mercoledì 29 agosto 2018

Cesare Pavese lo scrisse nella metà del novecento.


 

La cultura e la padronanza della tecnica sono importanti, ma la fantasia creativa di più, anche se la “casualità” incide fortemente in moltissimi aspetti dell’esistenza umana.
Ho finito di leggere in questi giorni un libro incentrato sulla matematica, che illustrava le complessità e le diverse sfaccettature che caratterizzano l’intera materia.
Ho registrato una commistione di filosofia, religione, combinazioni ed evoluzioni geometriche che esplicitano in modo chiaro come sia lontanissima dalla nostra portata ogni possibile esito positivo nella spasmodica eterna nostra ricerca di verità.
Molte sono le interdipendenze che ci condizionano e in tutto questo, quindi è assolutamente impensabile di poter razionalizzare materie complesse, che noi ci rendiamo “in qualche modo comprensibili” ricorrendo financo ad approssimazioni forzate, a tante convenzioni e compromessi.
Eppure sappiamo bene che ciascuna scuola di pensiero si fonda e continua sempre a rispondere a dei canoni ben precisi, che corrispondono spesso a tesi precostituite e comunque a una serie di giudizi classificati che, seppur ampliati da aperture culturali, riducono molti aspetti e delimitano le possibili visioni.
Se per esempio pensiamo all’uomo primitivo e lo accostiamo al nostro attuale modo di vivere ci sembra di cavalcare un sogno; ma sono tante le barriere e tabù che ancora persistono, che dividono, che limitano il pensiero umano, che obbligano a visioni parziali, ancorchè sviluppatesi progressivamente nella evoluzione della storia.
Eppure l’intervento occasionale della “casualità” ha sempre aiutato - e costantemente - la nostra dimensione limitata e, con tanti progressivi “eureka”, ci continua a svelare evidenze che il regolare vivere manteneva offuscate nella nebbia.
Di fatto scopriamo sempre cose che in qualche modo esistevano già in natura e che fino a un attimo prima non riuscivamo a percepire nella nostra visione del quotidiano.
Fortunatamente l’intuizione di pochi visionari genialoidi o pazzoidi ha sempre aperto, di tanto in tanto, nuovi percorsi che, accendendo fari, hanno palesato delle nuove scoperte.
In questo la sperimentazione diventa quindi un valore aggiunto e, anche se il più delle volte porta a conclusioni infelici, in taluni casi, rivela cose imprevedibili o solo lontanamente ipotizzate.
In un mondo a palla, si nascondevano fino a ieri interi continenti; nelle foreste stavano a noi nascoste etnie sperdute; nel fondo degli abissi si occultano ancor oggi esseri sconosciuti: questo, mentre nell’universo navighiamo in un mondo che per comodità crediamo possa essere eterno. E qui subentrerebbero anche le concezioni della relatività, del tempo e dello spazio.
Ma se tutto è relativo, la correlazione è anche ciò che condiziona il nostro vivere; e per comodità molti stabiliscono che il tutto è frutto di un miracolo, creato da un Dio; da un’entità utopica divina, furbescamente creata a nostra immagine e dimensione, per gestire con utile compiacimento il potere umanoide e governare furbescamente le sorti dei singoli, soggiogando così interi popoli.
Con queste evidenti premesse quindi, ogni considerazione o critica volta a spiegare con assoluta certezza esternazioni dichiaratamente di parte, acclara l’assoluta parzialità di qualsivoglia opinione e l’inevitabile instabilità o messa in discussione di una qualsiasi certezza.
La presunzione dell’uomo però continua a non avere limiti e le sue partigianerie, affermate come ideologie, velocizzano sempre più delle sfrenate corse che avviano e accomunano verso i percorsi più semplici.
Fortuna per tutti noi è che continuiamo a essere comunque degli esseri limitati e fondamentalmente dei comuni soggetti mortali!
Nella sua famosa poesia Cesare Pavese scrisse, infatti, la più semplice delle certezze del nostro “essere uomini” ovvero che: “verrà la morte ed avrà i tuoi occhi”.  

Essec


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -
questa morte che ti accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.



giovedì 23 agosto 2018

Se fossi il Dittatore di questo Paese...


Se fossi il Dittatore di questo Paese nel caso di fatti come quello del crollo del ponte sul Polcevera imporrei il silenzio per almeno un mese a tutti gli uomini politici, di qualsiasi specie, senatori, deputati, consiglieri regionali e comunali, ministri eccezion fatta per i titolari dei Dicasteri di volta in volta competenti e, se proprio sente il bisogno di dir qualcosa, per il Presidente del Consiglio.
Se fossi il Dittatore di questo Paese imporrei il silenzio per almeno un mese ai commentatori dei giornali, facendogli oltretutto con ciò un favore perché in casi come questi non si possono scrivere, nell’immediato, che ovvietà e banalità, quasi sempre, per non dir sempre, irritanti.
Se fossi il Dittatore di questo Paese impedirei a cardinali, arcivescovi, vescovi, preti, frati, omelie consolatorie del tutto inutili, in cui del resto da necrofori professionali sono specializzati, e in cui non possono mancare frasi retoriche prive di senso come quella pronunciata dal Cardinal Bagnasco: “la città non si piega”. Se Genova si piegherà o meno lo potremo vedere solo in futuro, come dopo il terrificante terremoto di Gemona del 1976 vedemmo che i friulani in un solo anno e mezzo avevano ricostruito tutto, mentre per quello del Belice stiamo pagando ancora le accise.
Se fossi il Dittatore di questo Paese impedirei la diffusione di filmini pornografici fatti con gli smartphone da persone che erano nelle vicinanze. E individuati i responsabili li farei acciuffare da quattro giannizzeri e portare sulle parti del ponte ancora più o meno agibili perché li buttino di sotto. Infliggerei pene anche peggiori, all’altezza del loro sadismo, della loro completa mancanza di rispetto, della loro sconcia idolatria dell’audience, a quei direttori di telegiornali e a quei giornalisti che, come quelli di Sky, si sono impadroniti di uno smartphone, abbandonato da qualcuno che si era reso evidentemente conto dell’oscenità che stava compiendo e cercava di dare in qualche modo una mano, e ne hanno riproposto, a buio, l’audio.
Se fossi il Dittatore di questo Paese vieterei per tre giorni la pubblicità prima e dopo i telegiornali, che riesce a trasformare, per un contrasto insopportabile, in una farsa grottesca una tragedia. Sarebbe la mia forma di ‘lutto nazionale’. Al posto di inutili e altrettanto grotteschi ‘funerali di Stato’ dove si è trovato il modo di dividersi in fazioni politiche, inneggiando al governo che nulla di bene, fino a quel momento, aveva potuto fare e contestando l’attuale opposizione che di nulla poteva essersi resa responsabile per il crollo di un ponte finito di costruire nel 1967. Si eviterebbe così anche di scimmiottare gli americani citando i nomi di battesimo di perfetti sconosciuti cari solo a chi aveva rapporti con loro. Un’ipocrisia nauseante.
Se fossi il Dittatore di questo Paese proibirei il minuto di silenzio prima delle partite di calcio. Perché il pubblico è incapace di mantenere il silenzio: applaude. Cosa applaude? La morte di 43 persone.
Infine se fossi il Dittatore di questo Paese mi vergognerei di esserlo. Non è ammissibile che ogni volta che accade una tragedia come questa noi italiani si dia, immancabilmente, a noi stessi e al mondo che ci guarda uno spettacolo di scompostezza che ci umilia e ci disonora.



martedì 21 agosto 2018

Confini o frontiere: perché innalziamo muri?


Impaurito dalla narrazione ansiogena dalla politica della paura, disorientato dalla velocità della globalizzazione, l’uomo che si è impoverito e si trova ai margini di questo processo reagisce.
In ragione di un meccanismo fisiologico irrazionale, sente il bisogno di ritrovare i propri punti di riferimento identitari e comunitari grazie all’esclusione del diverso e di chi si trova al di sotto della piramide sociale, credendolo “causa dei propri mali”. Per potere escluderlo, ha bisogno di porre un limite fisico e di tenerlo a distanza.
Nella logica della ridefinizione della propria identità vi è quindi un fattore coinvolto in questo processo, oggetto di studio di due discipline apparentemente distanti quali la psicologia e la geografia: lo spazio.
Sotto la spinta della globalizzazione, se si immagina quanto siano collegate le metropoli di oggi, quanto siano avvicinabili due persone da un lato all’altro del mondo, e quanto il tempo, necessario a raggiungere qualsiasi meta, si sia deformato, si può affermare che tutte le distanze si siano relativizzate se non annullate. Alcuni geografi si sono persino interrogati sull’apparente scomparsa della nozione di spazio, provocata dall’avvento della rete telematica come di un “non-luogo”, e quindi sulla “fine della geografia”.
Se a questo si aggiunge il fatto che il liberismo predica la libera circolazione di persone e merci questo effetto viene indubbiamente moltiplicato. Sempre meno padroni dello spazio abbiamo iniziato a preoccuparci di ridefinire quello sotto il nostro dominio, un po’ come accade quando da piccoli cerchiamo di stabilire delle linee immaginarie con i propri fratelli o sorelle o compagni di classe in macchina o nei banchi di scuola, promettendoci di non invaderle, per delimitare quali siano gli spazi di competenza.
Si è così scatenata una facile rivolta sovranista a tutti i livelli spaziali: nazionale e continentale con la chiusura delle frontiere e dei porti, ma anche personale con la volontà d’estensione della legittima difesa nella propria casa; un sovranismo persino digitale, che permette ad ognuno di essere padrone di un proprio spazio virtuale in cui realizzare i propri “bisogni sociali”, e nel quale si accenna uno sforzo di autodeterminazione della propria libertà attraverso il consenso prestato a termini della privacy, cookies e similari.
Per capire come questa rivolta si concretizzi nell’innalzamento di muri occorre ripercorrere in modo sintetico l’uso delle parole confine e frontiera.
“Finis” e “limes” sono i due termini latini che restituiscono una differenza: nel primo caso si tratta di una linea, il solco definito dal rex di epoca monarchica romana, in quanto autorità religiosa e morale; nel limes invece vi è l’idea di zona di contatto tra il mondo civilizzato e il mondo barbaro.
Col passare del tempo, in epoca moderna, confine e frontiera hanno finito per coincidere in lingua italiana perché, con l’affermazione degli Stati-Nazione, le divisioni territoriali si fondavano sulla definizione di con-fini, in cui si riconosceva l’”altro” insieme alle sue pretese territoriali.
Il termine frontiera è sopravvissuto nella sua veste americana o inglese nelle conquiste del west o nell’espansionismo mondiale inglese.
Contrariamente ai confini, il limes romano e le frontiere americane definiscono un’ interfaccia in cui si tendono a gestire dei flussi. La gestione dei flussi prevede che alcuni passino, ed altri no, sulla base di criteri sempre discriminanti. Quali siano le caratteristiche umane o economiche che definiscano il diritto di entrare o meno, è oggetto di dibattito politico, ma la volontà di chiudere le frontiere sembra una reazione non ponderata di “chiusura a riccio” di chi vuole difendersi da qualcosa. Il ritorno all’idea di frontiera come limite, come barriera, dopo anni di abbattimento di frontiere e muri per facilitare la circolazione delle merci e l’imperialismo commerciale delle multinazionali, rappresenta un ritorno all’idea che lo Stato possa ancora avere un ruolo.
Eppure prima si costruivano muri di con-fine nel quale si riconosceva il limite tra se stessi, la propria nazione e quella vicina, implicitamente riconoscendo quindi l’Altro, seppur in concorrenza o in conflitto con la propria nazione.
Prima si costruivano frontiere che servivano a conquistare, come la Frontiera del West o il Limes romano che rappresentavano, agli occhi dei conquistatori che così giustificavano l’espansione, l’avanzare della civiltà in un mondo “arretrato”, “incivile”.
Oggi le frontiere ed in particolare i suoi muri fisici, le sue barriere, assumono un ruolo completamente diverso alle funzioni precedentemente svolte.
Prima rappresentavano l’affermazione di un potere, quello dello Stato, ora la sua crisi.
Come afferma Dario Gentili (1), “la loro costruzione svolge una funzione diametralmente opposta rispetto al passato. Nel violare il sacro recinto murario tracciato da Romolo, trovò la morte il fratello gemello Remo, avversario di Romolo nella disputa per diventare il re di Roma: le mura di confine e la loro violazione comportano simbolicamente – in quanto reductio ad Unum dell’ambivalenza mitica della gemellarità – l’istituzione della regalità, che, ricorda Cicerone nel De re publica, può essere uno soltanto a impersonare. Il rito della fondazione intendeva affermare prima di tutto, prima della stessa costruzione della città, il fondamento sacro del potere. […]
Anche oggi, la costruzione di muri sembra essere dettata, più che dall’efficacia, dall’esigenza di affermazione simbolica del potere, di rinvigorirne la sacralità perduta. Eppure, ciò che si rappresenta è soltanto la crisi e la fragilità – se non proprio il fallimento – della sovranità dello Stato-nazione […]
I muri oggi non vengono eretti per definire confini bensì frontiere; ma non si tratta della tipologia della frontiera mobile americana – e di ogni colonialismo in generale. Questi muri di frontiera sono immobili. Pur non riconoscendo alcun ordine politico al di fuori, non sono frontiere di conquista, bensì di difesa; a differenza del con-fine, non definiscono entrambe le parti, ma soltanto la rettitudine di una parte, quella interna: sono i baluardi di difesa contro gli attacchi alla democrazia, all’ordine interno, (o ad una presunta identità), così se ne giustifica sovente la costruzione.”
Su altra scala, un’esempio è dato dai muri che dividono le bidonville dalle guard gated communities (o in america latina, condomìnio fechado), ovvero quartieri ricchi blindati da mura e sistema di sicurezza, essi ghettizzano i benestanti che non solo non vogliono mischiarsi con la gente comune, ma esigono un sistema di sicurezza privato che non condividono con il resto della popolazione.
La creazione di barriere, filo spinato, frontiere è dovuta alla necessità di definire lo spazio che si sente proprio e quindi una promanazione di sé stesso e alla necessità di dominarlo dato che tendenzialmente scompare sotto la spinta della globalizzazione. Dietro ogni muro c’è un processo politico di esclusione e inclusione di gruppi sociali, di perdenti e vincenti e quindi di ingiustizie.
Creare delle barriere, crea spesso delle ingiustizie e quindi conflitti.
Illudersi che queste possano fermare la mondializzazione è utopia pura e non offre niente più che la manifestazione clinica di un sintomo che serve solo a provocare divisione ed odio: il terrore di riconoscere nell’Altro, la proiezione del nostro futuro e l’ineludibile necessità di accettarlo, insieme alle nostre responsabilità.

(1) http://www.master-territorio-environment.it/wp-content/uploads/2015/12/Dario-Gentili-Confini-frontiere-muri.pdf

 Tobia Savoca (Pressenza - 21 agosto 2018)


lunedì 20 agosto 2018

Santo Stefano di Camastra ……. in FOTO.


Si parte di buon mattino per approntare l’ennesima mostra autofinanziata da entusiasti fotoamatori che approfittano di ogni opportunità  per proporre i frutti della loro passione.
La destinazione questa volta è l’affascinante Palazzo Trabia di Santo Stefano di Camastra (Messina), sede di un bellissimo museo della ceramica che costituisce il fiore all’occhiello della comunità locale. Le foto pannellate sono pronte per essere esposte e il folto gruppo di autori si muove alacremente per l’allocazione delle immagini.
Fra i partecipanti all’evento spiccano le foto di Melo Minnella e di Nino Giaramidaro. Noi altri siamo pronti in attesa che l’amico Filippo ci renda accessibili i luoghi dell’esposizione.
Si procede velocemente e senza intoppi, seguendo logiche che non creiino differenze di visibilità a nessuno.
Durante le operazioni si presenta però l’imprevisto: uno di noi accusa l’infittirsi di dolori non meglio precisati all’addome, ma i lavori devono procedere. La presenza casuale di un medico amico convince il sofferente a recarsi precauzionalmente alla locale guardia medica per escludere complicanze.
Gli accertamenti al malcapitato, che continua ad accusare il malessere, avanzano però sospetti di vario genere che consigliano il pronto soccorso più vicino: si va a Cefalù.
Una prima verifica classifica il problema in codice verde. Il foglio con il numero 49 ci colloca al quinto posto (quattro codici verdi prima di noi), ma si tratta di graduatorie fluttuanti che possono farci scendere in ragione di nuovi arrivi.
Un TSO subentrato con il numero 51 viene infatti codificato con il rosso; il che ci fa regredire al sesto posto. Ma si tratta di un ricovero, quindi possiamo riguadagnare la posizione. Ecco però un codice giallo e passano due ore prima di essere chiamati. Siamo seduti un po’ afflosciati su una panca di materiale plastico.
Dopo avere a lungo primeggiato in classifica, con il timore di un improvviso codice rosso o giallo, l’accesso alla sala visite viene concesso al solo paziente. Non mi rimane quindi che armarmi di santa pazienza ed attendere fuori.
Intanto la dottoressa procede coscenziosamente ai vari controlli che implicano però del tempo. Elettrocardiogramma, esami di sangue vari, ecografia, radiografia.
Dalle 13,30 alle ore 19,15  passo da una panchina all’altra e quando cominciano ad arrivare le visite dei  familiari dei pazienti dell’annesso ospedale gli spazi si popolano.
E’ un calvario di patologie e di ammalati con annesse problematiche. Leggo dolore e preoccupazione, sui volti.
Mi sposto per questione di privacy su un’altra panchina più appartata, dove mi raggiunge la voce di un barelliere d’ambulanza “in standby” che al telefonino si intrattiene con un amico. Lo sento disquisire di problemi di coppia, leggerezze sentimentali di amici comuni o dell’interlocutore medesimo? Lui parla a voce alta nel giardinetto antistante l’ospedale e non posso fare a meno di sentire: “cumpà, ti parru come un frati”. Capisco tutto. Consigli d’amore di un barelliere in servizio. Un bel titolo per un libro di quelli oggi di moda. Penso.
Provo a cambiare panchina rifugiandomi su quella che fronteggia una statua di Padre Pio a grandezza naturale, ma anche qui non c’è scampo, perchè ben presto arriva un devoto con la famiglia, figliole e generi annessi. Foto di rito con telefonino ed invii incrociati in Whatsapp. Quindi apposizione di corona di legno fatta benedire qualche giorno addietro, ma che si è rotta. Espressioni di dispiacere, ma alla fine si stabilisce che può essere donata lo stesso al Beato. Anzi è un oggetto simbolico, quasi ideale. Una frattura da ricomporre,  dice uno di loro.
Nugoli di zanzare al tramonto ci assalgono e spingono tutti ad abbandonare il luogo: neanche il Santo può arrestarle.
Ritorno di nuovo ad aspettare nella sala d’attesa che rimane il posto più protetto. In tutto questo faccio da collegamento per rassicurare i tanti che telefonano per chiedere notizie.
Finalmente il paziente viene dimesso. Nulla di serio. Anzi proprio nulla. Sospiri di sollievo.
Possiamo raggiungere gli altri che ci attendono per l’inaugurazione della mostra.
“Pani cunzatu” e un buon vino aiutano ad allietare la giornata che alla fine si rivela positiva.
Le foto sono state esposte con sapienza, i contenuti ben rappresentano le peculiarità del luogo. I colori del tramonto e delle prime luci della sera rafforzano il  fascino della dimora che ci ospita.
Tutto è bene quel che finisce bene e non è neanche piovuto! Ad un tratto mi accorgo che in tutto il giorno non ho fatto nemmeno una foto. Eppure di immagini davanti a me ne ho avute, e tante, mi ritrovo a pensare.
Buona luce a tutti!

© Essec


sabato 18 agosto 2018

La tragedia di Genova

Le immagini di Genova hanno fatto il giro del mondo.
Un evento drammatico inimmaginabile nella storia contemporanea reso ancora più doloroso dalla visione in tempo reale della morte.
Si e’ inaspettamente, anche se non inesplicabilmente, aperto sul viadotto Morandi un baratro lungo 200 metri e profondo 50, che ha inghiottito tutto quello che transitava sulla superficie.
Il peggiore degli incubi è diventato realtà in una delle più importanti città europee, snodo essenziale di traffici terrestri, marittimi e aerei, reticolo fragile, complesso, strategico per l’intera penisola. Ne subiremo per molto tempo le ripercussioni sull’intera rete nazionale dei trasporti e nei rapporti con i paesi confinanti.
Si impone qualche considerazione su come media e social hanno rilanciato le tante dichiarazioni degli uomini politici, per lo più rappresentanti dell’attuale governo.
Sarà, è vero, un governo di nuovi personaggi, ma è andato in scena il solito balletto delle responsabilità con Autostrade spa che ci ha fatto sin da subito sapere che e’ stato un evento inaspettato, cui si sono contrapposte le voci circa la revoca della concessione pubblica, come se fosse un rapporto giuridico che si smonta in un batti baleno.
Eppure è un evento che lascia attoniti e dovrebbe far riflettere sul punto di non ritorno in cui si trova oggi il nostro Paese. Oggi con Genova finisce un pezzo importante della storia delle infrastrutture del nostro paese e nasce la fase dei sospetti sullo stato di vetusta’ di tanti ponti, strade e viadotti risalenti agli anni 60 o su opere dalla durata infinita come il MOSE a Venezia.
Ed e’ anche un colpo durissimo all’immagine nel mondo delle nostre principali societa’ di opere pubbliche, che sono pure un vanto assoluto della nostra ingegneria.
Sono state fatte in passato scelte discutibili come l’assegnazione di importanti società infrastrutturali ad Atlantia della famiglia Benetton senza chiedersi quali potevano essere le sinergie tra le abilità industriali di chi fa bene i maglioni e quelle di chi deve saper gestire uno dei più importanti asset nazionali.
Senza fare paragoni sconvenienti, stante il bilancio enorme di vite umane distrutte, viene da pensare a un moderno Ponte di San Luigi Rey di Thornton Wilder, anche se il destino e la provvidenza c’entrano ben poco con i nostri deficit. Anche nell’industria bancaria ci siamo chiesti se chi con successo produceva vino poteva essere altrettanto bravo a governare una banca. E le conseguenze economiche si sono viste. Ma qui c’è la morte a fare la differenza!
Ricordiamo che anni fa in un convegno a Venezia con accademici, autorita’ ecc. ponemmo la domanda sul perche’ i capitani di industria veneti facevano la corsa per entrare nel capitale e nella gestione di banche, assicurazioni, infrastrutture. Non solo non avemmo risposta, ma non fummo piu’ invitati ad eventi del genere.

Fonte BBC

Il grafico qui riportato è ripreso da un servizio della BBC di fonte OCSE e pone in evidenza come l’Italia, che investiva annualmente tanto quanto la Francia, con una rete di strade assai più lunga della nostra, ha ridotto di tre volte le spese (da 14 miliardi a poco più di quattro) rimanendo su quel livello in tutti gli anni successivi a quelli della drastica caduta degli investimenti (2007/2009).
Le differenze createsi con altri paesi non richiedono alcun commento esplicativo.
Forse è tempo che chi ci governa ci dia delle risposte su perchè questo sia accaduto e come intenda realisticamente invertire un trend che dura da anni. Intendiamo dire con quale strategia complessiva esso abbia intenzione di porre il problema della manutenzione, insieme alla più ampia questione della logistica, cioè dell’integrazione tra trasporto su rotaie, su strada, via aeroporti e porti.
Altrimenti, come sempre e salvo i meriti assoluti e commoventi della macchina dei soccorsi, saranno solo parole, parole e ancora parole. E anche noi cittadini dovremmo rifiutare slogan ed annunci amplificati dai social e imparare a porre domande e pretendere risposte. Questo è il nostro compito in democrazia.
Altrimenti saremo soltanto destinati a commemorare gli esiti di morti annunciate!
Nel giorno del dolore e del lutto vorremmo ricordare Genova con le immagini straordinarie e struggenti di Genova per noi di Paolo Conte. 
Con quella faccia un po’così Quell’espressione un po’così Che abbiamo noi prima d’andare a Genova.
E ogni volta ci chiediamo Se quel posto dove andiamo Non c’inghiotte, e non torniamo più.

Economia & Finanza Verde 

lunedì 6 agosto 2018

“Resignifications”



L’immagine proposta, realizzata durante la visita della mostra “Resignifications”, curata da Awam Amkpa, mi porta alla rilettura di una vecchia riflessione.
Quante vite in noi, con noi, quante storie vissute nel tempo. Chiudere gli occhi e solo immaginare i tanti esseri che ci hanno preceduto, che ci accompagnano verso un eterno orizzonte che comunque permane lontano. E vedi una folla che non ha confini e tanti anelli di catene umane che continuano a rendere immortali fugaci tracce.”
Se ci riflettiamo un attimo, un mare fatto di bottiglie vuote su cui poggia una barca può ben costituire una metafora dell’esistenza dell’Uomo. Quanti romanzi narrano di naufraghi in un’isola deserta che consegnano il loro messaggio all’oceano in una bottiglia, confidando in un futuro lettore.
Immaginando l’uomo come un essere che spesso naviga in solitario, le tante bottiglie su cui galleggia la sua barca (il suo modo di essere, il suo pensiero) sono la visualizzazione della sua avventura.
Le tante bottiglie vuote che sorreggono ogni barca testimoniano, fortunatamente, come tanti messaggi abbiano trovato approdo e siano stati letti.
La base di vetro però è anche la fragile consistenza delle culture su cui centriamo la nostra navigazione, che, se anche crediamo sedimentate e solide, rimangono permeabili e frangibili davanti a impreviste intemperie.
Buona luce a tutti!

 © Essec

domenica 5 agosto 2018

Bruce Springsteen – Tunnel of love

https://youtu.be/M4K7XZGeHTE


I can feel the soft silk of your blouse
and them soft thrills in our little fun house
then the lights go out and it’s just the three of us
you me and all that stuff we’re so scared of
gotta ride down baby into this tunnel of love
There’s a crazy mirror showing us both in 5-D
I’m laughing at you you’re laughing at me
there’s a room of shadows that gets so dark brother
it’s easy for two people to lose each other in this tunnel of love
It ought to be easy ought to be simple enough
man meets woman and they fall in love
but the house is haunted and the ride gets rough
and you’ve got to learn to live with what you can’t rise
above if you want to ride on
down in through this tunnel of love”.

Traduzione.
“L’uomo grasso seduto su un piccolo sgabello
prende i soldi dalla mia mano
mentre i suoi occhi ti squadrano da capo a piedi
mi porge due biglietti sorride e sussurra “buona fortuna”
tieniti forte angelo mio stringiti a me passerotto
ci faremo un giro in questo tunnel dell’amore, piccola
Posso sentire la soffice seta della tua camicetta
e i dolci brividi nella nostra piccola casa stregata
poi le luci si spengono e restiamo solamente in tre
tu, io e tutte le cose di cui abbiamo paura
dobbiamo farci un giro piccola in questo tunnel dell’amore
C’è uno specchio magico che ci riflette
entrambi in cinque dimensioni
io rido di te e tu di me
c’è una stanza degli spiriti che si fa così scura, ragazzi
è facile per due persone perdersi a vicenda
in questo tunnel dell’amore
Dovrebbe essere naturale
dovrebbe essere abbastanza semplice
un uomo incontra una donna e si innamorano
ma la casa è infestata dai fantasmi
e il percorso diventa difficile
e tu devi imparare a convivere con quello
che non puoi sollevare sopra di te
se vuoi percorrere la strada
che attraversa questo tunnel dell’amore”.

Bruce Springsteen, Tunnel of love (1987)





 

"Lasciate ogni speranza o voi ch'entrate".



Continuare a vedere in TV o fra gli scranni, parlamentari che recitano a soggetto ……. fantasiose tragedie greche o rinascimentali ....... ed ascoltare occupanti abusivi del panorama politico di sinistra che risultano poco credibili e …… che continuano ad indossare coerentemente la loro maschera un po’ clownesca ..... usando slogan desueti che, in qualche modo riflettono narcisisticamente il loro volto e il reale modo di essere ……. appare oggi abbastanza deprimente! 
In qualche modo è il segno della decadenza del nostro tempo!

Allora permane attuale il dubbio amletico di sempre: “è meglio interloquire con un monolitico ruspante di destra o con un militante maldestramente clonato di sinistra?” …….. Shakespeare ebbe a scrivere felicemente: “To be or not to be. This is the question”.
In verità Dante Alighieri fu abbastanza chiaro quando, all'inizio della discesa, riportò quanto era scritto sulla porta degli Inferi "lasciate ogni speranza o voi ch'entrate". 

 © Essec

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Rai: 'mission impossible' anche per i 5stelle



Anche se ci mettessero tutto il loro migliore impegno e la più buona e onesta volontà, il tentativo dei 5stelle di riformare la Rai in senso meritocratico e non partitocratico è una ‘mission impossible’. Parlo dei 5stelle perché sono nuovi, tutti gli altri hanno alle spalle una lunghissima pratica spartitoria e la Rai è una stratificazione geologica, a tutti i livelli, di berlusconiani, di leghisti, di dem, di renziani e, prima di loro, di democristiani, di socialisti, di comunisti o pdessini che dir si voglia. Il presidente della Rai è nominato dal Consiglio di amministrazione che è frutto di un accordo tra i partiti, come vediamo bene in questi giorni e abbiamo visto sempre da quando siamo entrati nell’età della ragione. E anche la nomina dell’Amministratore delegato, che formalmente spetterebbe al ministro dell’Economia, è frutto di un accordo fra i partiti sia attraverso i membri che siedono nel Consiglio di amministrazione sia fuori da quelle stanze. La Commissione di Vigilanza è formata da esponenti di partito che quindi dovrebbero vigilare su se stessi. Quis custodiet custodes? Se per caso capita in Rai un corpo estraneo, non legato a nessuno se non alla propria capacità e professionalità, ne viene estromesso al più presto com’è stato il caso di Carlo Verdelli. Sfido chiunque a trovare in Rai un direttore di rete o di testata ma anche un redattore semplice e persino un bidello che non sia in qualche modo legato a un partito. Del resto anche decidere del merito è difficilissimo. Ci sono in Rai ottimi giornalisti che non smettono di esser tali perché sono legati a questo o a quel partito, a questa o a quell’area politica. Cosa facciamo, eliminiamo anche costoro? Eppoi qual è il criterio decisionale? L’audience? Ci sono programmi di qualità che, spesso proprio per questo, hanno una bassa audience. Eliminiamo anche questi?
In realtà una soluzione ci sarebbe. Mantenere una sola rete pubblica sotto il controllo del governo –perché anche il governo, che ci rappresenta tutti, ha il diritto e il dovere di fare ‘lato sensu’ una sua politica soprattutto culturale- com’è il caso della Bbc inglese che pur è considerata una delle migliori, se non la migliore, del mondo. Le altre due Reti dovrebbero essere messe sul mercato e vendute a soggetti diversi. Ma questo comporterebbe che anche Mediaset vendesse due delle sue tre Reti. È quello che un tempo si chiamava “disarmo bilaterale”. Ma anche questo è pura utopia.
In realtà la Rai è solo l’emblema, il più evidente e conosciuto perché la vediamo tutti da quando siamo nati, della situazione di un Paese divorato dalla partitocrazia, cioè dall’occupazione ad opera dei partiti di tutto il settore pubblico e spesso anche di parti di quello privato. Di questa stortura, diciamo pure di questo cancro, ci si era accorti, anche ad alto livello, già più di mezzo secolo fa. Nel 1960 il Presidente del Senato Cesare Merzagora, eletto come indipendente, fece un vibrante discorso, proprio in quella Camera, cioè nella sede più autorevole (Twitter non esisteva ancora e dubito che se mai fosse esistito uomini come Merzagora o Fanfani o Nenni o Saragat o Togliatti o Almirante lo avrebbero usato) contro il dilagare dei partiti che previsti in un solo articolo della nostra Costituzione (art. 49: tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale) tendevano a mettere le mani anche sugli altri 138. Sempre nello stesso anno un grande giurista, Amedeo Giannini, che proprio di questioni costituzionali si era occupato e si occupava, diede lo stesso allarme. Associarsi a un partito è una libertà non un obbligo. Ma fu tutto inutile. I politici fecero orecchie da mercante. E così, passo dopo passo, siamo arrivati alla situazione attuale.
Per scardinare un simile sistema, questa mafia che non osa dirsi tale ma che tutti noi, qualsiasi sia il posto che occupiamo nella società, conosciamo sin troppo bene, ci vorrebbe un’autentica rivoluzione. Non credo proprio che il buon Di Maio, ma neanche il più focoso Alessandro Di Battista, che peraltro se ne è andato prudentemente in Sud America, possano riuscire in questa impresa ciclopica.

Massimo Fini (Il Fatto Quotiìdiano, 4 agosto 2018)

sabato 4 agosto 2018

Bollette, la fine della «tutela» slitta al 2020. Ecco come scegliere il gestore senza trappole.



La fine del regime di maggior tutela dei mercati energetici, condizione nella quale si trova ancora la maggioranza delle famiglie italiane che non hanno scelto piani tariffari sul mercato libero, slitta di un anno, da luglio 2019 al luglio 2020. La commissione Affari istituzionali del Senato ha approvato un emendamento del M5s al decreto Milleproroghe. L’intero provvedimento andrà in Aula e l’approvazione è prevista per lunedì, poi il testo passerà alla Camera. L’iter però è segnato e il più occasioni il governo giallo-verde aveva espresso dubbi sulla fine del regime di maggior tutela. Questo cosa vuol dire per i consumatori? Che c’è più tempo per scegliere. Alzi la mano chi non ha mai ricevuto una telefonata da un call center che a nome di un operatore elettrico o del gas vi ha fatto un’offerta per il passaggio al mercato libero o al nuovo fornitore nel caso aveste già detto addio al mercato di maggior tutela. Di recente sono diventati più aggressivi e talvolta un po’ sommari nelle informazioni per convincervi. Ecco alcune frasi che si sentono ripetere ma che sono imprecise. «Tra pochissimi mesi finisce il mercato tutelato e non può più perdere tempo»: in realtà si tratta di due anni, il termine ora è luglio 2020. Poi: «Se non decide lei il nuovo operatore le verrà imposto». In realtà non è stato ancora definito il destino dei 17,3 milioni di famiglie (il 59%) ancora nel mercato tutelato né il meccanismo che sarà applicato. O ancora: «Abbiamo saputo dall’Autorità dell’energia elettrica che lei ha alti consumi». L’Autorità per l’energia elettrica e il gas non fornisce questo tipo di informazioni. Dunque, come orientarsi? Ecco quali sono le cose da sapere prima di decidere.
La spesa per la fornitura elettrica e del gas di un utente in maggiore tutela riunisce diverse voci, di cui alcune sono fisse e dunque non soggette a eventuali sconti. Partiamo dal prezzo finale della luce: il 20,38% è rappresentato da trasporto e gestione contatore, il 22,44% da oneri di sistema (tra cui incentivi alle rinnovabili e dismissione del nucleare), 13,34% imposte. La materia energia, su cui il gestore vi può applicare uno sconto, è solo il 43,84% dell’intera spesa. Per il gas questa percentuale scende al 39,33% mentre le imposte salgono al 39,12%, gli oneri sono pari al 3,41%, trasporto e contatore il 18,14%. Dunque, se vi promettono uno sconto ad esempio del 10%, questo non è sull’intera bolletta ma solo sulla materia energia e dunque l’impatto dipende da quanto consumate. Il prezzo della maggior tutela viene stabilito ogni tre mesi dall’Authority sulla base delle quotazioni sul mercato internazionale.
Entro fine anno andrà a regime il portale web su cui dovranno essere pubblicate tutte le offerte di elettricità e gas, e che consentirà alle famiglie e alle piccole imprese di compararle. Dal primo luglio è online il portale www.prezzoenergia.it — realizzato e gestito da Acquirente unico, sulla base delle disposizioni dell’Autorità dell’energia — con le proposte Placet, le offerte introdotte dall’Authority, che tutti gli operatori dovranno poter proporre, con condizioni contrattuali prefissate e omogenee per tutti ma ai prezzi stabiliti dal venditore (sono esclusi per ora da queste offerte servizi aggiuntivi, bonus, abbinamenti con altre vendite). Nella seconda fase saranno inserite le offerte già presenti nel TrovaOfferte, il vecchio strumento di confronto online dell’Autorità. Dal primo dicembre il portale raccoglierà tutte le offerte di luce e gas rivolte a ogni tipologia di cliente (energia ma anche servizi) presenti sul mercato, pubblicizzate con una copertura territoriale pari almeno alla regione. Per scegliere è sempre necessario sapere quanto si consuma, in che fasce orarie e in che giorni della settimana. Informazioni che si trovano in bolletta.
La liberalizzazione del mercato dell’energia è cominciata 10 anni fa: dal primo luglio 2007 tutti i consumatori, famiglie e imprese, hanno potuto scegliere se restare nella Maggior tutela (prezzo stabilito ogni tre mesi dall’Authority) o passare al mercato libero. Una migrazione lenta ma costante. Nel 2012 le famiglie che avevano abbracciato la concorrenza erano il 21%, cinque anni dopo sono raddoppiate passando al 41% (pari a 11,8 milioni di utenze domestiche). È cresciuto anche il numero degli operatori: sono 542 le imprese che nel 2016 hanno dichiarato di svolgere l’attività di vendita nel mercato libero (48 inattive). Attualmente la quota di mercato domestico è per l’86,6% coperta dai primi cinque operatori: Enel (35,3%), Edison (4,7%), Eni (4,3%), A2A e Iren. Quanto ai clienti non domestici alimentati in bassa tensione, Enel è al primo posto con il 40,4% mentre il secondo operatore è Hera con il 3,9%.

Francesca Basso (Corriere della Sera)

venerdì 3 agosto 2018

Io e i paleo-contestatori arenati ai Bagni Umberto


Nell'estate del Sessantotto me ne stavo beatamente ai Bagni Umberto di Savona, bagni familiari, tipo anni Cinquanta, con una rotonda che avrebbe fatto gola ai VanzIna se fossero già stati all'onor del mondo, dove il Sessantotto non era ancora arrivato e, per la verità, non sarebbe arrivato mai, tant'è che se ci andate oggi li ritrovate tali e quali, con le signore che giocano a Burraco invece che a Ramino o a Scala Quaranta.
Ero lì per filare le ragazze e la rotonda serviva proprio a questo. Non che ai Bagni Umberto non fosse arrivato il rock, i Beatles e persino i Rolling Stones, ma noi preferivamo il lento, il 'ballo del mattone' come cantava Rita Pavone. Fra noi ragazzi esistevano dei codici precisi anche se inespressi. Se una ti metteva il gomito sul petto voleva dire che era meglio lasciar perdere. Se ti metteva la mano sulla spalla era un segnale neutro. Se ti metteva il braccio al collo voleva dire che potevi andare avanti. Ma non significava ancora nulla, perché agli albori del Sessantotto la libertà sessuale, non solo ai Bagni Umberto, era ancora di là da venire.
Del resto che altro fare nell'estate del Sessantotto a Savona, una delle città più torpide d'Italia anche se proprio per questo, per contraccolpo, ha espresso alcuni genietti della Televisione, Fabio Fazio, Antonio Ricci, Carlo Freccero, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti.
Nel '68 avevo 24 anni. I 'sessantottini', in genere, dai diciotto ai venti, pochissimi anni di distanza ma che facevano la differenza. Io appartenevo, culturalmente, alla generazione esistenzialista, dei Sartre, dei Camus, di Merleau-Ponty, di Juliette Greco, delle caves e anche, se si vuole, a quel suo derivato che era stato il movimento hippy. Ero troppo adulto, anche se non smaliziato, per lasciarmi andare a facili entusiasmi. Inoltre mi ero laureato tre giorni prima che la contestazione esplodesse in Statale. Una fortuna. Per due motivi. Perché mi evitò di protrarre per mesi la mia tesi e, col 'trenta' gratuito che sarebbe venuto dopo e che avrebbe rovinato parecchi miei coetanei costretti a ciondolare per anni in cerca di un lavoro quale che fosse, dava alla mia laurea ancora un valore. Comunque partecipai diligentemente alle due prime occupazioni della Statale quando vi arrivarono Mario Capanna, Luciano Pero e Michelangelo Spada che erano stati espulsi dalla Cattolica. Ma me ne andai quasi subito quando vidi che il conformismo aveva solo cambiato di segno. Sia in senso letteralmente semantico (mentre prima in università bisognava andarci in giacca e cravatta, adesso la divisa obbligatoria era l'eskimo) sia in modo più profondo perché si era presa l'abitudine di sprangare in trenta contro uno chi non era 'in linea'. Insomma il linciaggio da squadracce fasciste sotto il manto della democrazia progressista. E il linciaggio è la cosa che più mi fa torcere le budella: ho sempre pensato che chi lincia si mette sullo stesso piano, se non peggio, di colui che lo subisce qualsiasi cosa costui abbia commesso.
Ma torniamo alla mitica estate del Sessantotto che io mi spassavo in vacanza, al mare. Per la verità non ero il solo perché tutti o quasi i primi 'contestatori', diciamo i paleo-contestatori, erano figli della buona borghesia milanese (Popi Saracino and company) o romana. Tuttavia anche in quell'immobile estate di vacanza qualcosa di sessantottino ci fu. Ai primordi del Sessantotto, quando facevo la guardia da semplice mujahidin ai portoni della Statale occupata, avevo conosciuto alcuni ragazzi, tra gli altri Ilio Frigerio, Eugenio Polizzi che sarebbero poi entrati nella più strutturata Lotta Continua di Sofri e Pietrostefani. In una stagione successiva Ilio Frigerio sarebbe diventato parlamentare della Lega. Una prima lezione di quel trasformismo che avrei poi visto dilagare per ogni dove. A settembre con Ilio, Rosanna Battino detta 'Roro', che apparteneva a una delle migliori famiglie milanesi, Eugenio Polizzi e la sua ragazza, una sciocchina che squittiva per ogni cosa, rovinandola, ma riscattata dal fatto di essere parecchio carina, decidemmo di fare un viaggio in Sicilia, terra a noi allora ignota tranne che al Polizzi che era nato a Caltanissetta e vi conservava la casa dei suoi genitori. Guidavo io. Ero l'unico ad avere una macchina, un'inguardabile Simca 1000 da 'voglio ma non posso'. A quei tempi l''esproprio proletario' non era ancora in voga ma, insomma, l'idea che in qualche modo bisognava fregare il sistema era già nata. Frigerio e Polizzi erano quindi decisi a entrare in un qualche grill e farvi, di nascosto, razzia. Allora non c'erano ancora le videocamere interne, come sull'autostrada non c'erano i limiti di velocità, i tutor, l'obbligo delle cinture. La cosa quindi pareva abbastanza facile. Io non ero per nulla d'accordo ma seguii il gruppo quando entrò in un grill deciso a tutto. Ne uscii quasi subito rintanandomi in macchina con Roro e lasciando che gli altri tre facessero gli affari loro. Tornarono dopo una mezz'ora. Incazzatissimi. Non erano riusciti a prendere nulla. Allora tirai fuori dal mio giubbotto un salame, una bottiglia di vino e un filone di pane. Un trionfo. Guidai ininterrottamente per ventiquattro ore da Milano fin quasi a Caltanissetta. L'ultima ora cedetti il volante a Ilio, che per tutto quel tempo insieme agli altri non l'aveva nemmeno toccato e mi misi a dormire. Quando mi risvegliai ancora tutto intontito il buon Ilio ebbe la faccia tosta di prendermi in giro perché' mi ero addormentato. Un avvertimento, sia pur di poco momento, che avrebbe dovuto mettermi sull'avviso e che invece non ho imparato mai: se ti spendi per gli altri non avrai in cambio che derisione. Il gioco che conta è esattamente l'opposto: appropriarsi del lavoro altrui facendo finta di averlo fatto tu. Una pratica che avrei visto dispiegata in grande stile l'anno dopo quando entrai come impiegato di seconda alla Pirelli, in particolare da Marcello Di Tondo che sarebbe diventato il primo braccio destro del Berlusconi ancora imprenditore.
A Caltanissetta scoprimmo che la mafia non esisteva. Nessuno osava pronunciarne neppure il nome. Nemmeno il Polizzi che pur era di quelle parti e che mafioso non era. Del resto avrei imparato in seguito che in Sicilia è difficilissimo distinguere non solo il mafioso da chi non lo è ma anche da chi la Mafia la combatte. Negli anni ho avuto modo di parlare con Pio La Torre parlamentare comunista ucciso dalla Mafia nel 1982 e più tardi anche con Falcone quando era direttore della DIA. I toni, i tic, il modo di parlare allusivo mai diretto, tendenzialmente sfuggente era lo stesso dei mafiosi conclamati che mi è capitato di incontrare durante qualche inchiesta in Sicilia. E' la sicilitudine.
Nel '68 mentre al Nord i giovani contestatori sognavano, in modo un po' dilettantesco, di abbattere l'odiato sistema, la Mafia al Sud, almeno ufficialmente, non esisteva. Ad abbattere per vie legali se non il sistema almeno la partitocrazia ci avrebbero provato nel biennio '92-'94 i magistrati di Mani Pulite, ma non ne caveranno un ragno dal buco.
Il sistema non è caduto, la partitocrazia tanto meno, in compenso la Mafia c’è e, come ci raccontano le cronache, pare più forte e inserita che mai. Mezzo secolo è passato invano.

Tra il dire e il fare c’è in mezzo un barcone


Ultima lezione di liceo, consigli di classe già passati. Classe composta essenzialmente da italiani emigrati in Francia, e magrebini che hanno vissuto prima in Italia e ora oltralpe. Avevo intenzione di far vedere il discorso del Grande Dittatore di Chaplin ma ho chiesto se avessero seguito l’attualità e se avessero notizie del barcone. Rapidamente la situazione scivola su frasi del tipo: “non hanno lavoro e lo cercano in Italia dove non ce n’è”, “é meglio che restano dove sono”, “meglio aiutarli a casa loro”.
Fortunatamente per me, la maggior parte della classe non poneva la questione in questi termini, altrimenti avrei potuto considerare tutto l’insegnamento di questi mesi completamente vano. Dopo aver studiato l’avvento della società industriale, l’alienazione e i movimenti operai, l’imperialismo, il primo dopo guerra coi suoi odiati trattati, la nascita del Fascismo, l’incapacità della comunità internazionale di far fronte all’espansionismo tedesco ed il resto del l’obbrobrio causato dalle ideologie nazifasciste, ho scoperto che l’attualità appare in modo diverso ai ragazzi e la storia un mondo lontano che non gli appartiene.
Nella mia mente si è così spalancata la visione di un vuoto enorme, una desolazione totale tra tutti i valori che avevo cercato di trasmettere e quelli sottesi dalle domande dei ragazzi che sembravano quelle di un assiduo ascoltatore di programmi sullo stile “Dalla vostra parte” o di un raro elettore de Il giornale o Libero.
Si tratta degli stessi ragazzi che erano capaci di spiegarmi che durante la crisi post bellica i Fasci di Combattimento erano un mix di istanze rivoluzionarie e nazionalismo, che lo stato si totalitario si costituisce sul principio di esclusione di un gruppo di persone individuato come capro espiatorio e via di seguito.
Eppure in quel momento, la storia non li tangeva, la realtà era un’altra ed era quella proiettata dai media della retorica dell’invasione, della sicurezza e del “già abbiamo i nostri problemi”.
Ho sudato freddo per un attimo, anche se il discorso valeva per pochi ragazzi, un anno di lezione era li, idealmente sospeso sopra il cestino, pronto per essere buttato al macero.
Inizialmente ho cercato di portare dati, riflessioni, argomenti consolidati, ma mi sono accorto che continuava ad esserci un fossato enorme tra quello che viene detto, raccontato e studiato, e le loro esistenze: se non sono capaci di riconoscere quanto del passato sia attuale, come potrei fare capire che le loro domande partono dal loro punto di vista di Franco-Italiani e non da quello dei migranti? Come posso fare capire che le domande che si pongono sono quelle che vengono rimbalzate sui social, dagli « avvelenatori di pozzi »?
Ho loro posto le seguenti domande: Marco, qual è la differenza tra tuo padre che è arrivato qui in Francia dall’Italia e quella di un libico che vuole attraversare il Mediterraneo? Qual è la differenza, tra i tuoi genitori, Fatima, che sono venuti dall’ Italia in Francia in ragione della crisi economica, e la donna che col figlio sta su quel barcone in questo momento? Qual è la differenza tra il sottoscritto che è venuto in Francia per trovare un lavoro che in Sicilia non c’era e il ragazzo del Mali che in questo momento soffre di mal di mare tra la Sicilia e Malta?
Fatima mi risponde che è diverso, perché io sono italiano, quindi dell’Unione Europea e avevo avuto un’educazione simile a quella dei francesi, quindi potevo entrare in Francia, mentre invece il ragazzo del Mali no.
Marco afferma che tra suo padre e il libico non è mica la stessa cosa. Gli chiedo perché. Il silenzio come risposta non mi basta e gli chiedo se sapesse che ad Aigues-Mortes durante la fine del XIX° secolo quando, a causa della diffusione di una falsa notizia, furono massacrati numerosi immigrati italiani che lavoravano nelle saline francesi. Gli chiesi se sapesse che in tutto il sud-est e nel nord-est del paese della “Fraternité”, gli italiani come i suoi genitori erano vittime di xenofobia e violenze per il semplice fatto di non essere francesi, che non scappavano da guerre ma dalla crisi, che secondo i francesi non c’era abbastanza lavoro per loro e che sarebbe stato meglio che restassero dov’erano.
Questo ragazzo e questa ragazza, di fatto figli del mondo, un pò italiani, un pò francesi, un pò magrebini, proprio loro che dovrebbero essere i più simili alle persone che cercano fortuna, si sono dimenticati o non conosco le sofferenze patite dai loro genitori immigrati per potere garantire loro la possibilità di studiare e vivere una vita serena. Figuriamoci se ricordano la lezione di storia.
Ho cercato quindi di lacerare quella bolla che non gli permette di vedere quanto le loro vite siano immerse nella Storia umana.
Colmato con la riflessione sulle loro esperienze quel fossato tra i valori studiati a lezione e quelle domande frutto di un egoismo dilagante, mi sono sentito un pizzico più sereno, ma una serie di altri mari di incertezze e di dubbi si sono rivelati.
Ho in seguito spiegato che gli argomenti delle destre che leggo oggi, sono le stesse dita dietro le quali ci si è sempre nascosti.
Tra il dire che si vogliono eliminare gli interessi di chi lucra sui migranti e il compiere un’azione diretta a stanare tutti i pezzi grossi del caporalato, c’è una mare di ipocrisia rivelata dalla lotta allo sbarco, come se il problema fossero i migranti, non chi eventualmente vi lucra.
In una scala di valori non può essere confuso il valore della vita umana con quello della sicurezza, evocato stupidamente dai media col solo scopo di favorire la radicalizzazione delle fazioni e del dibattito, e falsato da una percezione distorta. Complici di questo ingigantimento tutti gli schieramenti politici che hanno trattato la questione migratoria come un problema sulla sicurezza e non come un fenomeno umano fisiologico che dura dalla notte dei tempi.
Tra il dire, da un lato, che si vogliono spezzare le catene di chi vuole essere sfruttato e, dall’altro, l’azione di tutte le persone unite dalla condizione di subalternità nei confronti del capitalismo finanziario e dell’ingiustizia sociale, c’è un mare che è fatto di lotta tra sfruttati e disoccupati del “sud” dell’Europa contro sfruttati del “sud” del mondo. Come posta uno stimatissimo collega, Matteo Saudino, “la storia delle destre sovraniste è sempre la stessa: a parole attaccano i poteri forti quali la finanza, le banche, l’UE, la Nato, nella realtà dei fatti costruiscono comunità in cui si limitano diritti civili e sociali e in cui crescono sentimenti di odio e guerre tra poveri”.
Infine non potevo che concludere la lezione con quel capolavoro che mi ero promesso di proiettare, sicuro che sarebbe, in ogni caso, caduto a pennello anche in quella discussione. I grandi classici servono proprio a questo.
“L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, condotti a passo d’oca verso le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. […]
Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l’avidità e l’odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!»

Tobia Savoca (Pressenza - Ingernational Press Agency - 21 giugno 2018)