domenica 31 maggio 2020

I caffè di Nino



Finalmente, dopo un prolungato e angoscioso lockdown, il passaggio alla fase due veniva oggi ad allentare la morsa claustrofobica che ci aveva attanagliato tutti. Le nuove regole introducevano delle progressive libertà volte ad un lento risveglio dal letargo imprevisto. 
Nel periodo penitenziario restrittivo, il ricorso alle incombenze prima noiose - come quella dell’andare a buttare la spazzatura fuori casa - paradossalmente erano riuscite ad assurgere fra le poche opportunità premianti e che, ora, in famiglia erano pure contese, in assenza di cani da accompagnare per i compiti igienici collegati che per decreto legge venivano permessi.
Un felino presente in famiglia, infatti, nel caso non era contemplato dalla normativa e dai pcm governativi tutti, non creava le opportunità per una occasionale possibile fuoriuscita. I gatti amano stare in casa e sanno ben gestirsi, anche nelle loro necessità quotidiane. 
Certo era stato brutto questo tempo di Corona Virus per chi aveva raccolto in certi rituali delle abitudini, ancor di più se lo status di pensionato non forniva alcuna possibile scappatoia praticabile per  potenziali escursus giustificabili come compiti lavorativi. 
La fase due aveva ora portato fortunatamente, anche se vigilate, opportunamente bendati con la mascherina e forniti di guanti, una certa libertà di movimento e questa possibilità di uscite dai nocosomiali luoghi di coprifuoco, riconsegnò nuovamente a Nino la possibilità di riassaporare una delle usanze di un tempo, quella di riavvicinarsi ai bar. 
La normalizzazione ricomiciò con il baretto vicino a casa, seduto al tavolino posto all’aperto però, così come le norme di riapertura avevano previsto.  La degustazione del caffè avvenne in un secondo momento, nel bicchierino di carta: occorreva applicare ancora misure di prudenza. Per allargare il suo raggio di azione ci sarebbero state altre occasioni. 
Alcuni bar per Nino costituivano - e da qualche tempo - una specie di rifugio ove tendere ad appartarsi in solitario. 
Anche per potere fumare in santa pace, ove consentito dal luogo, il pezzo del suo amato sigaro, che nel rituale veniva acceso, spento e poi riacceso in tante riprese. Gustarne il sapore e il fumo e accompagnarlo con un bel caffè era una delle godurie rimaste. 
Ogni specifico locale da lui individuato rispondeva ai potenziali test per il suo esame, caffè compreso; avendo poi superato la prova di gradimento dell’aroma, con piena approvazione veniva annoverato fra i locali frequentabili e corrispondente ai suoi gusti. 
Riguardo alle abitudini e alle scelte, se per Nino l’intento era quello d’evadere, in un luogo che, seppur frequentato, costituisse la sua isola felice, dal suo caratteristico zainetto di color viola fuori uscivano ben presto un paio di numeri della “Settimana Enigmistica” (la rivista che lo appassiona sempre e che ritiene necessaria per continuare rendere efficienti e giovani le reattività delle sue sinapsi). L’esercizio dell’impegno intellettuale era collegato alla teoria riprovata da Rita Levi Montalcini e che rimane attuale. Diversamente dalla struttura fisica portante decadente che caratterizza l’individuo anziano, con un idoneo allenamento quotidiano, attraverso quell'esercizio, l’efficienza della mente umana può mantenersi infatti longeva. 
Nel nuovo locale che veniva accettato, avrebbero poi trovato posto sul tavolino il suo particolare e penamente funzionante telefonino “vintage”, l’immancabile penna e il suo mini taccuino, ricco di appunti di nomi e idee nonchè dei numeri di telefono dei tanti amici. 
I bar cittadini ai quali Nino fa di regola sempre riferimento sono variegati, ma non tanti e di ambiente estetico diverso. Talvolta s’avventura in locali occasionali, per testare magare dei nuovi ambienti o per cambiare e collaudare sue nuove tecniche di prova.
Nella maggior parte dei casi le scelte però restano condizionate dalla località in cui si ritrova, dai componenti della compagnia e dalle intenzioni/esigenze del momento. 
Il gruppo principale formato da soggetti con cui s’incontra più di frequente è “quello del cuore”, che vede coinvolti coloro che si sono anche auto-soprannominati i “parenti”.
L’insieme è costituito da amici-colleghi, quasi tutti degli ex della carta stampata. Questi incontri hanno una composizione variabile che risponde alla logica del “cu c’è c’è”, anche perché non tutti, essendo oggi dei pensionati, risiedono stabilmente a Palermo. 
Una seconda cerchia è più ristretta ed è formata da quattro o cinque elementi a secondo della disponibilità momentanea di ciasciuno. Questo gruppo è costituito da amici del mondo fotografico a lui sempre stati vicini e formato pressochè da soggetti coetanei. 
Un terzo convivio, che include anche il sottoscritto - e che sua moglie Enza ha ribattezzato dei “tuttologi” - viene convocato ogni volta senza alcun preavviso, per discutere di argomenti disparati. Nell’occasione si alimentano confronti e talvolta si focalizzano propositi realizzativi che lasciano ampio spazio alla fattibilità e a una possibile vera attuazione. 
Un quarto gruppo, forse fra tutti quello a lui preferito, è goliardico e castelvetranese, dove prevale una presenza di parenti, diretti, indiretti o acquisiti, che si riunisce quasi sempre accompagnando il tutto con dei “baccanali”. 
Un ultimo gruppetto potrebbe proprio definirsi come quello “occasionale e di studio” semiologico, semantico o antropologico (fate voi). E’ un gruppetto estivo, dalla composizione improbabile e sempre combinatoria, che lo vede seduto nei lunghi e sonnolenti pomeriggi agostani al solito tavolino, sito nel solito baretto della località balneare che ama frequentare. 
Nell’ombra che lo protegge dalla calura estiva prevale questa volta la predisposizione all’apparente passività, concentrata però all’ascolto attento. Lo affascinano - e da sempre - i discorsi degli avventori indigeni, che ancor oggi presentano aspetti pittoreschi. Spesso nelle discussioni emergono espressioni desuete ma sempre colorite, che riescono a portarlo indietro nel tempo e a recuperare molti dei tanti ricordi. 
In conclusione e per una sintesi, può dirsi che in ogni caso, a comune denominatore dei vari gruppi, permane in Nino sempre l’interesse per gli argomenti di conversazione che, con i differenti convitati, adatta alle specificità dei partecipanti. 
Le gerarchie fra i narratori nei vari incontri si disciplinano automaticamente, in relazione all’ascendente del conferenziere di turno, ma anche ai contenuti di quanto si viene a dire. 
La partecipazione assicura in ogni caso a Nino momenti di continuo “acculturamento” e “crescita”, che possono anche presentarsi nei bizzarri casi magari improntati in origine al puro cazzeggio. 
In quelle circostanze talvolta, però, riaffiora chiaro in lui il famelico dubbio sull’opportunità concessa a tutti: quello del suffragio universale. Molto spesso, infatti, tocca con mano quanto possa rivelarsi pericolosa la libertà di di voto accordata indistintamente e a prescindere erga omnes. 
Sono quei rari casi in cui traballano i suoi sacri ideali del socialismo e della democrazia ai quali si è sempre ispirato e in cui ancor oggi crede.

© Essec


venerdì 29 maggio 2020

Il sogno di Antonio. Manuale sentimentale di management

https://www.goware-apps.com/il-sogno-di-antonio-manuale-sentimentale-di-management-eliane-corda/

Si tratta di una opera prima edita in questi giorni da GoWare (eBook 4,99 euro, cartaceo 13,99). Per acquistarlo clicca qui.

Descrizione

Negli anni della crisi economica una piccola azienda del nord Italia coglie l’opportunità di allearsi con un gigante mondiale dell’informatica. A guidare la complessa operazione è Antonio, manager ambizioso e visionario, che l’ha ideata. La fiducia e l’appoggio che soci e collaboratori ripongono inizialmente in lui si riveleranno alla fine illusori, facendolo risvegliare amaramente dal suo sogno di cambiamento. La storia si intreccia con la relazione sentimentale, delicata e profonda, del protagonista con Maddalena, i cui contorni fluttuano anch’essi tra il sogno e la realtà. L’autrice, che si immedesima nella vicenda seguendo un’originale modalità di narrazione, mira a mostrare che l’aforisma di Ezra Pound secondo il quale “con una cosa fredda come l’economia non si possono smuovere sentimenti” non è quasi mai vero. Molto spesso il quotidiano lavorativo esprime una costellazione di emozioni individuali talmente ricca da segnare, oltre alla vita dei protagonisti, le sorti delle imprese.

Autore

Eliane Cordà è uno pseudonimo. I racconti non sono mai frutto di un’unica fantasia né di una sola esperienza, ma nascono dall’unione di molte di esse. Il sogno di Antonio. Manuale sentimentale di management, è uno di questi casi. Per chi si cela sotto il nome di Eliane Cordà si tratta di opera prima.

mercoledì 27 maggio 2020

Martedì 26 maggio è stato il turno all'AFA di Enrico Genovesi


Una volta, sul finire degli anni ottanta, ebbi a realizzare una foto nelle campagne dei Nebrodi. In uno scenario avvolto dalla nebbia, una figura rossa indistinta sembrava essere cappuccetto rosso in giro per il bosco. Come spesso accade anche ai fotografi iniziati battezzai quella come una bella foto e, seguendo la goliardia del tempo, la presentai in un concorso, dove mi classificai al primo posto. Della giuria faceva parte anche un amico che, avvicinandomi durante la cerimonia di premiazione, mi fece intendere d’essere stato fautore del successo. Quella foto, in quel momento e il premio mi caddero dal cuore. In un incontro successivo, Melo Minnella, che aveva presieduto quella giuria, ricordandosi di quella foto mi fece i suoi complimenti, aggiungendo in più che m'invidiava quell’immagine che avrebbe tanto desiderato aver fatta lui. Successivamente, quella stessa fotografia mi fu richiesta per il SICOF di Milano, perché selezionata per essere esposta in quell’evento nientedimeno che da Lanfranco Colombo.
Tutto questo racconto serve a dire che millantare meriti o raccomandazioni non è mai una gran cosa, tantomeno un fatto positivo. Ancor peggio cercare di falsare i risultati per magari privilegiare qualcuno che conosci. L’accaduto è stato per me un grande insegnamento. Proprio per questo, se sono stato chiamato a giudicare, non mi attivo mai per conoscere in anteprima gli autori e qualora riconoscessi una fotografia di un amico, nel caso, non fa alcuna differenza.
Quanto fin qui esposto l’ho voluto rispolverare perché a parer mio in qualche modo si accosta a Enrico Genovesi. Ho colto infatti in lui l’onestà intellettuale che accompagna un vero professionista.
Incontrarlo in videoconferenza mi è sembrato quasi come accogliere uno della porta accanto. Pur giovane d'età, il suo bagaglio racchiude un arco di esperienza fotografica che abbraccia per intero il periodo del trapasso tecnologico che negli ultimi anni ha interessato la fotografia.
Nato fotograficamente nell'era dell'analogico, ha saputo mutare velocemente pelle, adattandosi con acume nell'attualità del mondo digitale. Nel fare ciò, ha comunque messo a frutto e mantenuto tutte le esperienze acquisite nell’era passata.
Modestia e umiltà sono state la costante nel lungo incontro che ci ha regalato, svoltosi nell’ambito degli incontri del martedì organizzati dall’Afa. Pur reduce fresco di un evento Fiaf importante, dove è stato uno dei dieci incaricati nelle lettura di più di un centinaio di portfoli, non ha mai lasciato trapelare alcuna enfasi sul ruolo assunto nel panorama fotografico nazionale.
Nell’incontro ha voluto anzi raccontare, con esempi tangibili, i lavori che hanno costituito il suo percorso formativo, senza mai omettere alcun dettaglio tecnico, ogni possibile autocritica o informazione di sorta riguardo alla galleria d’immagini proposte.
Una sintesi dei tanti progetti sviluppati ha accompagnato il suo brillante racconto, senza mai tralasciare i risvolti umani e intimi che hanno caratterizzato alcuni aspetti dei suoi lavori, le sensazioni provate e le specifiche regole d'ingaggio, laddove erano anche coinvolti personaggi.
Una linea ha sempre collegato tutte le sue fotografie, la ricerca di umanità nei tanti percorsi battuti per acquisire conoscenze e trarre esperienze da ogni "avventura" fotografica.
Delle serie viste, mai un lavoro ne duplicava un altro, tutt'al più taluni erano solo uniti da un'attività di completamento. 
I temi trattati durante l’incontro sono stati molteplici e in un crescendo, frutto di progettualità ma anche generati, come ha avuto più volte occasione di dire, da occasionali opportunità o incontri non programmati.
Come gli ho pure precisato in diretta, circa l’impressione che ne ho ricevuto come osservatore, l'entusiasmo dei racconti traspariva tutto. In alcuni momenti le sue descrizioni erano come il ripetere il click di uno scatto, come se stesse realizzando di nuovo quella stessa foto in quel momento.
Rammaricato di non disporre di una fede canonica, cattolica o altra poco importa, una religiosità laica accompagnava, come ha lui stesso anche detto, tutti i progetti presentati. Una chiave mistica era presente, infatti, non solo nella pulizia fotografica che contraddistingueva le immagini, ma anche nella pudicità e nell'etica che si leggeva nettamente in ogni singola foto.
Molto spesso fotografie, che costituivano poesie più che racconti, erano i pezzi complessi di puzzle abilmente composti.
Non si notavano nei suoi lavori scatti che erano stati frutto di scoop forzati, perchè l'intento che ha costantemente inteso perseguire è sempre stato un altro. 
Il reportage e i suoi derivati hanno sempre costituito il faro nel suo percorso. A ciò si ricollega anche la ricerca empatica, che normalmente dice di raggiungere interagendo col contesto e che coinvolge nelle sue rappresentazioni.
La raccolta dedicata al carcere maschile della Gorgona e l’analogo progetto sulle carceri femminili, oppure l’operazione che racconta il tragitto e le esperienze della partorienti, sono un'emblematica testimonianza della sua ricca e variegata produzione.
Di moltissimi suoi lavori - e anche questi prima accennati - sono state realizzate delle pubblicazioni che hanno riscosso molto successo, costituendo anche documenti non finalizzati solamente al mondo della fotografia.
Per chiudere, ricollegandomi alla mia ampia premessa anedottica. Sono sempre convinto che scrivere di qualcosa o di qualcuno deve avere un significato propositivo. Deve esserci, per raccontare, un solo intento: quello di trovare argomenti, allo scopo di aggiungere qualcosa che risulti implementativo. Scrivere per raccontare il superfluo, come accade talvolta anche nello scattare fotografie, serve a ben poco. 
Nel caso, per quanto mi riguarda, meglio tacere.

Buona luce a tutti!

© Essec


P.S. L'immagina che segue è l'attuale copertina del sito di Enrico Genovesi e fa parte di un progetto in corso di realizzazione denominato "Nomadelfia". Accedendo al portale (cliccando anche sulla foto) si potranno avere imformazioni complete sull'autore e consultare una ricca raccolta di immagini, di scritti, dei book fotografici e dei suoi progetti.

https://www.enricogenovesi.it/



Lettera aperta indirizzata a destinatari allocati in punti diversi dello stivale



Come spesso capita, mi piace sperimentare e addentrarmi pure in cose che m’intrigano, anche se so bene che sono fuori dalla mia portata. 
Non mi pongo in questi casi tanti scrupoli nel rischiare di apparire non all'altezza, perché l'esperienza che in ogni modo rimane è sempre un valore aggiunto, anche se necessita il pagamento di un prezzo. 
Veniamo al dunque. Decido di partecipare a una lettura di portfolio Fiaf, in un evento nazionale che, causa Covid 19, quest'anno si sarebbe svolto in modo più accessibile, attraverso cioè tavoli di lettura virtuali realizzati con collegamenti on line. 
Non avendo molta dimestichezza con l'argomento e poco avvezzo alla specifica branca fotografica, dovendo scegliere due lettori, opto per soggetti che conosco di persona. 
Tralascio di raccontare l'esperienza diretta, ad ogni modo positiva, perché mi ha comunque permesso di arricchire le mie conoscenze, essendo stata anche occasione per allargare la cerchia dei personaggi che costituiscono pietre miliari nella cultura e nella didattica fotografica dei nostri tempi. 
Durante un colloquio con Pappalardo, gli ho raccontato qualche giorno prima dell'evento ormai prossimo, anche perché in materia Pippo è uno fra i più importanti esperti in ambito nazionale. Conoscendo lui il parterre dei dieci lettori in campo, mi chiese se avessi per caso scelto Bicocchi.
Onestamente sconoscevo la persona, anche se è il responsabile nazionale del Dipartimento Fiaf – Cultura e da lungo tempo. Dissi quindi che avevo optato per altri lettori ma di genere diverso, per avere versioni differenti nelle disamine del progetto fotografico che andavo a  presentare. Nella circostanza Pappalardo mi raccontò pure che Silvano Bicocchi era anche uno di quelli che, con Magni e Torresani, aveva valorizzato la branca del portfolio fotografico in Italia e che, raccogliendone le tracce, erano riusciti a svilupparla insieme creando i presupposti organici per la diffusione in una vera e propria scuola. 
La curiosità in questi casi è sempre tanta, quindi feci in modo di conoscere, seppur a distanza il personaggio. Prima però andai a ricercare il soggetto nel web ed ebbi conferma delle informazioni datemi e nell'indagine appresi anche tante altre cose ancora. 
Le letture di portfolio che mi riguardavano si erano svolte il giorno prima, l’indomani, quindi, ebbi modo di scambiare due parole con Bicocchi, ad inizio della sessione domenicale nello specifico.
Chiesi alcune cose per avere delle delucidazioni su certi aspetti e scoprii da subito di aver a che fare con una persona preparata, appassionato della sua materia, dotata pure di una naturale gentilezza e una disponibilità non comune. 
Per farla breve in una semplice considerazione esplicito il pensiero che vorrei in fondo esprimere e al riguardo porto un esempio che penso faccia al caso. 
Nella musica d'autore un esperimento di un connubio felice, che ha prodotto delle perle musicali è stato senza alcun dubbio, l'incontro artistico generato dalla collaborazione fra Ivano Fossati e Fabrizio De Andrè, avvenuto in età matura per entrambi e che ha prodotto i brani raccolti nell’album “Anime salve”. 
Un’operazione avvenuta quando nessuno dei due aveva nulla da togliere all'altro, ma avevano ciascuno - a quel punto della loro vita artistica e a loro modo - solo da donare. Per completarsi a vicenda, per arricchire una composizione e regalare quelle canzoni che poi hanno poi saputo generare e che ancor ora trasudano la creatività geniale di entrambi. 
Tutto questo per dire che, in fotografia, nel panorama italiano, un possibile ritorno alla collaborazione fattiva del duo Bicocchi-Torresani potrebbe costituire un immenso regalo a tutti gli appassionati del settore e non solo a loro. 
Per fare ciò forse occorrerebbe però che qualcuno che ne ha titolo - e per entrambi - si presti a creare un pretesto, un’occasione.
Magari attraverso un progetto pratico che li intrighi e riaccomuni per riuscire a sviluppare, con un termine matematico di potenza (n), le personalità e le preparazioni non indifferenti insite nei due personaggi. 
L’amico Pappalardo, che in quanto citato in premessa mi ha letto in anteprima, mi evidenzia che l'ambizione “di vedere l’empireo fotoamatoriale italiano attraversato dai percorsi intellettuali degli amici Giancarlo e Silvano credo che sia espressione di un’aspettativa appassionata dove poter, alla luce e alla guida di due grosse personalità, depositare con fiducia il tuo desiderio di intelligere, con maggiore profondità, con l’esperienza fotografica.” Inoltre aggiunge: “quei due maestri sono diventati tali perchè hanno “seminato” ed ora attendono che quei discepoli che, come noi, li citano come esempio di spirito di servizio, cordialità e professionalità, diventino, se è nei loro desideri, a loro volta responsabili consapevoli e perspicaci di una “nouvelle vague” fotoamatoriale (nelle grandi come nelle piccole realtà del nostro paese).” 
Oggi però, con la pretesa di conoscerli un pò entrambi, osservo io che il presupposto minimo per un’operazione del genere c’è già, perchè presente in ognuno di loro e da sempre, in quanto tutti e due dotati di una generosità e una notevole cultura consolidata nel tempo, frutto di vera passione. 
Non credo che ci sia nulla da aggiungere. Ad altri titolati o accreditati e che pure amano la fotografia, spetta l’ulteriore passo, per una prossima possibile mossa che sia alla portata.

Buona luce a tutti!

© Essec


domenica 24 maggio 2020

Semplificare ad esempio con due soli termini: “non funziona”, senza soluzioni d'uscita, non può costituire un valore aggiunto.


Verrebbe da dire che gli esami non finiscono mai, come scrisse in una sua famosa commedia Eduardo De Filippo ed è vero.  Di certo però non voleva riferirsi alla figura fantozziana di chi, quasi a voler godere nel ruolo di succube insicuro, come autolesionista, si sottopone a esami frequenti, per subire l’ebrezza appunto dell’esame. In verità le prove di verifica sono in continuo divenire per tutti e ogni giorno, non ultimo anche per testare il collegamento col mondo. 
Supposti discenti e docenti vivono in un perenne stato di verifica. I primi per controllare oltre alla preparazione se un modo di mettere in pratica ed esporre le proprie tesi, talvolta anche irrituali, possa percorrere un filo logico, anche innovativo, i secondi per cercare di trasmettere dei principi che, in ogni caso, non saranno mai per nessuno dei veri e propri dogmi. 
Anche perché i docenti non devono mai perdere di vista i presupposti principali e che sono insiti in un maestro. Quell'umiltà del sapere sempre ascoltare e, con mente aperta, tutte le teorie proposte, fossero anche sbagliate. L'umiltà del resto deve viaggiare sempre in un binario a doppio senso fra esaminato e esaminante e in tutti i casi che prevedono un leale incontro.
Si nasconde sempre nelle piccole differenze il valore aggiunto che costituisce il risultato utile di ogni confronto. 
Del resto le regole d’ingaggio, in questo gioco tra "allievo" e "professore", sono abbastanza semplici perché, in ogni contraddittorio o esame, l’uno - che definiamo discente - espone una sua versione, l’altro la accetta nell'ascolto e eventualmente la controbatte dopo una verifica, argomentando a sua volta con le sue impressioni.
In un incontro dialettico non ci sono mai, ne devono alla fine uscire dei vincitori e vinti. Nel triste caso sarebbe una reiterazione infinita dell’ormai saturo dramma del personaggio mitico di Villaggio. Inoltre, un rapporto squilibrato di questo tipo avrebbe delle caratteristiche che si accosterebbero solo al patologico. 
In ogni caso discenti e docenti si affollano in un panorama variegato. E si distinguono anche per le diverse personalità, peculiarità, sensibilità e indole caratteriali.
Senza voler esagerare nel voler stressare l'argomento e conscio che il troppo in certi casi stroppia, può capitare che un apparente errore, la distonia, un’eventuale stecca, possa non rappresentare sempre un elemento dislettico, che veramente vada ad inficiare il senso di un discorso. 
Il grammelot di Dario Fo (gioco onomatopeico di un discorso, articolato arbitrariamente, ma che è in grado di trasmettere, con l'apporto di gesti, ritmi e sonorità particolari, un intero discorso compiuto) potrebbe al riguardo rappresentare un buon esempio. Nel caso, infatti, non avrebbe senso giudicare i termini grammaticali di un testo che è inesistente, in un pronunciamento che vuole solo indurre a significati senza l’uso di vere parole.
Per rendere ancora più pratico con un altro esempio il concetto, questa volta anedottico, ricordo che un insegnante a scuola, quando notava che durante la spiegazione la classe era distratta, come fosse un folle e senza alcun preavviso, alzava il tono della voce, con un urlo baritonale come se fossimo al Teatro della Scala. Era un metodo infallibile per richiamare tutti all’attenzione, come fosse uno schiaffo metaforico e univoco che arrivava immediato agli allievi distratti.
Tutti questi panegirici vorrebbero solo dire che le metodologie seriali che sanno di ripetitivo, a lungo andare, possono anche risultare dei rituali insipidi e monotoni. Scritture, musiche, modi di essere sempre ordinati e conformi sono state le routine predilette, ma è pure stato dimostrato che delle violazioni alla regola possono anche coesistere nei passaggi articolati e più complessi. 
Cacofonie che in genere apparentemente stridono, alle volte creano musicalità diverse o un qualche cosa che sa d'innovativo, che magari potrà risultare anche ilare, ma può immettere salubri ricambi nell'aria. 
Tutto in fondo dipende da qual’è l’intento che si vuol raggiungere. Nelle chiese la messa cantata si è accostata sempre a un rituale tipico e pomposo, poi con l’avvento del rock fu tutta un’altra storia.
Veniamo ora alla questione. 
La raccolta di foto indicata in copertina costituisce lo spunto della disquisizione accademica fin qui esposta ed è anche un portfolio recentemente presentato in una lettura in rete. 
Per quanto ovvio, ciò che si vuol dire non intende essere un argomentare inconcludente, mirato a voler esporre teorie inutili, come si fa spesso arzigogolando, nel disperato tentativo di avvitarsi per poter sempre cadere in piedi. A mio modo di vedere, invece, potrebbe anche alimentare possibili dibattiti costruttivi, per discutere sui diversi termini - complessi e spesso aleatori - che rendono particolare e difficile la pratica fotografica in questione (sia per l'aspetto compositivo riguardante il fotografo proponente che per la didattica valutativa del lettore di turno). Il tutto, per quanto ovvio, nell’ambito ampio e sempre personale delle opinioni che caratterizzano ogni lettura di portfolio fotografico che, come noto, rimane sempre differente in funzione delle specificità dei due protagonisti direttamente interessati.
Senza portarla troppo per le lunghe vado alla sostanza e indico ad esempio gli elementi critici rilevati in questo portfolio, per focalizzare aspetti frequenti che potrebbero indurre a meglio disciplinare e indirizzare, uniformandolo il più possibile, l'iter formale delle letture.
Nel quadro riassuntivo delle foto, quindi, la scelta della seconda immagine intendeva costituire volutamente una rottura rispetto al prosieguo di un racconto che si sviluppava in una facile lettura. 
Nell’introduzione del lavoro, con la prima foto, si voleva significare lo stordimento del mattino, frutto della costrizione e di un sonno instabile, mentre con la seconda foto si intendeva rappresentare lo specchio della sola realtà accessibile. Tutte le restanti immagini andavano a documentare, poi, le inibizioni e le panoramiche visive accessibili, uniche e fatte di luoghi tutti privi peraltro di presenze umane. 
Una sintesi di un vivere soli con se stessi e con la compagnia virtuale di una televisione accesa quasi h 24, come l'unica alternativa reale protrattasi per oltre due mesi. 
L'appunto che in verità fu sollevato da entrambi i lettori scelti, riguardo alla seconda foto - che apertamente stonava nel flusso narrativo - avrebbe dovuto innescare la domanda, come in un caso è successo, quella cioè di chiedere semplicemente il perché. 
Al lettore andava poi il compito di ascoltare la risposta fornita, che sarebbe dovuta servire a valutare la tesi addotta per giustificare quel punto d'intoppo o il motivo dell'evidente distonia creata. Verificata, infine, la possibile coerenza col complesso dell'intero progetto, si poteva anche bocciare l’operazione (e del resto ci sarebbe stato anche il rifiuto della giustificazione addotta, perché questo fa parte delle regole del gioco e in ogni caso l'errore/i eventualmente riscontrato/i, restano sempre da segnalare e da correggere nel corso di ogni incontro). 
Nell'utilità del processo di una lettura di portfolio la prassi anzidetta costituisce o dovrebbe essere l'unica strada formalmente percorribile. Sempre nel rispetto dei ruoli e secondo l'intento ludico-culturale che il tutto alimenta.
Semplificare ad esempio con due soli termini: “non funziona”, senza soluzioni d'uscita, non può mai costituire un valore aggiunto in un'operazione del genere. Nel caso si passa avanti, eliminando dalla lettura l'elemento che stona o suggerendo un rivoluzionamento completo dell'intero schema. Ci sta anche che ciascuno, pur prendendo atto delle legittime osservazioni, possa rimanere nelle proprie idee, convinto delle sue opinioni, ma non crollerà mai il mondo, perchè il mondo è bello e rimane tale perché è vario, con annessi e connessi. 
In occasione delle recenti letture di portfolio, Silvano Bicocchi, responsabile del Dipartimento FIAF - Cultura, ha anche attenzionato sul fatto cheleggere il portfolio non è giudicare. Questa è la prima cosa che dico, perché nell’immaginario collettivo soprattutto nel nostro ambiente si teme sempre il giudizio". Inoltre, "noi quando parliamo di lettura parliamo di andare a comprendere qual'è il significato dell’opera che ogni autore ha voluto rappresentare.” Infine, "quando hai realizzato un’opera e che ti è piaciuta, devi porti il problema: è comprensibile, è efficace nella comunicazione, cosa posso fare per renderla più fruibile?”. Tutte queste considerazioni, riassumono in pochi punti quello che è in fondo il nocciolo di tutte le questioni.
Per chiudere, per i curiosi, vengo a spiegare anche ciò che s'intendeva dire con la seconda fotografia, quella che interrompeva il flusso discorsivo, che racchiudeva in sè - nelle intenzioni almeno - il senso di voler figurare il desiderio di fuggire dalla clausura indotta. Il fiore esagerato in primo piano voleva esprimere questo - magari in un modo forse troppo eclatante - il forte desiderio cioè di libertà, che poi non avrebbe trovato possibilità di sfogo. 
Come spesso succede in fotografia e non solo in quest'ambito, l'autore vuole dire un qualcosa con la sua scrittura. Chi osserva, come lettore, non lo vede e va a leggere a modo proprio, con un suo lessico, magari addivenendo a un risultato differente. 
In tutte le letture di portfolio il rapporto è di uno a uno, ma per ogni specifico incontro, perchè diversamente da chi genera un'opera - che rimane sempre lo stesso in ciascun confronto - sono tanti i lettori che si alternano nell'esprimere interpretazioni personali, spesso pure differenti. 
Finisce allora che, anche se la dottrina è unica, le verità narrate dai tanti osservatori saranno pure tante. Il che rievoca l'opera di Pirandello che, in "Così è se vi pare", sostanzialmente ci dice che la realtà viene percepita da ciascuno in modo diverso, generando così un relativismo delle forme, delle convenzioni e dell’esteriorità. Ogni persona ha un proprio modo di vedere la realtà, non esiste un’unica realtà oggettiva, ma tante realtà quante sono le persone che credono di possederla e dunque ognuno ha una propria “verità”. E questo è!
Nel portfolio fotografico la grammatica, la sintassi e quant'altro ancora, sono gli strumenti scelti per la narrazione e in ogni caso riguardano un'altro campo.

Buona luce a tutti!

 © Essec


sabato 23 maggio 2020

Viaggiare nell’onirico per fotografare i sogni


Lorella: “suscitano un grandissimo segno di pace, calma, lentezza …… bellissime”. Patrizia: “Cristian è pieno come un uovo, sensibilità, umanità, sguardo attento, i miei complimenti all'uomo e al fotografo” e anche "c'è un velo di pessimismo come in quasi tutti gli artisti, se non soffrono, non producono”. Daniela: “Una mente sensibile e complessa, ma che produce immagini semplici, capibili ed esteticamente valide! Le foto di Cristian sono introspezioni”. Renzo: “il tuo b/n rende drammaticità all’immagine, ma è anche pura poesia”. Giancarlo: “in questa foto anche le nuvole sembrano onde”. Questi sono solo alcuni dei commenti apparsi in chat durante la serata.

Scrivere fotograficamente di qualcuno che ti è vicino da tempo non è mia abitudine e per tanti motivi. Non ultimo perché, del soggetto a te noto, hai una conoscenza più ampia rispetto a ciò che nell’occasione potrà essere il tema di una presentazione limitata. Circostanza che potrebbe portare a non essere sufficientemente indipendenti e obiettivi in una critica. 
Nel caso di Cristian, voglio però fare un’eccezione e voglio correre i rischi nell'azzardo di ricercare più semplicemente un racconto, anche delle mie impressioni, che mi auguro non deragli troppo rispetto alle intenzioni vere dell’autore e alle sue attese.
Le immagini, oggetto di una sua recente mostra, sono state riproposte ai soci Afa, secondo una sequenza programmata e con commenti illustrativi di supporto, originali e coerenti ai racconti.
I quattro capitoli principali affrontati erano: astratte sensazioni, il paesaggio è uno stato d’animo, la natura evoca sensazioni, osservare l’essenza.
Occorre precisare fin da subito che le foto reggevano da se, in assoluta autonomia, ovvero in una visione priva di didascalie o commenti, isolatamente già riuscivano a trasmettere sensazioni e messaggi.
Probabilmente e quasi certamente, in questo caso, ci sarebbero forse state delle letture differenti e disallineate di parte degli osservatori, ma ciò non avrebbe inficiato in alcun modo i termini sostanziali dei racconti.
Cacciatore ha scelto di introdurre le foto accompagnando la visione con precisazioni e descrizioni atte a manifestare apertamente quelli che volevano essere le sue intenzioni, soffermandosi sulle figure, sulle allegorie, sui suoi minimalismi, sui tagli e sulla scelta della delicata scrittura in bianco e nero.
I toni più decisi nelle fotografie bicromatiche esposte hanno caratterizzato l’inizio e la fine della sua narrazione, nell’intermedio le altre immagini hanno mostrato mondi eterei, ricchi di simbolismi e di intricate soluzioni compositive che tendevano a esaltare i vari concetti, apparentemente accennati ma in verità profondi.
L’appropriato uso delle parole e l’affabulazione complessiva hanno costituito l’amalgama naturale voluto, che ha via via avvolto i singoli scatti, i sogni, le paure, le ossessioni, le nebbie, le metafore, nascoste o evidenti, sempre presentate in modi suggestivi e raffinati, con una pulizia presente in tutte quante le opere.
Un progetto che nel complesso e a mio modo di vedere ha, quindi, fornito non una ma ben due versioni di una stessa mostra. Una prima autonoma, come detto in premessa, che accostava immagini di un variegato portfolio lasciato all'immaginario dell'osservatore, una seconda che andava a completare una narrazione precedentemente scritta, con tessere di un mosaico che venivano posizionate a concretizzare, realizzando visivamente i concetti mano a mano esposti.
L’ottimo lavoro biunivoco ha calamitato l’attenzione di tutti e le ampie argomentazioni di supporto sufficienti, hanno reso pertanto minime le interruzioni o ulteriori domande degli astanti. Il finale è stato come il “the end” di un film gradevole che ti lascia però tanti pensieri dentro, in parte anche inconsci, che lentamente andrai a metabolizzare.
Cristian Cacciatore ha rivelato di saperci fare, sia come fotografo che come intrattenitore. Altre parole sulla bella serata sarebbero alquanto superflue e inopportune. Peccato per chi si è persa l’occasione. Magari potrà recuperare un’altra volta, chissà?
Come mio commento finale, mi piace riportare un brano di una famosa canzone di De Gregori che vuole anche essere un augurio .... “il ragazzo si farà anche se ha le spalle strette, questo altro anno giocherà con la maglia numero sette”.

Buona luce a tutti! 

 © Essec



mercoledì 20 maggio 2020

Se fosse ancora fra noi il mio mitico avrebbe aggiunto ......


In un mio precedente post, parlando del mio vecchio professore di ragioneria, concludevo con una sua citazione che mi riguardava: in una classe di orbi, il ragazzo ci vede con un occhio solo
Come capita in taluni casi, nel mio prosieguo ebbi modo di approdare a una struttura lavorativa che corrispondeva ai miei desiderata, vinsi un concorso in banca senza raccomandazioni.
L'assoluta occasionalità del successo nell'affollato concorso derivò esclusivamente dalla mia propensione per la matematica. Le tante carenze palesate nelle prove pratiche, nell'uso delle macchine, associate a una scarsa preparazione su quelle che sarebbero state le materie d'esame, fecero sì che fossi assegnato al comparto cassa dell'istituto che mi assunse.
Certo rispetto alle aspettative originarie l'allocazione lavorativa costituiva un traguardo occupazionale di buon reddito.
La qualità del lavoro, seppur utile, risultò fin da subito devastante. Un'attività ripetitiva che non richiedeva di particolari applicazioni creative e che scoraggiava improvvisazioni e fantasie risultò frustrante e l'annotazione dei primi ispettori interni: "elemento su cui non può farsi affidamento" costituì un timbro indelebile che rappresentava però lo specchio di una organizzazione che puntava al fidelismo gerarchico, più che ricercare meritocrazia e nuove idee.
Tralascio il lungo escursus ricco e complesso che, in forza a una determinazione e voglia costruttiva, realizzata attraverso studio, sempre rinnovate esperienze d’impieghi settoriali in quell'ambito denominata "Banca delle banche", spesso realizzati con passaggi interni pure sperimentali, fece sì che - alzando sempre più l'asticella, con cambi di ubicazioni, ma senza sconti o regali - approdassi, infine, agli uffici di punta dell'istituto: integrato nel corpo ispettivo della vigilanza centrale.
In quest'ultimo utilizzo apicale, ho avuto modo di vedere e toccare con mano quanto sia alle volte distante la corrispondenza fra teoria disegnata attraverso regole, la verifica cartolare, la realtà applicata e l'azione diretta di vigilanza.
Per il mio vissuto posso altresì affermare, senza alcuna possibile smentita, che le incongruenze e irregolarità hanno riguardato tutti gli ambienti, vigilati e vigilanti in ogni ambito e per quasi ogni questione.
Di regola ce n’è però una e cioè quella che la meritocrazia non costituisce sempre un valore e men che meno un assoluto riferimento. Spesso ignoranze, infatti, presunzioni e servilismi sono utili e a molti.
A coloro che ambiscono a ruoli di vertice senza dover interagire con inciampi, a coloro che non gradiscono ombre, a chi predilige dirigenti che non facciano domande, e se poi uno è per fortuna un po' meno dotato di suo o preposto a essere per la vita servile sempre in un tal contesto ne troverà un vantaggio. Ci sono premi per tutti, purchè se ne restino buoni e disciplinati al loro posto.
Per paradosso, dopo avere operato in tutti gli ambiti nell'Istituto di emissione, oggi mi ritrovo in contenzioso da ben dieci anni con lo stesso, per aver scoperto disapplicazioni della normativa che regola i termini del quantum della mia quota pensionistica.
Ieri ero chiamato a verificare il rispetto delle regole da parte dei componenti del sistema bancario, oggi scopro che lo stesso istituto di controllo per cui ho operato è anche quello che non le rispetta al suo interno con una fare autoreferenziale che risulta pure arrogante.
Il danno procurato, al di la delle cifre, è di per se e per principio inquietante (nel caso potrebbe pure prefigurare una appropriazione indebita e un indebito arricchimento).
In questi giorni, io una ultima ruota di quel carro, mi ritrovo a fare pure delle considerazioni abbastanza elementari su un articolo riguardante il bilancio della banca interna di cui sono socio da oltre quarant'anni e che in qualche modo gravita nel sistema economico di cui si è detto.
Un altro mio scritto di qualche tempo fa era intitolato: "chi controlla il controllore?". Per quanto mi riguarda è proprio questo - e tristemente rilevante - il vero problema di sempre.
Se fosse ancora fra noi il mio mitico Prof. Billeci, alla sua citazione esposta in premessa, avrebbe aggiunto  "il ragazzo è rimasto purtroppo fermo a dei vecchi principi etici e morali, che non sono mai stati nella vita reale - ancor meno oggi - dei veri valori aggiunti o dei fari. Perché siamo umani e nessuno è mai stato e sarà mai perfetto".

 © Essec

P.S. Questo pezzo è stato scritto di getto dopo aver riletto il primo articolo sul mitico Billeci. Ovviamente risente dell'intricato contenzioso che tuttora mi impegna contro la mia vecchia istituzione e l'Inps. Dei due scritti ne è derivata una versione che li accorpa entrambi, ridimensionandoli e revisionandoli, e che può costituire - per tanti che andranno a leggere - anche un'occasione per rivivere proprie esperienze e magari rievocare medesime emozioni.