"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."
Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).
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mercoledì 19 maggio 2021
Franco Battiato: Il ricordo di Carmelo Bongiorno
In ricordo di una figura che ha rappresentato un suo punto di riferimento in campo artistico e non soltanto, Carmelo Bongiorno, affermato fotografo catanese, ha scritto un articolo per l’amico Franco Battiato che, con il suo vissuto, ha lasciato una testimonianza molto importante a tutti noi per contenuti, qualità, originalità, stile, versatilità, ricerca e impegno sociale.
Il link per accedere al testo pubblicato su Sudpress.it è: https://sudpress.it/destinazione-news/post/123330/franco-battiato:-il-ricordo-di-carmelo-bongiorno
© ESSEC
Serata streaming per raccontare "Enzo Sellerio"
Enzo Sellerio, scelto come tema della serata streaming organizzata da Arturo Safina, è riuscito a far riunire cinque dei principali Circoli fotografici siciliani aderenti alla Fiaf.
All’iniziativa de “I Colori della vita” e del “Gruppo Scatto” di Trapani si sono associate le catanesi ACAF e Le Gru unitamente all’ARVIS di Palermo.
A intrattenere sulla figura di Sellerio si sono soffermati l'avvocato Pippo Pappalardo, il giornalista Nino Giaramidaro e l'artista Nicolò D’Alessandro, che avevano avuto occasione – per vari motivi – di conoscerlo bene e, in qualche caso, lavorandoci pure a stretto contatto.
Enzo Sellerio nasce a Palermo nel febbraio 1924, da padre professore ordinario della facoltà di ingegneria e madre bielorussa insegnante di lingua russa, entrambi docenti all’università di Palermo.
Dopo il conseguimento da giovanissimo della laurea in giurisprudenza (1944), ha modo di assumere l'incarico di assistente alla facoltà di diritto privato, sempre nell’ateneo palermitano. l veri interessi per Sellerio sono però altri.
Dopo una breve esperienza giornalistica e a seguito della frequentazione con Bruno Caruso, viene attratto dalla passione per la fotografia.
Come ha detto Pippo Pappalardo nell’esporre l’escursus creativo, l’attività di Sellerio potrebbe ben collocarsi in una ricerca non solo estetica ma anche antropologica sulla società siciliana del tempo. Il suo raggio d’azione si estende oltre che a Palermo anche nell'ambito catanese, andando a realizzare un insieme di immagini che si collocanoo apertamente in parallelo con il movimento neorealista italiano del dopoguerra.
La cultura fotografica acquisita fin da giovane lo distingue rispetto ai tanti fotografi siciliani del suo tempo, che svolgono l’attività fotografica seguendo connotati sostanzialmente artigianali. A Palermo i vari Studi fotografici, quali Interguglielmi, Seffer e altri coprono l’esigenza documentale classica, legata principalmente a ricorrenze e esigenze fotografiche ritrattistiche. Parallelamente i vari Bronzetti, Cappellani, Scafidi e altri coprono principalmente quella che è l’attività amministrativa collegata a documentare le fasi di realizzazione di opere pubbliche.
Da tutto questo ne deriva che gli interessi e la produzione di Enzo Sellerio risultino completamente diversi da quelli degli altri fotografi locali, muovendosi egli - negli anni 50 e 60 in particolare - in un ambito “intellettuale” che trova forti ispirazione dai grandi pittori e dai fotografi più impegnati; quelli che rivolgono il loro sguardo verso una società in veloce trasformazione, catturando scene di vita che lentamente tendono a scomparire.
Con tante fotografie Pippo Pappalardo viene quindi ad evidenziare plasticamente quanto è stato fin qui esposto, costruendo - in taluni casi più significativi - anche accostamenti con immagini di opere pittoriche o con foto di altri autori, spesso esteri.
Il reportage che lo farà emergere sarà quello incentrato su “Borgo di Dio”, realizzato nel 1955. Il suo debutto come fotografo professionista è forse da associare all’attività svolta in connubio con il pittore Bruno Caruso, quasi coetaneo e pure palermitano, assolvendo all’incarico di documentare il Duomo di Monreale.
Da queste due tappe ebbe inizio il “Sellerio Freelance” che, ottenuti riscontri internazionali, comincia a spaziare con varie collaborazioni giornalistiche, partecipando a mostre e quant’altro. Per chi vuole approfondire, una consultazione sul web consente di avere un quadro completo della sua biografia.
L’avventura editoriale intrapresa con la moglie Elvira determina una svolta significativa sulla produzione fotografica di Enzo Sellerio (una considerazione di Ferdinando Scianna, che viene esposta dopo, fornisce altre motivazioni al riguardo). In ogni caso, il forte legame con Palermo e gli impegni industriali lasciano sempre meno spazi al freelance divenuto intanto anche aziendalista.
Per la città rappresenta però un punto di riferimento a cui si rivolgono tanti per verifiche e scambi culturali. Nel suo tempo si collocano personaggi siciliani come Guttuso, Sciascia, Leone, Bufalino, Quasimodo, Buttitta e tanti altri, che ha modo di frequentare anche come editore. Al Sellerio fotografo fanno anche capo giovani emergenti e fra questi figura Ferdinando Scianna.
Nel suo libro “Obiettivo ambiguo” Scianna dedica un capitolo al mentore dei suoi inizi e racconta anche dei rapporti divenuti poi un po' difficili. Una cosa era ed è tuttora certa, la stima che ciascuno aveva dell’altro, andava oltre le dicerie e gli aneddoti che si raccontano sui loro rapporti.
Ferdinando Scianna chiude il suo articolo datato 2012. "Pochi sono i fotografi che, limitando sostanzialmente il proprio raggio d'azione esclusivamante all'interno del proprio più autentico nucleo geografico, esistenziale ed estetico, hanno realizzato un'opera nella quale così numerosi sono i grandi risultati". Riprendendo la prefazione di Sellerio al suo libro "Fotografo in Sicilia" nell'articolo Scianna scrive pure: "il fotografo 'non cerca, trova', come disse un giorno qualcuno. La cosa mi riguarda particolarmente perchè sono un collezionista. Ho frequentato per anni le botteghe di rigattieri, specialmente a Palermo, e potrei dire che la fotografia è stata una estensione della mia ricerca".
Inoltre fra le tante Ferdinando Scianna esprime anche questa sua considerazione: "Quando il mondo, che per lui, come flaneur con una macchina fotografica, è stato quasi esclusivamente Palermo e la Sicilia, ha smesso, a sua opinione, di assomigliare al fascinoso universo dei rigattieri che lui ha frequentato quotidianamente per decenni, Sellerio ha orgogliosamente smesso di fotografare".
Una coerenza assoluta di Enzo Sellerio sembrerebbe essere stata anche la sua fede comunista mai tradita, pur essendo lui nato in una famiglia borghese, e avendone beneficiato da giovane tutti i vantaggi.
Tornando al webinar della serata, l’ampia esposizione di Pippo Pappalardo ha riassunto in modo efficace l’intera opera di Enzo Sellerio, calandolo con abile maestria nei vari tempi, contestualizzando ogni cosa ai momenti culturali e fotografici corrispondenti. L'abbondante esemplificazione fotografica ha pure supportato visivamente ogni capitolo della narrazione.
Gli interventi di Nicolò D’Alessandro e Nino Giaramidaro hanno completato il quadro, collegando ogni cosa anche al territorio. Le esperienze dirette avute per i diversi aspetti e ruoli (attività di grafico per la casa editrice l’uno, giornalista de L’Ora e poi del Giornale di Sicilia l’altro) hanno consentito di far conoscere l’Enzo Sellerio uomo, mettendo in luce aspetti caratteriali poco noti e la notevole ironia (a limite della cattiveria certe volte) che lo distinguevano; intimità accessibili solo a chi era accettato, gli stava simpatico e particolarmente vicino.
Con i loro racconti e le testimonianze hanno reso comprensibili certi aspetti caratteriali legati alla sensibilità e alla timidezza spesso nascosta e paradossalmente ostentata in eccesso di boria. Aneddoti rappresentavano anche una certa pigrizia che spesso induceva il Sellerio editore a mettere tempo. Più volte D'Alessandro ha raccontato del suo supporto nell'editing fotografico che, in qualche caso, eveva influenzato ancor più del suo contributo grafico. E tanto altro ancora.
La registrazione già disponibile su You Tube consente di ascoltare tutti questi aspetti che non possono essere raccontati in una sintesi.
Uno storico della fotografia, pure editore a Palermo come Sellerio, quale è Paolo Morello avrebbe oggi potuto aggiungere altro sul personaggio. Così come Melo Minnella, Giuseppe Leone o Giovanni Chiaramonte, ma in quel caso sicuramente la serata si sarebbe dilungata troppo, di certo molto più rispetto ai tempi programmati e ai quali si è poi ampiamente e inesorabilmente sforato.
Poichè su Enzo Sellerio, come dimostrato, c'è tanto da dire e molte cose possono essere ancora raccontate da chi ha avuto opportunità di frequentarlo, un proposito comune per tutte quante le associazioni potrebbe essere anche quello di programmare una tavola rotonda dedicata, che possa allargare il numero dei protagonisti da alternare sul palco.
Potrebbe anche essere un’idea da rendere concreta e su cui lavorare fin d'ora. Magari da realizzare in occasione del prossimo congresso FIAF programmato a Palermo per il 2022. Quale migliore occasione?
In conclusione annoto come risulti inspiegabilmente assente Sellerio nel volume (e nella connessa esposizione) "Fotografi siciliani", realizzati in occasione della omonima mostra tenuta presso la Focus Galleria di Palermo dal 20 dicembre 1986 al 14 gennaio 1987 a cura di Roberto Collovà. Una carenza questa, che riporta un pò a quanto ci ricorda Ferdinando Scianna su "Obiettivo Ambiguo", laddove scrive: "Me ne voleva persino per aver detto che lui è stato il più limpido ponte tra la cultura bressoniana e la fotografia italiana. Non voleva essere considerato ponte, pretendeva di essere isola, meglio, continente." Ma la carenza rientra fra le anomalie dell'ambiente culturale siciliano e non escluso quello palermitano. Anche questo potrebbe però costituire un bell'argomento di dibattito, in una ampia tavola rotonda .... allargata.
Buona luce a tutti!
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sabato 15 maggio 2021
Ando Gilardi: "Meglio ladro che fotografo"
“B1” è un personaggio da fumetto che a me piace molto, creato dal pennello dell’amico Antonio che, nel disegnarlo sulle sue piastrelle antiche, lo mostra mentre manifesta frasi e idee di saggezza rivolte ai cittadini; sono punti di vista che in realtà rappresentano i liberi pensieri che passano nella mente di Antonio.
Sono tante le mattonelle con la figura di "B1" da lui realizzate, pure raccontate in un libro, disseminate in molti angoli di vicoli e piazze interne del centro storico di Palermo.
Anche questo è un esempio dei tanti tipi di tasselli usati da molti artisti. Generati come necessità d’esprimersi e comunicare nelle varie forme a loro più consone. Le soluzioni dagli stessi adottate, disegno, pittura, scultura, fotografia, scrittura o altro ancora, sono i mezzi per veicolare dei punti di vista (visioni) che vanno alla ricerca d’incontri, riscontri o bocciature.
Se vai a letto dopo una certa ora, si diceva l’altro giorno col mio amico Pippo, diventa poi complicato prendere subito sonno; tante sono le idee che passano per la mente insonne, che invano si cerca di distrarre dai tanti input e dalle considerazioni innescate da avvenimenti che colpiscono di giorno.
Chi scrive e chi realizza un qualunque genere artistico in verità va sempre alla ricerca di un qualcuno con cui discutere. Chi si ritrova a leggere può raccogliere gli stimoli, ragionarci sopra, per cercare di comprendere il tipo di messaggio, analizzarlo, assimilarlo o elaborarlo con l'aggiunta di un pensiero proprio (personalizzandolo) e renderlo anche autonomo perchè intanto diventato un pò diverso.
Immagino tali azioni d'intellettuali come se fossero dei colpi in un torneo di swash infinito (anche con cambiamenti dei protagonisti), dove ciascun praticante ribatte contro uno stesso muro quell’unica palla che corrisponde al modo di segnalare culturalmente la sua esistenza.
C’è chi colpisce con forza delicata, chi spara bordate con irruenza, chi utilizza contatti liftati, chi cerca di rallentare il ritmo con continui pallonetti. Prestanza fisica ed età aiutano a capire i momenti agonistici, per operare scelte (argomenti) e rapportarsi in relazione a quello che è il proprio bagaglio disponibile.
Ma è regola convenzionale il fatto che la palla - che torna sempre indietro, dopo ogni rimbalzo - occorre rimandarla sempre verso il muro, per perpetuare il gioco; nella speranza di poter partecipare a lungo, di prorogare i tempi di gara e trovare anche nuove soluzioni inseribili fra un colpo e l’altro, nei brevi intervalli che alimentano occasioni.
In qualche modo lo swash è molto simile al tennis; si differenzia, principalmente, perchè chi gioca sta dalla stessa parte ....... del muro. Metaforicamente, quindi, quelli che sono i due contendenti o dialoganti, secondo se l’incontro vuole essere agonistico o solo un modo per tenersi allenati, potrebbero riconoscersi in un'appartenenza univoca (stesso ambito/fazione) ovvero non sarebbero contrapposti in uno schieramento dichiaratamente avverso, in quello che potrebbe essere un campo di gioco di terra rossa, erba, cemento (o alludendo ad altro .... ideologicamente, scegliete voi).
Anche nella mia scrittura spesso s’innescano divertenti giochi di dialogo con lettori/interlocutori amici, che generosamente segnalano refusi, colmano sconoscenze, correggono strafalcioni, mi allargano la visuale in un interscambio paritario e onesto di punti di vista differenti, che alla lunga arricchiscono e in ogni caso tutte le parti, a prescindere dalle potenzialità e dal livello.
Si determina così qualche volta anche un rapporto del tipo “non è mai troppo tardi”, dove il Maestro Manzi che impersona la parte corregge, precisa, insegna, aggiorna, stimola in un incontro che risulta divertente.
Così facendo, nei contonui scambi di notizie e informazioni, un giorno, fra i miei compagni praticanti questa tipologia di swash, due ebbero a segnalarmi, in materia di conoscenze sulla fotografia, la figura di un certo Ando Gilardi.
"Ma come, non conosci Ando Gilardi?" Mi dissero in separate sedi e circostanze entrambi, facendomi quasi apparire la cosa come se fosse per me una grave mancanza, oltre che una lacuna fotografica estrema.
Per avere un’idea e colmare il deficit, provvidi subito all’acquisto di un suo libro pubblicato nel 2007, intitolato “Meglio ladro che fotografo” edito da Bruno Mondadori, il cui sottotitolo è tutto un programma: “Tutto quello che dovreste sapere sulla fotografia ma che preferirete non aver mai saputo”. Ero molto curioso e il titolo intrigava molto.
Chi s’attende “verità vere” dalla lettura di un saggio del genere potrebbe rimanere assai deluso. L’approccio dello scrittore ai vari temi in questo libro è sempre possibilista, costantemente aperto, con un escursus imprevedibile e assai originale. Sostanzialmente, senza giudizi assoluti o preconcetti, induce a inquadrare tutta quanta l’arte - e non solo essa - in spazi molto ampi, mostrandone le tante luci e svelando anche le molte ombre nascoste.
Fondamentale, in argomento fotografia, Gilardi esalta l’avvento dirompente dell'era digitale (gatto) che, a suo dire, avrebbe liberato in fotografia l’analogico intrappolato (topo) da quella che era sempre stata la limitatezza assoluta, legata alla stessa fisicità connessa al tema.
Sostanzialmente per la la pratica che era sin dall'origine in uso, per la fissazione delle tracce in elementi fisici (quali i sali d’argento o altri preparati) indispensabili a fissare l’immagine impressionata. Analogamente a ciò Gilardi viene a rappresentare l'altra vera rivoluzione dei nostri tempi, ovvero l’avvento d’internet e di tutto quello che ad esso è collegato e annesso, che consente di arrivare con assoluta immediatezza a risolvere ogni necessità di conoscenza enciclopedica.
Snocciolando, figurativamente parlando, teorie e punti di vista, certamente molto più compositi e vari rispetto a quanto in genere propongono saggistiche similari, poggianti più di frequente su canoni dati per certi, le disquisizioni di Gilardi sono una raccolta di molteplici punti di vista, di veloce lettura e sempre diretti, deviati in continui cambi intercalati dal termine “cambiamo discorso”.
In ogni caso, anche per Gilardi, come viene affermato in fotografia da molti, le fotografie sono sempre parzialità o interpretazioni del reale e per molti aspetti.
Un libro come questo non può essere in ogni caso raccontato, ma deve essere solo letto per entrare anche nelle logiche e nei ritmi proposti dall’autore.
Lo sviluppo del testo, improntato su un dialogo a due, permette di spaziare con estrema elasticità (un po’ gli scambi nello swash su cui si è dissertato in premessa), per trovare sponde e colpi che consentono d’approfondire per quel che necessita ogni argomento; inquadrando in maniera genialoide le possibili intuizioni, ponendosi in maniera mai statica davanti al solido muro e liberando i colpi ritenuti opportuni in ogni possibile assetto utile al concetto.
Costante che caratterizza lo scrittore, che ha vissuto molte avventure, è anche l’atipicità del personaggio, velatamente nostalgico, dal passato ideologico di una convinta militanza di sinistra. Anche per questo appare diverso, disinibito e assai difforme dal solito parco d’intellettualoidi che spesso si adulano da soli e si mettono talvolta anche in posa.
Gilardi, con le sue domande, le sue risposte veloci e assai ficcanti, affronta moltissime delle tante questioni - e sempre a viso aperto - lasciando trasparire in modo chiaro quello che è il suo pensiero, confortato da tante esperienze e convinzioni.
Sulla religione afferma di accettare l'idea dell’esistenza di un Dio, che potrebbe solo così giustificare la perfidia che si nasconde nelle innumerevoli nefandezze dell'esistenza umana. Perché, come dice lui, solo un Dio potrebbe architettare tutto quello che accade nelle realtà d'ogni giorno.
Brevi accenni richiamano pure i pensieri di filosofi e molte delle loro opere lasciate a noi posteri dalle civiltà antiche. In questa chiave evidenzia pure che la fotografia, concettualmente, esiste da più di duemila anni, se si vanno a leggere gli scritti di Platone che narrano di uomini incatenati in una caverna che avevano modo di contemplare solo le loro ombre, generate dall’unica fonte di luce che proveniva dall’unico accesso all’antro e così via discorrendo ……
Dilungarsi ancora per cercare di rappresentare tutti i contenuti del libro è un'impresa che non potrà mai essere raggiunta. Troppe sono le cose che vengono dette, articolati sono gli spunti e ancor più elevato è il numero le teorie esposte.
Starà al lettore farsi, quindi, una propria idea, qualora si decidesse all’acquisto del volumetto. Mettendo in conto che ogni punto di vista che avrà modo di leggere sarà sempre opinabile e, se del caso, indurrà a tornare a rileggere nuovamente il testo con maggiore attenzione, nel tentativo di capire meglio.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
martedì 11 maggio 2021
Scrisse lucidamente “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” ma morì suicida
A mia memoria, non credo di avere passato più di qualche notte senza dormire e tenuto conto che i miei settanta anni circa corrisponderebbero matematicamente a 25.550 sonni e relativi risvegli - non considerando in ciò brevi pennichelle e che durante il sonno il nostro sistema simpatico innesta il pilota automatico e va avanti - si potrebbe azzardare a dire che dovremmo un po’ essere allenati da una vita a morire ogni sera. Eppure la maggior parte di noi restiamo ossessionati e abbiamo terrore della morte.
Molta letteratura, specie quella moderna, rifugge l’argomento e i media sostituiscono costantemente il termine con tanti sinonimi vari; come a voler esorcizzare l’attualità continua dell’evento, edulcorandolo in termini e presentando l’accadimento quasi come un fatto che può capitare solo ad altri.
Chi ha avuto la fortuna di vivere per tanto tempo sa bene che nei periodi giovanili il problema quasi non esiste. Almeno come possibilità prossima e diretta.
Il naturale decorso della vita ci presenta solo episodi, che interessano chi abbiamo conosciuto e che però è stato meno fortunato di noi, oltre le naturali perdite e dipartite di persone a noi care.
Il processo di elaborazione del lutto, in ogni caso, temporalmente non ha comunque una regola fissa. Dura dei mesi, anche degli anni, non escludendo che può anche accompagnarci per tutta l’esistenza che resta; con fantasmi che compaiono e scompaiono, per inabissarsi con ombre che stazioneranno perpetue nella nebbia della nostra mente.
Superare i traumi è funzionale alla sopravvivenza di chi resta e sperare che il tempo sia capace di sanare ogni cosa, appare spesso irrealistico per i vuoti che alle volte rimangono.
L’attualità del nostro XXI^ secolo in ogni caso è assai idonea a distrarre, a distrarci. La specificità consumistica della società moderna è molto utile al riguardo.
Ambizione e continui desideri sono alimentati e inculcati da un esistenzialismo frivolo che costituisce anche il fulcro della formazione delle giovani generazioni.
Tutto è prospettato come possibile. Senza con ciò accorgerci che in realtà oligarchie si tramandano ancora privilegi, che il classismo impera e si perpetua mentre, attraverso media pilotati e finte democrazie, ci fanno credere di sentirci liberi, pur costretti a muoverci –condizionati e chiusi - in gabbie strette, come dei matti costretti nelle stie.
Il tempo è sempre poco e non basta mai. Si corre al lavoro, per portare i figli a scuola, ci rechiamo in palestre per mantenerci eternamente giovani. C’impegniamo tutti in una corsa come quei topi che corrono in una ruota che gira, alimentati dall’energia di una pila interna che crediamo inesauribile.
Poi, invece, ad un certo momento è arrivato l’imprevedibile: ed è apparso il Covid.
Un accidente che razionalmente era facile da prevedere, essendo stato indicato da alcuni come fra gli avvenimenti possibili.
La società in cui eravamo ormai incanalati aveva invece stabilito altre priorità. Occorreva che l’individuo affermasse in qualunque modo la propria presenza e, in un mondo artefatto, occorreva in primo luogo apparire; era stata disegnata un’organizzazione sociale in cui se neanche ci provi sei un disadattato, un fallito, sei proprio nessuno. E, come detto, arrivò il Covid: confusione totale.
S’impongono restrizioni per contenere lo sviluppo del virus e cercare di bloccare ogni forma di contagio: lockdown. Si resta anche a casa a lavorare: smart working. Altri provvedimenti assumono terminologie inglesi, per dare l’apparenza di padroneggiare le gestioni. Si rimane sostanzialmente bloccati e si torna a leggere, a pensare, a vedere le cose in un altro modo.
La paura per la pandemia diventa in breve un’ossessione.
Tutti i media bombardano gestendo il fenomeno come notizia del giorno, con un martellamento continuo in una società sempre più sfibrata.
Talk, servizi, telegiornali e stampa evidenziano però la vera patologia esistenziale che, sottotraccia, ci accompagna da tempo; specie nel mondo occidentale proiettato a velocizzare sempre più il futuro. Bloccati a casa e costretti a riflettere, si cominciano a vedere le ampie falle del nostro sistema civile. Si palesano le carenze di strutture che, a vario livello e per ogni specifico settore, si rivelano inadatte e impreparate.
L’uso delle mascherine insorge, ma le loro adozioni, più che rivolte a contenere l’espandere di un nostro possibile contagio agli altri, sono vissute come espedienti per proteggere principalmente - o forse solo - se stessi.
La paura che ci attanaglia rende tutti passivi, succubi di chi in qualche modo ha le responsabilità nel decidere. I bollettini che ascoltiamo ogni giorno, aggiornano sulla guerra e incrementano il terrore.
A un certo punto, come per incanto e come nelle brutte favole che sembrano un incubo, appare quella che viene prospettata come giusta soluzione. Un “ecumenico”, che viene subito assurto al ruolo di principe e che saprà scegliere nella pandemia quelli che senza alcun dubbio saranno “i migliori”. E' presentato come nuovo “vello d’oro” capace di sanare ogni ferita. Si conclama ancora una volta l’idolatria recondita che da sempre accompagna ogni stirpe umana.
Consolerà intanto e di certo ogni attesa del popolo, anche se inventato e scelto con ruolo taumaturgico dai soliti interessati alle umane cose: quelli più pragmatici, i cinici lucidi, che vedono in ogni circostanza opportunità percorribili per estendere il raggio di possesso.
In un angolo adombrato, resta la figura di un uomo mite, un giusto che viene dalla lontana Terra del Fuoco, cioè dall’altro mondo, che ha una fede diversa e che continua a predicare senza che nessuno però lo ascolti seriamente.
Fortunatamente l’essere umano ancora resiste, ogni notte s’addormenta e nell’onirico alimenta sogni.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
P.S. Il mio amico P. nel leggere questo pezzo, mi segnala un articolo apparso su La Repubblica che non conoscevo e che riporto interamente di seguito per corroborare il senso del discorso.
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"Il senso dell’ultimo saluto" di Vittorio Lingiardi
Intorno alla fossa, nel cimitero in rovina, c’erano…”. È l’incipit di Everyman di Philip Roth. C’erano i colleghi che dissero che era stato un piacere lavorare con lui, gli anziani ai quali aveva dato lezioni di pittura, i due figli maschi delle sue turbolente prime nozze, il fratello maggiore e la cognata, l’infermiera che lo aveva assistito dopo l’operazione al cuore. E poi c’era la figlia, Nancy, “che aveva organizzato tutto e fatto le telefonate”. Il breve romanzo di Roth, il cui titolo è tratto da un anonimo morality play della prima drammaturgia inglese che ha per tema la chiamata di tutti i viventi alla morte, racconta i diversi incontri di un uomo con la propria mortalità. Inizia dalla fine, il funerale, perché un funerale è un rito di riposizionamento, serve ad accompagnare le vite dei morti e ad aggiustare quelle dei vivi.
Everyman ci aiuta a capire come il coronavirus ha cambiato non solo il modo in cui viviamo ma anche quello in cui moriamo. Parlo ovviamente del nostro mondo di Weird people (western, educated, industrialized, rich and democratic), secondo l’acronimo coniato dal biologo evoluzionista Joseph Henrich. Riguarda la nostra collettività benestante e la sua illusione di avere almeno in parte addomesticato il morire.
La pandemia ha fatto due mosse cruciali:
1) ci ha costretto a pensare alla morte tutti i giorni (numeri che ascoltiamo come le previsioni del tempo);
2) ci ha tolto i metodi tradizionali per tollerarla, cioè i riti funebri e la consolazione del contatto fisico.
Per questo consiglio il romanzo di Roth, per ritrovare nella letteratura amica il senso di un’esperienza fondamentale che i protocolli anti Covid, severi ma anch’essi amici, dovrebbero trovare il modo di ripristinare.
Obbligandoci a questo lutto del lutto, il Covid ha reso la salma più astratta e noi più soli. Il corpo del defunto, dai tempi di Antigone, è presenza di memoria in assenza di vita, sanzione di distacco in evidenza di perdita. Quanto incidono, sul piano psicologico, le privazioni rituali a cui la pandemia ci ha costretto? Credo non poco perché riguardano la separazione, che è tema cruciale per ciascuno di noi. Non li salutiamo più, i morti, o li salutiamo in fretta, senza guardarli e senza toccarci.
In Lutto e melanconia, Freud sottolinea come il lutto richieda un lavoro psicologico fondamentale: avviare il “disinvestimento” dalla persona perduta, così che l’esame di realtà possa farci accettare la sua scomparsa.
Quello dell’ultimo saluto, circondati dalle persone cui vogliamo bene e che hanno voluto bene a chi non c’è più, è un momento psichico e rituale che promuove il “lavoro del lutto”. Senza quel saluto è più difficile, è come se una parte della nostra psiche rimanesse sospesa, più incredula e sola.
Il sito dell’American Psychological Association ha aperto una pagina che si chiama Grieving life and loss (che tradurrei Elaborare il dolore della vita e della perdita), perché il tema della rinuncia, ai corpi, certo, ma anche alla sicurezza, prevedibilità e stabilità, è e sarà sempre più cruciale per la salute mentale di domani. Il sito dell’International Psychoanalytic Association ha appena inaugurato una serie di podcast dedicati al morire nelle diverse declinazioni geografiche e culturali.
Siamo nel pieno di un lutto collettivo. Lo diciamo in tv tutti i giorni, ma “dentro” ce lo siamo detti?
“Elaborazione” è la prima parola che qualunque terapeuta associa all’esperienza del lutto. Le cui varianti sono oggi amplificate: lutto complicato, prolungato, post-traumatico. Oltre ai sintomi depressivi, il clima pandemico ha portato a un aumento dell’ideazione suicidaria, anche in adolescenza, che è sempre figlia di elaborazioni mancate, difficili, solitarie.
Come nuove Antigoni siamo chiamati a elaborare una dimensione civile del lutto e della perdita, che è prima di tutto scoperta della nostra finitezza e capacità di accoglierla, anche grazie a un rito condiviso, nella memoria del futuro.
da La Repubblica, 23/2/2021
domenica 9 maggio 2021
"I fenomeni"
In ogni contesto sociale ci sono sempre "i fenomeni".
Al di là dell’indiscutibile preparazione teorica e dottrinale, gli appartenenti alla categoria talvolta si rivelano però delle mine vaganti, che apparirebbe sempre utile saper gestire a modo.
In un certo momento storico accadde che l’Istituzione sentì la necessità di diffondere nel sistema vigilato una bellissima idea: la verifica della trasparenza periferica.
Bella cosa senza alcun dubbio, ma come in tutte le novità complesse, l’avvio di tale pratica avrebbe necessitato di un affinamento sia degli schemi operativi che della preparazione dei soggetti chiamati a svolgerla. Facendo ben collaudare prima la normazione messa a punto da strutture giuridiche, magari da chi nella materia era certamente - e già da tempo - praticamente più esperto.
Nella vigilanza centrale, da sempre si alimentava la diatriba tra la struttura amministrativa e il corpo ispettivo; solo a stento la prima sapeva trarre pieno beneficio e riusciva a capire fino in fondo i vantaggi che derivavano dall’attività della seconda. L'azione ispettiva, con la sua attività sul campo, era però quella che riusciva a ben discernere - costantemente - ogni aspetto che differenziava teorie cartolari e inconfutabili verità rilevate.
Per inciso preme anche dire che, e forse non solo a mio parere, la supremazia finale della prima sulla seconda non è risultata poi tanto estranea anche ai disastri recentemente occorsi al sistema bancario italiano. L’avvento della BCE ha poi cantato il de profundis, per il ridimensionamento delle funzioni nazionali conseguenti.
Sappiamo ormai molto bene come è andata a finire a molti risparmiatori che, a presunta insaputa dei controllanti, sono rimasti impantanati nelle pastoie pasticciate dei default di banche popolari, in primo luogo. Realtà, queste ultime, che hanno rappresentato gli agnelli sacrificali principali, per una certa maniera allegra di fare vigilanza; oboli offerti a un sistema nazionale rivelatosi almeno impreparato e risultato palesemente imperfetto.
Ma le banche popolari non furono le sole, perchè anche altre istituzioni creditizie più importanti non sono rimaste escluse da improvvide gestioni non adeguatamente controllate.
Tornando alla trasparenza attuata negli sportelli bancari, l’intento di sviluppare diffusamente a livello territoriale l’operazione di controllo, come poteva essere ben prevedibile – se si fosse applicato un minimo di buon senso - si dimostrò quasi subito un quasi disastro, ancorchè potesse in verità tornare utile.
Le direzioni locali, infatti, tornate ebbre dopo l'euforia per aver ricevuto queste nuove qualificanti incombenze istituzionali, nella quasi totalità disposero affinchè agguerrite coppie di giovani rampanti, in cui almeno uno fosse esperto di materie giuridiche, assolvessero ai compiti e scendessero in campo, per acquisire le risposte ai questionari teorici che erano stati approntati (con ricercatezza, nelle intenzioni, e acuto perfezionismo) dagli uffici amministrativi gerarchicamente competenti.
Per quanto ovvio, i giovincelli, specie quelli che nei contesti si erano sempre dimostrati degli inarrivabili “pierini”, non bruciarono l'occasione per mettersi in mostra. Del resto era stata concessa loro l’opportunità per vestirsi un po’ da "ispettori di campagna" e scorrazzare sul campo.
S’incominciarono così a mietere irregolarità a go go; vere o presunte. L'irrefrenabile carica emozionale da "detective o sceriffi" fece sì che ognuno andasse a scovare quante più anomalie possibili.
Come succede nei film d’azione, i novelli cacciatori di scalpi accumularono trofei e i fantastici pistoleros da Far West finto misero tacche sulle loro colt sempre calde, per ostentare agli altri concorrenti il numero di duellanti uccisi.
Per farla breve, in poco tempo gli uffici centrali destinatari finali, chiamati a analizzare i molti report frutto d’indagini e a curare la gestione dell’iter giuridico per l’individuazione delle sanzioni erogabili, accumularono molti mini rapporti negativi. Le strutture centrali si videro sommerse da rilievi di mancato rispetto degli obblighi normativi da loro stesse prefigurate e obbligate a proporre, quindi, l'emanazione di una miriade di multe; oltre a dover avviare iter per risvolti penali, essendo stati accertati aspetti che incautamente erano stati classificati come passibili di reato.
Per la storia ormai passata agli annali, si ricorda anche la grande frenata cui furono impegnati dopo pochi mesi tutti quanti: i Capi servizio e i Direttori periferici. Furono immediatamente preparati molti seminari e corsi finalizzati a ridimensionare le questioni, per riportare a normalità e raziocinio anche quella tipologia di accertamenti.
In ogni caso, carta canta e gli eventi accaduti non si cancellano. Anche questa può ben annoverarsi fra quelle topiche eccellenti di un sistema autoreferenziale che continuava a ritenersi efficace e infallibile.
Il proverbio recita che la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Se si dovesse fare un’anagrafe delle scelte sbagliate in quell’ambito istituzionale si avrebbe un corposo elenco che andrebbe pure a coinvolgere personaggi chiamati oggi a incarichi pubblici di maggiore rappresentanza.
In tutto questo i più delusi restarono allora i “fenomeni” rampanti che, da un giorno all’altro, passarono a nuovo ruolo. Si ritrovarono tutti ridimensionati, riclassificati da eroi decorabili a pazzi scatenati e costretti a ritornare indietro pure medaglie e stellette.
Buona luce a tutti!
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sabato 8 maggio 2021
Il “Mega Direttore Galattico” e l'uso censorio della sua “Matita Rosso/Blu”
Se si riflette un po’ ci si accorge che quasi tutti gli accadimenti che suscitano attenzioni per presunte irregolarità procedurali, anomalie che indurrebbero a verifiche e approfondimenti, la questione principale sembra essere sempre l’aspetto formale; come se l’eventuale supposta irrituale prassi potesse far venir meno l’anomalia gestionale applicata al fatto e pregiudicasse l'accertamento immediato di irregolarità – anche palesi – correlate al fenomeno oggetto d’esame.
In un altro scritto, soffermandomi alla vicenda definita dalla stampa come la “guerra dei dossier” (Davigo-Storari-Amara, nello specifico), ebbi a raccontate un aneddoto che intendeva dimostrare come, mettendo da parte per un momento rigidità procedurali, si potesse anche procedere proficuamente nella verifica di questioni che necessitavano d’essere immediatamente accertate per poi, se se ne ricorressero i presupposti, essere confermate nei termini apparenti o andar corrette.
Poiché la storia che vorrebbe mettere al centro Piecamillo Davigo sembra il vero e unico problema irrisolvibile della questione, in un sistema italiano dove tutti hanno l'abitudine di parlarsi informalmente e ove succedono pure cose/fatti al limite della legge (leggasi al riguardo il libro intervista di Sallusti su Palamara), voglio raccontare un altro aneddoto occorsomi a fine anni novanta, che ritengo possa essere abbastanza emblematico riguardo all’opportunità di dover prendere in autonomia delle responsabilità immediate, specie in casi che necessitano di decisionismi urgenti.
Per raccontare meglio e cercare di rendere più scorrevole l'aneddoto prendo, in qualche modo, in prestito una certa tecnica e modalità narrativa di Camilleriana memoria.
Nel nostro sistema normativo italiano, nell’ambito delle procedure di recupero forzoso di somme da esigere, i creditori possono avvalersi della facoltà di aggredire disponibilità liquide facenti - in qualche modo - capo a disponibilità detenute o periodicamente alimentate attraverso conferimenti di terzi individuabili. La prassi più diffusamente messa in atto in questi casi dagli avvocati per tutelare i propri patrocinati, è genericamente denominata “pignoramento presso terzi”.
Nella realtà in cui ho operato per tanto tempo, una volta, per uno specifico pignoramento, accadde che in relazione ad un procedimento avviato, che aveva determinato un vincolo su somme disponibili come tesoriere, stante l’accertata un’erogazione corrisposta al creditore principale in altre forme, venne disposto dagli uffici romani competenti lo “svincolo dell’intero accantonamento effettuato” precedentemente. L’ufficio periferico cui facevo capo, dispose quindi quella volta lo svincolo delle somme e preparò la classica dichiarazione da consegnare con delega durante l'udienza in Tribunale, secondo una prassi consolidata.
Accade però che alla data convenuta si venne a presentare anche un altro “creditore intervenuto” che, rilevato informalmente lo svincolo incautamente intanto effettuato, venne a paventare azioni civili (accertamento dell’obbligo del terzo, art. 549 c.p.c.) e penali (non assolvimento degli obblighi del custode giudiziario).
Attesa la fondatezza delle ragioni dell’interveniente e nell’impossibilità di potermi confrontare con il mio ufficio, concordai con l’intervenuto una soluzione salomonica praticabile. Per scongiurare verbalizzazioni che certamente avrebbe assunto il celebrante (acquisendo la dichiarazione predisposta che attestava l'avvenuta rimozione del vincolo, disattendendo agli obblighi di legge) e che avrebbero comportato sicuramente conseguenze pesanti per l’istituto che rappresentavo, m’assunsi – in qualità di delegato, quale ero – la decisione di richiedere un rinvio, evitando con ciò di depositare una dichiarazione che avrebbe generato gravi conseguenze civilistiche e penali.
La formula nella circostanza usata e che feci scrivere a verbale dal facente funzioni di Pretore fu: “il quale fa presente di non essere pronto per rendere la dichiarazione per conto della” … “e pertanto chiede un rinvio breve”.
Certamente questa mia autonoma iniziativa derivava anche dall’esperienza accumulata nell’attività fino a poco tempo prima svolta, nei ben più complessi e complicati compiti ispettivi, che necessitano sempre velocità nella capacità d’analisi e, talvolta, prontezze decisionali; che impongono, cioè, di cogliere con immediatezza l’essenza delle cose per scegliere quelle opzioni più opportune disponibili nel momento.
L'utilizzo delle professionalità accumulate, che ora venivano solo impegnate ad apporre aste di spunta su tabulati vari e, per delega, a firmare per l'ammissione a titoli di spesa al pagamento (assolvendo da tali compiti, dei superiori poco propensi ad svolgere incombenze regolamentari a loro proprie), non poteva annebbiare le autonomie decisionali necessarie che certe criticità richiedessero.
Una volta però rientrato in ufficio, apriti cielo! Lascio al lettore immaginare quelle che furono le reazioni. Chi l’ha autorizzata a adottare questo comportamento. Lei è passibile di azioni disciplinari! Si doveva attenere ad eseguire solo il suo mandato! Doveva depositare la dichiarazione al Pretore! Non era delegato per assumere sue decisioni! E così via dicendo.
Il Direttore della Sede con la sua matita blu, com’era del resto avvezzo – specie nel far risaltare quelli che, per lui, erano fatti gravissimi - venne a scrivere di pugno nell’appunto predisposto dal responsabile di settore e con veemenza (sottolineando il suo scritto): “d’iniziativa?”.
Eppure nell’appunto in questione stava anche scritto che “l’Amministrazione Centrale, sentita per le vie brevi, ha approvato il comportamento tenuto e ha suggerito di rivincolare l’importo originario, in attesa di ricevere nuove istruzioni”.
Come capitava in casi inconsueti come quello accaduto, l’isteria era subito prevalsa in tutte le parti in causa; nessuno a caldo era riuscito a ragionare, razionalizzare, e tanto meno a capire la portata delle gravi irregolarità emerse, che erano state fortunatamente scongiurate.
La reazione che ebbi personalmente a ricevere fu, quindi, quella classica militaresca; quella che prefigura e realizza senza riserve un’insubordinazione, un’indisciplina, una disubbidienza anarchica, un comportamento non conforme ai rigidi obblighi regolamentari.
Il capo ufficio – con gli occhi di fuori - ebbe perfino a dire che, per quanto fatto, prefigurava anche il licenziamento.
L’intera pratica ebbe un seguito interno, producendo varia corrispondenza e, in ultimo un ulteriore nuovo appunto - predisposto per il Mega Direttore Galattico del tempo- Questi, dopo aver visionato scrisse con la solita matita e sottolineando ancora la sua disposizione: “protocollare”. L'appunto da assoggettare a protocollo riportava, tra l’altro, questo: “Non fu a suo tempo previsto alcunchè per i possibili ‘intervenienti’, in quanto anche per loro dovrebbe vigere l’obbligo della decorrenza prevista” …. “L’occasione peraltro sarà utile per una riconsiderazione anche da parte della Consulenza Legale” …. “Per quanto poi concerne l’Avvocatura di Stato, che va indubbiamente resa edotta di quanto avvenuto, nel caso particolare, è preferibile che venga intrattenuta dopo che l’A.C. avrà espresso le sue considerazioni sulla vicenda”.
Per quanto intuibile, accertate le gravi irregolarità amministrative e la pessima gestione interna all’istituto, nessuno ebbe poi a scusarsi per il modo in cui ero stato trattato a caldo, nonostante acclarata la giustezza e la valida provvida soluzione che avevo posto in essere e che aveva evitato rogne oltre che tutelato in modo eccellente - e a vari livelli - l’istituzione.
Certamente chi sta leggendo avrà avuto conoscenza di altre storie di avvenimenti irrazionali similari. Del resto la burocrazia miope non regna mai in un solo luogo, specie in Italia.
Per inciso, quel direttore di cui ho fatto breve cenno, ma del quale non faccio il nome, ebbi a incontrarlo poche volte nei corridoi dello stabile, nonostante la sua lunga reggenza.
Lui non trattava con la manovalanza, si rapportava ai dipendenti gerarchicamente, esclusivamente per il tramite di funzionari e dirigenti (era uno dei tanti psicopatici che si trovavano a ricoprire pericolosamente ruoli eccessivi per loro e che si rivelavano assolutamente inopportuni, anche per i condizionamenti comportamentali psicotici che inevitabilmente determinavano con le loro concezioni direzionali, specie nei più deboli e pavidi che si trovavano ad alimentare così una lunga catena).
In ultimo, come aspetto un pò irrazionale ma coerente rispetto all'intera vicenda, nell'esaminare gli atti documentali si ebbe a registrare come, sul famoso primo appunto d'ufficio, sul quale aveva apposto con matita blu l'interrogativo "d'iniziativa ?", il Mega venne poi a tagliarlo con tre linee (usando lo stesso colore e forse pure la stessa matita, sempre con pugno fermo). Ma con ciò non riuscì a cancellare l'osservazione originaria, rivelatasi alquanto inopportuna.
L'apposizione e la sua permanenza rendeva il tentativo di rettifica solo un aspetto patetico del personaggio, che così intendeva ridimensionare i suo primo giudizio inappellabile di condanna.
Anche questo racconto, che potrebbe aver forse tediato, vuole dimostrare come la sostanza delle cose spesso è molto più importante delle forme, delle prassi, delle regole scritte. Tutto va soppesato e interpretato in relazione anche all’urgenza di assumere decisioni. Le gerarchie aiutano nelle organizzazioni ma tutte le regole sono funzionali agli scopi e il buon senso spesso prevale anche su di esse.
Le recenti vicende sui fatti accennati in premessa, mi hanno portato e riesumare dai miei ricordi anche questa nefasta avventura. Il povero Piercamillo Davigo sta, in ogni caso e a mio parere, costituendo per molti un'eccellente utile arma di distrazione di massa, in questo momento complicato e alquanto oscuro della storia democratica del nostro paese.
Buona luce a tutti!
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venerdì 7 maggio 2021
Una serata in streaming con Enzo Cei Fotografo
Affermare in pubblico, durante un incontro in streaming, quanto i colpi di fortuna hanno accompagnato alcune delle foto che si mostrano non è cosa abituale; ancora di più rappresenta un atto di sincerità voler rendere partecipe chi ascolta di quanto, in fotografia, possa spesso incidere il caso.
Enzo Cei, fotografo toscano affermato e sostanzialmente autodidatta, nel mostrare le sue foto, ha accennato più di una volta all'accadimento fortunato, con ciò, senza mai enfatizzare quello che è il suo naturale intuito, le ampie conoscenze e ogni frequentazione tecnica di cui è pienamente padrone per sapere catturare l’attimo, proprio l’istante magico immortalato nelle sue foto, quello irripetibile ricordato costantemente da Cartier-Bresson.
Ha raccontato delle sue origini contadine e della sua famiglia che ha dedicato l'esistenza a coltivare la terra di un padrone e della propria croce. Infatti, il suo fratello primogenito, ha vissuto 27 anni con una grave forma invalidante. Di certo è questa una delle chiavi di lettura di suoi lavori, specie quelli realizzati in età matura e più impegnati.
Rispondendo a un’esplicita domanda, ha raccontato pure di come a un certo punto ebbe a maturare il bisogno di andare oltre il suo abituale modo di fare fotografia. Della voglia insorta di vivere e raccontare specificità e peculiarità umane che si associavano a una necessità sentita di penetrarsi in realtà notoriamente poco note del vivere umano, che in molti rifuggiamo o evitiamo d'incontrare.
Il suo desiderio era anche quello di ricercare sofferenze per sentirne i battiti e poi elaborare il tutto e venirne a raccontare agli altri, con la sensibilità e la ricchezza dei dettagli propri, arricchiti da testi idonei non banali.
In forza di ciò, la crudezza di certi suoi lavori, associati a una didascalia descrittiva appropriata di chi aveva ricercato quei momenti, vissuto le esperienze contestualizzando luoghi e fatti, in certi suoi prodotti veniva a smussare e alleviava l’impatto dell’osservatore/lettore, che altrimenti rischiava di rimanere interdetto, davanti anche ad immagini forti.
Stante che i suoi primi successi si rifacevano ai cavatori delle cave di marmo delle Alpi Apuane del carrarese, all’inizio Cei ha proposto fotografie spettacolari e inusuali, che raccontavano principalmente il lavoro dei tanti personaggi coinvolti.
Attori lavoratori che nel racconto, lui veniva a descrivere con i nomignoli attribuiti dalla gente del luogo, rendendo i personaggi delle foto quasi dei familiari.
Com’egli stesso ebbe poi a dire, non ci fu un vero e proprio momento databile che possa individuare il suo passaggio alla fotografia impegnata, che via via si è rivolta ad argomenti sempre più complessi.
Semplicemente venne a riferire, come a un certo punto cominciò a trovare poco significante e certamente insoddisfacente vivere la fotografia quale aspetto di ricercatezza estetica fine a se stessa. Fu allora che sentì il bisogno di affrontare questioni più complesse e difficili, riguardanti aspetti di maggiore impegno sociale, come le problematiche esistenziali poi proposte.
Il missionario laico che stava assopito in lui, lo indusse a rivolgere lo sguardo verso vari temi che lo interessavano e intrigavano, che corrispondevano forse anche a una sua necessità di ricerca introspettiva, da percorrere in chiave mistica attraverso altre persone.
In questi suoi propositi ha pertanto individuato vari temi, senza mai fissare delle precise scadenze o finalizzare il tutto a uno scopo diverso da quello di voler raccontare dal di dentro fenomeni, anche patologici, di cui le fotografie parlano. Come quelle che investono i bambini, i malati di cuore o più in generale i soggetti necessitanti trapianti, i malati mentali e così via discorrendo.
Dal webinar esce, quindi in breve, un Enzo Cei fotografo che oggi si racconta generosamente e annota – ormai continuamente - tanti appunti su tematiche che si propone di sviluppare.
Senza mettersi alcuna fretta per la realizzazione dei progetti, procedendo per ogni impegno con il tempo utile e necessario a sviluppare ogni cosa; lasciando e riprendendo le diverse lavorazioni in corso, curandole e arricchendole continuamente fin quando non li ritiene completi; anche delle didascalie necessarie e da rendere coerenti al disegno che si era fin dall'origine posto in mente.
Appariva quasi del tutto evidente e naturale che un fotografo come lui, impegnato in una continua ricerca e che utilizzava la macchina fotografica come strumento - mettendo pienamente a frutto ogni potenzialità fotografica perfettamente conosciuta - andasse a ricercare nella filmografia la possibilità di allargare la propria forma di racconto; come del resto è poi accaduto.
Attraverso documentari che gli consentiranno di inserire altri elementi in aggiunta alla sola sfera visiva tradizionale, con i film ha avuto modo di completare le sue narrazioni, aggiungendo elementi ritenuti a un certo punto indispensabili, per rendere comprensibili e completi i suoi lavori.
Visitando il suo sito http://www.enzocei.com/ è possibile visionare l’ampia produzione artistica che, oltre a molti libri, propone una autobiografia che consente di comprendere tutto il suo percorso.
Pippo Pappalardo, quasi costantemente presente negli eventi artistici siciliani in streaming che coinvolgono personaggi importanti della fotografia, specie se disposti a raccontarsi in un dialogo con appassionati, ha creato i collegamenti dei tanti periodi artistici di Enzo Cei fotografo, di cui peraltro è grande estimatore.
Nelle acute descrizioni di contenuti e messaggi racchiusi nei suoi libri, di cui detiene nella sua libreria personale una buona raccolta, ha evidenziato aspetti che si ricollegavano ad autori cui si richiamano alcune fotografie e ha proposto argomenti utili per l’approfondimento di vari aspetti a cui l'amico Cei ha sempre puntualmente risposto.
Per molte immagini e taluni temi, il tempo programmato non ha consentito di prolungarsi in altri approfondimenti. L’impegno reciproco finale è però stato quello di un incontro da svolgere in un’altra occasione, magari per parlare dei nuovi progetti in corso d’opera e anche di quanto andrà a realizzarsi a breve.
Le associazioni trapanesi de “I Colori della Vita” e “Gruppo Scatto”, organizzatrici dell’incontro, hanno prontamente raccolto l’impegno per l’appuntamento formulato.
La serata in streaming con Enzo Cei, ancora una volta, ha confermato l’utilità e la valenza di occasioni come quella occorsa che, originariamente nate da esigenze volte a sopperire alla scarsa mobilità causata dal Covid, hanno prodotto nuove soluzioni innovative e indotto federazioni e circoli ad inventarsi una serie d'incontri e dibattiti virtuali, per poter continuare a confrontarsi e poter parlare di fotografia. Offrendo, così, opportunità per intrattenersi in dialoghi e conoscere tanti maestri e affermati professionisti, annullando pure negli incontri ogni distanza geografica.
Ne è ulteriore riprova quanto risposto da Enzo Cei, il quale, dopo una lettura preventiva di questo articolo - per correggerne eventuali inesattezze - ha tra l’altro scritto: “mi ha fatto bene leggerti, anche a me sono rimasti impressi certi passaggi di ieri sera, io che sono abituato a guardare negli occhi.... Evidentemente certi “dialoghi”, quando funzionano, funzionano anche tramite la fredda tecnologia. Sempre che il calore umano sia ben vivo e operante. Che senza di quello, come si è già detto, tutto è lettera morta. Ora che l’ho rivissuto, mi accorgo che mi manca il vostro Sud e non importano gli acculturamenti o le competenze. I colpi di petto mi bastano.”
Buona luce a tutti!
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mercoledì 5 maggio 2021
“La foto che parla”
Ho visto l’evento registrato sui social ove, nell’ambito di una formula creativa, dallo stesso definita provocatoria più che sperimentale, Enzo Leanza ha intrattenuto un gruppo di amici appassionati di fotografia in un interessante breve streaming serale.
Leanza è un insegnante di storia dell’arte, esperto di fotografia, che tra l’altro è anche editore di Spectrum, un’impegnativa iniziativa culturale nata da qualche tempo nel territorio catanese.
Anch’egli ospite del Gruppo Fotografico Luce Iblea, Pippo Pappalardo, buon conoscitore e mentore del giovane Leanza già fotoamatore, ha avviato la discussione su quello che era l’argomento programmato dell’incontro: “La foto che parla”; con un preambolo introduttivo di quelli suoi.
Una volta presa la parola, Enzo Leanza è venuto a proporre un qualcosa che presentava come una allegra e leggera trovata grafica o fotografica (secondo l’approccio che si volesse dare), ma che in verità veniva a costituire una forma inusuale e assai efficace per scrivere e descrivere idee e considerazioni.
Un modo di proporre degli stimolanti aspetti, ben individuati e palesemente camuffati, come giocosi pretesti per alludere e palesare.
Il risultato volutamente descritto come un divertissement in realtà si rivelava fotograficamente attraverso un insieme grafico complesso, composito e associante di tanti messaggi accennati, con capitoli descrittivi volutamente indicati da soli titoli, facendo sì che ogni osservatore potesse leggere liberamente ciò che voleva o riusciva a intravvedere.
Ne è poi venuto fuori un interessantissimo dibattito, dove ogni intervento si completava a vicenda formando un unico costrutto. Tirando in ballo, ovviamente, anche tanti autori più o meno famosi, storici e recenti, e scuole di pensiero che hanno praticato e sviluppato quest’ampio ambito creativo già da tempo.
Si trattava in particolare di un genere artistico di ampio raggio, ispirato e alimentato principalmente da fantasie, intuito geniale e dalla capacità espressiva di cui è capace ogni autore.
Il tutto, mettendo insieme, come sempre accade per ogni creatività, tante forme di scritture fotografiche, lette, interpretate e assimilate come risultato dei diversi momenti artistici vissuti.
Il dibattito che ne è seguito ha comprovato l’interesse e la perenne valenza dell’azione di ricerca che è presente in qualunque campo; e nell’ambito artistico in special modo.
Chi fosse magari rimasto curioso e volesse capirne di più rispetto a questo breve appunto, potrà tranquillamente accedere alla pagina Facebook di Luce Iblea per verificare e entrare di più sul contenuto di quanto scritto.
Buona luce a tutti!
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martedì 4 maggio 2021
“Buttare l’acqua sporca con il bambino”
Giancarlo Caselli in un suo editoriale, riguardante il groviglio di problemi scatenato dal dossier con copie dei documenti riferibili a cinque interrogatori dell’avvocato d’affari Amara chiude così: “Ecco perché, nonostante tutto, è ancora una fortuna che l’inchiesta sia svolta da magistrati indipendenti.” Nel suo intervento scritto diceva pure: “Ma per quanto riguarda Piercamillo Davigo una cosa almeno mi sembra di poter dire fin d’ora: non ha agito per qualche interesse personale o per uno scopo ictu oculi classificabile come riprovevole o riconducibile a una qualche architettura intenzionale. Se ha commesso un peccato, si è trattato di un peccato che si potrebbe definire di generosità. Nel senso che Davigo ha deciso autonomamente (a quanto pare “sul tamburo”, altro indizio di generosa disponibilità) di caricarsi addosso un fardello spinoso per non esporre più di tanto, lasciandolo solo, un collega che si sentiva in difficoltà.”
Durante dibattiti televisivi, autorevoli altri magistrati intrattenuti al riguardo hanno puntato l’attenzione soffermandosi principalmente su aspetti formali e prassi procedurali, mettendo quasi in secondo piano o nemmeno entrando minimamente nel merito della questione, sui fatti e i contenuti documentali, pur se - in ogni caso - da accertare circa l’attendibilità. Il tutto come se una prassi difforme da codicilli e norme avesse un aspetto superiore rispetto a dichiarazioni rese in fase inquisitoria che, forse e comunque a mio parere, avrebbero richiesto tempestività già per la gravità apparente.
Nel mio piccolo, nel lontano febbraio del 1990, era in corso nella mia istituzione un’ispezione interna, di quelle che tendono a verificare il rispetto delle normative. Accadeva mentre parallelamente ero stato, a mio parere, penalizzato dalla dirigenza presente nel luogo in cui operavo per un giudizio annuale (denominato “bollettino”) che mi precludeva ogni possibilità di avanzamento in grado nello scrutinio susseguente.
Ricordo che con un ricorso redatto di getto, chiesi udienza ai componenti del gruppo ispettivo per denunciare quel che ritenevo essere stati i torti subiti e le irregolarità procedurali attuate per addivenire a un giudizio per me penalizzante.
Così come citato per la vicenda Davigo, gli ispettori di quel tempo opposero resistenza a prendere in esame il mio documento. Sostenevano anche loro che la prassi imponeva un certo iter gerarchico e che loro non erano abilitati a sconvolgere le regole.
Obiettai dicendo che in quel momento loro rappresentavano l’istituto a tutto tondo e quindi non potevano, specie per la peculiarità dei compiti ispettivi assegnati, rifiutarsi di prendere in considerazione il mio documento.
Quella volta io fui fortunato, perché, dopo un lungo e vivace confronto, gli ispettori e il Capo del gruppo sostanzialmente, acconsentirono che io lasciassi il ricorso approntato solo per una consultazione.
Prima che la giornata finisse fui nuovamente convocato da loro, invitato a ritirare il documento per formularne uno nuovo, coinvolgendo nella stesura membri della dirigenza per due scopi. Il primo era quello di far rientrare nella prassi gerarchica (normalizzare) la mia istanza, il secondo (coinvolgendo pienamente, anche se in modo informale, la direzione del tempo) per creare i presupposti affinchè si agevolasse – anche con i giusti toni, smussando polemiche e accuse – una revisione del giudizio che era stato assegnato.
Una decisione salomonica, che trovai subito utile accettare, si era dimostrata di fatto la più intelligente delle risposte che avesse potuto adottare un gruppo ispettivo aperto, seppur operante in una istituzione rigida e ingessata.
Con questo mio aneddoto voglio palesare quanto sono molto più importanti i personaggi coinvolti in ogni questione burocratica, rispetto alle regole rigide che impongono aprioristicamente un unico e insostituibile protocollo.
Per i fatti che mi riguardarono, la revisione del giudizio comportò un aumento di tre punti nel “bollettino annuale”, la corresponsione di un premio che per il punteggio prima attribuito non mi era stato assegnato e la promozione al grado superiore avvenuta nell’anno successivo (così come mi era stato informalmente preannunciato da uno degli ispettori che aveva preso particolarmente a cuore la mia questione). Il Direttore coinvolto ebbe modo di ricredersi e capire certe mie ragioni inespresse; mi spostò, peraltro, subito d’ufficio e mi agevolò poi – essendo stato trasferito - nel raggiungimento professionale di quello era solo un sogno: quello che per me rappresentava un “Gotha” inarrivabile, ovvero l’ispettorato, non quello formale interno ma l’altro, quello ben più interessante che sorvegliava l’intero sistema nazionale di vigilanza.
Per quanto ovvio ed evidente, se non avessi agito fuori dagli schemi, in modo anomalo, tutto sarebbe rientrato nella routine ordinaria che – specie in realtà autoreferenziali, come in quella in cui ho lungamente operato – non avrebbe generato risultati così stravolgenti e a me favorevoli.
Altre vicende successive, accadute sempre nella stessa istituzione e per molti aspetti ben più gravi, non ebbero mai più esiti per me positivi. A dimostrazione che alla base di ogni questione occorre che vi siano, nell’interlocuzione e nell’inevitabile contraddittorio che si genera, almeno persone dotate di onestà interiore propria o abbiano in uso o per lo meno conoscenza di quello strano esercizio di giudizio che presuppone onestà intellettuale.
Tornando ai fatti di Piercamillo Davigo, ora sono tutti lì a sparare al bersaglio, nemici e amici conformisti forse un po’ talebani che, strumentalmente o in buona fede ha poca importanza, rischiano ancora una volta di “buttare l’acqua sporca con il bambino”.
Buona luce a tutti!
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domenica 2 maggio 2021
La storia è unica e nella sua sintesi si compone di tante singole storie epocali che si accumulano nel tempo.
L’altro giorno è stata trasmessa, in prima serata, una pagina d’inchiesta giornalistica televisiva di spessore.
Prendendo spunto da un’intervista curata da Michele Santoro e riguardante stragi di mafia, con tante zone d’ombra, Enrico Mentana ha condotto una trasmissione che ha ospitato Fiammetta Borsellino, Antonio Di Pietro, Andrea Purgatori e lo stesso Santoro.
Un programma che, comprese le interruzioni pubblicitarie, si è protratto ben oltre la mezzanotte, per toccare tanti aspetti di molti omicidi eccellenti.
Il dibattito ha avuto al centro le inchieste giudiziarie, i depistaggi, i veleni; nelle connessioni volute o casuali tra mafie e società civile, partiti politici e tanti discutibili e discussi loro leaders del momento.
Tutto questo, suffragato dalle testimonianze dirette e dalle interpretazioni appassionate dei fatti (in qualche caso, pure inediti) raccontati da Fiammetta Borsellino e da Antonio Di Pietro, per le loro conoscenze e per i ruoli rispettivamente ricoperti storicamente in quei tempi.
Quanto veniva a mettere sul piatto Michele Santoro (dato da tanti come prossimo ad accasarsi anche lui a La Sette) veniva a costituire un punto di partenza che ebbe in breve ad alimentare torrenti in piena, a stento arginati da Mentana. Le profonde conoscenze dei fatti del giornalista Andrea Purgatori ebbero a corroborare e razionalizzare al meglio i fatti e i momenti storici in oggetto, incrociando aspetti solo apparentemente collidenti ma che in verità svisceravano i fenomeni che andavano a costruire una logica drammaticamente coerente.
Il prodotto portato da Santoro era costituito da un’intervista fatta a un collaboratore di giustizia catanese che si era macchiato di circa ottanta omicidi e che – a suo dire - aveva anche preparato e partecipato, come esperto di esplosivi, all’attentato a Paolo Borsellino di via D’Amelio.
L’interessante lavoro giornalistico del sempre valido Santoro consentiva di ascoltare una versione dei fatti un po’ diversa da quella narrata dalla cronaca giudiziaria. Abbastanza plausibile, seppur nei limiti che impongono verifiche e accertamenti circostanziati, su alcuni aspetti che potessero alimentare dubbi.
In un’intervista di Giampiero Calavà, pubblicata in questi giorni e riguardante quanto era stato prodotto nella trasmissione da Michele Santoro, Claudio Fava al riguardo precisava: “Ho sentito dire a Santoro che Spatuzza non era un uomo d’onore, mentre Avola sì. E con questo? Quello che sa Avola è solo quello che veniva comunicato a un killer della famiglia Santapaola, punto. Quel che sa Spatuzza è quello che sa un personaggio dalla caratura criminale consolidata e accertata, con rapporti diretti con i boss di primo piano di Cosa nostra.” Puntualizzazioni non di poco conto che, in ogni caso, non devono mai indurre a escludere l’ascolto di ogni versione, seppure apparentemente per certi aspetti diversa.
Fiammetta Borsellino ebbe a incentrare principalmente il suo apporto con energici interventi che andavano a focalizzare l’ambiente giudiziario palermitano nei periodi corrispondenti a quelli che antecedettero l’omicidio di suo padre. In tutto questo, coinvolgendo più genericamente anche la figura di Giovanni Falcone e dei tanti altri uomini dello stato, che erano state vittime collegate anche al più ampio disegno stragista attuato dai corleonesi.
Un grande occhio di bue teatrale ha quindi illuminato drammaticamente, in uno scenario buio, le figure di Salvo Lima e di Vito Ciancimino. Evidenziando come questi due personaggi in special modo ebbero sempre a costituire i collanti fra mafia e politica, assicurando, peraltro, impunità giudiziarie a tutti gli esponenti mafiosi o loro sodali che si erano venuti a trovare coinvolti in processi giudiziari che andassero a coinvolgere.
In piena notte, in chiusura della trasmissione, fu fatto anche un cenno agli arresti in Francia di ex brigatisti e altri terroristi, ritornando a rivisitare – con brevissimi cenni - le epoche storiche a cui si rifacevano i fatti criminosi, e fotografando in una foto di gruppo quello che rappresentava la lotta armata contrapposta allo stato e alla politica nazionale di quei tempi. Ma qui ci sarebbe voluta un’altra trasmissione o anche più di una per affrontare anche questo altrettanto ingombrante problema.
In questi giorni l’argomento di maggiore attualità è invece il PNRR e al riguardo, il Dottor Daniele Corsini, che ha avuto modo li leggere con attenzione le oltre trecento pagine del piano presentato dal Governo Draghi, in un interessante e composito articolo pubblicato su Economia & Finanza Verde, ha scritto – tra l’altro - che gli obiettivi prefissati nel piano hanno come “parole d’ordine: discontinuità, coesione, senso dello stato, nuovo rapporto tra privato e pubblico, fine degli interessi di parte, legalità. E poi innovazione, transizione, trasformazione, evoluzione, digitalizzazione, modernizzazione, occupazione, generazione (futura), inclusione.” Ha anche continuato dicendo: “Ci si spinge fino ad adombrare l’obiettivo antropologico dell’italiano nuovo, per un ideale rifondativo dei suoi caratteri etici.”
In relazione a quanto ho letto ho commentato di getto così:
“Come direbbe Marzullo, mi faccio una domanda e mi darei anche una risposta.
Come possono dei burocrati, politici, pseudo-sindacalisti, lobbisti o faccendieri e chi più ne ha più ne metta, che hanno un’età media avanti negli anni, a capire queste cose, visto come sono concentrati a mantenere il potere sempre, occupando poltrone, scambiandosi ruoli e posti con le ‘porte girevoli’, escludendo in tutto questo quelli che sono gli eterni giovani? (Intendendo per giovani la gente comune, spesso emarginata; quella che abita spesso le periferie, che rimane esclusi dalle conoscenze utili, che non può accedere alle scuole private e alla quale sono precluse opportunità, perchè raramente collegate al solo merito).
Nutro dei seri dubbi e, in tempo socio-economici non normali, non mi suscita ilarità pensare di ritrovarmi oggi amministrato da quelli che in tanti definiscono le menti e le mani dei “Migliori”. Impegnati in un PNRR sconosciuto a tanti e votato pressochè al buio.
E dire che una volta ai draghi delle favole si riusciva a far spurare fuoco. La classe politica invece appare ancora disgiunta dai problemi del paese, si accalora nell’indirizzare il consenso, senza mai però dire chiaramente ai suoi elettori per farne cosa. Sigh!”
In conclusione di questo mio scritto, tornando anche alla trasmissione de La Sette condotta da Mentana, sarei portato a dire che la storia è una continua evoluzione del vivere umano. Non corrisponde, cioè, a tante puntate di una fiction disgiunte dalle tante altre raccontate, anche se narrano di aspetti e di vissuti apparentemente disallineati e differenti.
La storia è unica e nella sua sintesi si compone di tante singole storie epocali, di tanti episodi che si accumulano nel tempo e che si sedimentano - pure compattandosi - su strati generazionali: continentali, nazionali, regionali, rionali, tribali, familiari, individuali.
Un insieme che si amalgama con tante esperienze vissute da oppressore o oppresso, da vincitore o vinto, che s'incrociano. E il paradosso della storia è che ne esistono poi tante di versioni, che vengono scritte, lette e rivisitate, in relazione ai momenti “socio-culturali” vigenti. E per ciascuno, in ogni tempo sarà sempre raccontata o vissuta come quella vera.
Buona luce a tutti!
© ESSEC
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