"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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venerdì 26 aprile 2019

ISTRUZIONI PER DIVENTARE FASCISTI - Fascista è chi il fascista fa.



Per chi ha generalmente verso la lettura un approccio aperto, le conclusioni del libro non lo prenderanno alla sprovvista.
Infatti, chi non ha mai optato o semplicemente pensato di applicare un “metodo fascista” per facilitare disciplina o accelerare una certa efficacia decisionale?
Con abilità eccelsa Michela Murgia, ha saputo realizzare con questo suo piccolo libro un gioiello che, con tante sfaccettature, rivela le variegate purezze presenti in un diamante.
Ciascuno potrà qui sicuramente riscontrare punti di vista personali e costatare come il fenomeno sia molto più comune e intrinseco al modo d’agire umano di quanto si possa solo lontanamente immaginare.
Non valgono, nel caso, le ideologie pubbliche professate per nascondere istinti complessi che caratterizzano il nostro modo di essere.
Nelle conclusioni, viene altresì proposto un questionario apparentemente “leggiadro” che, nella schematica valutazione dei risultati, analizza le nostre convinzioni dimostrando, senza sconto e con una buone dose di ironia, l’eterna verità che è quella che spesso “il re è nudo”.
Un’applicazione estesa offrirebbe la possibilità di far conoscere la radiografia nitida della propria anima.
La cosa alimenta un dubbio, cioè se la scarsa attenzione e il poco eco prodotto dal libro possa essere stato influenzato dalla singolare conclusione e dall’imbarazzo che potrebbe ingenerare in molti. Chissa?
Non so se sono riuscito a incuriosire abbastanza il potenziale lettore, per indurlo a procurarsene una copia.
Potrebbe risultare un modo utile per riconoscere, tanti personaggi, tanti soggetti vicini che ci accompagnano nel quotidiano o per rivedere, correggendoci, certi nostri inconsci modi di essere o, più semplicemente, occasione di pensosa ilarità.

 © Essec


venerdì 19 aprile 2019

Massimo Fini: "Ora che Berlusconi affonda, i topi fuggono"


Sul Fatto del 15/4 Antonello Caporale fa un divertente elenco dei transfughi di Forza Italia che lasciano ‘in articulo mortis’ Silvio Berlusconi cercando un approdo più o meno sicuro nella Lega o dalla Meloni. Fra i più noti ci sono Elisabetta Gardini, Denis Verdini, Vittorio Sgarbi, Paolo Bonaiuti, seguiti da una serqua di consiglieri regionali, comunali e altri che hanno incarichi di rilievo in quel partito. Caporale nota che fra coloro che hanno disertato e che si vergognano un po’ di questo voltafaccia, l’ipocrita formula di rito è: “Lascio Forza Italia dopo una lunga e dolorosa riflessione”. 
Una menzione speciale fra questi voltagabbana meritano Bonaiuti e Sgarbi. Quando lavoravo al Giorno negli anni 80, e Silvio Berlusconi non era ancora apparso sulla scena politica, il collega Bonaiuti era più a sinistra di Satanasso e io, per lui, naturalmente un “fascista”. Sotto le elezioni del 1996 la direttrice di Annabella mi chiese di fare un’intervista al Cavaliere. Gli accordi erano che avrei mandato delle domande scritte all’Ufficio stampa di Roma e poi mi sarei incontrato ad Arcore con Berlusconi. “Telefona al capo dell’Ufficio stampa”. Telefonai. Dall’altro capo del filo mi rispose proprio Paolo Bonaiuti. Ne rimasi un po’ stupito. “Ah, sei tu?” dissi un po’ sorpreso non avendo ancora percepito –siamo ancora all’inizio dell’esperienza berlusconiana- la slavina di trasformisti, di sinistra e di estrema sinistra, che in seguito sarebbe diventata una vera e propria valanga, che si stava attaccando alla giacca del Cavaliere. L’intervista poi non si fece perché Bonaiuti farfugliò su alcune domande che potevano mettere in imbarazzo il Cavaliere. Ma non fu questo che mi colpì, mi colpì l’assoluta disinvoltura di Bonaiuti che nemmeno con me, che conoscevo i suoi precedenti, si vergognava un po’. 
Comico è il pretesto preso da Vittorio Sgarbi per filarsela. Del resto in anni lontani Patrizia Brenner allora sua fidanzata e che lo conosceva bene mi aveva preavvertito: “Guarda che se Berlusconi dovesse vacillare di Vittorio si vedrà solo la polvere della sua fuga”. Qual è il pretesto preso da Sgarbi? Lo “schiaffo di Sutri” (parafrasando lo storico “schiaffo di Anagni”, noblesse oblige): aver disertato “per ben due volte” la cerimonia di intitolazione di un giardino alla madre dello stesso Berlusconi. Di Sutri Sgarbi, che come politico non ha mai combinato assolutamente nulla, è sindaco per meriti berlusconiani: l’aver attaccato per vent’anni, dalle tv del Biscione, nei modi più violenti e giuridicamente sgrammaticati, per star bassi, la Magistratura. Sutri è una cittadina di 6.000 abitanti. Come si può pretendere che un uomo di 83 anni, malato, che entra ed esce dagli ospedali, che ha ancora importanti impegni politici si sobbarchi un viaggio a Sutri per non offendere la ‘delicatezza’ di Sgarbi? 
I transfughi di oggi devono tutto a Silvio Berlusconi, onori, improbabili carriere, quattrini. A me fanno più ribrezzo di Berlusconi che nella sua più che ventennale avventura politica ha messo la propria enorme energia, gli altri sono solo dei parassiti che gli hanno succhiato il sangue. 
Sia chiaro che io non cambio una virgola di ciò che penso di Berlusconi, che proprio in questi giorni mi ha querelato per una dozzina di articoli che ho scritto su di lui, querela che se dovesse andare a buon fine mi ridurrebbe sul lastrico e forse al gabbio. Cosa, quest’ultima, che non mi dispiacerebbe poi tanto perché in un Paese dove Berlusconi è a piede libero il solo posto decente per una persona normalmente perbene è la galera. Ma i topi che lasciano la nave che affonda mi danno ancora più disgusto. Sto dalla parte di Alessandro Sallusti che da direttore del Giornale difende l’ultima ridotta berlusconiana, come i guerriglieri dell’Isis si sono difesi a Baghuz. Coraggio Alessandro, se si deve cadere, è molto più nobile e coraggioso cadere in piedi.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano,18 aprile 2019)

giovedì 18 aprile 2019

Teoria e pratica - Risultati operativi univoci e convergenti



Capita spesso di avere in testa un’idea creativa e il desiderio di realizzarla in qualche modo.
La problematica nasce eventualmente sulla metodologia attuativa, dalla scelta che verrà fatta nell'operare.
Non sempre l'approccio teorico razionale aiuta nella trasformazione di un’intuizione in un risultato corrispondente.
Chi incentra la creatività su una base esclusivamente teorica dovrà necessariamente conoscere le tecniche praticabili, dovrà cioè avere di certo cognizioni e una padronanza concettuale tale che gli consenta di modellare le opportunità possibili, che possono essere scelte per il raggiungimento di un risultato prefissato, magari non perfettamente delineato in ogni suo dettaglio ma di certo lucidamente immaginato.
Ricercatori e scienziati costituiscono un facile esempio al riguardo e la tenacia del loro operare molto spesso li premia, ma quanta fatica.
Parallelamente vive e vegeta l'intuizione nel saper leggere più semplicemente la realtà che accade.
Altri, infatti, basano la loro ricerca principalmente sull'osservazione, ponendosi come spettatori attivi e pronti a cogliere accadimenti che risaltano e rispondono a fantasie immaginate, a ipotesi di lavoro che corrispondono a delle loro attese.
Quanto fin qui detto può facilmente connotare l'approccio e il metodo adottato anche in fotografia.
Chi si pone su una posizione, tra virgolette, più professionale in genere si muove su modelli "progettuali" abbastanza rigidi e predefiniti, altri che agiscono in maniera più “leggera” (almeno apparentemente) basano tutto sulla ricerca intuitiva e nell'osservazione.
Il secondo metodo, sicuramente è aperto a molte soluzioni e prefigura una disponibilità assoluta a raccogliere opportunità che, ancorchè in qualche modo prevedibili o pilotabili, rimangono spesso sostanzialmente condizionate dal “caso”.
Still life, ritrattistica e paesaggistica costituiscono un classico esempio della metodologia pragmatico/scientifica, mentre reportage e streetphotography appartengono decisamente alla fascia che si richiama alla "indisciplina" creativa.
In entrambi i casi, le conoscenze tecniche la faranno sempre un po’ da padrone e le scelte di base o le intuizioni operative aiuteranno e condizioneranno fortemente qualunque risultato.
Senza alcun dubbio la strada perseguita si lega all'indole e alla sensibilità di ciascuno.
Ogni pratica potrà essere utile allo scopo, purchè si abbia una piena coscienza e consapevolezza del percorso, con tutti gli annessi e connessi.
Comunque i primi, che si “autoproclamano” professionisti, continueranno a guardare con sufficienza l’attività dei secondi, questi ultimi, a loro volta, vedranno come “fanatici ortodossi” i primi.
La cosa curiosa potrà essere quella di poi scoprire, magari in occasione di un contesto che li accomuna, dei risultati operativi univoci e convergenti; e questo al di là delle teorie preconcette e delle tecniche realizzative adottate. 
Dimostrazione pratica di come tutto faccia parte delle contraddizioni dialettiche "aprioristiche", che si dimostrano spesso fumose e solo fini a se stesse.
Disquisendo sull’argomento, l’amico G. mi faceva notare come l’osservazione attraverso il mirino possa condizionare i risultati. 
In particolare, a suo dire, come l’occhio dx riversi le informazioni al lobo cerebrale sx e viceversa, con le dovute conseguenze legate alle caratteristiche distinte e le specificità funzionali dei due lobi. 
Osservava pure il fatto che in “trance performativa” l’individuo si esprime sempre attraverso uno stato ancestrale, ricorrendo cioè a tutte quelle informazioni culturali accumulate nella corteccia del suo cervello.
In conclusione, quindi, sarei portato a dire, lasciamo a ciascuno piena libertà nell'esprimersi.
Ci sarà sempre qualcuno, che per fare una torta, avrà bisogno di rileggersi passo passo la solita ricetta che conosce a memoria, di pesare i dosaggi, di maneggiare e amalgamare gli elementi con scrupolosa attenzione e anche chi, con pratica e fantasia, riuscirà a realizzarne una altrettanto fragrante, seppur inventandosi un assemblaggio nuovo, con l'utilizzo degli elementi disponibili in quel momento.

Buona luce a tutti!

 © Essec


domenica 14 aprile 2019

Nino Pillitteri: "Attìa, à ccù apparténi?"



Attìa, à ccù apparténi? Me l’avranno chiesto mille volte, in paese, sconosciuti. A chi appartieni? Una specie di domanda obbligatoria per i nuovi arrivati in un luogo, appena arrivati dalla città in un improbabile paesetto di Sicilia. Una signora con le mani ai fianchi,  arrotolata nel suo grembiule. Si chiede la genìa, la famiglia di appartenenza. Si capiscono tante cose, il ceto sociale, lo status. 
Il quartiere in cui si vive, la situazione economica. Spesso mi dava fastidio. Dire chi ero, come a serbare un anonimato fittizio, fatto di niente. Volevo starmene per i fatti miei. E poi qualcuno mi chiedeva sempre: Attìà veni ccà,  à ccù apparténi? 
Ho iniziato questo pezzo su una foto della costa Nord siciliana che rappresenta la foce del fiume Oreto, il suo arrivo al Tirreno. Un luogo spesso dimenticato, non ci si va a passeggiare: pensa come sarebbe bello farlo… Su questo tratto di costa sono sbarcati i fenici, i greci, gli arabi e via dicendo. Migranti. Viaggiatori per diritto di nascita, per appartenenza ad un gruppo etnico. I fenici ad esempio, commerciando in tessuti, spezie e coloranti sbarcarono tante volte li. Il problema era la lingua naturalmente. 
Le dita delle mani aiutarono la comunicazione delle trattative economiche. Tutti abbiamo dieci dita. Si gettarono quindi le basi per la costituzione del Sistema Metrico decimale. Grande fermento sulle orme della circuitazione nel bacino del Mediterraneo di lingue e culture. Siamo tutti migranti, lo siamo sempre stati. Prova a chiedere ad un gruppo di persone se hanno dei parenti in qualche paese interno o costiero. 
A parte i flussi migratori moderni, quelli con i barconi per intenderci, l’uomo ha da sempre avuto la necessità di spostarsi da un luogo ad un altro. 
La transumanza come abitudine di spostare greggi in aree più verdeggianti non è che un esempio. Oggi assistiamo a fenomeni migratori complessi. È abitudine dei nostri ragazzi che studiano all’Università di frequentare corsi triennali in giro per l’Italia e completare gli studi attraverso progetti europei per una formazione che guarda all’inserimento sul campo del lavoro anche alla luce di esperienze conseguite in altri Paesi. 
Tempo fa, una ventina d’anni circa, mi piaceva fermare lavavetri dell’Est Europa, rumeni, polacchi chiedendo loro che tipo di formazione avessero. Rimanevamo a parlare di teoremi, dimostrazioni, modelli teorici sia matematici che fisici. Parecchi erano ingegneri, diversi architetti, alcuni medici. I nuovi arrivati oggi non possiedono una grande formazione accademica, questo è assodato ma possiedono una energia volitiva nella forza lavoro che i giovani nostri probabilmente non hanno, forse secondati da famiglie che li hanno troppo protetti e cullati con quelli che chiamo i biberon del consumismo. 
La mia ricerca fotografica parte dalla costa Nord siciliana e passa dal mercato di Ballarò dove giovani africani aprono saloni di barbiere. Si improvvisano mercati nel mercato, Suq improvvisati. Intere aree vengono affittate a ghanesi, altre ai Bangla. 
Nella zona di via del Ponticello, che ha ripreso la nomenclatura trilingue araba., latina ed ebraica, sono i bangla che prendono in affitto case ed esercizi commerciali. L’odore del curry o del mango chutney è inconfondibile. 
Via via che ci addentra verso il mercato i figli dell’Africa nera hanno ormai soppiantato i residenti che sono migrati verso quartieri più moderni e dove la speculazione edilizia degli anni ’70 ha creato nuove aree di sviluppo urbano. 
I Rom, di varie etnie peraltro, sono i migranti per antonomasia. I Gitani, girovaghi e senza fissa dimora popolano la zona Stadio e di Romagnolo a Palermo. La Stazione Centrale è la nostra China Town. 
Scendo verso l’interno della Sicilia e assisto a sbarchi di clandestini tra Sciacca e Ribera. Fotografo uomini di mezza età che cercano un futuro migliore attratti anche dalle nostre TV e da ciò che viene promesso. Arrivano qui si rendono ben presto conto delle difficoltà a trovare lavori anche umili o come raccoglitori nei campi e ben presto si spostano verso il Nord Eurpa. 
Il mio viaggio finisce a Ponte di Ferro, la foce del Belice, su quella bellissima spiaggia dove sorge un hotel che sembra una cattedrale in un deserto. Il viaggio inizia a Nord su un fiume che trova il mare con le sue storie di partenza e si conclude a Sud con un altro fiume che trova un altro mare, un nuovo orizzonte, sulle cui rive hanno vissuto i miei padri, i miei giganti: Archimede, Ibn Battuta, Cervantes e tanti altri. Ma tu à ccù apparténi?


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Nino Pillitteri, ha studiato Matematica presso il Dipartimento di Scienze di Palermo. Nel periodo del Dottorato di Ricerca presso l’Institut Mittag Leffler – Stoccolma ha incontrato nel 1984 la fotografa Cecilia Ahlqvist con cui ha allestito una camera oscura. Altre camere oscure ha organizzato a Palermo con Biagio Lenzitti e Peppe Puntarello. Ha fondato e diretto dal 2009 la rivista on line https://photo.webzoom.it. Collabora con il fotografo Salvo Fundarotto e lavora come free-lance per varie testate giornalistiche italiane ed estere come Demotix, Corbis image, pacificpressagency.com , photojournale.com, witnessjournal.com, azsalute.it, blastingnews.com. Ha vinto numerosi premi per servizi e inchieste fotografiche.

sabato 13 aprile 2019

Giovani, il nuovo proletariato italiano. Lo dicono i dati inediti di Istat.



I nuovi proletari? Sono i giovani. Perché a decidere chi sale e chi scende nella scala sociale è, sempre di più, l’appartenenza a una generazione. E i nati dopo il 1970 hanno più probabilità dei loro padri di muoversi verso il basso, scivolando verso lavori a bassa qualificazione e poco pagati. Insomma: l’ascensore sociale fermo è una leggenda, ma quando i passeggeri sono trentenni e quarantenni funziona al contrario. Se ai baby boomer di famiglia operaia bastava una laurea per avere buone chance di approdare alla classe media, diventando liberi professionisti o colletti bianchi, per i loro figli è più facile scendere a un piano inferiore rispetto a quello di partenza. 
A rivelarlo sono i risultati di quattro indagini Istat, l’ultima delle quali ancora inedita, esaminati dai sociologi Marzio Barbagli e Maurizio Pisati. Ve li raccontiamo nel nuovo numero di Fq Millennium, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da domani, dedicato alla “fine della borghesia”. A sorpresa, questi studi mostrano che la mobilità non è in calo, anzi. La novità è che per i giovani – ma nella categoria sono compresi pure gli ultraquarantenni – prevale quella discendente. E anche rimanere ai piani alti della piramide è diventato più difficile. Le conseguenze sono tutt’altro che marginali, perché l’appartenenza di classe non è affatto che un cimelio buono per la soffitta: continua ad avere un impatto diretto sul livello di benessere economico, sul rischio di disoccupazione, ma anche su condizioni di salute e aspettativa di vita. 
“Padri e madri di classe alta e media non riescono più a garantire ai figli un destino uguale al proprio”, commenta Antonio Schizzerotto, docente di Sociologia all’Università di Trento. Un paradosso tutto italiano, perché negli altri Paesi avanzati i posti di lavoro ad alta specializzazione, quelli che garantiscono redditi alti e spalancano le porte della borghesia, sono aumentati di pari passo con quelli poco qualificati. Così l’età di per sé ha finito per diventare “un fattore generativo di disuguaglianza”. Ovvero? “Un over 50 con un’occupazione intellettuale ha avuto un primo stipendio che oggi nessun nuovo assunto riceve e ha fatto una carriera che un giovane entrato con il contratto a termine probabilmente non riuscirà mai a fare, perché avrà un percorso discontinuo”. 
Lo dimostrano le storie di professionisti precari raccolte da Fq Millennium: architetti, avvocati, medici che lavorano a partita Iva e a fine mese, quando va bene, portano a casa 1.500 euro lordi. Circa 5 euro netti all’ora. Il cardiochirurgo che campa con le guardie mediche arriva a 16 euro netti, poco più di una colf in nero. 
Gli effetti si vedono nei dati che descrivono lo stato di salute della società italiana. Sul mensile ci aiuta a ricostruirli Linda Laura Sabbadini, pioniera delle statistiche sociali e di genere, che ha diretto il Dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istat fino a quando nel 2016 l’allora presidente Giorgio Alleva lo ha cancellato. “Rispetto a prima della crisi, il tasso di occupazione dei 25-34enni è diminuito di quasi dieci punti mentre quello degli over 50 saliva di 14. E abbiamo 500 mila giovani adulti tra i 30 e i 34 anni che non hanno mai lavorato: rischiano di diventare degli esclusi permanenti non solo dal lavoro, ma anche dalla possibilità di costruirsi una vita”. 
Il risultato è che l’incidenza della povertà oggi è molto più alta tra bambini e giovani che tra gli anziani. Un milione e 200 mila minorenni fanno parte di famiglie che non sono in grado di comprare beni e servizi indispensabili per una vita accettabile. “Un bambino che vive per anni in povertà”, avverte Sabbadini, “ha molte probabilità di restare povero da grande: accumulando svantaggi fin da piccolo vede ridursi le proprie chance di mobilità sociale”. E il circolo vizioso non si spezza.



venerdì 12 aprile 2019

Massimo Fini: "L'antifascismo snob contro i bis-bis-nipoti"


Nella sua rubrica L’Amaca, pubblicata da Repubblica, Michele Serra trova estremamente disdicevole, e quasi delittuoso, che Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia, abbia candidato alle Europee Caio Giulio Cesare Mussolini, bis-bis nipote del Duce. Il solo cognome lo manda in deliquio e anche sul nome arriccia il nasetto perché ricorda quella romanità cui il capo del fascismo si ispirava (se potesse, il Serra, metterebbe ai ceppi, riesumandolo, anche Cesare, quello vero di “alea iacta est!”). Più che steso tranquillamente su un’amaca Serra sembra seduto sui carboni ardenti e scrive: “Mussolini fu un dittatore, un razzista, un’icona del ridicolo e la rovina del suo popolo”. Che il fascismo sia stato una dittatura non è nemmeno il caso di ricordarlo, anche se meno spietata di quelle a lui contemporanee, ma portando pur sempre sulla coscienza il delitto Matteotti, l’assassinio, in Francia, dei fratelli Rosselli e lo spegnimento, intellettuale e fisico, in carcere di Antonio Gramsci, il fondatore del Partito comunista italiano.
Mussolini poi, a differenza di Francisco Franco, ebbe la gravissima responsabilità di entrare in guerra con un alleato con cui non ci saremmo dovuti alleare e di perderla con tutte le conseguenze che ciò ha comportato. Altrimenti sarebbe morto tranquillamente nel suo letto, come Franco, invece di essere giustamente fucilato e poi appeso per i piedi a Piazzale Loreto, insieme a Claretta Petacci, ai gerarchi, quelli responsabili, quelli meno responsabili e altri di nulla responsabili, in una delle pagine più vergognose della nostra Storia che fece orrore agli stessi vincitori americani che allora erano parecchio diversi da quello che sono oggi. Ma la potenza retorica dei discorsi di Mussolini, che affascinò decine di milioni di nostri progenitori, può apparire ridicola oggi che sono passati tre quarti di secolo dal suo apogeo, allora non lo era affatto (per vedere il ridicolo nella retorica di Michele Serra non dovremo aspettar tanto, ci basta leggerlo oggi). Né si può ridurre il Fascismo al ‘Male Assoluto’, come fa Michele Serra peraltro in degnissima compagnia. 
Il Fascismo, pur con tutti i suoi errori, e anche orrori, aveva in testa un’idea di Stato e di Nazione, che cercò di realizzare coerentemente. L’IRI, diventato nel dopoguerra un carrozzone democristiano, fu una risposta intelligente alla crisi del ’29, peraltro agevolata dal fatto che allora il mondo era molto meno ‘interconnesso’. La ‘battaglia del grano’ (che probabilmente Michele Serra trova ‘ridicola’) era il tentativo, lungimirante, di trovare un equilibrio fra l’avanzante industrialismo e l’agricoltura, suggestione che sarebbe di capitale importanza recuperare oggi che il capitalismo industriale e finanziario sta assassinando intere popolazioni. Del resto gli “anni del consenso” non me li sono inventati io. Michele Serra, che è un uomo colto, oltre che un uomo d’onore, avrà sicuramente letto Renzo De Felice e Denis Mack Smith. 
Scrivo queste cose con tranquilla coscienza perché mio padre, Benso Fini, si fece quindici anni di esilio a Parigi, soffrendo la fame e la povertà come gli altri, pochi, fuorusciti, in nome della libertà. Se avessi la mentalità da sbirro di Michele Serra andrei a controllare come si comportarono i suoi genitori e nonni durante il regime mussoliniano. Ma io non sono uno sbirro e l’obbiettivo del mio articolo è altro. Mi colpisce come a 75 anni dalla fine del regime fascista la sinistra radical chic e radical snob (“cuore a sinistra, portafoglio a destra”) si renda, essa sì, ridicola facendo il ponte isterico al solo sentir il nome di Mussolini, anche se di un bis-bis nipote. Vorrei ricordare a Michele Serra che nel dopoguerra, quando le lacerazioni del conflitto erano ancora sanguinanti, né Rachele Mussolini, né i figli del Duce, né Edda Ciano furono mai toccati, non solo per la generosa intercessione di quel grande uomo che è stato Pietro Nenni, ma perché la sinistra era ancora una cosa seria e, più in generale, la collettività italiana era meno imbarbarita di quanto lo sia oggi, nell’anno di grazia 2019. Fa specie che una persona che ha un passato e un presente professionale del tutto rispettabile (ufficiale di Marina e dirigente di Finmeccanica) come Caio Giulio Cesare Mussolini, sia messo alla gogna solo per il suo cognome, da Michele Serra e da tutti i Michele Serra che abitano il nostro Paese, dando così piena ragione a Mino Maccari: “I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti”.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 11 aprile 2019)


mercoledì 10 aprile 2019

Fotografia: Il “Metodo Torresani”


Il “Metodo Torresani”


Dopo dodici anni, alcuni di noi, come nel caso di certe vaccinazioni, hanno fatto il richiamo, necessario e consigliabile a chi vuole rendersi immune da incurabili patologie di “onniscienza fotografica”.
Dal 22 al 24 marzo il Prof. Giancarlo Torresani, ha proposto a una platea circoscritta il seminario che è stato uno dei servizi del “Dipartimento Didattica” - già DAC “Dipartimento Attività Culturali” - rivolti ai fotografi che credono di poter ancora aggiungere qualcosa al proprio bagaglio di esperienze.
"La partecipazione al Corso ha inteso richiamare l'attenzione dei partecipanti sull'aspetto sia culturale che tecnico della lettura e valutazione dell’immagine singola. Scopo del Seminario è stato anche quello di approfondire e ampliare la visuale sulla materia, sia dal punto di vista etico, sia proponendo una ricerca sulla cultura dell'immagine, anche attraverso la conoscenza di autori e di alcune importanti tendenze fotografiche".

Gli undici capitoli che hanno costituito, il primo dei due moduli propedeutici al conseguimento di uno specifico attestato, hanno riguardato i seguenti aspetti:

-       Premessa,
-       Un problema da risolvere (etica & fotografia).
-       Il meccanismo espressivo del linguaggio fotografico.
-       Dall’idea al segno (le tre idee centrali).
-       Dal segno all’idea (i tre livelli di significato del segno fotografia).
-       Un possibile metodo pratico per leggere fotografie (lettura: dell’informazione materiale, del significato della fotografia, del significato personale).
-       La valutazione (la valutazione interna e la valutazione esterna).
-       Esercitazione pratica con esempi dimostrativi.
-       Conclusione dei lavori.

L’esercitazione pratica che ha visto assegnare immagini diverse e variegate ai partecipanti chiamati a compilare una scheda guida, tendente a concettualizzare i vari elementi necessari per il conseguimento di un livello di giudizio condivisibile e giustificato, ha concluso il suddetto seminario.
La chiarezza espositiva e la collaudata capacità di garbato coinvolgimento da parte del docente, hanno reso scorrevoli le fitte tappe dei lavori e fatto sì che si potesse più facilmente pervenire a letture/valutazioni/giudizi sostanzialmente condivisibili nelle visioni proposte nel corso delle esercitazioni pratiche finali.
La commistione continua di teorie e immagini esemplificative, associate al coinvolgimento diretto di tutti i partecipanti, hanno permesso di esporre eventuali possibili dubbi e meglio articolare quei concetti che potessero apparire soggettivi.

Interessanti e di facile applicazione, le linee guida contenute nella scheda conclusiva, proposta sulla lettura e valutazione, atte a riassumere e sintetizzare il percorso illustrato dal docente al fine di rendere più comprensibile il linguaggio in fotografia.

Una scheda che mi piace associare al metodo d’insegnamento del Professore definendola “Scheda valutativa secondo il Metodo Torresani”, anche se lo stesso docente ha più volte ribadito che i contenuti, esposti nel presente seminario, sono frutto di una esperienza (quasi trentennale) iniziata e proseguita sulle basi gettate dal suo illustre predecessore Sergio Magni; un metodo che (secondo Torresani) consente di sbagliare meno, che invita i possibili “giurati” a non emettere sentenze ma ad esprimere pareri motivati per loro natura opinabili, ma in grado di portarsi appresso una buona dose di autorevolezza e soprattutto di esprimere pareri sulle fotografie e non su coloro che le hanno fatte.

Il “Metodo Torresani”, applicato e collaudato per quasi cinque lustri nell’ambito FIAF, sta trovando proseliti tra i fotoamatori associati all’UIF, non solo come approfondimento culturale e personale ma anche con lo scopo di cercare di uniformare metodologie selettive e di giudizio nell’esame del materiale fotografico prodotto/proposto e che, per vari motivi, si è chiamati a giudicare.

Buona luce a tutti!

  © Essec


sabato 6 aprile 2019

Massimo Fini: "W San Siro, in culo agli yankee"


E’ in fase avanzata il progetto di costruire a Milano un nuovo stadio di calcio che dovrebbe sostituire quello, storico, di San Siro. I tifosi e anche i milanesi che tifosi non sono si sono divisi fra favorevoli e ‘nostalgici’. Va da sé che io sono fra i secondi, però per ragioni più profonde della semplice, e sia pur importante, nostalgia. Per la verità io sono nostalgico del vecchio San Siro, quello che c’era, immutato da sessant’anni, prima che, per i Campionati del mondo del 1990, si decidesse di ‘aggiornarlo’ con un costo che partito da un preventivo di 35 miliardi arrivò, in corso d’opera, a 170 per le solite grassazioni che si consumano, ovunque e comunque, sulle ‘grandi opere’. Ma questo sarebbe ancora il meno perché a tali ruberie siamo ormai così abituati da non farci nemmeno più caso. La cosa più grave è che il vecchio stadio invece di uscirne migliorato è stato peggiorato, in tutti i sensi. Quello estetico tanto per cominciare. San Siro, visto da fuori e da dentro, era un ovale perfetto. Le quattro enormi torri, per costruire un terzo anello, inutile perché San Siro, giochino il Milan o l’Inter anche contro una grande rivale europea, 90 mila spettatori non li ha mai visti e perché, comunque, dal terzo anello il campo è troppo lontano e non si vede nulla, hanno distorto questa ellittica geometria. Il terreno di San Siro, non a caso noto come “la Scala del calcio”, era considerato il migliore d’Europa insieme a Wembley e al Prater di Vienna. L’altrettanto inutile tettoia in vetrocemento che dovrebbe proteggere gli spettatori, inutile perché la pioggia ha il cattivo e dispettoso vizio di non scendere giù dritta ma di traverso, lo ha rovinato. Chiunque abbia giocato a calcio anche sui campi più periferici o dilettantistici sa che la buona tenuta del terreno dipende dalla sua esposizione al sole. Con quell’assurda copertura il terreno di gioco, un misto di erba e sintetico causa non ultima dei numerosi infortuni, ora deve essere cambiato ogni tre mesi. In primavera e a inizio estate si soffoca, non si respira. Ho assistito con mio figlio Matteo alla partita Germania-Olanda dei Campionati del mondo del 1990, giocata a fine giugno (2 a 1 per i tedeschi, gol di Klinsmann e di Brehme, chi segnò per gli olandesi non me lo ricordo). Eravamo dietro una delle porte, sul primo anello, e quindi molto vicini al terreno di gioco. Respiravamo a fatica e ci chiedevamo come potessero farlo quelli in campo.
Comunque, nonostante tutto, San Siro resta un signor stadio, tanto che vi si è disputata nel 2016 la finale di Champions. Perché allora abbatterlo? L’idea è partita dagli Stati Uniti, da Elliott, il fondo proprietario del Milan. Adesso gli americani, che a calcio non hanno mai saputo giocare (i loro sport sono il baseball e il basket) vogliono colonizzarci anche in questo gioco che è nato in Europa. E naturalmente vi portano la loro mentalità e la loro cultura. Poiché non hanno una Storia, almeno rispetto a quella più che bimillenaria dell’Europa, non hanno nemmeno monumenti. Per loro abbattere un grattacielo per sostituirlo con un altro è normale. Lo skyscraper è il loro mito. Benché buona parte del territorio sia costituito da grandi pianure il loro orizzonte, anche sociale, è verticale (“il sogno americano”). Per noi europei, e soprattutto per noi italiani, è molto diverso. Abbiamo una memoria storica e su questa si fonda la nostra identità. Noi, a differenza degli americani, non guardiamo al futuro ma al passato, perché il nostro è un grande passato. Lo è anche quello dei tempi più recenti. Se pensiamo a Milano –perché qui di Milano si tratta- questa città è fatta dei suoi stupendi palazzi, settecenteschi, ottocenteschi, novecenteschi (per questi ultimi fino alla Seconda guerra mondiale), delle sue case di ringhiera là dove ancora esistono e resistono a quella che si chiama ‘modernizzazione’. Ed è fatta quindi anche del suo stadio di calcio, che è del 1928, dove sono passate, gioendo o soffrendo, generazioni e generazioni. Togliere di mezzo San Siro significa recidere una parte, non trascurabile, della memoria storica di Milano e dei milanesi.
Naturalmente tutta questa faccenda del nuovo stadio nasce sull’onda del business, l’unico Dio universalmente riconosciuto in tutto il mondo, adesso anche in Cina dove un Dio propriamente detto non l’hanno mai avuto e se mai c’era non si occupava certo di affari. Intorno al nuovo stadio dovrebbero nascere negozi, appartamenti di prestigio, uffici. Ma questo oltre a interrompere e travolgere un tempo, con tutti i suoi valori, di cui i nuovi abitanti di Milano non avranno più memoria, significa scardinare un intero quartiere, con la sua socialità, la sua estetica, i suoi angoli di visuale: lo stadio, con dietro, più nascosto, l’ippodromo del trotto anch’esso destinato a scomparire. Un quartiere che fino a oggi aveva funzionato benissimo. Del resto l’esperimento, con effetti devastanti sul piano sociale, è già stato fatto con gli strampalati grattacieli, compreso il ‘bosco verticale’, che ruotano attorno alla piazza Gae Aulenti (sarò della vecchia scuola ma per me un bosco è fatto per passeggiarci dentro, non per impiccare degli alberi alla facciata di un edificio).
Ma c’è anche un altro aspetto della questione che i Latini, molto meno citrulli di noi, riassumevano nel brocardo “quaeta non movere”: cioè se una cosa ha funzionato bene, magari a basso regime, che necessità c’è mai di cambiarla? L’altro giorno sul Fatto Fanny Pigeaud ha dato conto di una commendevole e pia iniziativa del Wwf che vorrebbe ridurre una vasta area forestale del Congo a “riserva naturale”, sotto la tutela dell’Unesco, per salvare appunto la foresta espellendone gli ottomila indigeni, questi importuni, che ancora si ostinano ad abitarla. A questo progetto sostanzialmente coloniale l’antropologa Fiore Longo ha replicato: “Se la foresta ha la sua biodiversità vuol dire che i popoli che vi hanno sempre vissuto hanno saputo preservarla. Allora, perché cacciarli via?”.
Ebbene, anche lo stadio di San Siro fa parte, nel suo piccolo, di questa ecologia naturale. E quindi resti così com’è, come lo abbiamo amato, o magari odiato, per quasi un secolo. In culo agli yankee



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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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