domenica 30 settembre 2018

Manovra, Savona: “Il debito scenderà grazie al Pil in crescita del 3%”


Per una valutazione corretta delle scelte effettuate dal Consiglio dei ministri si deve partire dai provvedimenti approvati con la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza 2018. Va innanzitutto ricordato che il programma di politica economica e finanziaria del governo è coerente con il contratto di governo e con la risoluzione parlamentare approvata il 19 giugno scorso, che hanno trovato espressione:
1) nella cancellazione degli aumenti dell’Iva previsti per il 2019;
2) nell’introduzione del reddito di cittadinanza, con la contestuale riforma e il potenziamento dei Centri per l’impiego;
3) nell’introduzione della pensione di cittadinanza;
4) nell’introduzione di modalità di pensionamento anticipato per favorire l’assunzione di lavoratori giovani (superamento della legge Fornero);
5) nella prima fase dell’introduzione della flat tax tramite l’innalzamento delle soglie minime per il regime semplificato di imposizione su piccole imprese, professionisti e artigiani;
6) nel taglio dell’imposta sugli utili d’impresa (Ires) per le aziende che reinvestono i profitti e assumono lavoratori aggiuntivi;
7) nel rilancio degli investimenti pubblici attraverso l’incremento delle risorse finanziarie, il rafforzamento delle capacità tecniche delle amministrazioni centrali e locali nella fase di progettazione e valutazione dei progetti, nonché una maggiore efficienza dei processi decisionali a tutti i livelli della pubblica amministrazione, delle modifiche al Codice degli appalti e la standardizzazione dei contratti di partenariato pubblico-privato;
8) in un programma di manutenzione straordinaria della rete viaria e di collegamenti italiana a seguito del crollo del ponte Morandi a Genova, per il quale, in considerazione delle caratteristiche di eccezionalità e urgenza degli interventi programmati, si intende chiedere alla Commissione europea il riconoscimento della flessibilità di bilancio per condurre politiche di rilancio dei settori chiave dell’economia, in primis il manifatturiero avanzato, le infrastrutture e le costruzioni;
9) nello stanziamento di risorse per il ristoro dei risparmiatori danneggiati dalle crisi bancarie.
Questi strumenti perseguono lo scopo di colmare il gap di crescita reale del Pil rispetto al resto d’Europa senza danni per la stabilità dei prezzi, anzi contribuendovi caricando sui conti pubblici l’onere dell’aumento dell’Iva necessario per colmare il deficit tendenziale del precedente governo stimato dal ministero dell’Economia e delle finanze in 1,24 per cento, ossia abbondantemente al di sopra di quello concordato con la Commissione.
Il governo ha ereditato 5 milioni di poveri i cui bisogni di sopravvivenza sono impellenti già da ieri; tra questi vi sono parte del 10 per cento dei lavoratori disoccupati, di cui un numero socialmente inaccettabile di giovani. Il reddito e la pensione di cittadinanza, nonché il pensionamento anticipato perseguono l’obiettivo di attenuare le difficoltà di questa parte della popolazione, come impongono le regole della convivenza di una nazione civile.
La situazione della crescita reale volge al peggio a causa dei mutamenti nelle condizioni del commercio internazionale da cui dipendono le sorti delle nostre esportazioni, tuttora il punto di forza della nostra economia. L’anno in corso dovrebbe registrare una crescita reale dell’1,5 per cento e le previsioni di consenso per il 2019 sono nell’ordine dell’1 per cento. Se non si vuole un peggioramento dell’economia e un aumento delle condizioni di povertà e di disoccupazione occorre attivare nuovi interventi di politica fiscale.
L’ideale sarebbe quello di attivare massicci investimenti, nell’ordine dei risparmi in eccesso degli italiani, pari a circa 50 miliardi di euro, presenti da alcuni anni nella nostra economia. Occorre riavviare il secondo motore della nostra economia, quello delle costruzioni, il cui spegnimento ha largamente contribuito alla crisi. Le condizioni di realizzazione di questi investimenti sono state trascurate, ponendo vincoli interni ed esterni alla loro realizzazione. È ragionevole pensare che nel solo 2019 si possa raggiungere un aumento degli investimenti nell’ordine di almeno l’1 per cento di Pil, di cui la metà su iniziativa dei grossi centri produttivi di diritto privato dove lo Stato ha importanti partecipazioni. Se così fosse, l’incidenza sul disavanzo sarebbe nell’ordine di 0,5 per cento, senza tenere conto del gettito fiscale che questa nuova spesa garantirebbe. A tal fine, oltre ai provvedimenti già indicati nella Nota di aggiornamento (rafforzamento delle capacità tecniche delle amministrazioni centrali e locali, maggiore efficienza dei processi decisionali a tutti i livelli della pubblica amministrazione, modifiche al Codice degli appalti e standardizzazione dei contratti di partenariato pubblico-privato), opererà costantemente una Cabina di regia a Palazzo Chigi per intervenire sui punti di blocco o di ritardo.
L’attuazione di questi stimoli alla domanda aggregata, tenuto conto dei moltiplicatori della spesa, può portare a una crescita nel 2019 di circa il 2 per cento e crescere ancora di mezzo punto percentuale all’anno, raggiungendo quella soglia minima del 3 per cento necessario per guardare al futuro dell’occupazione e della stabilità finanziaria del Paese che una crescita intorno all’1 per cento annuo non garantirebbe.
Se la sostenibilità del debito pubblico italiano viene giudicata sulla base del rapporto tra debito pubblico e Pil, va constatato che esso si ridurrà nel corso dell’intero triennio, dato che la crescita del Pil nominale resterà in modo permanente al di sopra del 2,4 per cento del deficit di bilancio. Ciò vale nella peggiore delle ipotesi, quella di una mancata crescita, ma ancor più in quella di un successo della combinazione di spesa come quella indicata nella Nota di aggiornamento.
Poiché il governo è composto da persone che capiscono i rischi finanziari, ma anche avvertono i gravi pericoli dovuti a un peggioramento della crescita, l’attuazione del programma di governo sarà oggetto di un costante monitoraggio per verificare se gli andamenti dell’economia e della finanza restano coerenti con gli strumenti attivati; tutto ciò a cominciare dal 31 dicembre 2018, ancor prima dell’avvio del programma. Sono certo che il mercato valuterà in positivo le scelte fatte riconoscendo al governo il beneficio della razionalità che alimenta la speranza del mantenimento di una stabilità politica non meno preziosa della stabilità di bilancio.

Paolo Savona - Ministro per gli Affari europei (Il Fatto Quotidiano - 30 settembre 2018)


sabato 29 settembre 2018

Diamoci del Noi di Attilio Lauria: "Pippo Pappalardo"



Intervista pubblicata nel numero 9 di settembre 2018 della rivista Fotoit - La Fotografia in Italia - edita dalla FIAF

I tuoi contributi, all’interno della nostra rivista, riflettono assai spesso sul rapporto tra l’immagine e la parola. L’una richiama l’altra e, insieme, risolvono in una nuova rappresentazione. Com’è maturata questa peculiarità?


P) Dovrei ritornare, addirittura, alla mia adolescenza, allorquando rivedendo le fotografie dell’album di famiglia ne trovai una piccolina, realizzata probabilmente da un fotografo di strada, che ritraeva mia madre seduta accanto ad una fontana, con un neonato avvolto in una coperta. Vi era ritratto anche mio fratello e, evidentemente, il neonato ero io. Capovolgendo la foto ritrovai la cara calligrafia di mia madre che testualmente scriveva, a mo’ di didascalia: “Pippo (cioè io) quindici giorni prima di morire”.

Qualcosa non quadrava in quell’immagine: mia madre non mentiva, ma io, adulto, stavo vedendo la foto, ed ero vivo e vegeto; quindi ero sopravissuto; ma per i primi giorni di vita di quella fotografia io ero stato un bimbo di cui si aspettava la morte e quell’immagine doveva diventare il suo ricordo; e, per mia madre, l’immagine di suo figlio era qualcosa che io stento ancora a capire.  Compresi, allora, che l’immagine è qualcosa che bisogna penetrare e attraversare con partecipazione e attesa. Dentro e attraverso.

Per fare ciò ho avuto bisogno, anzi mi sono affidato, alla parola e alla sua contornualità visiva.


Ti affidiamo assai spesso l’analisi delle fotografie che pubblichiamo: potresti accennarci alle tue metodologie di lettura?

P) Con l’amico Sergio Magni ho condiviso l’insegnamento di Nazareno Taddei. Poi sono andato per la mia strada senza mai abbandonare quell’impianto teorico. Mi piace ricordare l’ultima telefonata ricevuta da Sergio: “Quando ti leggo vedo ciò di cui scrivi e leggo ciò che sto vedendo”. Può sembrare un gioco di parole ma è un complimento e, adesso che lo riporto, mi commuove la memoria del caro compagno di avventura..

Poi sono venuti gli amici Carli, Torresani, Bicocchi, Pieroni eppure, alla fine, anche per colpa dei miei studi umanistici, ricorro sempre al Quadrato dell’ermeneutica scolastica. Vi risparmio il latino di Nicola de Lira e, riassumendo vi confido che “muovo sempre dal dato letterale e immediato per penetrare la possibile allegoria, quindi capire la morale della proposta e, guardando all’autore, intuirne l’anagogia” (è la stessa “tiritera” che Dante consigliava al suo lettore, Cangrande della Scala che voleva iniziare la lettura del suo poema).

Molti dei nostri lettori, dopo la lettura dei loro portfolii, continuano con te un intenso rapporto epistolare abbastanza insolito nell’esperienza delle Pedane di lettura: come ti spieghi questa persistenza, questo desiderio di incontrarti nuovamente?

P) A tal proposito vorrei aggiungere un’ulteriore definizione di Porfolio alle tante che ne sono state formulate: “Il portfolio fotografico è una relazione che attende una relazione affinchè si crei una relazione”. Mi rendo conto che se ho davanti una donna, assai spesso  sorge il sospetto che ci stia provando, ma alla fine dell’incontro, ve lo assicuro,  c’è  sempre, dico sempre, un arrivederci ed un sorriso.


Hai messo da parte, e da tempo, lo strumento fotografico. E’ vero, allora, che fotografi solo  con le parole?

No. Fotografo anch’io, e posseggo un’attrezzatura di tutto rispetto. Ma sono figlio del mio tempo laddove ho incontrato la straordinaria esperienza di Larry Sultan e Mike Mandel e quindi di “Evidence”, un libro, una mostra, (1977) composta assemblando immagini trovate. Anch’io mi sono lasciato prendere da quest’avventura e invece di cercare immagini nuove ho guardato a quella straordinaria risorsa che è l’archivio e, da lì, son partito per un viaggio dal quale forse non sono più tornato. Non sono, quindi,  un autore ma un amministratore amico degli autori (spesso ignoti) e più ancora  delle loro immagini.

Si favoleggia sul numero dei libri di cui è formata la tua biblioteca: cosa ci dici in proposito?

P) Tanti anni addietro ho avuto la  fortuna di conoscere Vittorio Scanferla e Giovanna Chiti, raffinati cultori di fotografia, i quali m’introdussero al collezionismo del libro fotografico non come esperienza di possesso in sé, ma come costruzione di un sapere fondato, meditato lungo il tempo e nell’incontro con l’autore; quindi come possibilità di riprendere le riflessioni interrotte e, magari, privatamente, goderne le misteriose ridondanze racchiuse dentro le pagine. La disponibilità di quei testi è stato il miglior biglietto da visita nell’incontro con gli autori della fotografia contemporanea.

E poi, vuoi mettere la soddisfazione delle visite dei laureandi  che mi telefonano alla ricerca del testo introvabile in Accademia?

A questo punto siamo curiosi di conoscere il tuo fotografo preferito?


P) E’ ancora viva dentro di me la memoria e la devozione per Mario Giacomelli di cui ho amato ed amerò sempre la libertà di pensiero e l’assoluta poesia dei suoi giorni.


Hai, ancora,  una definizione per descrivere cos’è, per te, la fotografia?

P: Certamente, ma vale solo per oggi: fotografia come deposito di senso, come pretesto per chiacchierare. Domani ……

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Giuseppe Pappalardo - Note Biografiche
 
Avvocato, ha studiato “Lettura strutturale dell’immagine nei media” col prof. Nazareno Taddei (Università di Cagliari) continuando a sviluppare gli studi di “Educazione all’immagine e con l’immagine” e, più specificatamente, di “Sociologia della comunicazione visiva”col prof. Enzo Carli (Università di Urbino).
Redattore della rivista “Gente di Fotografia”, é curatore delle pubblicazioni dell’editrice Polyorama; collabora con importanti riviste di carattere nazionale proponendosi con saggi di storia della fotografia, di analisi e di critica delle immagini, di verifica intorno alle pratiche della fotografia.
In tal senso, ha curato numerosi libri (oltre a quelli compresi nel catalogo di Polyorama; tutte le pubblicazioni della Galleria Ghirri – quindi, i cataloghi delle mostre di Leone, Giacomelli, Ghirri, Meyrowitz, Chiaramonte, etc., e tutte le pubblicazioni dell’A.N.A.F. (Ass. Naz. Amatori di Fotografia) per la quale, dal 1996 al 2005, ha curato, come responsabile culturale insieme al prof. Enzo Carli, la pubblicazione del trimestrale N. Notiziario Fotografico; ha pubblicato, inoltre, “Note giuridiche e commenti a sentenze sulla tutela della proprietà dell’immagine e sul rapporto fra diritto di cronaca e tutela della persona in fotografia”.
Ha partecipato a molte mostre collettive su temi siciliani, e contribuito alla stesura di molti audiovisivi, per conto della Regione Siciliana, ma non ha maturato il coraggio di una mostra personale delle proprie immagini che pur supportano la sua didattica.
Ha sperimentato le metodologie elaborate dal fotografo Nino Migliori proponendole presso le scuole primarie come forma immediata di apprendimento della costruzione di un’immagine.
Cura l’organizzazione di manifestazioni fotografiche nella sua regione assumendone la direzione artistica. A Caltagirone è stato co-realizzatore del Museo della Fotografia della Provincia di Catania, ed è condirettore della Galleria L. Ghirri (mostre di P, Monti, Salgado, Siracusa, Pitrone, Strano e altri). A Catania collabora in progetti didattici presso l’Ateneo locale, l’Accademia di BB.AA. la privata Accademia ABADIR e il Centro Arti Visive Sikanie.
Socio onorario di molti circoli fotografici, è stato docente  D.A.C., grazie al quale ha messo ordine in tanta attività. Tutto il lavoro è stato svolto per pura passione e senza alcun interesse economico.


Il reato di Bossi, il Codice Rocco e i giornalisti con due stipendi


La notizia che Umberto Bossi è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a un anno e 15 giorni di reclusione per vilipendio al capo dello Stato poiché in un comizio del 29 dicembre 2011 aveva dato del “terrone” a Giorgio Napolitano aggiungendovi il gesto delle corna, era passata quasi sotto silenzio. Ma ieri, su Libero, scende in campo da par suo Renato Farina, il noto ‘Betulla’, che quando era vicedirettore di quel giornale collaborava per denaro con i Servizi segreti italiani fornendo informazioni e pubblicando notizie false (che i nostri Servizi si siano serviti di una nullità come Farina la dice lunga sulla loro efficienza). Giuliano Ferrara, anch’egli giornalista e anch’egli al soldo dei Servizi segreti, questa volta americani, la Cia, lo difese così: “Farina ha preso due stipendi? Che male c’è? Se uno fa due lavori è ovvio che prenda anche due stipendi”. Che sarebbe come dire che è giusto che un poliziotto prenda uno stipendio dallo Stato e che un altro stipendio lo ricavi dalla refurtiva che requisisce a suo uso e consumo.
Naturalmente Farina non affronta il nocciolo della questione ma prende slancio da questa sentenza per attaccare la Magistratura (e che altro potrebbe fare uno che agisce nell’orbita del “delinquente naturale”?) e per somministrarci una dotta disquisizione sul termine “terrone” dandosela da uno che la vita la conosce bene mentre in realtà ha frequentato solo oratori e le scuole delle “figlie di Maria”.
La Magistratura applica le leggi. E le leggi le fa o le convalida il Parlamento. Ciò che si dovrebbe fare oggi non è impetrare una grazia per Bossi, come fa Farina, ma chiedere e ottenere dal Parlamento, non a favore di Bossi ma di tutti i cittadini di questo Paese, l’abrogazione di tutti i reati di opinione di cui è zeppo il nostro Codice penale, eredità del Codice Rocco vigente durante il regime fascista, fra qui c’è anche il vilipendio: della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali, delle Forze Armate, alla bandiera o altro emblema dello Stato, alla Nazione italiana, alla religione dello Stato.  
Per non farci mancar nulla a queste leggi liberticide ne abbiamo aggiunta un’altra, ancora più aberrante, la legge Mancino del 1993 che punisce l’odio razziale, etnico, religioso, nazionale. Per la prima volta nella storia, credo, si sono volute mettere le manette anche ai sentimenti. Perché l’odio è un sentimento, come l’amore, la gelosia, l’ira. Io ho il diritto di odiare chi mi pare e di aderire alle ideologie, anche quelle che appaiono più aberranti, quelle naziste e fasciste, che più sento vicine. L’unico discrimine in Democrazia è che nessun sentimento o idea, giusta o sbagliata che sia, può essere fatta valere con la violenza. E’ il prezzo che la Democrazia, ammesso che un sistema del genere esista, paga a se stessa. Altrimenti si trasforma in una sorta di teocrazia laica.
Ma uno dei problemi della cosiddetta democrazia italiana non sono solo i partiti che, debordando dalle disposizioni costituzionali, ammesso che la Costituzione abbia un senso, hanno occupato tutte le Istituzioni, tutte le aziende di Stato e del parastato, di cui la Rai è solo l’esempio più evidente, ma sono proprio i giornalisti, quasi tutti i giornalisti che, senza arrivare agli estremi di Renato Farina o di Giuliano Ferrara, prendono due stipendi, uno dalle case editrici per cui lavorano, l’altro attraverso i vantaggi che ottengono dai partiti o dalle lobby cui si sono affiliati.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 29 settembre 2018)

venerdì 28 settembre 2018

Il "Professore"



In inverno indossa un impermeabile adatto alla sua mole e se lo osservi da lontano ti sembra di vedere in grande condor andino, di quelli che, quando sono accovacciati alla staccionata, ti appaiono enormi e un po’ goffi ma che in volo allargano le maestose ali per librare velocemente nei cieli. A scanso di equivoci una precisazione al riguardo è però d’obbligo perché, diversamente dal rapace, il personaggio in questione non si nutre mai di “carogne”, figurativamente parlando.
Lui osserva dall'alto e vola, la sua vista acuta come l'aquila individua lo schema, inquadra i soggetti e fotografa, poi si abbassa per continuare a inquadrare da ogni possibile angolo visuale e, con la sua penna informatica, scrive tutto quanto c'è da capire.
Nel caso non occorre dirgli molto di un’idea, bastano poche parole e ti accorgi che lui è già più avanti dei tuoi discorsi descrittivi.
Poco propenso a compromessi tira dritto per le sue idee, senza fare sconti a nessuno ma, nello stesso tempo, è affabile, disponibile a suggerire sempre quella che per lui è la migliore soluzione.
Irresistibile genialoide, macina progetti e propone disegni che, con la sua coinvolgente affabulazione, sostiene e rende sempre fattibili.
In verità, anche con un tocco della sua bacchetta magica, ha reso reali - con scioltezza e fattivamente - anche sfide talvolta complicate che prima potevano quasi apparire delle utopie.
Il Professore non patisce invidie ma rimane deluso e si amareggia molto per le sciatterie e scorrettezze che talvolta deve incassare.
Chi sfortunatamente non è alla sua altezza lo teme e del resto lo ha sempre osteggiato, per mantenere magari facilmente uno sciatto potere. 
L’etichetta professore gli fu appioppata da un collega per il suo aspetto, per il modo atipico in cui si muoveva nell’ambiente, per i capelli spesso arruffati alla Einstein del lunedì mattina, per gli argomenti articolati sempre nuovi e precisi che proponeva e per come li sapeva felicemente illustrare, in pratica perché corrispondeva perfettamente alla tipica figura di un docente universitario brillante e preparato, di quelli apparentemente strani ma estrosi.
Mai geloso delle sue idee è costantemente alla ricerca di soggetti meritevoli.
Disponibile a confronti paritari e costruttivi, lo trovi sempre pronto a darti una mano perché per lui dare opportunità in fondo lo rende veramente felice.
Come tutti coloro che madre natura ha dotato di intelligenza superiore, riesce sempre a porsi al livello di qualunque interlocutore, in ciò senza far pesare il bagaglio di conoscenze culturali o esibire l’ampiezza smisurata dei suoi orizzonti.
Questo quadro a qualcuno apparirà esagerato ma chi avrà come me l’avventura di incontrarlo e conoscerlo troverà rispondenza con la mia descrizione.
Il Professore è sempre vigile e attivo e con le sue tante iniziative continua ad informare e a insegnare quell’etica che in molti sconoscono, hanno dimenticato o non hanno mai conosciuto.
Il Professore è un imprenditore a tutto tondo, perchè organizza gli amici che ha intorno per trasformare le realtà positivamente. E chi lo conosce sa che la sua impresa più grande è stata ed è quella di cercare di migliorare, riuscendoci, la qualità della vita di tutti noi.
In questo caso per mantenere enigmatica la figura illustrata l’articolo non contiene delle fotografie che lo ritraggono ma, in testata, solo un’immagine che ritengo appropriata.

Buona luce a tutti!

© Essec

Csm, chi è il vicepresidente David Ermini: l’amico di Tiziano Renzi arrivato in Parlamento con il Pd di Matteo


Compagno di scuola di Maurizio Sarri, amico di vecchia data di Tiziano Renzi, è arrivato alla politica che conta grazie al figlio Matteo, che dal consiglio provinciale di Firenze lo ha portato fino in Parlamento. E adesso anche sulla poltrona di vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Un cursus honorum di tutto rispetto quello dell’avvocato David Ermini, eletto tra le polemiche come successore di Giovanni Legnini.

Il nuovo vicepresidente del Csm, infatti, è l’unico politico componente del nuovo plenum. Anche per questo motivo la sua elezione ha spaccato le correnti di togati a Palazzo dei Marescialli. Cinquantanove anni, proveniente da una famiglia di avvocati di Figline, in riva all’Arno, a soli quindici chilometri da Rignano. E infatti Ermini, che esordisce in politica nella corrente di sinistra della Dc, diventa presto amico di Tiziano Renzi, che dello scudo crociato fu consigliere comunale. L’esordio pubblico giovane Matteo avviene proprio a Figline nel 1996 in occasione di un dibattito con Valerio Onida. Regista del battesimo politico di Renzi è proprio Ermini. Che quindi farà strada grazie all’exploit del futuro premier. Dalla candidatura flop a sindaco di Figline – con lo slogan: David contro Golia – diventa prima consigliere provinciale con la Margherita – capogruppo quando il presidente della provincia è proprio Renzi – e poi nel 2013 deputato del Pd.

Nel 2014 Renzi lo porta al vertice del partito, nominandolo responsabile Giustizia nel 2014. Lavora alla riforma Orlando sul processo penale e a quella delle intercettazioni. Difende i Renzi e Luca Lotti, coinvolti nell’inchiesta Consip, e attacca il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto sui social network: insomma si comporta come tutti gli altri componenti del Giglio magico ma senza mai assumere posizioni nette o violente. Con la magistratura, per esempio, usa sempre toni distesi e concilianti, probabilmente ipotizzando un giorno di dover andare a dirigere il massimo organo di autogoverno delle toghe. Cosa che gli riesce grazie ai voti fondamentali di Magistratura Indipendente, la corrente di Cosimo Ferri, collega deputato sui banchi del Pd, che nel 2018 li ha rieletti entrambi. L’avventura di Ermini, però, è durata pochi mesi: l’amico dei Renzi, adesso lascia Montecitorio per una residenza più esclusiva: Palazzo dei Marescialli.



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giovedì 27 settembre 2018

Nino Giaramidaro (giornalista e fotografo o, a piacimento, viceversa)




Scrivere su un fotografo che nasce e si afferma principalmente come giornalista costituisce per tutti un azzardo, ma voglio correre questo rischio perché in alcuni casi vale la pena osare.
Dotato di una naturale e raffinata ironia, ha sempre avuto un occhio attento verso personaggi ed eventi, riuscendo a classificare, caratterizzandole in sintesi, le umanità che ha avuto modo di incrociare. 
Dialogare con Nino presuppone una dilatazione infinita del tempo, svariando in argomenti che, seppur partendo dalla fotografia, si sviluppano e si orientano verso aneddoti mai banali.
Bastano piccoli accenni per perdersi in discipline diverse, cronache ed eventi di ieri e di oggi. 
Ci si ritrova per un caffè e il tavolino resta occupato per ore; meno male che basta una piccola ordinazione al tavolo e non facciano ancora pagare con consumazioni a tempo.
Il dottor Giaramidaro a Palermo rappresenta una “istituzione” conosciuta da tutti; disponibile e affabile, riesce a rapportarsi con tutti nel giusto modo.
Con altri illustri soggetti, più o meno a lui coetanei, costituisce un serbatoio della cultura cittadina; negli incontri non disdegna però di aggregare anche curiosi ed appassionati.
Partecipare a convivi insieme a loro diventa occasione di conoscenza che consentono di scoprire personalità locali curiose, quale ad esempio il signor Patricolo, che visse relegato nell’ombra del famoso Studio Cappellani; che sicuramente appartiene alla storia, per le peculiarità e le caratterizzanti uniche specializzazioni nei ritocchi, sicuramente meritevoli oggi di ricordo e attenzione.
Per me l’occasione di conoscerlo nacque da una telefonata per un concorso fotografico interbancario da me organizzato (cosa che già facevo da alcuni anni); volle incontrarmi di persona e mi dedicò anche in seguito spazi di visibilità nella cronaca culturale cittadina del Giornale di Sicilia.
Diversamente da altri non fui mai invadente, lasciando che fosse lui a prendere eventualmente l’iniziativa; forse questo  ha contribuito a creare un rapporto empatico estremamente trasparente e di reciproca stima.
Nel tempo mi ha ripagato con interventi in tavole rotonde e presentazioni, regalandomi anche una sagace prefazione all’unico libro che ho realizzato con la collaborazione - nei testi “originali” - del mio amico Michele (Un'immagine, un racconto).
Recentemente ha proposto una bellissima mostra sul terremoto del Belice. Presente alla inaugurazione, ho avuto il coraggio pretenzioso o l'incoscienza di ribaltare per una volta i ruoli, azzardando a scrivere di lui e dell'evento nel mio blog, documentando il tutto. Il grande successo ricevuto ha fatto si che la mostra avesse un seguito e fosse ripetuta in diverse altre location siciliane.
Un aneddoto emblematico che ama raccontare su quell’esperienza del terremoto è questo: a un certo punto, viaggiando con la sua Fiat Cinquecento tra le tortuose strade di Montevago e Gibellina, non riuscì più a governare il veicolo ed ebbe l’impressione di avere bucato. Fermò la macchina e scese: si accorse che la terra stava continuando a tremare. Quindi, non aveva forato una ruota, bensì stava direttamente vivendo gli effetti, ondulatori o sussultori che fossero, del terremoto. Di quella esperienza resta una foto molto particolare che immortala il “mosso” di quei terribili momenti. La prima foto sul terremoto del ’68 diffusa dai giornali fu proprio una foto scattata da lui in quell’occasione e pubblicata sulla prima pagina del giornale L’Ora.
Quest’ultima è stata la sua testata d’inizio come giornalista, dove ha avuto modo di lavorare a fianco di colleghi diversamente assurti alla celebrità, tra i tanti, ad esempio Mauro De Mauro, Salvo Licata e Letizia Battaglia.
Fra le molteplici attività che lo gratificano ci sono gli interventi nelle presentazioni di eventi fotografici, nel corso dei quali intrattiene, con il suo innato acume critico e la sua sottile ironia, un pubblico sempre attento.
La collaborazione alla rivista web Dialoghi Mediterranei lo vede oggi attivo con i suoi articoli e impegnato alla ricerca di collaborazioni di “fotografi” che sappiano rappresentare, senza preclusione di genere, con fotografie e testi, argomenti e storie originali.
Fra i suoi "racconti" pubblicati in questo spazio spicca, per i miei gusti, la poetica “Mazara forever” (Dieci anni nella memoria), dove i tanti personaggi del tempo della sua infanzia, sapientemente dipinti, rivivono nella piacevole narrazione. Ma anche "Con tanto di barba. Da Sparta ad oggi", piccolo gioiello, emblema letterario del saper raccontare mescolando insieme sapienza e spumeggiante ironia.
La sua ricerca di macchine fotografiche è continua e costante; quando lo incontri, ti esibisce un nuovo storico cimelio che ha appena acquistato su Ebay o attraverso un'altro dei tanti canali “ecommerce”.
Un limite è costituito dalla sua istintiva avversione al computer, forse dovuta alle tante giornate che lo hanno visto in passato inchiodato, nella ordinaria attività lavorativa al giornale, al “maledetto marchingegno”. Questo, però non è un vero problema perché sopperisce in ciò la sua “Enza” che, diversamente, trova interesse e divertimento nel leggere navigando su internet. Unica concessione che si regala è l’utilizzo di Photoshop, al quale ricorre “traducendo in digitale” la maestria precedentemente sviluppata con le tanks in camera oscura.
Nino, serbatoio di ricordi di una infinità di personaggi, è lui stesso un “personaggio” di cui tutti dicono un gran bene e che trova o si inventa sempre spunti per curiosare e divertirsi, oggi come ieri.
Non si decide però ad annodare i tanti fili in uno scritto, per raccontare e regalare a tutti noi le infinità di storie che custodisce nell’album dei ricordi. 
Sollecitato al riguardo, ti dice comunque si, che ci sta pensando, ma intanto rimanda ancora.

Buona luce a tutti! 


© Essec


Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate in occasione del terremoto del 1968  nel Belice.

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P.S. - Un sentito ringraziamento va alla Professoressa Enza, sua compagna di vita, preziosa nell'avermi aiutato a rettificare parecchi strafalcioni e a inserire alcuni aspetti di Nino che sconoscevo, meritevoli anche essi di essere annotati per il completamento di questo sintetico quadro.


Conte doveva risparmiarci l'elogio delle guerre


Martedì pomeriggio, nell’ambito dell’Assemblea dell’Onu centrata sull’approvazione del documento “Action for peacekeeping”, il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha speso lodi sperticate per le operazioni di peacekeeping del nostro Paese.  ‘Peacekeeping’? Tutti sappiamo che con la formula ipocrita ‘peacekeeping’ si mascherano operazioni militari d’aggressione in altri Paesi. Noi abbiamo più di 30 operazioni militari all’estero che ci costano circa 1.500 milioni l’anno. Solo l’operazione Leonte in Libano può essere considerata una vera missione di peacekeeping perché le forze militari italiane si interpongono fra due comunità, hezbollah libanesi e israeliani, che altrimenti si massacrerebbero senza pietà. E’ una missione di peacekeeping quella in Afghanistan dove contribuiamo ad alimentare una guerra che dura da 17 anni? E’ un’operazione di peacekeeping quella in Kosovo dove la Nato ha realizzato una delle più grandi ‘pulizie etniche’ dei Balcani poiché i serbi che abitano in Kosovo sono scesi da 300 mila a 60 mila? E’ un’operazione di peacekeeping quella in Iraq dove siamo a supporto degli americani in funzione anti-iraniana? E’ un’operazione di peacekeeping quella in Somalia dove abbiamo contribuito ad abbattere il governo degli Shabaab che avevano riportato l’ordine e la legge in un Paese dove infuriava un conflitto civile fra i ‘signori della guerra’ locali per mettere al loro posto un governo fantoccio sostenuto dagli Usa attraverso l’aggressione della molto democratica Etiopia? Adesso in Somalia è ritornata una guerra civile che fa decine di migliaia di morti e gli Shabaab si sono uniti, giustamente, all’Isis. E’ un’operazione di peacekeeping quella in Mali dove i francesi hanno aggredito le popolazioni del nord, cioè i Tuareg, nomadi, laici? E adesso i Tuareg si sono uniti, giustamente, ai radicali islamici di quell’area. E fermiamoci qui per carità di patria.
Conte ha poi tributato grandi lodi alle militari donne che partecipano a queste operazioni. In particolare sarebbero molto utili perché, a differenza dei maschi, sanno istaurare affettuosi rapporti con i “disgraziati bambini” che abitano in quelle zone. Ma quei “disgraziati bambini” non sarebbero affatto tali se non ci fossero i militari impegnati a fare una guerra mascherata da ‘operazione di pace’. Inoltre, a parer mio, le donne non dovrebbero essere impegnate in guerra. Le donne, che danno la vita, sono sempre state contrarie a queste carneficine. Adesso fanno la guerra, ma non fanno più figli.
L’articolo 11 della Costituzione recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Coprire le guerre barattandole come ‘operazioni di pace’ è un modo per aggirare la Costituzione e turlupinare i cittadini che ancora vi credono. Peraltro alla Costituzione possono credere solo Travaglio e i suoi supporter, perché nella Costituzione, lo dico con il massimo rispetto per i nostri Padri fondatori, c’è tutto e il suo contrario. E’ una dichiarazione di princìpi che non ha nessuna concretezza. E infatti i pragmatici inglesi non ce l’hanno nemmeno.
Prossimamente verrà votato il ‘rifinanziamento’ delle nostre operazioni, ma io le chiamerei piuttosto occupazioni, all’estero. Alla Versiliana Luigi Di Maio, su mia sollecitazione, si è impegnato pubblicamente a ritirare il nostro contingente dall’Afghanistan, che non solo è una delle operazioni di peacekeeping che ci costa di più ma è soprattutto una delle più infami perché, sempre per servire gli americani, occupiamo un Paese dove tutta la popolazione (tranne quella corrotta a suon di dollari Usa), talebana, non talebana, anti-talebana, vuole solo che le truppe straniere se ne tornino a casa. Vedremo se Di Maio rispetterà il suo impegno. In caso contrario ‘vaffa’ ai Cinque Stelle a cui ho dato finora fin troppo credito.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 27 settembre 2018)

mercoledì 26 settembre 2018

Con tanto di barba. Da Sparta ad oggi



Non si può più dire. Diventa rischioso lasciarsi scappare l’antica locuzione-sfogo che tanti malcapitati ha salvato da severe crisi di nervi. Ma che barba! Attenzione, meglio mordersi la lingua, assediati come siamo da barbe molteplici, dalle più innocue e scadenti a quelle che mal celano ferocie insospettate, e barbarie assonanti con l’ammasso di peli dell’ideologia della moda.
Premessa autocritica. C’era una volta la voga dei capelloni. Sì, imperversavano molti capelli, con un diavolo per ciascuno, un po’ sporchi e politicizzati, e nessuno pensava di raparsi a zero perché un fantasma calvo, quasi nuovo, aleggiava. E coloro i quali ancora conservavano la piega dei pantaloni e avevano doppiato il Capo di Buona Speranza dell’anagrafe, non li vedevano bene, forse memori delle chiome di Assalonne, figlio di David, e del fatale ramo di terebinto.
Mentre il tempo “goes by” – cantava Sam – i pantaloni sembra vadano perdendo la loro distinzione. Venivano sottoposti a miracolosa “sarcitura” quando l’oltraggio della sedia si faceva evidente; le suore delle clausure riuscivano a rendere invisibile l’accidentato percorso dell’ago. Se vivessero ancora, però, dovrebbero affrontare la condizione di disoccupate, perché a danneggiare i pantaloni non è più Crono ma le stesse fabbriche, e chi vuole risparmiare deve infierire da sé  con forbici, pietre e altri utensili perforanti.
Conclusione: ogni generazione da protagonista finisce per infilarsi nel freddo inverno dello scontento, rischiando la condizione di Jean Des Esseintes,  che voleva andare “a ritroso” (nel libro À rebours di Joris Karl Huysmans) sino a raggiungere una dorata e micidiale nevrosi.
Meglio puntare sulla Scienza dell’incertezza, suggerita dallo studio della Statistica che, simile agli oracoli, dà risposte prive di certezze. Oppure studiare il Futuro, prossima materia scolastica, che non contempla il presente, la vita grigio scuro e arrabattata di tutti i giorni, bensì quella colorata rosata aurea e fortunata che verrà. E farsi crescere la barba.
Ogni tanto l’uomo si ricorda che discende dalla scimmia, e si fa crescere la barba. Gli italiani discendono di più, a quanto pare, e scimmiottano tutto, soprattutto le idiozie, specie se sono usa e getta.
Nella velocità della giornata, 15/20 minuti al mattino per farsi la barba con le fortezze rasanti a tre e quattro lame, sono un notevole deterrente a favore della crescita della peluria e così non perdere velocità. E si può guadagnare anche in immagine: uno che ha un mento da quattro soldi, con la barba può “posticciare” quell’appeal sempre vagheggiato, oppure coloro il cui volto fa pensare ad altre parti anatomiche, con una barba “a coda d’anatra” potrebbero fingere un aspetto decente.
È lunga la nomenclatura pelosa: alla Garibaldi, alla Forca francese, Hollywoodiana, alla Van Dyke o a Costoletta di montone. Ci sono anche esiguità barbine quali il pizzetto alla Dottor Occultis, amico di Blek Macigno, ma anche alla Richelieu o Mazzarino e alla  risorgimentale del “barone di ferro” Bettino Ricasoli con Goffredo Mameli e Michele Novaro. Eccetera. E alla Barbudos dei rivoluzionari della Cuba di Fidel e del mitico Che, e dei Barbutos spietati della camorra, copiate dalle sanguinarie barbe dell’Isis. E le altre, modeste e appuntite, di Lev Davidovich Bronshtein, alias Trotskj, e  Vladimir Il’ič Ul’janov, ovvero Lenin. Ma anche all’arruffata o alla elemosinante.
Felice Cavallotti, “il bardo della democrazia”, autorevole leader della Sinistra Storica dell’ultimo Ottocento, non aveva la barba, e per il suo 33esimo duello scelse un avversario di venti anni più giovane, propugnatore infiammato delle Destra Storica e munito di acuminato pizzo. Troppa cabala e molte ombre d’intrigo sul terreno. Cavallotti al terzo assalto fu colpito alla bocca. Morì quasi subito. Una pesante sconfitta dalla quale la Sinistra meglio sbarbata non si è mai più riavuta.
Da non trascurare le barbe sontuose degli sportivi, che rischiano entusiasmate tirate di compagni nella concitazione dei festeggiamenti per il gol. I nuotatori che si rapano a sottozero e depilano il torace per opporre meno attrito, ora mettono a repentaglio il record con la remora irsuta.
Pelame correntemente accompagnato da estesi tatuaggi che rendono quasi impossibile identificare la nuda e indifesa epidermide. Cambiare pelle è un imperativo che distrae dalle gare su stadi e campi a favore della competizione su chi resiste di più sul lettino del tattoo.
La barba ha effetti collaterali: non consente più di incarnare antiche locuzioni della nostra lingua che descrivevano moti di quell’anima divenuta fievole e cangiante. Come si può dire “a viso aperto” per significare “senza timore” di fronte a uno che sembra la reincarnazione di Barbanera, sia l’astrologo sia il pirata inglese dalla barba intorcinata. Buio in viso, viso lungo, viso duro, volto pulito e, soprattutto, viso d’angelo: tutte emozioni non più rivelabili, sepolte come rimangono sotto la villosa coltre.
«La barba essendo quasi una maschera – diceva Schopenhauer -  dovrebbe essere proibita dalla polizia». Un pensiero veramente pessimista. «È sempre stata maschera», rafforza Umberto Eco. Diego Abbatantuono con una delle sue più icastiche battute asserisce che «La barba sono le mutande della faccia», un altro bastian contrario del quale non ricordo il nome soggiunge che «Con questa moda della barba lunga non so più a chi fare l’elemosina».
Credo sia vero che i volti di oggidì non consentano più all’intimo di trasparire. Disperso fra il vello, il linguaggio dell’anima, della stimata e deprecata mimica facciale che fece vincere al Blue Team – Pietro Forquet, Giorgio Belladonna e Benito Garozzo – 13 campionati mondiali, 3 Olimpiadi e 13 titoli europei di bridge. Nessuno di loro poteva farsi crescere la barba.
Lo stesso può dirsi per i siciliani di Andrea Camilleri, capaci di fare un intero discorso con una sola “musione” zigomatica. Insomma, nelle nostre giornate, sembra si faccia largo l’uomo ad una dimensione, con barba, tatuaggi, vestiti stretti e malridotti, e tagli di capelli incredibili.
Per decenni ci siamo illusi che prima o poi la fantasia sarebbe andata al potere, invece è rimasta intrappolata nei capelli. Passata la fugace fascinazione per l’eleganza “melonistica”, frutto di un’interpretazione fuorviata delle parole testa d’uovo, spregiative per intellettuali e teorici che, persi nei cieli personali, non vedono il concreto. Ma anche un inconscio soprassalto di imitazione del gran rapato del Novecento. Ecco, allontanatasi la moda cucurbitacea si è scatenata la più grande fantasia mai vista sui capelli. Della quale non mi sento capace di riferirne a parole. 
Da bambino, una volta andavo per via Garibaldi con mio padre, che si fermò a parlare con un barbuto. Io mi nascosi dietro le sue gambe, stringendo con tutta la forza che avevo una braca dei suoi pantaloni; forse era il riflesso del barbutissimo Mammaddauru che rapiva i piccoli, tramandata figura di spaventabambini, dalla corruzione del nome del pirata – e sì, barbaresco –  Mohamed Dragut.
Ma anche adesso vengo acciuffato da sgomenti mitigati dall’età. Frequento un bar di avarissimo metraggio dove, giorni fa, entrò un gruppetto veloce come una folata, chiacchierante e gesticolante: avevano tutti la barba, e nel fervore orale accompagnato da rapidi e volanti gesti intravvedevo sospesi occhi sanguigni, mascelle oscillanti, deformate dalla lente della mia diffidente prospettiva. Corruccio schiarite brevi e rapide come un giorno di gennaio. Insomma, quelle barbe mi apparvero unte e atre come quella di Cerbero. Mi misi di taglio e con passi semidanzanti guadagnai l’uscita, la libertà nella mattinata scura e intirizzita dal maestrale.
Naturalmente ci sono già numerosi studi sulla travolgente avanzata della barba nella difficile globalizzazione. Del resto si studia tutto, massimamente i fenomeni che sembrano insignificanti ma che custodiscono esiti forse vitali per noi inconsapevoli. Due professori francesi, per esempio, hanno pubblicato sulla Scientific Review i risultati della loro ricerca sull’origine del rumore dello schiocco delle articolazioni delle dita.
Le donne neozelandesi e polinesiane ritengono i barbuti «più maturi e di ceto più alto e più disponibili e affettuosi con i figli», sostengono sul Behavioral Ecology, giornale di Oxford, i dottori Barnaby Dixson e Pane Vasey. Il professor Cyril Gruetar dell’università Western Australia, invece, certifica che sentendosi l’uomo sotto pressione e perdente autorità, cerca di apparire più aggressivo facendosi crescere la barba. Secondo un team di microbiologi di Quest Diagnostics  con base ad Albuquerque, la barba cattura più batteri della tavoletta del WC.  La ricerca non possiede il rigore metodologico richiesto da un’analisi scientifica, tuttavia è comparabile con ricerche del passato.
Alcuni uomini di scienza, ricercatori e anche giudici hanno il gusto della trovata che assicura loro il maliardo quarto d’ora di notorietà. Un giudice statunitense, credo astemio e dedito alle tisane, ha rilevato che nel caffè c’è una sostanza cancerogena: in quella cosa nel bicchiere di carta soprannominata caffè. Certo, mettendosi di buzzo buono e avendo lucido in mente il detto siciliano “cu’ mancia fa muddichi”, le tracce letali si riuscirebbe a trovarle anche annidate nell’aglio, nel broccolo o fra i tannini del vino rosso siciliano.
Ovviamente ci sono altre confusioni. Un tizio insisteva col barbiere perché gli foggiasse il suo onor del mento a “barba di gatto”, cioè un tipo di ormeggio delle navi; alcuni credono tutt’ora che Barbisio sia un cappello dedicato ai soli barbuti; è in discussione la forma a barbacane. C’è chi sa che barbassore significa persona di gran conto o che si dà grande importanza, purtroppo non è più nota la corrispondente geometria della barba.
Un limite cogente alla fantasia, che non ha più ambizioni governative, è costituito dal monoguancia, cioè farsi crescere la barba su un solo lato della faccia. In questa foggia serissima e disciplinata con legge, nella Sparta antica dovevano portarla i codardi, in modo che fosse facile distinguerli anche a distanza (Plutarco, Vita di Agesilao) oppure mimetizzati fra gli ardimentosi.
Qui da noi, una simile proposta di legge chissà quali accordi trasversali riscuoterebbe per negarle una maggioranza, anche risicata.



lunedì 24 settembre 2018

Luisa Vazquez (fotografa)



Nata e vissuta fino all’infanzia sotto il franchismo trova modo di conseguire una laurea in storia che le tornerà sempre utile per una lettura disillusa e attenta della società.
Pur nutrendo interesse e passione per la fotografia e per l’arte in genere, il contesto socio-economico ed il sistema politico autarchico e oscurantista spagnolo del tempo, le negano ogni possibilità pratica per poter dare loro libero sfogo; non ultimo anche per l’impossibilità pratica di poter materialmente disporre di una reflex propria.
Un prolungato distaccamento presso la Sede di Roma della FAO le consente di recuperare, in un contesto democratico in pieno fermento ideologico, quelle cognizioni ed approfondimenti che la dittatura le avevano precluso nel suo paese.
L’occasione di un viaggio a Mosca crea l’opportunità per l’acquisto di una sua prima macchina fotografica: una Zenit, ma non basta ancora il possesso della macchina per iniziare a produrre.
Vicissitudini familiari, che comportano anche il rientro in Spagna, non concedono spazi di tempo da poter dedicare attivamente alla sentita passione ma, le occasioni connesse al nuovo lavoro le consentono di visionare e catalogare produzioni di altri, affinando sempre più le cognizioni e i gusti del mondo culturale, fotografia compresa.
Quindi arriva finalmente il tempo per poter svolgere a pieno la passione lungamente riposta nel cassetto e i risultati arrivano presto, mettendo bene a frutto il bagaglio culturale accumulato negli anni, anche con lo svolgimento dei nuovi compiti di lavoro.
Una fidata macchina fotografica rimane comunque e sempre nella sua borsa, pronta per immortalare le scene di vita che occasionalmente si presentano.
L’occhio da lungo tempo allenato con visioni di opere dei grandi fotografi le consentono di riconoscere i momenti, la aiutano a saper catturare le scene e a operare già in fase di ripresa i dovuti tagli.
Il suo archivio s’implementa man mano, privilegiando principalmente la street photography, ma non solo.
Il collocamento in quiescenza e le scelte di vivere come cittadina del mondo la portano a visitare diversi angoli del pianeta, per soddisfare il represso desiderio di viaggiare e per dare libero sfogo alla passione fotografica.
Oggi la troviamo palermitana, pienamente inserita e integrata, sempre curiosa, in una città multietnica ricca di convivenze sociali di classi di differenti livelli economici e culturali.
E’ qui che ho modo di conoscerla per la prima volta, in particolare nel corso di una sua bellissima mostra personale approntata presso l’Istituto Cervantes di Palermo, un’enclave spagnola, inserito nel cuore del quartiere popolare della Vucciria; un Istituto dedito alla divulgazione in Italia della cultura spagnola contemporanea. Interessante al riguardo è la efficace descrizione della mostra scritta da Antonio Massara.
Con Luisa nasce da subito un rapporto di stima, reciproca e schietta, che non ha riguardi o riserve. che non la vede mai propensa a compromessi circa le sue opinioni, spesso severe, attinenti anche alla fotografia.
In un nostro contesto abituato a “convenevoli” e a “gratuite” lodi, la sua obiettività, sempre motivata, costituisce un valore importante per eventualmente addivenire a giudizi, ciò a prescindere dai gusti e dalle preferenze che caratterizzano e differenziano ciascuno di noi.
Luisa Vazquez alla Vucciria è conosciuta da tutti e te ne accorgi passeggiando con lei, quando la vedi dialogare con Ignazio o con altri venditori o semplici abitanti dei luoghi. Per come si muove, di certo conosce il territorio meglio di me che sono cittadino di Palermo.
Se provi a chiedere cosa sta leggendo, ti propone sempre nuovi autori o letture di vecchi testi ai quali, per gli avvenimenti spagnoli nel suo periodo giovanile, le fu impedito di poter avere accesso.
Infine, pur facendo oggi base in Italia, Luisa non disdegna di visitare nuovi paesi e ritornare magari più volte nei posti che la intrigano e di cui un po’ si innamora. Insomma, una girovaga.
Se hai modo di incontrarla la vedrai sempre disponibile e con in volto un sorriso, rilassato, compiacente, coinvolgente.

Buona luce a tutti!
 
© Essec


Berlusconi, 1993-2018: il ritorno al passato del Caimano. Da ricattatore a ricattato sugli spot in tivù



Come se il tempo si fosse fermato a 25 anni fa, riecco B. in ambasce perché non controlla più il governo, teme la concorrenza della Rai e trema all’idea di perdere pubblicità sulle sue tv. Nel 1993 i suoi referenti politici (il Caf Craxi-Andreotti-Forlani) erano travolti da Tangentopoli, al governo c’erano i tecnici di Ciampi e alla Rai la politica “amica” era stata rimpiazzata dai “professori”, che non obbedivano ad altri input se non a quelli aziendali. Nel 2018 Forza Italia – che ha fatto parte di cinque governi e ne ha ricattati otto di centrosinistra, ottenendo vantaggi per le tv e i processi del padrone – ha perso rovinosamente le elezioni e i sondaggi la danno sotto l’8%. Per la prima volta dopo 35 anni, il Caimano ormai sdentato non è più in grado di condizionare neppure i suoi dicasteri preferiti, tutti in mano ai nemici 5Stelle: alla Giustizia c’è Alfonso Bonafede, alle Telecomunicazioni Luigi Di Maio, all’Editoria Vito Crimi. Idem la Rai, guidata dall’ad Fabrizio Salini (indipendente, ma indicato dal M5S). Ai tempi del Caf, B. ricattava i governi e ne finanziava i leader. Dopo Tangentopoli, per qualche mese, ne fu ricattato. Poi, dopo la discesa in campo, alternò periodi di comando (quelli dei suoi governi) a periodi di ricatto (quelli del centrosinistra consociativo). Ora è di nuovo ricattato, o almeno così dice. Basta che il governo annunci norme di minima civiltà e buonsenso – tetti antitrust alla pubblicità in tv, rilancio della Rai, norme anti-corruzione, anti-prescrizione, anti-conflitti d’interessi – perché si avverta nel mirino. Di tutto questo ha parlato l’altra sera ad Arcore con Salvini, l’unico alleato (ricattabile o meno, non si sa) che gli rimane al governo.
1993-2018. Il 22 gennaio 1993 è un sabato. Craxi, indagato da un mese, è prossimo alle dimissioni. Forlani e Andreotti lo seguiranno a stretto giro. Il governo Amato, l’ultimo del pentapartito, ha i giorni contati, poi arriveranno i tecnici di Ciampi, infine le elezioni che vedono favorita la sinistra di Occhetto. Il Cavaliere non ci dorme la notte, anche perché ha tutte le aziende e quasi tutti i manager sotto inchiesta, alcuni in galera. Dice al suo consulente Ezio Cartotto: “A volte mi capita perfino di mettermi a piangere sotto la doccia”. E poi ci sono i conti della Fininvest. Nelle riunioni dei Comitati Corporate al quartier generale di Milano2, manager e dirigenti del gruppo non nascondono l’allarme. Stretti intorno al capo – mentre Guido Possa, ex compagno di scuola e ora segretario particolare di B., annota parola per parola in accurati verbali che finiranno in mano al pool Mani Pulite – discutono per ore di prospettive e numeri. Neri, nerissimi.
Ubaldo Livolsi, direttore finanziario, fa il punto: i debiti Fininvest ammontano a 4.550 miliardi, 700 in più rispetto al 1991. E il quadro è ancor più drammatico se si guarda alle necessità di cassa stagionali: 1.224 miliardi nei primi tre mesi dell’anno. E aggiunge: “Il sistema bancario non è disposto ad aumentare ulteriormente l’affidamento nei nostri confronti (alcune banche, anzi, hanno chiesto a noi, come a tanti altri clienti, piccole ma significative riduzioni dell’esposizione) … La situazione va considerata molto seria”. Il rischio concreto si chiama fallimento. Il 1° marzo Livolsi rincara la dose: “Basterebbe una sia pur lieve flessione delle entrate pubblicitarie della televisione (non improbabile vista la recessione in atto e vista la presente sofferenza di qualche nostro investitore come la Curcio Editore e Ciarrapico) per porci in grosse difficoltà”.
Prendi Rai, salvi Fininvest. Anche Silvio B. l’uomo dal “sole in tasca”, stavolta è pessimista: “In complesso la nostra televisione è un’azienda matura, con buona redditività, che tuttavia lentamente si avvia al declino”. Bisogna inventarsi qualcosa. I suoi dirigenti suggeriscono quelle più tradizionali: un piano di dismissioni per raccattare quattrini e rimborsare le banche. Ma lui non ci sente. Il 18 gennaio ’93 boccia la proposta di vendere “un’importante partecipazione” di Telepiù (che illegalmente possiede quasi per intero tramite vari prestanomi, in barba alla legge Mammì che gli consente un misero 10%): “Non è questo il momento, nonostante le difficoltà finanziarie. La tv del futuro è quella che vende programmi”. E il 22 febbraio affossa pure “l’operazione Ame-Sbe così come si sta configurando”, cioè il collocamento in Borsa di quote che la Silvio Berlusconi Editore detiene in Mondadori. Guai a “rinunciare al totale controllo di un gioiello”. Che fare allora? Ecco il suo piano, che lascia tutti con gli occhi sgranati e le bocche aperte: “L’unica, concreta, importante azione possibile a breve è quella di un accordo con la Rai: potrebbe arrivare a ridurre i costi di 300-350 miliardi l’anno. È urgente per questo intervenire nel processo in atto di ridefinizione della struttura della Rai, per far sì che le massime responsabilità siano assunte da veri manager (con i quali sarebbe più agevole raggiungere un buon accordo) e prega Roberto Spingardi (capo del Personale Fininvest, ndr) di suggerirgli al riguardo alcuni nominativi di persone papabili (congiuntamente a G. Letta)”. Traduzione: il padrone della Fininvest vuole scegliersi i dirigenti della Rai. Imbottire Viale Mazzini di manager “amici”, perché “tengano bassa” la programmazione della concorrenza, dando un po’ di fiato alle sue boccheggianti tv.
Il tetto che scotta. Per legge, nella corsa contro il Biscione, il cavallo della Rai già parte con l’handicap: avendo il canone, deve rispettare un tetto pubblicitario più basso di quello della Fininvest. B. può inondare i suoi canali con un 18% di spot all’ora, la tv di Stato non può superare il 12. È uno dei tanti regali del Caf al Cavaliere: il canone Rai è fra i più bassi d’Europa e viene evaso da 3,5 milioni di utenti. Se vuole aumentare gli introiti, la Rai non può aumentare la pubblicità e deve investire enormi risorse per battere la Fininvest. Solo così riesce a invogliare gli inserzionisti a pagare i suoi spot più cari di quelli del Biscione. Più sale lo share, più costa uno spot, più soldi si incassano. Non solo. Chi pianifica una campagna pubblicitaria preferisce acquistare spazi dal numero 1 sul mercato. E se, per ipotesi, può permettersi un solo spot, non ha dubbi: lo prenota sulla Rai. Almeno finché batte la Fininvest.
Anche la Fininvest, però, per tenere il passo con la Rai, deve dissanguarsi. E non può più permetterselo, con le banche all’uscio che le chiedono di rientrare. Ergo – ragiona B. – non c’è che un rimedio: mettersi d’accordo con la Rai, cioè con la concorrenza. Un disarmo bilanciato che porti entrambi i contendenti ad abbassare gli investimenti, dunque la qualità e – quel che più conta – i costi. Per il momento il Cavaliere, essendo un privato cittadino, deve cercare un accordo con i partiti che controllano il servizio pubblico. Poi, quando diventerà lui stesso un politico, anzi il capo del governo e dunque il padrone della Rai, farà tutto da solo.
Proposta indecente. Nell’attesa, Sua Emittenza mette in moto l’uomo dei momenti difficili: Gianni Letta, vicepresidente Fininvest e felpato mediatore dalle mille entrature nei palazzi romani. Al suo fianco, di supporto, c’è Angelo Codignoni, il manager che ha seguito la sventurata campagna di Francia con La Cinq e sarà presto protagonista della nascita di Forza Italia. Ma la missione, se non è impossibile, poco ci manca. Nel guazzabuglio di Tangentopoli, con i segretari di partito e i ministri di Amato che si dimettono al ritmo di uno alla settimana fino alle dimissioni dell’esecutivo sostituito dai tecnici di Ciampi, di referenti politici si stenta a trovarne. Almeno a piede libero. Non solo: quel che resta del Parlamento tenta di recuperare un minimo di decenza presso l’opinione pubblica inferocita con una riforma del Cda Rai: è la numero 206 del 25 giugno ’93, nata da un emendamento di Nando dalla Chiesa, che affida non più ai partiti, ma ai presidenti di Camera e Senato il compito di nominare il nuovo Cda. Composto non più da 16 membri (6 Dc, 4 Pci-Pds, 3 Psi, 1 ciascuno ai tre partiti laici minori), ma da cinque “persone di riconosciuto prestigio professionale e di notoria indipendenza di comportamenti”. Inizia così l’èra dei “professori di area”. Giorgio Napolitano e Giovanni Spadolini scelgono Claudio Demattè, prorettore della Bocconi; l’amministrativista Feliciano Benvenuti; l’editrice Elvira Sellerio; il filosofo Tullio Gregory; il giornalista Paolo Murialdi. Il 13 luglio ’93 il Cda elegge presidente Demattè, che lancia subito due parole d’ordine: “Risanare i conti e delottizzare”. Il dg è Gianni Locatelli, giornalista finanziario, area centrosinistra.
A B. la nuova Rai dei “professori” fa paura: non ne conosce e non ne stipendia nessuno. All’improvviso sembrano avverarsi le fosche previsioni di Giuliano Ferrara, che soltanto otto mesi prima, in una delle riunioni mensili del sabato ad Arcore con i direttori di testata del gruppo Fininvest, aveva vaticinato con toni apocalittici: “L’attuale difficoltà della Rai di rapporto con i partiti ci deve preoccupare: può darsi che in poco tempo ci troveremo a concorrere con una Rai non solo senza tetto di pubblicità, ma anche molto più libera dalla logica dei partiti e quindi rilegittimata”. E infatti in Viale Mazzini prendono piede professionisti competenti e incontrollabili: Angelo Guglielmi, Carlo Freccero, Aldo Grasso, Franco Iseppi. Torna persino Beppe Grillo, per ben due serate in diretta, e senza censura.
Una carta da giocare, però, il Cavaliere ce l’ha. Anche la Rai è a un passo dal crac. I bilanci sono in rosso per 450 miliardi. A fine anno mancheranno pure i soldi per le tredicesime. Così, nel settembre ’93, B. in persona si fa avanti con Demattè e Locatelli e butta lì la sua proposta indecente: un accordo di cartello per spartirsi non solo la pubblicità, ma anche l’audience. Come annoterà nei suoi diari Murialdi, i rappresentanti delle due aziende ancora concorrenti cominciano a incontrarsi per discutere come “ridurre le spese degli acquisti e di produzione sia della Rai che della Fininvest”. Alla faccia della concorrenza. Ma il Cavaliere, mai contento, chiede di più: la “ripartizione dell’audience in parti uguali, nella misura del 45%”. Ricorda Murialdi: “All’epoca la Rai totalizzava un’audience leggermente superiore a quella delle reti berlusconiane. E un punto di audience voleva dire all’incirca 20 miliardi di lire di introito pubblicitario”. Lo confermerà Demattè: “Tutto è partito da una necessità comune, quella di ridurre i costi. Una via per ridurli sarebbe stata indubbiamente quella di allentare la pressione concorrenziale. Per conquistare quel punto o due in più che avrebbero consentito il sorpasso nell’audience, Rai e Fininvest stavano spendendo oltre ogni ragionevole limite. Senonché la via proposta da Berlusconi era inaccettabile in un paese a economia di mercato: voleva che si raggiungesse un accordo di ferro per dividerci in partenza le quote di audience. Se uno dei due superava la quota, doveva provvedere a scaricare il palinsesto… inserire programmi di bassa qualità e basso costo per permettere alla rete concorrente di riguadagnare le quote perdute. Tecnicamente è possibile, ci sono degli specialisti in grado di prevedere con esattezza millimetrica le capacità di ascolto di un certo programma. Ma tutto questo avrebbe comportato problemi sia di etica che di diritto antitrust assolutamente intollerabili”.
Spotpolitik. Il 26 gennaio 1994 il Cavaliere svela, a reti unificate, il suo segreto di Pulcinella: “Scendo in campo”, “ho deciso di bere l’amaro calice”, “l’Italia è il Paese che amo” e via fiabeggiando. Il vero movente della sua improvvisa vocazione politica lo spiegheranno, molto sinceramente, i suoi uomini più fedeli e devoti. Marcello Dell’Utri: “Eravamo nel settembre 1993, Berlusconi mi convocò nella sua villa di Arcore e mi disse: ‘Marcello, dobbiamo fare un partito pronto a scendere in campo alle prossime elezioni’. Lui aveva provato in tutti i modi a convincere Segni e Martinazzoli per costruire la nuova casa dei moderati… ‘Vi metto a disposizione le mie televisioni’, aveva detto. Tutto inutile, e allora decise che il partito dovevamo farlo noi. Poi c’era l’aggressione delle Procure e la situazione della Fininvest con 5.000 miliardi di debiti. Franco Tatò, all’epoca era l’amministratore delegato del gruppo, non vedeva vie d’uscita: ‘Cavaliere dobbiamo portare i libri in tribunale’… I fatti poi, per fortuna, ci hanno dato ragione e oggi posso dire che senza la decisione di scendere in campo con un suo partito, Berlusconi non avrebbe salvato la pelle e sarebbe finito come Angelo Rizzoli che, con l’inchiesta della P2, andò in carcere e perse l’azienda”. Giuliano Ferrara: “Sì, Berlusconi è entrato in politica per impedire che gli portassero via la roba”. E Fedele Confalonieri: “La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa il proscioglimento (per prescrizione, ndr) nel Lodo Mondadori!”.
Il 29 marzo 1994, all’indomani della vittoria elettorale, il neopremier B. s’impegna solennemente a risolvere il conflitto d’interessi, affidando le sue aziende a un fondo cieco (blind trust). E giura: “Alla Rai non sposterò nemmeno una pianta”. Invece parte subito all’assalto di Viale Mazzini per costringere il Cda a dimettersi due anni prima della scadenza di legge. E spiega spudoratamente al Corriere che la Rai non deve fare concorrenza a Fininvest: “La Rai è un servizio pubblico, non dovrebbe curarsi di andare a raggiungere il massimo di ascolto, casomai coprire i vuoti che le tv commerciali lasciano aperti”.
Il 26 giugno si riuniscono in gran segreto ad Arcore i manager di Publitalia (concessionaria pubblicitaria del Biscione, capitanata da Marcello Dell’Utri) ed esaminano il piano triennale di risanamento della Rai appena proposto da Demattè al ministro delle Poste, Giuseppe Tatarella (An). Il progetto prevede una serie di aumenti automatici del canone legati al costo dei programmi trasmessi e la crescita del 5% annuo del fatturato pubblicitario. E viene confrontato con un documento top secret di 17 pagine elaborato dal Biscione: se Rai cresce ancora, Fininvest tracolla. Quindi i Publitalia Boys bocciano il piano Demattè: i vertici Rai – sostengono sdegnati gli uomini del Cavaliere – osano proporsi “come un concorrente commerciale per gli operatori privati, in contraddizione con la sua funzione istituzionale di servizio pubblico… Non è accettabile che la Rai si ponga un obiettivo di audience generalizzata del 45%… Il piano dovrebbe invece prevedere la significativa riduzione degli investimenti e, genericamente, del livello di spesa”.
Così i manager berlusconiani, nella residenza del capo del governo, decidono che deve fare la Rai: non l’aumento dei ricavi pubblicitari, ma il loro “contenimento”: “Si potrebbe imporre un tetto tra i 100 e i 1.100 miliardi di lire annui”. Più precisamente: “1.050 miliardi nel ’95 e 1.100 nel ’96”. Al resto provvedono gli altri uomini del Cavaliere: quelli che a Roma siedono sui banchi del governo, della Camera e del Senato. Letta è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. E Ferrara ministro dei Rapporti con il Parlamento.
 “Il Cda Rai – tuona il ministro Giuliano Ferrara il 25 giugno 1994 – non gode della fiducia del governo. La sua esperienza è in via di esaurimento”. Il presidente della Vigilanza Francesco Storace chiede per la Rai “una nuova Norimberga”. Il 27 giugno il premier B. boccia il piano triennale di risanamento proposto dal Cda: “Un piano scandaloso”. Ma, visto che i “professori” non si dimettono, il 31 giugno il governo li licenzia in tronco con un emendamento di cinque righe al decreto salva-Rai.
Il nuovo vertice di Viale Mazzini è di stretta osservanza berlusconiana. Presidente Letizia Moratti, che tiene subito a precisare come “la Rai dev’essere complementare a Fininvest”, non più concorrente. Direttore del Tg1 Carlo Rossella, proveniente da Panorama (Mondadori, gruppo B.). Direttore del Tg2 Clemente Mimun, proveniente dal Tg5 (Fininvest, gruppo B.). Direttori dei tg regionali e dei giornali radio, due giornalisti di FI: Piero Vigorelli e Claudio Angelini. Dg di Sipra (concessionaria pubblicitaria): Antonello Perricone, ex ad Publitalia, al posto di Edoardo Giliberti, che nel ’93 si è permesso di aumentare del 7% il fatturato. Dunque va punito.
Quanta bella pubblicità. Da quando B. è sceso in campo, molti dei suoi colleghi imprenditori pensano bene di ingraziarselo spostando gli investimenti pubblicitari da Rai a Mediaset. A raccontarlo sarà Calisto Tanzi, patròn della Parmalat, quando verrà arrestato e indagato per il mega-crac del suo gruppo: “Quando è stata fondata Forza Italia, sono stato chiamato da Berlusconi ad Arcore. Mi chiese se volessi entrare nel gruppo dei suoi sostenitori… Gli risposi che non era mia intenzione schierarmi con lui ufficialmente, ma ero disponibile a contribuire finanziariamente… Concordammo di utilizzare il canale della pubblicità per finanziare occultamente il nuovo partito… In parte trasferimmo quote di pubblicità Rai a Publitalia, anche se di tale circostanza non sono sicurissimo, ma certamente l’accordo con Berlusconi prevedeva che le tariffe degli spot non godessero di particolari sconti e/o promozioni così come un’azienda come la nostra, che aveva un budget così rilevante, era in grado di ottenere. Quando tornai in Parmalat, parlai con Barili, che era il capo del settore, dicendogli di favorire Mediaset, cosa che fece prendendo accordi direttamente con Dell’Utri… Questo comportamento, concordato con Berlusconi, è durato in tutti questi anni… Credo di poter quantificare il maggior costo della pubblicità da noi sopportato in dieci anni in circa il 5% di quanto ci ha complessivamente fatturato Mediaset per la pubblicità”.
Le indagini della Guardia di Finanza appureranno che il budget pubblicitario investito da Parmalat attraverso Publitalia è del 54% nel 1993, del 52% nel ’94, addirittura del 68.5% nel ’95. Nel ’96, anno della vittoria di Prodi, la percentuale s’inverte: il 53% passa attraverso la Sipra (la concessionaria Rai). Poi, con l’eccezione del 1998, tutto torna come prima. Publitalia fa la parte del leone, arrivando a raccogliere il 64.64% del fatturato pubblicitario Parmalat nel 2001 e addirittura il 74.7% nel 2003.
E non c’è solo Parmalat. Quando nel 2001 il Cavaliere torna a Palazzo Chigi, molti grandi inserzionisti aumentano gli investimenti su Mediaset, a discapito di Rai e carta stampata. Nel 2001 Telecom ritira dalla Rai 77,5 miliardi di lire, Nestlè 20, Fiat 9. Certo, a causa della crisi seguita all’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle, quasi tutti i budget sono stati ridotti. Ma a Mediaset Telecom ha tagliato solo 40 miliardi, mentre la Fiat ha addirittura aumentato di 7 miliardi i suoi investimenti sulle reti del premier. E lo stesso ha fatto la Nestlè (più 5 miliardi). Scrive Giovanni Valentini: “Dai dati Nielsen relativi al periodo gennaio-novembre 2003, rispetto all’omologo periodo precedente, risulta che 82 aziende hanno distolto i loro investimenti dai quotidiani e 53 li hanno incrementati sulle reti del Biscione, sottraendo 100 milioni di euro ai giornali e trasferendone 50 alla tv privata. Nello stesso periodo, 72 aziende hanno distratto i loro investimenti dai periodici (per un controvalore di 65 milioni di euro) e ben 45, cioè il 62%, li hanno trasferiti in gran parte a Mediaset”.
Il bilancio della refurtiva. È così che – segnala l’Agcom – Mediaset ha visto salire i ricavi (composti esclusivamente da pubblicità) dai 1.497 milioni di euro del 1998 ai 2.157 del 2004, mentre nello stesso periodo gli introiti della Rai (pubblicità, canone e convenzioni) hanno avuto un singolare andamento ondivago: dai 2.101 milioni del 1998 ai 2.449 del 2000. Poi, col ritorno di B. a Palazzo Chigi, tutto s’è improvvisamente bloccato. I ricavi Rai sono anzi scesi di parecchio nel 2001, toccando la misera quota di 2.331 milioni. Più o meno stabili nel 2002 (2.385 milioni) e nel 2003 (2.405 milioni), hanno ripreso a crescere solo nel 2004 (2.545 milioni).
Poi c’è la pubblicità “istituzionale”, promossa dai vari ministeri con denaro pubblico: il governo B. finanzia le tv di B. con i soldi degl’italiani. Secondo Nielsen, per esempio, nel gennaio-marzo 2005 il governo spende in spot 5,3 milioni di euro. E quasi tutti (96.2%) in tv. Cioè su Mediaset, visto che sulla Rai quegli spazi sono gratis. Il tutto in barba alla legge Gasparri, che impone di destinare il 60% delle campagne istituzionali alla carta stampata.
Nel 2017 quattro economisti, in una ricerca che si aggiudica il premio per il “miglior studio di economia applicata” dall’American Economic Association, calcolano quanto ha guadagnato Mediaset nei 10 anni dei tre governi B. soltanto grazie al conflitto d’interessi politico-televisivo (“lobbying indiretto”), al netto delle innumerevoli leggi ad personam e ad aziendam: guadagni aggiuntivi (dunque indebiti) di 1,1 miliardi, anche a scapito della Rai, che ci ha rimesso almeno 194 milioni.
Ora il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti annuncia la revisione delle concessioni televisive e il sottosegretario pentastellato Vito Crimi un tetto alla pubblicità anche per le tv commerciali (che farebbe perdere a Mediaset 750 milioni all’anno). Subito B. invita a cena Salvini, che ne approfitta per incassare la sua retromarcia sul presidente della Rai Marcello Foa. In cambio di cosa, lo vedremo presto: dal destino delle concessioni tv, dall’eventuale tetto agli spot e dalla scelta del nuovo direttore di Rai Pubblicità. Intanto gli house organ del Biscione strillano all’“estorsione”. Ma, se mai cambierà qualcosa, la parola giusta sarà “restituzione”. Possibilmente con gli arretrati. E gli interessi.

Peter Gomez e Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano - 18 settembre 2018)