominazioni straniere: bizantini, arabi, crociati, mamelucchi, turchi ottomani. In 17 secoli di “diaspora”, il popolo ebraico si è disperso in ogni angolo di mondo, ma non ha mai perso la speranza. Ogni anno, a ogni cena pasquale, ogni ebreo osservante ha rinnovato la promessa: “L’anno prossimo a Gerusalemme”.
La svolta arriva a Natale del 1901. Il 5° congresso sionista di Basilea decide di distribuire a tutti gli ebrei del mondo un salvadanaio di latta bianco e azzurro. L’anno seguente, con i risparmi raccolti, nasce il Fondo Nazionale Ebraico per acquistare terreni in Palestina e ospitarvi i primi insediamenti.
Quelle messe in vendita dai grandi feudatari arabi sono terre di scarto: incolte e desertiche, o malsane e paludose, per giunta cedute a prezzi esorbitanti. Nascono così, tra mille difficoltà, i primi kibbutz, comunità agricole a gestione collettivistica, molto vicine agli ideali del socialismo. In pochi anni deserti e paludi si trasformano in agrumeti e campi coltivati. Attirando nuove e continue ondate migratorie, anche sulla spinta dei nuovi pogrom nell’Europa centro-orientale. La popolazione ebraica, nel 1914, è di 85 mila unità, nel 1923 di 120 mila, nel 1928 di 160 mila. Poi, dal 1932 al ’38, il grande esodo degli “indesiderati” dalla Germania hitleriana. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale, gli ebrei di Palestina raggiungono quota 400 mila.
Balfour e il Focolaio. Sconfitto nel Primo conflitto mondiale, l’Impero ottomano si è sbriciolato e la Palestina è passata all’Impero britannico, che fa sperare gli ebrei. Nel 1917 il ministro degli Esteri, Arthur James Balfour, rilascia una celebre dichiarazione: “Il Regno Unito vede con favore la fondazione in Palestina di un Focolare nazionale per il popolo ebraico”. Poi però sono soltanto delusioni. Nel 1939 Londra pubblica un Libro Bianco che limita severamente l’immigrazione ebraica, impedendo a migliaia di ebrei di sfuggire alla persecuzione nazista. Gli ebrei di Palestina si schierano comunque in guerra a fianco degl’inglesi contro i tedeschi. Ma nel 1946 la tensione è di nuovo all’acme. Navi cariche di profughi scampati ai lager si presentano sulle coste palestinesi e vengono ricacciate indietro dalle autorità britanniche. Per rappresaglia, il 22 luglio l’Irgun Zwei Leumi, formazione paramilitare sionista, fa saltare in aria un’ala del King David Hotel, sede del quartier generale inglese: 90 morti. Il comandante della spedizione è Menachem Begin, futuro premier d’Israele e premio Nobel per la Pace. Poi finalmente il 2 aprile 1947, Londra annuncia il ritiro dalla Palestina entro due mesi.
L’Onu e i due Stati. Alle Nazioni Unite si inizia a discutere della spartizione della Palestina cisgiordana in due Stati. Anche l’ambasciatore sovietico Andrej Gromyko si dice favorevole. E alla fine i Sì sono 33, contro soli 13 No. Lo Stato ebraico comprenderà il deserto del Negev, la fascia costiera centro-settentrionale e la Galilea orientale: complessivamente il 55% del territorio, dove vivono 500 mila ebrei e 497 mila arabi. Lo Stato arabo avrà il restante 45%, con la parte centrale della Palestina, più la striscia di Gaza e la fascia sottostante tra il Negev e il Sinai, dove risiedono 725 mila arabi e 10 mila ebrei. E Gerusalemme? “Zona internazionale” sotto l’egida dell’Onu. Gli inglesi, prima di andarsene, fanno un ultimo dispetto a Israele, permettendo che il grosso delle loro armi e munizioni passi agli arabi. I quali però, aizzati dagli Stati “amici”, non accettano la risoluzione Onu. Scioperi, devastazioni, incursioni armate, massacri di ebrei. Poi, nei primi mesi del 1948, un “esercito di liberazione arabo” di 5 mila uomini attacca Israele e in pochi giorni isola Gerusalemme, il Negev e la Galilea dai restanti territori ebraici. Ma in aprile gli ebrei riprendono il controllo delle principali città, da cui – in parte spontaneamente e in parte spintaneamente – fuggono in massa le popolazioni arabe.
Battesimo di sangue. Rieccoci a Gerusalemme sotto il sole cocente di quel 14 maggio 1948. Il battesimo di Israele si celebra con una breve e frugale assemblea in una saletta del museo di Tel Aviv. Tutto in pochi minuti: il discorso di Ben Gurion e la firma di una pergamena con la dichiarazione d’indipendenza. Poi tutti in strada per un corteo festoso: in prima fila, al fianco di Ben Gurion, ci sono Golda Meir, Levy Eshkol, Yitzhak Rabin e altri padri fondatori che si alterneranno alla guida del Paese per oltre 40 anni. Piangono, ridono, si abbracciano con la folla in delirio che intona l’Halikyah (“speranza”): l’inno ebraico, più simile a una preghiera che a una marcia. Lo Stato di Israele è nato, anzi è rinato. È l’unica democrazia del Medio Oriente e viene subito riconosciuta, tra gli altri, dall’Urss e dagli Usa. Ma non c’è tempo per festeggiare. È un battesimo di sangue.
Mentre ancora Ben Gurion sta parlando, i sei eserciti della Lega Araba – Egitto, Libano, Siria, Transgiordania, Iraq e Arabia Saudita – muovono all’attacco da ogni punto cardinale per “cancellare dalla faccia della terra il cosiddetto Stato d’Israele”. L’Occidente solidarizza a parole, ma non muove un dito per difendere la risoluzione Onu del 1947. Anche l’Urss condanna l’invasione (la Pravda, da Mosca, parla di “aggressione araba contro Israele” e difende “il diritto degli ebrei a costituirsi un loro Stato indipendente; l’Unità si accoda). Ma lì si ferma. Israele deve imparare subito a combattere da solo, a mani nude. Tante mani, però: l’esodo del dopoguerra dall’Europa ha portato nella terra degli avi oltre 200 mila ebrei, scampati ai lager nazisti e ai pogrom russi, forzando il blocco britannico e aggiungendosi ai 600 mila che già vi risiedevano. Un’iniezione di forze e di intelligenze fresche che fa di Israele il Paese col più alto tasso di laureati, specialisti e tecnici del mondo. La loro competenza, capacità organizzativa e volontà di sopravvivenza diventano l’arma in più del neonato esercito Haganah (Difesa), capitanato da ufficiali giovani e agguerriti. Uno su tutti: il 33enne Moshe Dayan. Gli uomini non mancano.
Scarseggiano però i quadri militari e gli armamenti: soprattutto l’artiglieria (pochissimi cannoni), i mezzi corazzati e l’aeronautica (una trentina di vecchi aerei incollati con lo sputo), perfino le uniformi. Non basta l’esperienza di due corpi speciali che affiancano le truppe regolari: il Lehi e l’Irgun, specializzati in terrorismo e antiterrorismo negli anni del mandato britannico e delle imboscate arabe. Troppo poco, almeno sulla carta, per fronteggiare l’esercito egiziano, la Legione Araba transgiordana guidata dal mitico Glubb Pascià, le quattro divisioni siriane e irachene e un corpo di volontari libanesi e sauditi: 150 mila uomini con 800 cannoni, 120 carri armati, 80 autoblindo e 150 aerei. Davide contro Golia.
La prima guerra. Le prime ore di combattimenti, per Israele, sembrano l’inizio della fine. Le truppe egiziane, da Sud, affondano come il coltello caldo nel burro e raggiungono le porte di Tel Aviv. Gli altri eserciti, da Nord, puntano su Gerusalemme e sul porto petrolifero di Haifa. L’Onu però impone una tregua di sei settimane. E quando gli arabi la violano, ripartendo all’offensiva dopo un mese, non hanno più di fronte l’Armata Brancaleone raccogliticcia e male in arnese dei primi giorni. In quel breve lasso di tempo Israele è riuscito a mettere in piedi un miracolo di esercito e anche a procurarsi qualche arma pesante e qualche aereo in più, mentre migliaia di volontari – ebrei e non – sono sopraggiunti dai campi di battaglia di mezza Europa per dare una mano.
Gli egiziani vengono travolti sul fronte Sud da un blitz ribattezzato col nome biblico “Operazione Dieci Piaghe”. E a Nord gli altri eserciti arabi sono colti di sorpresa. Gli Spitfire israeliani, residuati bellici comprati al mercato dell’usato, sorvolano e bombardano indisturbati Damasco e Amman. E i bazooka con la stella di David distruggono la metà dei carri armati nemici. L’Onu ordina una seconda tregua e nomina mediatore il conte Folke Bernadotte, un diplomatico e filantropo svedese nipote di re Gustavo IV. Mediatore si fa per dire: impone altre due tregue, ma parteggia apertamente per gli arabi. Di lui si occupa la banda Stern, organizzazione paramilitare sionista di estrema destra dove milita il futuro premier Yitzhak Shamir: il conte viene assassinato il 17 settembre a Gerusalemme. La tregua salta e la guerra ricomincia. L’Haganah affronta separatamente gli eserciti arabi e li sbaraglia l’uno dopo l’altro.
La prima guerra arabo-israeliana si conclude alla fine del 1948. Israele non solo ha riconquistato le posizioni di partenza, ma si è ingrandito di oltre un terzo, conquistando Gaza, l’intero Negev e la Galilea occidentale. Il bilancio delle vittime è pesante: 6 mila morti ebrei (di cui 2 mila civili) e 10 mila arabi. Poi c’è l’esodo (in arabo nakba, “catastrofe”) di 711 mila profughi palestinesi musulmani e cristiani che – cacciati dalle proprie case o spinti dagli orrori della guerra – lasciano Israele e si rifugiano in Transgiordania e nella West Bank (la Cisgiordania formata da Gerusalemme Est, Giudea e Samaria). La nakba apre la piaga purulenta e mai sanata dei campi profughi per molti rifugiati e loro discendenti (censiti nel 2015 dall’Onu in 5.149.742, sparsi fra Giordania, Cisgiordania, Gaza, Siria e Libano). Anche perché, nel dicembre del 1948, l’Onu approva la risoluzione 194 che consente “ai rifugiati che lo vogliano di tornare alle proprie case e vivere in pace coi loro vicini” e promette “indennizzi per le proprietà di quanti scelgano di non tornare”, ma a patto che arabi e israeliani siglino un trattato di pace. Cosa che non avverrà mai, o troppo tardi, per il rifiuto degli Stati arabi di riconoscere Israele. In parallelo, 600 mila profughi ebrei abbandonano le loro case nei Paesi arabi e trovano riparo in Israele.
Nel febbraio del 1949, dopo la Conferenza di Rodi, gli arabi sconfitti firmano con Israele, ciascuno per suo conto, degli armistizi che di fatto gli riconoscono la sovranità sui territori assegnati dall’Onu nel 1947, più una piccola parte di quelli appena conquistati: una porzione di Galilea, subito annessa da Israele. Che si ritira dagli altri territori occupati: la striscia di Gaza viene occupata militarmente dall’Egitto e la Cisgiordania e Gerusalemme Est dalla Transgiordania (d’ora in poi Giordania). Così neppure ora i palestinesi e i loro presunti alleati arabi danno vita allo Stato di Palestina. Anzi, rinnegano gli armistizi appena siglati, pronti a tornare all’attacco per cancellare lo Stato ebraico dalla carta geografica, usando i palestinesi nei campi profughi come scudi umani e armi di propaganda.
La crisi di Suez. Nel 1955 il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, il generale che tre anni prima ha rovesciato re Farouk, assume il controllo del Canale di Suez scippandolo al Regno Unito. Londra interrompe i rifornimenti di armi e i finanziamenti per la diga di Assuan e Nasser, per tutta risposta, nel 1956 nazionalizza il Canale, lo chiude alle navi commerciali di Israele, si allea con l’Urss e avvia un poderoso piano di riarmo. Francia, Gran Bretagna e Israele intervengono militarmente, con l’appoggio Usa. È la seconda guerra arabo-israeliana. Fra il 29 ottobre e il 5 novembre, l’esercito di Nasser tracolla, mentre le truppe con la stella di Davide dilagano fino a Sharm-el-Sheik al comando di Moshe Dayan, il generale con la benda nera sull’occhio sinistro perduto nella Seconda guerra mondiale. Se a bloccarle non intervenisse l’Onu per ordine americano, arriverebbero al Cairo. Bilancio finale: mille caduti e 6 mila prigionieri egiziani; 180 morti e 4 prigionieri israeliani.
La tensione si placa per dieci anni, ma il fuoco cova sempre sotto la cenere, per la gran voglia di rivalsa dell’Egitto umiliato e per la Guerra fredda tra Usa e Urss, che giocano sullo scacchiere mediorientale una partita tutta loro.
La guerra dei Sei Giorni dura quanto la creazione del mondo e scoppia per una serie incredibile di equivoci. Il 7 aprile 1967 il governo israeliano del pur mite presidente Levi Eshkol (che ha preso il posto di David Ben Gurion) risponde all’ennesimo attacco siriano dalle alture del Golan contro contadini e pescatori dell’Alta Galilea: sei Mig sovietici nuovi di zecca appena arrivati da Mosca a Damasco vengono abbattuti. Così anche la Siria – che ha iniziato a foraggiare al Fatah, l’organizzazione palestinese fondata da Yasser Arafat e protagonista di continui attacchi terroristici contro Israele – ha una gran sete di vendetta. Il 3 maggio re Hussein di Giordania, inviso alla Siria per il suo doppiogiochismo, firma un accordo militare con Nasser, pone il suo esercito (la mitica Legione Araba) sotto il comando egiziano e consente il rientro del capo dell’Olp Ahmed Shukeiri a Gerusalemme Est per riprendere la propaganda di annientamento d’Israele. L’Urss preme su Nasser perché solidarizzi con Damasco, con cui ha siglato nel novembre 1966 un patto di mutua assistenza militare. Nasser non è pronto a un’altra guerra (il meglio del suo esercito è impegnato nello Yemen) e nicchia. Ma Mosca lo imbottisce di fake news su un imminente attacco israeliano alla Siria. Nasser se la beve e si prepara allo scontro con la più classica delle provocazioni. Il 14 maggio, mentre Israele festeggia il 19° compleanno, ammassa truppe nel Sinai. In ossequio all’armistizio, il governo Eshkol evita di far sfilare i carri armati nella parata militare. Ma i sovietici convincono Nasser che è perché i mezzi corazzati israeliani sono già dislocati altrove, contro di lui. Così, in una settimana, le truppe egiziane nel Sinai salgono a 100 mila soldati e quasi mille carri armati. Il 16 maggio l’Egitto chiede e ottiene il ritiro dei caschi blu dell’Onu che, dopo la guerra del 1956, fanno interposizione nel Sinai. Il 22 maggio Nasser annuncia il blocco navale allo stretto di Tiran, sul golfo di Aqaba, dove si affaccia il porto israeliano di Eilath, cruciale per i rifornimenti petroliferi a Tel Aviv. E precisa graziosamente che “la questione per i Paesi arabi non riguarda la chiusura del porto di Eilat, ma il totale annientamento dello Stato di Israele”. Non che voglia la guerra, anzi: le solite fonti diplomatiche farlocche gli assicurano che gli Usa fermeranno Israele. Ma non è vero. Washington, impegnata nella disastrosa guerra del Vietnam, ha altro a cui pensare.
E l’Unione sovietica non vede l’ora che scoppi la guerra, per assestare agli israeliani, dunque agli americani, un colpo mortale dopo il golpe dei colonnelli in Grecia propiziato dalla Cia. Del resto, per lo Stato ebraico, lo strangolamento economico è la goccia che fa traboccare il vaso.
Assediato da assembramenti di truppe ai suoi confini su tre fronti (egiziano, siriano e giordano), minacciato dagli urli di guerra in tutte le capitali arabe, Israele è visto di nuovo dal mondo come Davide contro Golia e riceve un’ondata di solidarietà da tutto l’Occidente, anche e soprattutto a sinistra. In Francia intellettuali come Jean-Paul Sartre firmano un appello pro Tel Aviv. Pietro Nenni, leader del Psi, annota nei suoi diari: “Per primo ha sparato Nasser quando ha chiuso il golfo di Aqaba”. Molti giovani, ebrei e non, si arruolano volontari nei vari consolati israeliani d’Europa per andare a combattere. Il presidente Eshkol vara un governo di unità nazionale, con Menachem Begin (leader del Likud, l’opposizione di destra finora esclusa dagli esecutivi laburisti) ministro senza portafoglio e Dayan alla Guerra. Laburista ma inflessibile, Dayan è il generale-eroe del ’56, noto per il rispetto dei diritti umani anche nella più cruenta delle battaglie: “Il massimo di tortura che un prigioniero deve subire – raccomanda ai suoi uomini – è mangiare il rancio dell’esercito israeliano”. Al solo annuncio del suo ritorno, i soldati di Tsahal s’abbracciano in lacrime. Il piano d’attacco lo mette a punto il capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin, futuro premier e Nobel per la pace.
I Sei Giorni. Con un blitz a sorpresa, tipico della “guerra preventiva”, scattato alle ore 7.10 del 5 giugno 1967 e battezzato Operazione Focus, l’aeronautica di Tel Aviv guidata dal generale Motti Hod vola a bassa quota per sfuggire ai radar, raggiunge 13 basi egiziane e annienta quella del Cairo senza lasciare il tempo a uno solo degli aerei di Nasser di levarsi in volo. Un pilota su tre ucciso, 286 aerei da combattimento su 420 polverizzati sulle piste. La stessa sorte, in simultanea, tocca a quelli siriani e giordani. Le truppe della Lega Araba restano decapitate della copertura aerea. Nel Sinai egiziano una divisione corazzata al comando del trentanovenne generale Ariel Sharon occupa la penisola in un batter d’occhio. La battaglia più aspra è quella tra giordani e israeliani per Gerusalemme, finora spaccata in metà. I cecchini di re Hussein, sostenuti da una divisione inviata dall’Iraq, sono nascosti ovunque nei luoghi santi, persino dentro le moschee. Ma Dayan resiste alle pressioni dei falchi e vieta l’attacco frontale e le armi pesanti: “Circonderemo Gerusalemme, se necessario, ma non entreremo. Niente artiglieria né appoggio aereo. Nessun danno ai luoghi santi”. È un soldato, ma anche un archeologo e il secondo prevale sul primo. Il 7 giugno gli israeliani raggiungono il Muro Occidentale (o “del pianto”, ultimo residuo di quello distrutto da Tito nel 70 d. C.): è il momento che il popolo ebraico attende da 2 mila anni e a cui non vuole mancare il vecchio Ben Gurion. Dayan proclama: “Siamo tornati nei nostri luoghi più sacri. E tendiamo la mano ancora oggi ai nostri vicini arabi, con più solennità che mai”. Torna la libertà di culto per tutti, negata agli ebrei nei 19 anni di occupazione giordana e ora suggellata dal generale bendato con una preghiera insieme ai palestinesi nella moschea Al-Aqsa.
Si combatte anche sul fronte siriano, ma molto meno del previsto. Damasco, rimasta finora a guardare, il 9 giugno lancia un debole attacco via terra, subito respinto dall’esercito di Israele, che occupa l’altopiano del Golan. E potrebbe arrivare a Damasco se non fosse fermato da Dayan, nel timore di un intervento sovietico.
Il cessate il fuoco scatta l’11 giugno. Israele ha occupato in sei giorni territori tre volte più grandi di sé (68 mila chilometri quadrati) perdendo 700 uomini; gli arabi, sbaragliati su tutti i fronti, piangono quasi 20 mila caduti. Nasser dà le dimissioni, poi le ritira a furor di popolo. La Giordania deve ripiegare dietro il Giordano e cedere Cisgiordania e Gerusalemme Est; l’Egitto mollare Gaza, il Sinai fino a Suez e Sharm-el-Sheik; la Siria rinunciare a parte del Golan. Territori che Israele non può annettere per non snaturarsi in uno Stato a maggioranza arabo-islamica, e che afferma di voler restituire in cambio della pace. Mentre gli israeliani festeggiano la riconquista di Gerusalemme Vecchia, il mite presidente Eshkol fa stecca nel coro: “Abbiamo ricevuto una buona dote, purtroppo accompagnata da una sposa che non ci piace”. Si è aperto il vaso di Pandora della città santa per le tre religioni monoteiste. E Davide è diventato Golia.
Il 22 novembre 1967 l’Onu adotta la risoluzione 242 per la pace nei territori occupati e il ritorno ai confini pre-guerra. Israele la viola annettendo Gerusalemme Est, e proclamando sua capitale la città santa riunificata. Anche i paesi arabi la infrangono, rifiutando di negoziare la pace con Israele. Egitto e Siria in primis iniziano a fomentare il terrorismo palestinese dentro e soprattutto fuori lo Stato ebraico. Ma senza riuscire a controllarlo, come apprendisti stregoni.
Il Settembre Nero. A farne le spese è l’Egitto, con la polveriera di Gaza, dove sono stipati centinaia di migliaia di palestinesi sempre più inferociti nei campi profughi, a cui il regime di Nasser – come tutti i governi arabi – si guarda bene dal concedere la cittadinanza e il diritto di voto. Ma soprattutto la Giordania. Qui, fra il 1968 e il ’69, le organizzazioni dei fedayìn palestinesi riunite nell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) usano i campi profughi della West Bank come avamposto per attaccare il regime di re Hussein, ritenuto troppo remissivo con Israele. Si comportano come uno Stato nello Stato scorrazzando con rapine, estorsioni, stragi e scontri con le forze armate del Regno, fino a tentare di uccidere o di rovesciare il sovrano.
Il leader più carismatico della galassia di sigle riunite nell’Olp è Yasser Arafat, detto anche Abu Ammar, nato nel 1929 al Cairo anche se dirà sempre di aver visto la luce a Gerusalemme. Il padre è un palestinese di Gaza, la madre di Gerusalemme. Al Cairo, Arafat compie gli studi fino alla laurea in Ingegneria civile. Non va d’accordo col padre, mentre il suo vero mentore è lo zio paterno Haj Amin al-Husseini, il Gran Muftì di Gerusalemme (una delle massime autorità religiose dell’Islam sunnita), animato da un forte antisemitismo e antisionismo al punto da allearsi negli anni 30 e 40 con la Germania nazista di Hitler e l’Italia fascista di Mussolini e da reclutare truppe palestinesi per le SS durante la Seconda guerra mondiale.
Dopo il conflitto, il Muftì si trasferisce al Cairo diventando il padre spirituale di Yasser. Che, dopo la débâcle di Nasser nel ’56, si avvicina ai Fratelli Musulmani. A Gaza non può stare perché i fedayìn ne sono banditi, così va a lavorare in Kuwait. E lì, alla fine degli anni 50, fonda con un gruppo di rifugiati palestinesi il gruppo Al Fatah (acronimo arabo di Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese), che si propone la lotta armata per liberare tutta la Transgiordania e distruggere Israele, ma da posizioni più autonome dagli Stati arabi rispetto alle altre formazioni dell’Olp. Nel 1969 diventa il portavoce dell’Olp e si installa in Cisgiordania sotto l’occupazione di Amman.
Quando, fra il 6 e il 9 settembre 1970, i guerriglieri dell’Olp dirottano e fanno esplodere quattro aerei nell’aeroporto di Zarqa, re Hussein scatena una ferocissima repressione militare contro guerriglieri e civili, sterminandone fra i 3 e i 5 mila. È il Settembre Nero: la più grande strage di palestinesi della storia è opera di un regime arabo. Seguono mesi di guerra fratricida in tutto il Regno, con decine di migliaia di morti. Alla fine il regime di Hussein riprende il controllo del Paese ed espelle l’Olp in Libano. Un gruppo di terroristi palestinesi si stacca da al Fatah per fondare Settembre Nero, un gruppo estremista che nel 1972 sequestra e stermina undici atleti olimpici israeliani a Monaco di Baviera.
Lo Yom Kippur. Il 6 ottobre 1973 Israele celebra la festività più sacra del calendario ebraico, lo Yom Kippur. Gli eserciti di Egitto e Siria, col supporto di unità inviate da Giordania, Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Marocco, Libia e Algeria, lo colgono di sorpresa con un attacco concentrico. Otto giorni di resistenza e terrore per lo Stato ebraico, che rischia un’altra volta di scomparire. Poi l’esercito si riorganizza a tempo di record e sferra una micidiale controffensiva, riesce a scavalcare le linee egiziane e ad accerchiare la III Armata di Anwar el Sadat, il successore di Nasser. Un apporto decisivo lo dà quel cavallo pazzo di Sharon, che dopo la guerra del 1967 ha lasciato l’esercito in polemica con l’arcirivale Dayan ed è stato appena eletto deputato del Likud. Ma ora, dopo lo choc, la premier Golda Meir e il ministro Dayan lo richiamano in servizio. Lui miete successi nel Sinai, ma con le sue insubordinazioni si scontra con i vertici militari che chiedono a Dayan di destituirlo, stavolta invano. È lui, con un’azione temeraria, ad attraversare il Canale di Suez e a fissare la testa di ponte sulla riva occidentale da cui altre unità israeliane partono per aggirare a sud le truppe egiziane. Poi marcia dritto verso il Cairo, ma l’11 novembre, quando è alla periferia di Ismailia, a 115 km. dalla capitale egiziana (e mentre Tsahal a Nord è a 30 km da Damasco), viene fermato da Tel Aviv su pressione degli alleati occidentali. Gli arabi, sconfitti un’altra volta, accettano il cessate il fuoco. Sharon lascia definitivamente la divisa, in polemica col governo Meir che preferisce negoziare anziché stravincere. La conferenza di pace di Ginevra, sotto l’egida dell’Onu, tenta di far applicare la risoluzione 338 (che a sua volta richiama al rispetto della 242), ma fallisce per il solito rifiuto dei Paesi arabi a negoziare con Israele. Che nel 1974 accetta unilateralmente la richiesta del segretario di Stato Usa Henry Kissinger di ritirarsi dai territori egiziani e siriani appena occupati. Intanto l’Onu attribuisce all’Olp lo status di rappresentante del popolo palestinese, mentre il suo leader ribadisce il proposito di cancellare Israele dalla faccia della terra.
Camp David. Nel novembre del 1977, invitato dal premier israeliano Begin, il presidente egiziano Sadat rompe 30 anni di ostilità e visita Gerusalemme. Poi riconosce il diritto di Israele esistere e inizia a negoziare la pace. Che viene firmata il 26 marzo 1979 nello storico vertice di Camp David sotto gli occhi del presidente Usa Jimmy Carter. Israele restituisce il Sinai all’Egitto, che però non rivuole Gaza, divenuta con i suoi campi profughi invivibili una terribile incubatrice di odio, estremismo e anche terrorismo. La striscia-polveriera rimane dunque sotto occupazione israeliana.
Nuovo fronte: il Libano. Nel 1976 la Siria invade il Libano, dilaniato da anni di guerra civile fra le milizie delle varie tribù islamiche (proprio nel 1982 nasce Hezbollah, il “partito di Dio” foraggiato da Teheran) e quelle cristiano-maronite, ciascuna aizzata da Usa, Urss, Israele, Iran, Siria, Arabia Saudita ed Emirati del Golfo, con l’aggiunta della presenza destabilizzante delle varie sigle dell’Olp cacciate nel ’70 dalla Giordania. Dopo i giordani, anche i siriani fanno a pezzi i palestinesi. Nel 1981 l’Olp di Arafat&C. attacca il Nord di Israele dal Sud del Libano e si scontra con i cristiano-maroniti alleati di Tel Aviv. Il governo Begin risponde nel 1982 invadendo il Paese dei Cedri. L’operazione è diretta dal ministro della Difesa Sharon. Il quale non muove un dito quando le milizie falangiste maronite entrano nei campi profughi di Sabra e Chatila facendo strage di palestinesi, senza distinguere fra miliziani dell’Olp e civili inermi, per vendicare l’assassinio del presidente cristiano Amin Gemayel (reo di avere firmato un accordo di pace con Israele). Un’inchiesta imposta dalla Corte Suprema israeliana incolpa i comandanti militari locali e il capo di Stato maggiore dell’esercito. Sharon, pur scagionato da responsabilità dirette negli eccidi, lascia il ministero della Difesa. Alla fine, ritirandosi dal Libano, Israele manterrà (fino al 2000) una “fascia di sicurezza” di 10 miglia lungo il confine, affidata agli alleati maroniti.
Vincere senza reagire. La guerra libanese del 1982 e l’indagine su Sabra e Chatila lasciano Israele sotto choc per un bel pezzo. I nemici, anziché indebolirsi, si rafforzano e si moltiplicano. Soprattutto l’Iran dell’ayatollah Khomeini, che nel ’79 ha spodestato lo Scià, prepara la bomba atomica (Tel Aviv ha bombardato il suo reattore nucleare di Osiraq nell’Operazione Babilonia del 1981) e patrocina Hezbollah, il “partito di Dio” che riunisce un milione di sciiti nel Sud del Libano, ma è presente anche in Siria e nel Golan occupato da Israele. E martella con missili e razzi i kibbutz dell’Alta Galilea. Ogni guerra fomenta nuovo terrorismo, anziché spegnerlo. E dal 1981 è venuto a mancare un argine fondamentale all’estremismo: il presidente egiziano Sadat, assassinato da un killer della Jihad per punirlo della pace con Israele e rimpiazzato dal vice Hosni Mubarak. Neppure i palestinesi se la passano bene, sempre più ostaggi di Israele nei Territori, ma anche stritolati dai finti amici arabi che li usano per giocare ciascuno la propria partita. Arafat e gli altri capi dell’Olp, espulsi nel 1971 dalla Giordania dopo averla incendiata, vengono cacciati anche dal Libano e traslocano in Tunisia, con strascichi di polemiche interne per i troppi lussi.
La spaccatura nell’opinione pubblica israeliana si fa sentire alle elezioni del 1984: il Likud di Yitzhak Shamir, subentrato nell’83 a Begin, perde la maggioranza. Nasce un governo di unità nazionale guidato dal laburista Shimon Peres. Nel 1985 l’Olp di Arafat dimostra un’altra volta tutta la sua ambiguità: il gruppo Fplp del filosiriano Abu Abbas dirotta e sequestra in acque egiziane la nave da crociera italiana Achille Lauro. Arafat fa il doppio gioco: si dichiara estraneo al gesto, ma poi media col premier Bettino Craxi e il ministro degli Esteri Giulio Andreotti per la liberazione degli ostaggi. Però si scopre che i feddayin hanno trucidato a sangue freddo un anziano ebreo americano paraplegico, Leon Klinghoffer, gettandone il corpo e la carrozzella in mare. Il presidente Usa Ronald Reagan sospetta che Craxi voglia sottrarre i terroristi alla giustizia, fa dirottare l’aereo che li trasporta e lo costringe ad atterrare nella base Nato di Sigonella, per portarli in America e processarli. Craxi si scontra violentemente con lui e schiera i carabinieri sulla pista, bloccando il blitz dei marines. Poi però, dopo aver giurato che l’intero commando sarà giudicato in Italia, lascia fuggire Abu Abbas su un aereo jugoslavo a Belgrado, ospite del maresciallo Tito, da dove il capo del Fplp raggiungerà lo Yemen e poi l’Iraq di Saddam Hussein. Le truppe di invasione americane lo scoveranno nel 2003 in una villetta appena fuori Baghdad e lo uccideranno.
L’Intifada. Nel 1987, ventennale dell’occupazione di Gaza e Cisgiordania, i palestinesi si rivoltano in massa contro Israele: è l’Intifada (“sollevazione”). Durerà sei anni, fra proteste, scioperi, boicottaggi, violenze e repressioni. Alla fine i morti palestinesi saranno circa 2 mila e gli israeliani 160. Le immagini dei ragazzini armati di fionde che lanciano sassi contro i soldati fanno il giro del mondo, campeggiano a lungo sui notiziari e sono un altro duro colpo per Israele, sempre meno Davide e sempre più Golia. Ma l’aspetto più mediatico dell’Intifada nasconde quello più truculento: il ruolo del neonato Hamas (acronimo di Movimento Islamico di resistenza), un’organizzazione politico-militare palestinese sunnita e fondamentalista filiata dai Fratelli musulmani egiziani, installata soprattutto a Gaza e finanziata dai regimi sunniti. Hamas ha un volto pubblico, che gestisce programmi sociali portando nella Striscia ospedali, scuole e biblioteche, si propone di distruggere Israele e tornare alla Palestina pre-1947 e polemizza con i vertici corrotti dell’Olp. Ma anche uno clandestino: l’ala militare delle Brigate al-Qassam, che organizzano e rivendicano attentati kamikaze contro obiettivi civili israeliani. Gli Scud di Saddam. Nel 1988 Arafat dichiara di rinunciare al terrorismo e nel 1989 crolla il Muro di Berlino. La dissoluzione dell’Urss sembra portare un po’ di calma anche in Medio Oriente, ma è solo il preludio a una nuova tempesta. Il 2 agosto 1990 l’Iraq di Saddam invade e annette il Kuwait, minacciando l’Arabia Saudita. Il 17 gennaio 1991 la coalizione fra gli Usa di George Bush e altri 34 Paesi, inclusi gran parte di quelli arabi, ottiene l’avallo dell’Onu e scatena l’operazione “Desert Storm”, che in poco tempo caccerà l’Iraq dal Kuwait senza però rovesciare Saddam. La sera dell’attacco, Tel Aviv e Haifa vengono colpite da missili Scud iracheni: otto il primo giorno e 33 nelle cinque settimane successive, quasi sempre di notte. Israele, che non fa parte della coalizione, ripiomba nell’incubo: è dal 1948 che le sue città non venivano bombardate. I cittadini vivono per due mesi barricati nelle case o nei bunker, con le maschere antigas e le finestre sigillate col nastro adesivo, mentre l’esercito distribuisce fiale di atropina, nel timore – per fortuna infondato – che qualche testata sia caricata con agenti biologici o chimici, tipo Sarin e gas nervino. Arafat, in barba alla rinuncia al terrorismo, si schiera con Saddam: invita “musulmani e arabi a opporsi alla guerra americana e sionista contro un Paese fratello”, esalta “l’epica determinazione del popolo iracheno sotto il comando del mio fratello Saddam”, sostiene che l’uso del napalm da parte degli Usa dà all’Iraq “le ragioni e il diritto di usare armi chimiche” contro Israele. Ma il suo appello cade nel vuoto, a parte i giovani palestinesi dei Territori che esultano sui tetti a ogni suono di sirena e schianto di missile. Il bilancio delle vittime sarà molto più contenuto dello choc emotivo: due israeliani morti per gli Scud, qualche decina per infarto, migliaia di feriti e di senzatetto. E una vittoria ottenuta senza muovere un dito: una lezione che vale anche oggi.
Shamir vince, Arafat no. Al governo, dal 1986, c’è di nuovo il Likud di Yitzhak Shamir, che sotto la pioggia di Scud dà una formidabile prova di sangue freddo e lungimiranza: per la prima volta nella sua storia, Israele non risponde a un attacco nemico. Bush parla con Shamir e lo convince a soprassedere al blitz già pronto contro l’Iraq. In cambio, installa subito in Israele batterie anti-missile Patriot e dalle portaerei nel Golfo bombarda le rampe di lancio irachene. È chiaro che Saddam tenta di nobilitare con la causa palestinese la sua bieca mossa imperialista in Kuwait, trascinare in guerra Israele e spaccare la coalizione arabo- occidentale. Missione fallita.
A fare le spese della doppiezza di Arafat, che ancora una volta ha puntato sul cavallo sbagliato, è il suo popolo: appena liberato dagli invasori, il Kuwait espelle il mezzo milione di palestinesi che lì vivevano e lavoravano (il 30% della popolazione). Intanto le monarchie e gli emirati d’Arabia tagliano i fondi all’Olp. Il vecchio leader è a un bivio: o sparigliare i giochi e trattare la pace, o sparire. E sceglie la prima strada. Anche perché, dopo sei anni di Likud, nel 1992 in Israele tornano i laburisti: Rabin premier e ministro della Difesa, Peres ministro degli Esteri.
Miracolo a Oslo. Il 13 settembre 1993, dopo un anno di trattative top secret, mediate in parte dalle amministrazioni americane di Bush padre e di Bill Clinton (che s’è insediato alla Casa Bianca in gennaio) e in parte dall’Ue con l’avallo della Russia di Boris Eltsin, Rabin e Arafat firmano a Oslo uno storico accordo di pace. L’Olp rinuncia formalmente alla lotta armata e riconosce a Israele il diritto di esistere; Israele riconosce l’Olp come rappresentante del popolo palestinese, con il diritto di governare su una buona porzione dei territori occupati nel 1967. Nella Dichiarazione di principio su un’autonomia palestinese transitoria di cinque anni siglata dai due leader, Israele si impegna a ritirarsi entro il 1998 da gran parte della striscia di Gaza e Cisgiordania e di affidarle a una Autorità nazionale palestinese (Anp). La Cisgiordania sarà divisa in tre zone: la A sotto il pieno controllo dell’Anp, la B cogestita da palestinesi (per gli aspetti civili) e israeliani (per la sicurezza), la C (la più folta di insediamenti ebraici) ancora sotto Israele. Alcuni dei nodi più intricati – Gerusalemme, i rifugiati palestinesi e le colonie israeliane – sono rinviati a un nuovo negoziato. Rabin e Arafat vengono ricevuti sul prato della Casa Bianca da Clinton e dall’altro garante dell’accordo: il ministro degli Esteri russo Andrei Kozyrev. Un anno dopo vengono insigniti, insieme a Peres, del premio Nobel per la Pace.
L’effetto-Oslo, oltre alla fine dell’Intifada, produce il secondo accordo arabo-israeliano fra Stati dopo quello di Camp David del 1978 fra Israele ed Egitto. Nel 1994 anche la Giordania fa pace con Tel Aviv, dopo una storica stretta di mano fra re Hussein e Rabin alla Casa Bianca. Nascono l’Autorità nazionale palestinese e la sua polizia nei Territori. Israele lascia subito una parte di Gaza e si ritira dall’enclave di Gerico, anche se non allenta la morsa sui lavoratori palestinesi della West Bank e di Gaza, sigillate anche per chi va a lavorare nello Stato ebraico. La Lega Araba, dopo 46 anni, toglie l’embargo a Israele e ai Paesi che vi fanno affari. Sembra scoccata l’ora della pace. Ma è solo un’altra quiete prima dell’ennesima tempesta.
10 anni di stop&go. I sogni muoiono all’alba, ma anche la sera. Tel Aviv, piazza dei Re d’Israele, 4 novembre 1995, ore 21.30. Il premier Yitzhak Rabin termina il suo discorso a una manifestazione di sostegno agli accordi di Oslo che dilaniano il Paese: “Vorrei ringraziare ognuno di voi che è venuto qui oggi a manifestare per la pace e contro la violenza. Questo governo, che ho il privilegio di presiedere con il mio amico Shimon Peres, ha scelto di dare una possibilità alla pace, una pace che risolverà la maggior parte dei problemi di Israele… La via della pace è preferibile alla via della guerra. Ve lo dice uno che è stato un militare per 27 anni”. Poi scende dal palco e, mentre sta per raggiungere l’auto blindata della scorta, uno studente israeliano di estrema destra, Yigal Amir, gli spara due colpi di pistola. Rabin muore poco dopo in ospedale: ucciso, come Sadat 14 anni prima da un fanatico jihadista, per avere firmato la pace proibita. Ai suoi funerali a Gerusalemme, insieme a un milione di israeliani e a molti capi di Stato e di governo da tutto il mondo, partecipano diversi leader arabi che non hanno mai messo piede in Israele.
La prima volta di Bibi. A Rabin succede Peres, ma dura pochi mesi. Le elezioni del 1996 le vince il nuovo leader del Likud, il 47enne Benjamin Netanyahu detto “Bibi”, che diventa il primo premier israeliano nato nello Stato ebraico. Militare, politico, uomo d’affari e di malaffari, vissuto per anni negli Usa, in campagna elettorale Bibi ha vellicato la pancia e le viscere degli ebrei più diffidenti sul percorso di pace, promettendo agli elettori di fare a pezzi gli accordi di Oslo. Mette in piedi il governo più a destra della storia di Israele, alleandosi con gli ultranazionalisti e i partiti religiosi. E inizia a demolire tutto ciò che non solo Rabin e Peres, ma anche i padri del suo partito Begin e Shamir, hanno costruito negli ultimi 18 anni da Camp David in poi. La nascita del suo governo è il “tana liberi tutti” per il ritorno all’odio e alla violenza. Gli insediamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza, frenati da Rabin, riprendono a spron battuto. Intanto Arafat è stato eletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese. Netanyahu, pur ritirando l’esercito dai territori occupati come previsto dagli accordi di Oslo, li sabota nei fatti con continue provocazioni. E così, come già aveva fatto Rabin prima di Oslo, rafforza consapevolmente Hamas, suo vero alleato occulto all’insegna del “tanto peggio tanto meglio”, che moltiplica gli attentati suicidi contro i civili israeliani. Clinton si danna l’anima per ricucire la tela e sembra farcela: Bibi, complice il suo primo scandalo di corruzione, vede sfarinarsi la sua coalizione di governo: nel 1999 perde le elezioni anticipate e lascia la politica per dedicarsi ai suoi affari.
Barak, l’occasione mancata. Il nuovo premier è il generale ed economista laburista Ehud Barak, ritira subito Israele dalla “fascia di sicurezza” nel Libano del Sud e riprende i negoziati con l’Olp. È convinto che perpetuare l’occupazione dei Territori “condurrà inevitabilmente o a uno Stato non-democratico o ad uno Stato non-ebraico. Infatti, se i palestinesi voteranno, saremo uno Stato binazionale; se non voteranno, saremo uno Stato segregazionista”. E nel 2000, a Camp David, sotto lo sguardo di Clinton, offre ad Arafat una soluzione tutt’altro che perfetta, ma la più vantaggiosa mai proposta da Israele dal 1967: uno Stato palestinese nel 73% della Cisgiordania (che entro 25 anni salirebbe al 90% e intanto verrebbe integrato da una porzione di Negev) e nel 100% della striscia di Gaza, con Gerusalemme Est capitale, il ritorno di un certo numero di profughi e un indennizzo per quelli restanti. Arafat rifiuta senza neppure avanzare una controproposta, fa fallire il summit e imbocca il viale del crepuscolo. Anche il governo Barak, rimasto col cerino in mano, entra in crisi. E il Likud torna a spopolare, non più con Netanyahu, ma con Sharon.
L’eroe del Kippur, azzoppato dalla guerra libanese e dall’inchiesta su Sabra e Chatila (nel 1983 la Corte Suprema israeliana ne aveva ordinato la rimozione da ministro della Difesa), si rilancia con uno dei suoi temerari gesti dannunziani. Il 28 settembre 2000 passeggia platealmente e provocatoriamente sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme, con un migliaio di militari di scorta, per proclamare anche la città orientale “eternamente israeliana”. Le furibonde proteste palestinesi sfociano nella seconda Intifada, molto più cruenta della prima, sia per la sempre più massiccia presenza di Hamas con i suoi attentati ormai fuori dal controllo dell’Anp, sia per la durezza della repressione israeliana. Durerà fino al 2005, mietendo oltre 4 mila vittime palestinesi e mille israeliane.
Muore Arafat, risorge Sharon. Nel 2001 l’Onu torna protagonista sullo scacchiere mediorientale dopo decenni di latitanza per la Guerra fredda: il segretario generale Kofi Annan convince gli Usa di George W. Bush, la Russia di Putin e l’Unione europea a dare vita insieme con lui a un “Quartetto per il Medio Oriente” per riannodare il filo spezzato di Oslo. Nello stesso anno Israele torna alle urne e vince Sharon. Il suo primo atto è chiudere ogni rapporto con l’ormai inutile e screditato Arafat, confinato e assediato nel suo quartier generale di Ramallah. Il secondo è una raffica di bombardamenti su Gaza e Cisgiordania, con almeno tremila case distrutte, oltre al porto della Striscia. Nel 2004 un missile israeliano uccide lo sceicco Ahmed Yassin, cofondatore e capo spirituale di Hamas, mentre esce da una moschea a Gaza. Israele inizia a costruire un muro divisorio dai Territori: ufficialmente serve a fermare gli attentati kamikaze, che si assottigliano drasticamente; nei fatti complica vieppiù la vita già infame dei palestinesi. Sembrano tutte mosse per seppellire gli accordi di Oslo, ma ciò che accade di lì in poi dimostra che c’è dell’altro.
Arafat è ormai isolato anche fra i suoi, dopo tanti errori politici e sospetti di corruzione. Il suo ultimo atto è licenziare il suo stesso premier Abu Mazen. Poi entra in coma e l’11 novembre muore. Di cosa, nessuno lo saprà mai, perché sul corpo non viene effettuata alcuna autopsia prima della sepoltura a Ramallah. Qualcuno parlerà di Aids, chi di altre cause naturali, chi di avvelenamento da polonio. Sepolto il vecchio Yasser, sparita la sua corte, si rafforza una nuova classe dirigente palestinese in grado di trattare con Israele attorno ad Abu Mazen, confermato dalle elezioni come premier dell’Anp. Addio a Gaza. Nell’estate del 2005 Sharon fa la mossa del cavallo: ritira unilateralmente l’esercito da Gaza. Il 12 settembre l’ultimo soldato di Tsahal lascia la Striscia, che passa sotto il pieno controllo dell’Anp. Israele però vigila a distanza via terra, cielo e mare. Il momento più drammatico del “disimpegno” è la rimozione forzata degli 8.500 coloni ebraici, che non vogliono saperne di sloggiare da Gaza e vengono sgomberati con le maniere spicce dai loro 21 insediamenti. Altri sgomberi di coloni Sharon li ordina dal Nord della Cisgiordania, scatenando altre proteste e scontri con l’esercito. Che succede nella testa del superfalco? Si è rammollito? No, sta soltanto seguendo il percorso di altri “duri”, come Begin, Shamir e Rabin: la Storia chiama anche lui a guardare oltre se stesso, a elevarsi da politicante a statista. E lui, a 77 anni, risponde. Il suo discorso alla nazione del 15 agosto 2005 dice tutto: “Israeliani, il giorno è giunto. Diamo ora inizio alla fase più difficile e dolorosa: l’evacuazione delle nostre comunità dalla Striscia di Gaza e dal nord della Samaria. Per me è un momento particolarmente difficile… Come tanti altri, credevo e speravo che Netzarim e Kfar Darom rimanessero nostri per sempre, ma l’evolversi della realtà in questo Paese, in questa regione e nel mondo ha richiesto una rivalutazione e un cambiamento di posizione. Gaza non poteva rimanere nostra per sempre: ci abitano oltre un milione di palestinesi, un numero che raddoppia a ogni generazione. Vivono in campi profughi affollati all’inverosimile, immersi nella povertà e nello squallore, in focolai di odio crescente, senza nessuna sorta di speranza all’orizzonte. Questa decisione costituisce un segno di forza, e non di debolezza… Adesso l’onere della prova ricade sui palestinesi: dovranno combattere le organizzazioni terroristiche, smantellarne le strutture e dimostrare di ricercare sinceramente la pace per potersi sedere accanto a noi al tavolo dei negoziati. Il mondo aspetta la reazione dei palestinesi, aspetta di vedere se tenderanno la mano in segno di pace o continueranno il fuoco terroristico. A una mano tesa in segno di pace risponderemo con un ramo di ulivo; ma se sceglieranno il fuoco, noi risponderemo con il fuoco, con più forza che mai”.
La strana coppia. Ormai, nel Likud, Sharon è guardato con sospetto, come una specie di traditore. Il redivivo Netanyahu, tornato alla politica come ministro delle Finanze, lascia il governo in polemica col ritiro da Gaza. Ariel taglia corto: il 21 novembre pianta in asso il suo partito e ne fonda uno nuovo di centro liberale, Kadima (“Avanti”), a cui aderisce subito l’avversario di sempre, Shimon Peres, che molla i laburisti. I due grandi vecchi, il simbolo del pugno di ferro e quello del guanto di velluto, gli ultimi statisti nati prima di Israele si danno la mano per accompagnarlo nella traversata del deserto più difficile: quella verso il futuro. Ma la nuova speranza durerà meno di un mese.
Un ictus cambia la storia. Il 18 dicembre 2005, quattro mesi dopo il ritiro da Gaza e un mese dopo la fondazione del partito Kadima, Sharon è colpito da ictus. Viene dimesso dall’ospedale due giorni dopo, ma il 4 gennaio 2006 una grave emorragia cerebrale lo mette definitivamente ko. A marzo, mentre è in coma, il suo vice Ehud Olmert vince le elezioni e diventa premier ad interim in attesa del suo risveglio. Che non arriverà mai: il suo cuore smetterà di battere otto anni dopo, nel 2014, quando il successore Netanyahu avrà riportato Israele indietro anni luce, vanificando gli sforzi degli ultimi statisti. Hamas vince le elezioni. Il 25 gennaio 2006, mentre Sharon lotta fra la vita e la morte in ospedale, i palestinesi di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est vanno alle urne per eleggere il loro Parlamento, il Consiglio legislativo dell’Autorità nazionale (Anp). Il presidente Abu Mazen, con mossa lungimirante, ha convinto Hamas a partecipare al voto con suoi candidati, in cambio della fine degli attacchi e degli attentati a Israele. Sharon s’è opposto all’idea, ma il Quartetto per il Medio Oriente Onu-Usa-Ue-Russia l’ha incoraggiata. E Hamas ha accettato di formare una sua lista, ha smesso di predicare la distruzione di Israele e ha accettato, almeno a parole, l’ottica di Oslo: “due popoli, due Stati”. Dalle urne esce un risultato a sorpresa: vince Hamas, battendo al Fatah di Abu Mazen col 44% contro il 41. E va al governo: un po’ grazie all’apparente svolta moderata, un po’ per la disciplina e la sobrietà dei suoi leader opposta alle spaccature e alla corruzione di al Fatah. Il 30 gennaio il Quartetto si congratula col popolo palestinese per come ha partecipato alle elezioni, ma subito dopo si attiva per isolare il nuovo governo democraticamente eletto. Usa e Ue intimano ad al Fatah di non entrare nel governo di coalizione proposto Hamas e bloccano gli aiuti (e financo i rapporti bancari) non ad Hamas, ma all’Anp. Il boicottaggio crea gravi danni alla sanità, all’istruzione e all’occupazione nei Territori, prima incoraggiati a votare e poi puniti per aver scelto il partito sbagliato. È un altro regalo dell’Occidente ad Hamas che, forte dei finanziamenti dal Qatar e dalle monarchie sunnite, si accredita sempre più come unico baluardo del popolo alla fame. D’ora in poi Abu Mazen non indirà più elezioni per evitare di riperderle. E si condannerà a un crescente discredito agli occhi dei suoi. Ancora fuoco. Il risultato è il ritorno dell’estremismo e della violenza. A giugno Hamas rapisce il soldato israeliano Ghilad Shalit (sarà liberato solo cinque anni dopo, in cambio del rilascio di 1.027 detenuti palestinesi) e Israele ne approfitta per scatenare nella striscia le operazioni Pioggia d’Estate e Nuvole d’Autunno.
Intanto il governo Olmert lancia un’altra offensiva nel Sud del Libano contro Hezbollah che bombarda la Galilea: 1100 morti in un mese.
Nel 2007 esplode una sanguinosa guerra civile fra palestinesi. Le milizie di Hamas cacciano con la forza al Fatah da Gaza e ne assumono il controllo, mentre in Cisgiordania al Fatah uccide o rimpiazza molti deputati di Hamas, messa fuori legge da Abu Mazen. Con tanti saluti alle elezioni democratiche, al Fatah torna al potere in Cisgiordania con l’appoggio di Usa e Ue. Israele e l’Egitto mettono Gaza sotto embargo, peggiorando vieppiù la vita della popolazione (oltre la metà è disoccupata). E la Striscia diventa la rampa di lancio per razzi e missili di Hamas contro Israele. Che nel 2008 riparte all’assalto di Gaza con le operazioni Inverno Caldo e Piombo Fuso (1.200 morti).
Il ritorno di Bibi. Il governo dello sbiadito Olmert, azzoppato da un processo per finanziamenti illeciti e dal flop della campagna libanese, cade nel 2009. Le elezioni le rivince Kadima con la nuova leader Tzipi Livni, ma non ha i numeri per governare. Ce la fa Netanyahu, grazie a un accordo col capo dell’estrema destra Avigdor Lieberman. È il suo secondo governo, a cui ne seguiranno altri cinque: Bibi batte il record di Ben Gurion come premier più longevo della storia d’Israele con 13 anni di potere ininterrotto, dal 2009 al 2023, tranne la parentesi dei governi Bennett e Lapid (giugno 2021-dicembre 2022). Nel 2010 Obama riavvia negoziati a distanza fra Netanyahu e Abu Mazen, che però si interrompono quando Bibi riprende a spron battuto la colonizzazione della Cisgiordania. Straccia gli accordi di Oslo. E torna a colpire Gaza nel 2012 con l’operazione Colonna di Nuvola e nel 2014 con Margine di Protezione (2.200 palestinesi e 71 israeliani uccisi). Nel 2015 riesce a dichiarare al Congresso sionista mondiale che “Hitler non voleva sterminare gli ebrei, solo espellerli”, poi però fu traviato dal Muftì di Gerusalemme (lo zio di Arafat). Ma la maggioranza degli elettori continua a votarlo. Anche quando dopo che va a giudizio in tre processi per corruzione, frode e abuso d’ufficio. E persino quando inizia a foraggiare Hamas contro l’Anp di Abu Mazen.
L’amico di Hamas. Nel 2018 accetta che il Qatar trasferisca milioni di dollari all’anno al governo di Hamas a Gaza. In una riunione del Likud ammette che “chiunque vuole ostacolare la creazione di uno Stato palestinese deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia: isolare i palestinesi di Gaza dai palestinesi di Giudea e Samaria” (anche con il famoso muro divisorio ampliato con una barriera sotterranea). Concetto ribadito persino davanti alla polizia che lo interroga in uno dei suoi processi: “Abbiamo dei vicini che sono nostri acerrimi nemici… Io mando loro messaggi in continuazione, li inganno, li destabilizzo, li prendo in giro e li colpisco in testa… Noi controlliamo l’altezza delle fiamme”. S’illude, da apprendista stregone, di pilotare le fiamme di Hamas per bruciare Abu Mazen. Così come pensa di rimuovere il bubbone palestinese senza curarlo, ma ignorandolo in attesa che scompaia da solo. Il refrain è lo stesso di Zelensky: “Non si tratta con il nemico”. Infatti il 13 agosto 2020 firma gli Accordi di Abramo con gli Usa di Trump, gli Emirati Arabi e il Bahrein, in attesa di farlo con l’Arabia Saudita. Il tutto sulla testa e sulla pelle dei palestinesi: l’ideona prevede l’annessione del 30% della Cisgiordania.
Ma i dati demografici sono impietosi: Israele ha 10 milioni di abitanti, di cui 7,5 ebrei, 2 palestinesi e 500 mila di altre etnie (tutti cittadini con diritto di voto); in Cisgiordania i palestinesi sono 3,5 milioni e a Gaza 2,4. Traduzione: i palestinesi sono ormai più degli ebrei e fanno più figli. Un’annessione della Cisgiordania consegnerebbe loro la maggioranza parlamentare e addio Stato ebraico. Sharon l’aveva capito nel 2005. Netanyahu neppure ora: nasconde la vecchia polvere sotto il tappeto e ne accumula di nuova. Nove mesi di proteste. Nel 2022, per tornare al potere, arriva ad allearsi con Potere Ebraico del fanatico suprematista Itamar Ben-Gvir: condannato per istigazione al razzismo contro i palestinesi, varie volte incriminato, celebre per aver minacciato pubblicamente Rabin due settimane prima del suo assassinio, Ben-Gvir diventa ministro della Sicurezza nazionale. Il duo inizia a picconare la democrazia israeliana con due controriforme che demoliscono la divisione dei poteri: quella della giustizia espropria la Corte Suprema del potere di cassare le decisioni “irragionevoli” del governo (come ha appena fatto bloccando la nomina a ministro di un pregiudicato per corruzione e frode fiscale e come potrebbe rifare se Netanyahu fosse condannato); e quella dell’ordine pubblico crea una polizia speciale, la Guardia Nazionale per Israele, alle dipendenze di Ben-Gvir. Due vergogne che spaccano il Paese: 40 settimane di proteste con migliaia di persone in piazza, inclusi militari e riservisti.
Netanyahu frattanto continua a finanziare nuovi insediamenti in Cisgiordania: nel 1993, l’anno di Oslo, i coloni erano 110 mila, ora sono circa 500 mila (più 220 mila a Gerusalemme Est). Occupando ben 157 kmq di Territori, sono invisi ai palestinesi invasi ed espropriati di terre e falde acquifere. E costringono Israele a sforzi immani per proteggerli: 500 posti di blocco e gran parte dell’esercito ridotto a loro scorta armata.
L’ultima mattanza. Infatti è lì, sul fronte Nord cisgiordano e libanese, che il 7 ottobre 2023 stazionano 26 battaglioni, lasciando senza bussola i servizi segreti (un tempo i migliori del mondo) e sguarnito il fronte Sud di Gaza, presidiato da appena due compagnie di reclute e dalla polizia locale. E proprio sul fronte Sud alle 6.30 del 7 ottobre 2023, all’indomani del cinquantennale della guerra del Kippur, mentre Israele festeggia il Simchat Torah (“Gioia della Torah”), Hamas sferra l’operazione Alluvione Al-Aqsa: 2.500 terroristi s’infiltrano da Gaza in Israele su autocarri, camioncini, moto, persino deltaplani e colpiscono vari kibbutz e un rave party. Lo Stato ebraico viene colto totalmente impreparato, malgrado gli allerta dei servizi egiziani e americani su un pericolo imminente. È una mattanza, la più grave strage di civili subìta da Israele: circa 1.400 uccisi in un giorno, compresi molti bambini e donne, e oltre 200 ostaggi. Netanyahu, giunto ormai al capolinea, tenta di ricompattare il Paese che lui stesso ha spaccato con un governo di unità nazionale. E scatena su Gaza l’operazione Spade di Ferro: 3.500 palestinesi morti, di cui mille bambini, in undici giorni. Si avvera la profezia di Gandhi: “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”.
(Fonte: articoli de Il Fatto Quotidiano acquisiti dal web)
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