PECHINO - Mario Monti atterra a Pechino e in Italia si moltiplicano gli elenchi di ciò che il nostro Paese offre in saldo alla Cina. E' bastata una presunta battuta di Hu Jintao a Seul, "dirò di investire in Italia", perché esplodesse un'offerta infinita di imprese, infrastrutture e prodotti finanziari nostrani pronti a gettarsi nelle braccia del Dragone. A Pechino però nessuno conferma che l'invito del presidente cinese, in ogni caso una vaga formula di cortesia, sia mai stato effettivamente pronunciato. In attesa di chiarire il mistero, quando nelle prossime ore Monti incontrerà il premier Wen Jiabao e il suo vice Li Keqiang, affinché le relazioni economiche Italia-Cina si approfondiscano realmente, può essere utile uscire da annosi equivoci.
Alcune domande, visto che qualcuno è arrivato al punto di ammonire che adesso "tocca all'Italia meritarsi i cinesi" sono d'obbligo. Ammesso che Pechino voglia accendere il semaforo verde sull'Italia, questo significa che fino ad oggi Hu Jintao e il vertici del partito comunista cinese hanno vietato di investire nel Bel Paese? Per quale ragione? In Europa c'è realmente qualcuno convinto che nella Cina di oggi il segretario del partito fondato da Mao abbia il potere di indirizzare con una parola il flusso dei capitali, pubblici e privati, destinati all'estero?
Nell'autunno 2011, quando già in Italia si esultò per presunti investimenti cinesi, mai avvenuti, Pechino ebbe modo di chiarire la sua idea di "sbarco in Italia": l'interesse esiste per il business, per fare affari, non per prestare denaro a fondo perduto, gonfiandosi di imprese decotte e titoli di stato non remunerativi. Tradotto: la Cina è disponibile, verso l'Italia come verso qualunque altra nazione, ma la logica è investire denaro per guadagnarne di più, non per salvare l'Occidente a proprie spese. Se così è, resta da capire per quale ragione il capitalismo democratico italiano, che non perde occasione per autocertificarsi liberista, debba esultare se il leader di Pechino, ricorrendo alla forza del vecchio statalismo autoritario di un partito comunista, dichiara di voler imporre investimenti nel nostro Paese.
Perché se il Dragone spendesse in Italia, facendo incetta di porti, autostrade, compagnie aeree, ferrovie, banche, buoni del tesoro, aziende hi-tech e brevetti, lo farebbe a tre condizioni: assicurarsi il controllo dei beni acquisiti, attingere da essi tecnologia e poterli gestire secondo il sistema cinese. Per l'Italia ai saldi di fine stagione, questo equivarrebbe consegnare i gioielli di famiglia non tanto alla seconda economia del mondo, ma alla più forte economia socialista, ossia di Stato, della storia. Davvero gli imprenditori e i partiti italiani non vedono l'ora di trasformarsi in un micro-ingranaggio della differenziazione cinese, per essere amministrati come gli altri vecchi carrozzoni pubblici (a partire dalle banche) che sono la palla al piede della prima frenata della crescita di Pechino?
Mentre Mario Monti si appresta a iniziare la visita più importante e difficile del suo tour asiatico, è opportuno ricordare che i tecnocrati della Cina non sono affatto ingenui: non regaleranno nulla, rischiando una rivolta popolare nell'anno della decennale transizione del potere, e sanno bene che se gli affari proposti da Roma fossero tanto convenienti, qualcun altro li avrebbe già fatti. Pechino ha interesse nella stabilità dell'euro e nella ripresa europea, ossia nei suoi consumi, per rilanciare il proprio export. Illudersi che a questi interessi nazionali si sia aggiunta un'inedita filantropia esterofila, e in particolare che questa possa attingere ai 550 miliardi di euro a disposizione del fondo sovrano cinese, potrebbe indurre per l'ennesima volta un gelido risveglio.
Fino a poche settimane fa Roma e Bruxelles dichiaravano che l'euro e i bilanci statali della Ue dovevano "essere salvati dall'Europa e dagli Stati nazionali": cos'è cambiato nel frattempo? Dare all'Asia l'impressione che senza l'intervento delle sue potenze, dalla Corea del Sud, al Giappone e alla Cina, la zona euro non ce la fa, potrebbe essere assai pericoloso. Alle questioni di opportunità economica e finanziaria, si aggiunge infine un quesito politico. Il premier italiano approda a Pechino con l'intenzione di affrontare con gli interlocutori cinesi anche i problemi legati al rispetto dei diritti umani, alla libertà di espressione e alla repressione del dissenso, alla colonizzazione del Tibet e allo sfruttamento dei lavoratori nelle fabbriche? Un premo Nobel per la pace, Lia Xiaobo, langue in carcere e nell'ultimo anno trenta monaci tibetani si sono dati alle fiamme: sono temi all'altezza di una visita ufficiale, pur di taglio economico, oppure l'agenda politica dei valori maggioritari nella popolazione e nei partiti italiani, è ormai esclusa dalle relazioni tra i governi? Gli investimenti della Cina in Italia, che in un quadro di chiarezza ognuno si augura, non sono un auspicio finanziario astratto: significano l'ingresso di Pechino nella vita degli italiani, con tutto ciò che questo comporta anche in termini politici e sociali. Mario Monti, tutto questo, lo sa bene: è la ragione per cui in Cina nessuno si aspetta che si limiti a presentare la lista di un'Italia da battere all'asta per chi offre di più.
GIAMPAOLO VISETTI (La Repubblica - 30 marzo 2012)