Come
se il tempo si fosse fermato a 25 anni fa, riecco B. in ambasce perché non controlla più il governo, teme la
concorrenza della Rai e trema
all’idea di perdere pubblicità sulle sue tv. Nel 1993 i suoi referenti politici
(il Caf Craxi-Andreotti-Forlani)
erano travolti da Tangentopoli,
al governo c’erano i tecnici di Ciampi
e alla Rai la politica “amica” era stata rimpiazzata dai “professori”, che non
obbedivano ad altri input se non a quelli aziendali. Nel 2018 Forza Italia – che ha fatto parte di
cinque governi e ne ha ricattati otto di centrosinistra, ottenendo vantaggi per
le tv e i processi del padrone – ha perso rovinosamente le elezioni e i
sondaggi la danno sotto l’8%.
Per la prima volta dopo 35 anni, il Caimano ormai sdentato non è più in grado
di condizionare neppure i suoi dicasteri preferiti, tutti in mano ai nemici
5Stelle: alla Giustizia c’è Alfonso Bonafede, alle Telecomunicazioni Luigi Di Maio, all’Editoria Vito Crimi. Idem la Rai, guidata
dall’ad Fabrizio Salini
(indipendente, ma indicato dal M5S). Ai tempi del Caf, B. ricattava i governi e
ne finanziava i leader. Dopo Tangentopoli, per qualche mese, ne fu ricattato.
Poi, dopo la discesa in campo, alternò periodi di comando (quelli dei suoi
governi) a periodi di ricatto
(quelli del centrosinistra consociativo). Ora è di nuovo ricattato, o almeno
così dice. Basta che il governo annunci norme di minima civiltà e buonsenso – tetti antitrust alla pubblicità in tv, rilancio della Rai, norme anti-corruzione, anti-prescrizione,
anti-conflitti d’interessi – perché si avverta nel mirino. Di tutto
questo ha parlato l’altra sera ad Arcore con Salvini, l’unico alleato
(ricattabile o meno, non si sa) che gli rimane al governo.
1993-2018.
Il 22 gennaio 1993 è un sabato. Craxi, indagato da un mese, è prossimo alle
dimissioni. Forlani e Andreotti lo seguiranno a stretto giro. Il governo Amato, l’ultimo del
pentapartito, ha i giorni contati, poi arriveranno i tecnici di Ciampi, infine
le elezioni che vedono favorita la sinistra di Occhetto. Il Cavaliere non ci dorme la notte, anche perché ha
tutte le aziende e quasi tutti i manager sotto inchiesta, alcuni in galera.
Dice al suo consulente Ezio Cartotto:
“A volte mi capita perfino di mettermi a piangere sotto la doccia”. E poi ci sono i conti della Fininvest.
Nelle riunioni dei Comitati Corporate al quartier generale di Milano2, manager e dirigenti del
gruppo non nascondono l’allarme. Stretti intorno al capo – mentre Guido Possa, ex compagno di scuola e
ora segretario particolare di B., annota parola per parola in accurati verbali
che finiranno in mano al pool Mani
Pulite – discutono per ore di prospettive e numeri. Neri, nerissimi.
Ubaldo Livolsi, direttore
finanziario, fa il punto: i debiti Fininvest ammontano a 4.550 miliardi, 700 in più rispetto al
1991. E il quadro è ancor più drammatico se si guarda alle necessità di cassa
stagionali: 1.224 miliardi nei primi tre mesi dell’anno. E aggiunge: “Il
sistema bancario non è disposto ad aumentare ulteriormente l’affidamento nei
nostri confronti (alcune banche, anzi, hanno chiesto a noi, come a tanti altri
clienti, piccole ma significative riduzioni dell’esposizione) … La situazione
va considerata molto seria”. Il rischio concreto si chiama fallimento. Il 1° marzo Livolsi
rincara la dose: “Basterebbe una sia pur lieve flessione delle entrate
pubblicitarie della televisione (non improbabile vista la recessione in
atto e vista la presente sofferenza di qualche nostro investitore come la
Curcio Editore e Ciarrapico) per porci in grosse difficoltà”.
Prendi Rai, salvi Fininvest. Anche Silvio B. l’uomo dal “sole in tasca”, stavolta è pessimista: “In complesso la nostra
televisione è un’azienda matura, con buona redditività, che tuttavia lentamente
si avvia al declino”. Bisogna inventarsi qualcosa. I suoi dirigenti
suggeriscono quelle più tradizionali: un piano di dismissioni per raccattare
quattrini e rimborsare le banche. Ma lui non ci sente. Il 18 gennaio ’93 boccia
la proposta di vendere “un’importante partecipazione” di Telepiù (che illegalmente possiede
quasi per intero tramite vari prestanomi, in barba alla legge Mammì che gli consente un misero
10%): “Non è questo il momento, nonostante le difficoltà finanziarie. La tv del
futuro è quella che vende programmi”. E il 22 febbraio affossa pure
“l’operazione Ame-Sbe così come si sta configurando”, cioè il collocamento in
Borsa di quote che la Silvio Berlusconi
Editore detiene in Mondadori. Guai a “rinunciare al totale controllo di
un gioiello”. Che fare allora? Ecco il suo piano, che lascia tutti con gli
occhi sgranati e le bocche aperte: “L’unica, concreta, importante azione
possibile a breve è quella di un accordo con la Rai: potrebbe arrivare a
ridurre i costi di 300-350 miliardi l’anno. È urgente per questo intervenire
nel processo in atto di ridefinizione della struttura della Rai, per far sì che
le massime responsabilità siano assunte da veri manager (con i quali sarebbe
più agevole raggiungere un buon accordo) e prega Roberto Spingardi (capo del Personale Fininvest, ndr) di
suggerirgli al riguardo alcuni nominativi di persone papabili (congiuntamente a
G. Letta)”. Traduzione: il padrone della Fininvest vuole scegliersi i dirigenti
della Rai. Imbottire Viale Mazzini di manager “amici”, perché “tengano bassa”
la programmazione della concorrenza, dando un po’ di fiato alle sue
boccheggianti tv.
Il tetto che scotta. Per legge, nella corsa contro il Biscione, il cavallo della
Rai già parte con l’handicap: avendo il canone, deve rispettare un tetto
pubblicitario più basso di quello della Fininvest. B. può inondare i suoi
canali con un 18% di spot all’ora, la tv di Stato non può superare il 12. È uno
dei tanti regali del Caf al Cavaliere: il canone Rai è fra i più bassi d’Europa e viene evaso
da 3,5 milioni di utenti. Se vuole aumentare gli introiti, la Rai non può
aumentare la pubblicità e deve investire enormi risorse per battere la
Fininvest. Solo così riesce a invogliare gli inserzionisti a pagare i suoi spot
più cari di quelli del Biscione. Più sale lo share, più costa uno spot, più
soldi si incassano. Non solo. Chi pianifica una campagna pubblicitaria
preferisce acquistare spazi dal numero 1 sul mercato. E se, per ipotesi, può
permettersi un solo spot, non ha dubbi: lo prenota sulla Rai. Almeno finché
batte la Fininvest.
Anche
la Fininvest, però, per tenere il passo con la Rai, deve dissanguarsi. E non
può più permetterselo, con le banche all’uscio che le chiedono di rientrare.
Ergo – ragiona B. – non c’è che un rimedio: mettersi d’accordo con la Rai, cioè
con la concorrenza. Un disarmo
bilanciato che porti entrambi i contendenti ad abbassare gli investimenti,
dunque la qualità e – quel che più conta – i costi. Per il momento il
Cavaliere, essendo un privato cittadino, deve cercare un accordo con i partiti
che controllano il servizio pubblico. Poi, quando diventerà lui stesso un
politico, anzi il capo del governo e dunque il padrone della Rai, farà tutto da
solo.
Proposta indecente. Nell’attesa, Sua Emittenza mette in moto l’uomo dei momenti difficili: Gianni Letta, vicepresidente Fininvest e felpato mediatore dalle
mille entrature nei palazzi romani. Al suo fianco, di supporto, c’è Angelo Codignoni, il manager che ha
seguito la sventurata campagna di Francia con La Cinq e sarà presto protagonista della nascita di
Forza Italia. Ma la missione, se non è impossibile, poco ci manca. Nel
guazzabuglio di Tangentopoli,
con i segretari di partito e i ministri di Amato che si dimettono al ritmo di
uno alla settimana fino alle dimissioni dell’esecutivo sostituito dai tecnici
di Ciampi, di referenti politici si stenta a trovarne. Almeno a piede libero.
Non solo: quel che resta del Parlamento tenta di recuperare un minimo di
decenza presso l’opinione pubblica inferocita con una riforma del Cda Rai: è la
numero 206 del 25 giugno ’93, nata da un emendamento di Nando dalla Chiesa, che affida non più ai partiti, ma ai
presidenti di Camera e Senato il compito di nominare il nuovo Cda. Composto non
più da 16 membri (6 Dc, 4 Pci-Pds, 3 Psi, 1 ciascuno ai tre partiti laici
minori), ma da cinque “persone di riconosciuto prestigio professionale e di
notoria indipendenza di comportamenti”. Inizia così l’èra dei “professori di area”. Giorgio
Napolitano e Giovanni Spadolini scelgono Claudio Demattè, prorettore della Bocconi; l’amministrativista Feliciano Benvenuti; l’editrice Elvira Sellerio; il filosofo Tullio Gregory; il giornalista Paolo Murialdi. Il 13 luglio ’93 il
Cda elegge presidente Demattè, che lancia subito due parole d’ordine: “Risanare i conti e delottizzare”. Il
dg è Gianni Locatelli,
giornalista finanziario, area centrosinistra.
A
B. la nuova Rai dei “professori” fa paura: non ne conosce e non ne stipendia
nessuno. All’improvviso sembrano avverarsi le fosche previsioni di Giuliano Ferrara, che soltanto otto
mesi prima, in una delle riunioni mensili del sabato ad Arcore con i direttori
di testata del gruppo Fininvest, aveva vaticinato con toni apocalittici:
“L’attuale difficoltà della Rai di rapporto con i partiti ci deve preoccupare:
può darsi che in poco tempo ci troveremo a concorrere con una Rai non solo
senza tetto di pubblicità, ma anche molto più libera dalla logica dei partiti e
quindi rilegittimata”. E infatti
in Viale Mazzini prendono piede professionisti competenti e incontrollabili: Angelo Guglielmi, Carlo Freccero, Aldo Grasso, Franco Iseppi. Torna
persino Beppe Grillo, per ben
due serate in diretta, e senza censura.
Una
carta da giocare, però, il Cavaliere ce l’ha. Anche la Rai è a un passo dal
crac. I bilanci sono in rosso per 450
miliardi. A fine anno mancheranno pure i soldi per le tredicesime. Così,
nel settembre ’93, B. in persona si fa avanti con Demattè e Locatelli e butta
lì la sua proposta indecente: un accordo di cartello per spartirsi non solo la
pubblicità, ma anche l’audience. Come annoterà nei suoi diari Murialdi, i
rappresentanti delle due aziende ancora concorrenti cominciano a incontrarsi
per discutere come “ridurre le spese degli acquisti e di produzione sia della
Rai che della Fininvest”. Alla faccia della concorrenza. Ma il Cavaliere, mai
contento, chiede di più: la “ripartizione dell’audience in parti uguali, nella
misura del 45%”. Ricorda Murialdi: “All’epoca la Rai totalizzava un’audience
leggermente superiore a quella delle reti berlusconiane. E un punto di audience
voleva dire all’incirca 20 miliardi di lire di introito pubblicitario”. Lo
confermerà Demattè: “Tutto è partito da una necessità comune, quella di ridurre i costi. Una via per
ridurli sarebbe stata indubbiamente quella di allentare la pressione
concorrenziale. Per conquistare quel punto o due in più che avrebbero
consentito il sorpasso nell’audience, Rai e Fininvest stavano spendendo oltre
ogni ragionevole limite. Senonché la via proposta da Berlusconi era
inaccettabile in un paese a economia di mercato: voleva che si raggiungesse un
accordo di ferro per dividerci
in partenza le quote di audience.
Se uno dei due superava la quota, doveva provvedere a scaricare il palinsesto…
inserire programmi di bassa qualità e basso costo per permettere alla rete
concorrente di riguadagnare le quote perdute. Tecnicamente è possibile, ci sono
degli specialisti in grado di prevedere con esattezza millimetrica le capacità
di ascolto di un certo programma. Ma tutto questo avrebbe comportato problemi
sia di etica che di diritto antitrust assolutamente intollerabili”.
Spotpolitik. Il
26 gennaio 1994 il Cavaliere svela, a reti unificate, il suo segreto di Pulcinella: “Scendo in campo”, “ho
deciso di bere l’amaro calice”, “l’Italia è il Paese che amo” e via
fiabeggiando. Il vero movente della sua improvvisa vocazione politica lo
spiegheranno, molto sinceramente, i suoi uomini più fedeli e devoti. Marcello Dell’Utri: “Eravamo nel
settembre 1993, Berlusconi mi convocò nella sua villa di Arcore e mi disse:
‘Marcello, dobbiamo fare un partito pronto a scendere in campo alle prossime
elezioni’. Lui aveva provato in tutti i modi a convincere Segni e Martinazzoli per costruire la nuova casa dei moderati… ‘Vi metto a
disposizione le mie televisioni’, aveva detto. Tutto inutile, e allora decise
che il partito dovevamo farlo noi. Poi c’era l’aggressione delle Procure e la situazione della
Fininvest con 5.000 miliardi di debiti. Franco
Tatò, all’epoca era l’amministratore delegato del gruppo, non vedeva vie
d’uscita: ‘Cavaliere dobbiamo portare i libri in tribunale’… I fatti poi, per
fortuna, ci hanno dato ragione e oggi posso dire che senza la decisione di scendere
in campo con un suo partito, Berlusconi non avrebbe salvato la pelle e sarebbe
finito come Angelo Rizzoli
che, con l’inchiesta della P2,
andò in carcere e perse l’azienda”. Giuliano Ferrara: “Sì, Berlusconi è entrato
in politica per impedire che gli portassero via la roba”. E Fedele Confalonieri: “La verità è che,
se Berlusconi non fosse entrato in politica, se non avesse fondato Forza
Italia, noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con l’accusa di mafia. Col cavolo che portavamo a casa
il proscioglimento (per prescrizione,
ndr) nel Lodo Mondadori!”.
Il
29 marzo 1994, all’indomani della vittoria elettorale, il neopremier B.
s’impegna solennemente a risolvere il conflitto
d’interessi, affidando le sue aziende a un fondo cieco (blind trust). E
giura: “Alla Rai non sposterò nemmeno una pianta”. Invece parte subito
all’assalto di Viale Mazzini per
costringere il Cda a dimettersi due anni prima della scadenza di legge. E
spiega spudoratamente al Corriere che la Rai non deve fare concorrenza a
Fininvest: “La Rai è un servizio pubblico, non dovrebbe curarsi di andare a raggiungere il massimo di ascolto, casomai coprire i vuoti che le tv commerciali lasciano
aperti”.
Il
26 giugno si riuniscono in gran segreto ad Arcore i manager di Publitalia (concessionaria
pubblicitaria del Biscione,
capitanata da Marcello Dell’Utri) ed esaminano il piano triennale di
risanamento della Rai appena proposto da Demattè al ministro delle Poste, Giuseppe Tatarella (An). Il progetto
prevede una serie di aumenti automatici del canone legati al costo dei
programmi trasmessi e la crescita del 5% annuo del fatturato pubblicitario. E
viene confrontato con un documento top secret di 17 pagine elaborato dal
Biscione: se Rai cresce ancora, Fininvest tracolla. Quindi i Publitalia Boys bocciano il piano Demattè:
i vertici Rai – sostengono sdegnati gli uomini del Cavaliere – osano proporsi
“come un concorrente commerciale per gli operatori privati, in contraddizione
con la sua funzione istituzionale di servizio pubblico… Non è accettabile che
la Rai si ponga un obiettivo di audience generalizzata del 45%… Il piano
dovrebbe invece prevedere la significativa riduzione degli investimenti e,
genericamente, del livello di spesa”.
Così
i manager berlusconiani, nella residenza del capo del governo, decidono che
deve fare la Rai: non l’aumento dei
ricavi pubblicitari, ma il loro “contenimento”: “Si potrebbe
imporre un tetto tra i 100 e i 1.100 miliardi di lire annui”. Più precisamente:
“1.050 miliardi nel ’95 e 1.100 nel ’96”. Al resto provvedono gli altri uomini
del Cavaliere: quelli che a Roma siedono sui banchi del governo, della Camera e
del Senato. Letta è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. E Ferrara
ministro dei Rapporti con il Parlamento.
“Il Cda Rai – tuona il ministro Giuliano Ferrara
il 25 giugno 1994 – non gode della fiducia del governo. La sua esperienza è in
via di esaurimento”. Il presidente della Vigilanza Francesco Storace chiede per
la Rai “una nuova Norimberga”. Il 27 giugno il premier B. boccia il piano
triennale di risanamento proposto dal Cda: “Un piano scandaloso”. Ma, visto che
i “professori” non si dimettono, il 31 giugno il governo li licenzia in tronco
con un emendamento di cinque righe al decreto salva-Rai.
Il
nuovo vertice di Viale Mazzini è di stretta osservanza berlusconiana.
Presidente Letizia Moratti, che tiene subito a precisare come “la Rai
dev’essere complementare a Fininvest”, non più concorrente. Direttore del Tg1
Carlo Rossella, proveniente da Panorama (Mondadori, gruppo B.). Direttore del
Tg2 Clemente Mimun, proveniente dal Tg5 (Fininvest, gruppo B.). Direttori dei
tg regionali e dei giornali radio, due giornalisti di FI: Piero Vigorelli e
Claudio Angelini. Dg di Sipra (concessionaria pubblicitaria): Antonello
Perricone, ex ad Publitalia, al posto di Edoardo Giliberti, che nel ’93 si è
permesso di aumentare del 7% il fatturato. Dunque va punito.
Quanta bella pubblicità. Da quando B. è sceso in campo, molti
dei suoi colleghi imprenditori pensano bene di ingraziarselo spostando gli
investimenti pubblicitari da Rai a Mediaset. A raccontarlo sarà Calisto Tanzi,
patròn della Parmalat, quando verrà arrestato e indagato per il mega-crac del
suo gruppo: “Quando è stata fondata Forza Italia, sono stato chiamato da
Berlusconi ad Arcore. Mi chiese se volessi entrare nel gruppo dei suoi
sostenitori… Gli risposi che non era mia intenzione schierarmi con lui
ufficialmente, ma ero disponibile a contribuire finanziariamente… Concordammo
di utilizzare il canale della pubblicità per finanziare occultamente il nuovo
partito… In parte trasferimmo quote di pubblicità Rai a Publitalia, anche se di
tale circostanza non sono sicurissimo, ma certamente l’accordo con Berlusconi
prevedeva che le tariffe degli spot non godessero di particolari sconti e/o
promozioni così come un’azienda come la nostra, che aveva un budget così
rilevante, era in grado di ottenere. Quando tornai in Parmalat, parlai con
Barili, che era il capo del settore, dicendogli di favorire Mediaset, cosa che
fece prendendo accordi direttamente con Dell’Utri… Questo comportamento,
concordato con Berlusconi, è durato in tutti questi anni… Credo di poter
quantificare il maggior costo della pubblicità da noi sopportato in dieci anni
in circa il 5% di quanto ci ha complessivamente fatturato Mediaset per la
pubblicità”.
Le
indagini della Guardia di Finanza appureranno che il budget pubblicitario
investito da Parmalat attraverso Publitalia è del 54% nel 1993, del 52% nel
’94, addirittura del 68.5% nel ’95. Nel ’96, anno della vittoria di Prodi, la
percentuale s’inverte: il 53% passa attraverso la Sipra (la concessionaria
Rai). Poi, con l’eccezione del 1998, tutto torna come prima. Publitalia fa la
parte del leone, arrivando a raccogliere il 64.64% del fatturato pubblicitario
Parmalat nel 2001 e addirittura il 74.7% nel 2003.
E
non c’è solo Parmalat. Quando nel 2001 il Cavaliere torna a Palazzo Chigi,
molti grandi inserzionisti aumentano gli investimenti su Mediaset, a discapito
di Rai e carta stampata. Nel 2001 Telecom ritira dalla Rai 77,5 miliardi di
lire, Nestlè 20, Fiat 9. Certo, a causa della crisi seguita all’attentato
dell’11 settembre alle Torri Gemelle, quasi tutti i budget sono stati ridotti.
Ma a Mediaset Telecom ha tagliato solo 40 miliardi, mentre la Fiat ha
addirittura aumentato di 7 miliardi i suoi investimenti sulle reti del premier.
E lo stesso ha fatto la Nestlè (più 5 miliardi). Scrive Giovanni Valentini:
“Dai dati Nielsen relativi al periodo gennaio-novembre 2003, rispetto
all’omologo periodo precedente, risulta che 82 aziende hanno distolto i loro
investimenti dai quotidiani e 53 li hanno incrementati sulle reti del Biscione,
sottraendo 100 milioni di euro ai giornali e trasferendone 50 alla tv privata.
Nello stesso periodo, 72 aziende hanno distratto i loro investimenti dai
periodici (per un controvalore di 65 milioni di euro) e ben 45, cioè il 62%, li
hanno trasferiti in gran parte a Mediaset”.
Il bilancio della refurtiva. È così che – segnala l’Agcom – Mediaset
ha visto salire i ricavi (composti esclusivamente da pubblicità) dai 1.497
milioni di euro del 1998 ai 2.157 del 2004, mentre nello stesso periodo gli
introiti della Rai (pubblicità, canone e convenzioni) hanno avuto un singolare
andamento ondivago: dai 2.101 milioni del 1998 ai 2.449 del 2000. Poi, col
ritorno di B. a Palazzo Chigi, tutto s’è improvvisamente bloccato. I ricavi Rai
sono anzi scesi di parecchio nel 2001, toccando la misera quota di 2.331
milioni. Più o meno stabili nel 2002 (2.385 milioni) e nel 2003 (2.405
milioni), hanno ripreso a crescere solo nel 2004 (2.545 milioni).
Poi
c’è la pubblicità “istituzionale”, promossa dai vari ministeri con denaro
pubblico: il governo B. finanzia le tv di B. con i soldi degl’italiani. Secondo
Nielsen, per esempio, nel gennaio-marzo 2005 il governo spende in spot 5,3
milioni di euro. E quasi tutti (96.2%) in tv. Cioè su Mediaset, visto che sulla
Rai quegli spazi sono gratis. Il tutto in barba alla legge Gasparri, che impone
di destinare il 60% delle campagne istituzionali alla carta stampata.
Nel
2017 quattro economisti, in una ricerca che si aggiudica il premio per il
“miglior studio di economia applicata” dall’American Economic Association,
calcolano quanto ha guadagnato Mediaset nei 10 anni dei tre governi B. soltanto
grazie al conflitto d’interessi politico-televisivo (“lobbying indiretto”), al
netto delle innumerevoli leggi ad personam e ad aziendam: guadagni aggiuntivi
(dunque indebiti) di 1,1 miliardi, anche a scapito della Rai, che ci ha rimesso
almeno 194 milioni.
Ora
il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti annuncia la revisione delle
concessioni televisive e il sottosegretario pentastellato Vito Crimi un tetto
alla pubblicità anche per le tv commerciali (che farebbe perdere a Mediaset 750
milioni all’anno). Subito B. invita a cena Salvini, che ne approfitta per
incassare la sua retromarcia sul presidente della Rai Marcello Foa. In cambio
di cosa, lo vedremo presto: dal destino delle concessioni tv, dall’eventuale
tetto agli spot e dalla scelta del nuovo direttore di Rai Pubblicità. Intanto
gli house organ del Biscione strillano all’“estorsione”. Ma, se mai cambierà
qualcosa, la parola giusta sarà “restituzione”. Possibilmente con gli
arretrati. E gli interessi.