"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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venerdì 31 dicembre 2021

Il messaggio del presidente della Repubblica Mattarella del 31 dicembre 2021 (testo integrale)

"Care concittadine, cari concittadini,
ho sempre vissuto questo tradizionale appuntamento di fine anno con molto coinvolgimento e anche con un po' di emozione.
Oggi questi sentimenti sono accresciuti dal fatto che, tra pochi giorni, come dispone la Costituzione, si concluderà il mio ruolo di Presidente.
L'augurio che sento di rivolgervi si fa, quindi, più intenso perché, alla necessità di guardare insieme con fiducia e speranza al nuovo anno, si aggiunge il bisogno di esprimere il mio grazie a ciascuno di voi per aver mostrato, a più riprese, il volto autentico dell'Italia: quello laborioso, creativo, solidale.
Sono stati sette anni impegnativi, complessi, densi di emozioni: mi tornano in mente i momenti più felici ma anche i giorni drammatici, quelli in cui sembravano prevalere le difficoltà e le sofferenze.
Ho percepito accanto a me l'aspirazione diffusa degli italiani a essere una vera comunità, con un senso di solidarietà che precede, e affianca, le molteplici differenze di idee e di interessi.
In questi giorni ho ripercorso nel pensiero quello che insieme abbiamo vissuto in questi ultimi due anni: il tempo della pandemia che ha sconvolto il mondo e le nostre vite.
Ci stringiamo ancora una volta attorno alle famiglie delle tante vittime: il loro lutto è stato, ed è, il lutto di tutta Italia.
Dobbiamo ricordare, come patrimonio inestimabile di umanità, l'abnegazione dei medici, dei sanitari, dei volontari. Di chi si è impegnato per contrastare il virus. Di chi ha continuato a svolgere i suoi compiti nonostante il pericolo.
I meriti di chi, fidandosi della scienza e delle istituzioni, ha adottato le precauzioni raccomandate e ha scelto di vaccinarsi: la quasi totalità degli italiani, che voglio, ancora una volta, ringraziare per la maturità e per il senso di responsabilità dimostrati.
In queste ore in cui i contagi tornano a preoccupare e i livelli di guardia si alzano a causa delle varianti del virus - imprevedibili nelle mutevoli configurazioni - si avverte talvolta un senso di frustrazione.
Non dobbiamo scoraggiarci. Si è fatto molto.
I vaccini sono stati, e sono, uno strumento prezioso, non perché garantiscano l'invulnerabilità ma perché rappresentano la difesa che consente di ridurre in misura decisiva danni e rischi, per sé e per gli altri.
Ricordo la sensazione di impotenza e di disperazione che respiravamo nei primi mesi della pandemia di fronte alle scene drammatiche delle vittime del virus. Alle bare trasportate dai mezzi militari. Al lungo, necessario confinamento di tutti in casa. Alle scuole, agli uffici, ai negozi chiusi. Agli ospedali al collasso.
Cosa avremmo dato, in quei giorni, per avere il vaccino?
La ricerca e la scienza ci hanno consegnato, molto prima di quanto si potesse sperare, questa opportunità. Sprecarla è anche un'offesa a chi non l'ha avuta e a chi non riesce oggi ad averla.
I vaccini hanno salvato tante migliaia di vite, hanno ridotto di molto - ripeto - la pericolosità della malattia.
Basta pensare a come l'anno passato abbiamo trascorso le festività natalizie e come invece è stato possibile farlo in questi giorni, sia pure con prudenza e limitazioni.
La pandemia ha inferto ferite profonde: sociali, economiche, morali. Ha provocato disagi per i giovani, solitudine per gli anziani, sofferenze per le persone con disabilità. La crisi su scala globale ha causato povertà, esclusioni e perdite di lavoro. Sovente chi già era svantaggiato è stato costretto a patire ulteriori duri contraccolpi.
Eppure ci siamo rialzati. Grazie al comportamento responsabile degli italiani - anche se tra perduranti difficoltà che richiedono di mantenere adeguati livelli di sicurezza - ci siamo avviati sulla strada della ripartenza; con politiche di sostegno a chi era stato colpito dalla frenata dell'economia e della società e grazie al quadro di fiducia suscitato dai nuovi strumenti europei.
Una risposta solidale, all'altezza della gravità della situazione, che l'Europa è stata capace di dare e a cui l'Italia ha fornito un contributo decisivo.
Abbiamo anche trovato dentro di noi le risorse per reagire, per ricostruire. Questo cammino è iniziato. Sarà ancora lungo e non privo di difficoltà. Ma le condizioni economiche del Paese hanno visto un recupero oltre le aspettative e le speranze di un anno addietro. Un recupero che è stato accompagnato da una ripresa della vita sociale.
Nel corso di questi anni la nostra Italia ha vissuto e subito altre gravi sofferenze. La minaccia del terrorismo internazionale di matrice islamista, che ha dolorosamente mietuto molte vittime tra i nostri connazionali all'estero. I gravi disastri per responsabilità umane, i terremoti, le alluvioni. I caduti, militari e civili, per il dovere. I tanti morti sul lavoro. Le donne vittime di violenza.
Anche nei momenti più bui, non mi sono mai sentito solo e ho cercato di trasmettere un sentimento di fiducia e di gratitudine a chi era in prima linea. Ai sindaci e alle loro comunità. Ai presidenti di Regione, a quanti hanno incessantemente lavorato nei territori, accanto alle persone.
Il volto reale di una Repubblica unita e solidale.
È il patriottismo concretamente espresso nella vita della Repubblica.
La Costituzione affida al Capo dello Stato il compito di rappresentare l'unità nazionale.
Questo compito - che ho cercato di assolvere con impegno - è stato facilitato dalla coscienza del legame, essenziale in democrazia, che esiste tra istituzioni e società; e che la nostra Costituzione disegna in modo così puntuale.
Questo legame va continuamente rinsaldato dall'azione responsabile, dalla lealtà di chi si trova a svolgere pro-tempore un incarico pubblico, a tutti i livelli. Ma non potrebbe resistere senza il sostegno proveniente dai cittadini.
Spesso le cronache si incentrano sui punti di tensione e sulle fratture. Che esistono e non vanno nascoste. Ma soprattutto nei momenti di grave difficoltà nazionale emerge l'attitudine del nostro popolo a preservare la coesione del Paese, a sentirsi partecipe del medesimo destino.
Unità istituzionale e unità morale sono le due espressioni di quel che ci tiene insieme. Di ciò su cui si fonda la Repubblica.
Credo che ciascun Presidente della Repubblica, all'atto della sua elezione, avverta due esigenze di fondo: spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell'interesse generale, del bene comune come bene di tutti e di ciascuno. E poi salvaguardare ruolo, poteri e prerogative dell'istituzione che riceve dal suo predecessore e che - esercitandoli pienamente fino all'ultimo giorno del suo mandato - deve trasmettere integri al suo successore.
Non tocca a me dire se e quanto sia riuscito ad adempiere a questo dovere. Quel che desidero dirvi è che mi sono adoperato, in ogni circostanza, per svolgere il mio compito nel rispetto rigoroso del dettato costituzionale.
È la Costituzione il fondamento, saldo e vigoroso, della unità nazionale. Lo sono i suoi principi e i suoi valori che vanno vissuti dagli attori politici e sociali e da tutti i cittadini.
E a questo riguardo, anche in questa occasione, sento di dover esprimere riconoscenza per la leale collaborazione con le altre istituzioni della Repubblica.
Innanzitutto con il Parlamento, che esprime la sovranità popolare.
Nello stesso modo rivolgo un pensiero riconoscente ai Presidenti del Consiglio e ai Governi che si sono succeduti in questi anni.
La governabilità che le istituzioni hanno contribuito a realizzare ha permesso al Paese, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente difficili e impegnativi, di evitare pericolosi salti nel buio.
Ci troviamo dentro processi di cambiamento che si fanno sempre più accelerati.
Occorre naturalmente il coraggio di guardare la realtà senza filtri di comodo. Alle antiche diseguaglianze la stagione della pandemia ne ha aggiunte di nuove. Le dinamiche spontanee dei mercati talvolta producono squilibri o addirittura ingiustizie che vanno corrette anche al fine di un maggiore e migliore sviluppo economico. Una ancora troppo diffusa precarietà sta scoraggiando i giovani nel costruire famiglia e futuro. La forte diminuzione delle nascite rappresenta oggi uno degli aspetti più preoccupanti della nostra società.
Le transizioni ecologica e digitale sono necessità ineludibili, e possono diventare anche un'occasione per migliorare il nostro modello sociale.
L'Italia dispone delle risorse necessarie per affrontare le sfide dei tempi nuovi.
Pensando al futuro della nostra società, mi torna alla mente lo sguardo di tanti giovani che ho incontrato in questi anni. Giovani che si impegnano nel volontariato, giovani che si distinguono negli studi, giovani che amano il proprio lavoro, giovani che - come è necessario - si impegnano nella vita delle istituzioni, giovani che vogliono apprendere e conoscere, giovani che emergono nello sport, giovani che hanno patito a causa di condizioni difficili e che risalgono la china imboccando una strada nuova.
I giovani sono portatori della loro originalità, della loro libertà. Sono diversi da chi li ha preceduti. E chiedono che il testimone non venga negato alle loro mani.
Alle nuove generazioni sento di dover dire: non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro perché soltanto così lo donerete alla società.
Vorrei ricordare la commovente lettera del professor Pietro Carmina, vittima del recente, drammatico crollo di Ravanusa. Professore di filosofia e storia, andando in pensione due anni fa, aveva scritto ai suoi studenti: "Usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha. Non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi. Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa. Voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare...".
Faccio mie - con rispetto - queste parole di esortazione così efficaci, che manifestano anche la dedizione dei nostri docenti al loro compito educativo.
Desidero rivolgere un augurio affettuoso e un ringraziamento sincero a Papa Francesco per la forza del suo magistero, e per l'amore che esprime all'Italia e all'Europa, sottolineando come questo Continente possa svolgere un'importante funzione di pace, di equilibrio, di difesa dei diritti umani nel mondo che cambia.
Care concittadine e cari concittadini, siamo pronti ad accogliere il nuovo anno, ed è un momento di speranza. Guardiamo avanti, sapendo che il destino dell'Italia dipende anche da ciascuno di noi.
Tante volte abbiamo parlato di una nuova stagione dei doveri. Tante volte, soprattutto negli ultimi tempi, abbiamo sottolineato che dalle difficoltà si esce soltanto se ognuno accetta di fare fino in fondo la parte propria.
Se guardo al cammino che abbiamo fatto insieme in questi sette anni nutro fiducia.
L'Italia crescerà. E lo farà quanto più avrà coscienza del comune destino del nostro popolo, e dei popoli europei.
Buon anno a tutti voi! E alla nostra Italia!"

Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica italiana.

(Video su You Tube)

"Il senso della Scienza" - Lectio magistralis di Giorgio Parisi Professore emerito della Sapienza Università di Roma Premio Nobel per la Fisica 2021



«La scienza ha anche delle conseguenze pratiche, ma non è questo il motivo per cui la facciamo», diceva Richard Feynman, uno dei più grandi fisici del secolo scorso e forse il più simpatico. Questa frase, insieme con l’imperativo dantesco «Fatti non foste per viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» riflette molto bene le passioni soggettive degli scienziati. La scienza è un enorme puzzle e ogni pezzo che viene messo nel posto giusto apre la possibilità di collocarne altri.
In questo gigantesco mosaico, ogni scienziato aggiunge delle piccole tessere, con la consapevolezza di aver dato il suo contributo, e che, quando il suo nome sarà dimenticato, coloro che verranno dopo si arrampicheranno anche sulle sue spalle per vedere più lontano.
Possiamo fare una vivida metafora dell’impresa scientifica. Alcuni naviganti sbarcano di notte in un’isola sconosciuta e accendono un fuoco sulla spiaggia; incominciano a vedere cosa li circonda.
Più legna mettono sul fuoco, più diventa grande la zona ben visibile; ma al di là di questa rimane sempre una regione misteriosa, che viene appena percepita nel buio quasi completo, rotto dalla fioca luce del fuoco lontano, e che diventa sempre più grande all’aumentare del falò.
Più esploriamo l’universo, più scopriamo nuove regioni da esplorare, ogni scoperta ci permette di formulare tantissime nuove domande che precedentemente non eravamo assolutamente in grado di formulare.
Tuttavia tranne nei rari casi in cui lo scienziato era di famiglia agiata e la ricerca era condotta nei lunghi periodi di ozio (per esempio Plinio il Vecchio, Fermat), lo scienziato ha sempre avuto il problema di trovarsi da mangiare e le applicazioni della scienza erano fondamentali per questo scopo. Basta pensare a una delle prime scienze, in ordine di tempo, l’astronomia.
È difficile immaginarsi concretamente adesso che viviamo in città ben illuminate, quale potesse essere nelle civiltà primitive l’enorme prestigio, potere di coloro che controllavano il flusso delle stagioni, il moto degli astri e che sapevano predire le eclissi della luna (per non parlare di quel fenomeno terrificante che sono le eclissi di sole).
Se le motivazioni dei mecenati potevano essere solo culturali o di prestigio sociale, certamente non sfuggiva agli scienziati l’importanza delle applicazioni pratiche.
Anche allo scopo di coordinare la ricerca scientifica nel Seicento-Settecento vengono fondate molte delle accademie che dominano ancora la scena scientifica, l’Accademia dei Lincei nel 1603, la Royal Society nel 1646, l’Académie des Sciences nel 1666, l’American Philosophical Society nel 1743. Questa Accademia è particolarmente interessante: fu fondata da Benjamin Franklin con lo scopo dichiarato di promuovere la conoscenza utile.
Con il passare degli anni la scienza diventa sempre più utile alla società (lo sviluppo economico si basa sul progresso scientifico), ma diventa anche sempre più costosa e richiede impianti e un’organizzazione sempre più complessa.
La seconda guerra mondiale segna i primi vagiti della scienza con basi di massa (la grande scienza): Vannevar Bush coordina gli sforzi bellici di seimila scienziati americani e contemporaneamente cinquantamila persone lavorano alla costruzione delle prime bombe atomiche.
Ai giorni d’oggi il settore ricerca e sviluppo assorbe poco più dell’uno per cento in Italia, ma arriva a più del 4 per cento in Corea del Sud (non solo la Corea del Sud ci ha eliminato dai Mondiali del 2002, ma spende tre volte più dell’Italia in ricerca e sviluppo).
La scienza con le sue istituzioni ha bisogno di essere finanziata dalla società alla quale non importa un fico secco se gli scienziati si divertono o meno. Questo punto di vista è stato espresso molto chiaramente dalla delegazione sovietica al Congresso di storia della scienza e della tecnologia tenutosi a Londra nel 1931. Bucharin (una personalità politica di primo livello, estremamente popolare nell’Urss, che successivamente fu una delle vittime più illustri delle purghe staliniane) scriveva che l’idea che la scienza sia fine a se stessa è ingenua: essa confonde le passioni soggettive dello scienziato professionista, che lavora in un sistema di divisione del lavoro assai spinto [...] con il ruolo sociale oggettivo di questo genere di attività, in quanto attività di importanza pratica.
Non è pensabile lo sviluppo tecnologico senza un parallelo avanzamento della scienza pura. Come era stato ben evidenziato nell’Ape e l’architetto (1977), la scienza pura non solo fornisce alla scienza applicata le conoscenze necessarie per potersi sviluppare (linguaggi, metafore, quadri concettuali), ma ha anche un ruolo più nascosto e non meno importante. Infatti, le attività scientifiche di base funzionano anche come un gigantesco circuito di collaudo di prodotti tecnologici e di stimolo al consumo di beni ad alta tecnologia avanzata.
Questa profonda integrazione tra scienza e tecnica potrebbe far pensare che la scienza abbia un futuro radioso in una società che diventa sempre più dipendente dalla tecnologia avanzata (i diffusissimi cellulari di adesso arrivano a una capacità di calcolo di centinaia di miliardi di operazioni aritmetiche al secondo, più o meno come i mastodontici super computer di venticinque anni fa).
In realtà oggi sembra vero tutto il contrario: ci sono forti tendenze antiscientifiche nella società attuale, il prestigio della scienza e la fiducia in essa stanno diminuendo velocemente.
Insieme a un vorace consumismo tecnologico si diffondono largamente le pratiche astrologiche, omeopatiche e antiscientifiche (vedi per esempio NoVax) e sta per essere riconosciuta da una legge dello stato italiano una pratica francamente stregonesca come l’agricoltura biodinamica, dove piccole quantità di letame vengono fatte maturare dentro le corna di vacche che hanno avuto almeno un figlio (l’indispensabile cornoletame).
Non è facile capire fino a fondo l’origine di questo fenomeno; è possibile che questa sfiducia di massa nella scienza che arriva fino al nostro Parlamento sia dovuta anche ad una certa arroganza degli scienziati che presentano la scienza come sapienza assoluta, rispetto agli altri saperi opinabili, anche quando in realtà non lo è affatto.
A volte l’arroganza consiste nel non cercare di far arrivare al pubblico le prove di cui si dispone, ma di chiedere un assenso incondizionato basato sulla fiducia negli esperti.
Proprio il rifiuto di non accettare i propri limiti può indebolire il prestigio degli scienziati che a volte sbandierano un’eccessiva sicurezza che non è autentica, davanti a un’opinione pubblica che in qualche modo ne avverte la parzialità di vedute e i limiti.
A volte cattivi divulgatori presentano i risultati della scienza quasi come una superiore stregoneria le cui motivazioni sono comprensibili solo agli iniziati. In questo modo chi non è scienziato può essere spinto in una posizione irrazionale di fronte a una scienza percepita come magia inaccessibile e quindi a preferire altre speranze irrazionali (tema ripreso in gran dettaglio da Marco d’Eramo nel suo Lo sciamano in elicottero, 1999): se la scienza diventa una pseudomagia, perché non scegliere la magia vera?
Ma forse le difficoltà attuali hanno origini più profonde che devono essere comprese a fondo allo scopo di poterle contrastare.
Stiamo entrando in un periodo di pessimismo sul futuro che ha la sua origine da crisi di varia natura: crisi economica, riscaldamento globale, esaurimento delle risorse, inquinamento. In molti Paesi si aggiungono l’aumento delle diseguaglianze, il precariato, la disoccupazione, le guerre.
Mentre una volta si pensava che il futuro sarebbe stato necessariamente meglio del presente, si è intaccata la fede nel progresso, nelle magnifiche e progressive sorti dell’umana gente: molti temono che le future generazioni staranno peggio di quelle attuali.
E come la scienza aveva il merito del progresso, così adesso la scienza riceve il biasimo del declino (reale o solo percepito non importa). La scienza è a volte sentita come una cattiva maestra che ci ha portato nella direzione sbagliata e cambiare questa percezione non è facile.
C’è una grande insoddisfazione verso tutti coloro che sono responsabili di questa situazione e gli scienziati non sfuggono a questo biasimo.
Ma se anche al livello planetario la scienza continuerà a svilupparsi e a trascinare la tecnologia, non c’è nessuna garanzia che questo accada anche in un Paese come l’Italia.
La deindustrializzazione sistematica dell’Italia è il filo conduttore della storia italiana dalla tragica morte di Mattei (1961) in poi assieme al sempre più marcato disinteresse della grande industria per la ricerca dopo la fine di esperienze pilota come quella dell’Olivetti. È ben possibile che i nostri governanti decidano che l’industria e la ricerca italiana debbano avere posto sempre più secondario e che il Paese debba lentamente scivolare verso il terzo mondo.
Se consideriamo anche il lento decadere della scuola pubblica, il disinvestimento dell’impegno finanziario del governo italiano nei beni culturali (basti dire che il restauro del Colosseo è stato fatto con fondi privati) ci rendiamo conto che tutte le attività culturali italiane sono in lento, ma costante, declino.
Bisogna difendere la cultura italiana su tutti i fronti, dobbiamo evitare di perdere la nostra capacità di trasmetterla alle nuove generazioni. Se gli italiani perdono la loro cultura cosa resta del Paese?
Bisogna costituire un fronte comune di tutti gli operatori culturali italiani (dagli insegnanti degli asili alle accademie, dai programmatori ai poeti) per affrontare e risolvere l’attuale emergenza culturale.
La scienza deve essere difesa non solo per i suoi aspetti pratici, ma anche per il suo valore culturale.
Dovremmo avere il coraggio di prendere esempio da Robert Wilson, che nel 1969 di fronte ad un senatore americano che insistentemente chiedeva quali fossero le applicazioni della costruzione dell’acceleratore al Fermilab, vicino Chicago, in particolare se fosse utile militarmente per difendere il paese, gli risponde il suo valore sta nell’amore per la cultura: è come la pittura, la scultura, la poesia, come tutte quelle attività di cui gli americani sono patriotticamente fieri; non serve per difendere il nostro Paese ma fa che valga la pena difendere il nostro Paese.
Per affermare la scienza come cultura, bisogna rendere la popolazione (almeno quella colta) consapevole di cosa è la scienza, di come la scienza e la cultura si intreccino l’una con l’altra, sia nel loro sviluppo storico sia nella pratica dei nostri giorni.
Bisogna spiegare in maniera non magica cosa fanno gli scienziati viventi, quali sono le sfide dei nostri giorni.
Non è facile, specialmente per le scienze dure dove la matematica gioca un ruolo essenziale; ma, con un certo sforzo si possono ottenere ottimi risultati.
Ai giorni d’oggi uno dei compiti fondamentali delle università è fornire una riflessione integrata su dove stia andando la scienza, le varie discipline che la compongono, comprese naturalmente quelle umanistiche e sociali. Bisogna soffermarsi sui rapporti reciproci tra scienza e società, su come il progresso scientifico influenzi, nel bene e nel male, la nostra vita e su come le esigenze della società condizionino lo sviluppo delle tecnologie e in ultima analisi della ricerca scientifica.
Questi rapporti non sono diretti, ma passano attraverso tantissime istituzioni, politiche ed economiche e non ultime quelle di comunicazione, in particolare i mass media.
La cultura influenza ed è influenzata da queste interazioni che vanno ben al di là dei confini delle singole discipline, tutte condizionate dallo Zeitgeist, dallo spirito dell’epoca. Non è facile dipanare tutti questi rapporti nel loro svilupparsi storico e nel loro intersecarsi in quanto servono competenze di natura molto diversa.
Non dobbiamo limitarci alla semplice comprensione dei fenomeni, ma dobbiamo essere protagonisti coscienti di questi processi per poter indicare, sulla base delle conoscenze scientifiche, quali direzioni di sviluppo ritengano le più sagge e, in caso di dubbi, quali siano i vantaggi e svantaggi delle varie soluzioni.
Questo ruolo diventa sempre più importante in periodi di crisi come quello attuale. La parola crisi è talmente usata che il suo valore è stato svalutato: grandi migrazioni, problemi etici della scienza e della tecnica, pandemie, depauperamento delle risorse naturali e cambiamento climatico, per non parlare delle crisi finanziarie ed economiche con i loro pesanti riflessi su reddito e occupazione.
Siamo di fronte a rapidi cambiamenti e gli schemi mentali sviluppati nel passato, quando l’intervento umano aveva piccoli effetti sull’ambiente, devono essere aggiornati adesso che la nostra impronta ecologica sul pianeta diventa sempre più ampia.
Con la loro grande autorevolezza le università possono essere protagoniste di riflessioni da comunicare a un pubblico vasto: devono essere capaci di influenzare la società e le istituzioni anche in presenza di interessi settoriali che possono spingere nella direzione opposta. Ma questo interesse nella scienza ha avuto una ricaduta insospettata.
Molte persone sono rimaste sconcertate dal vedere scienziati illustri accapigliarsi con la stessa veemenza che potrebbero avere esponenti politici di partiti diversi. Questo stupore è dovuto anche a una incomprensione del meccanismo con cui si forma il consenso scientifico.
Quando si verifica un fatto nuovo, scienziati diversi propongono interpretazioni diverse. Procedendo lentamente, provando e riprovando come diceva il grande linceo Galileo Galilei, aumentando le conoscenze con nuovi dati, con nuovi esperimenti, si forma lentamente un consenso attorno a una delle interpretazioni proposte.
In certi casi estremi è stato un procedimento molto lento: Max Planck ha scritto che le nuove idee si affermano non perché gli oppositori si convincono, ma perché gli oppositori muoiono e lasciano lo spazio ai sostenitori delle nuove idee. Non deve sorprendere quindi che di fronte a un virus nuovo e a una situazione in cui i dati giungevano intermittenti e incompleti, gli esperti del settore si siano trovati talvolta in disaccordo, specie sui comportamenti da adottare.
In un tempo in cui la scienza televisiva sembra indecisa, con grande scandalo del pubblico, il nostro ruolo diventa sempre più importante sia per arrivare il più velocemente possibile a un consenso nella comunità scientifica, sia per diffondere al pubblico i risultati su cui si è raggiunto il consenso.
Abbiamo il dovere di promuovere una cultura basata sui fatti e impedire che si diffonda una pseudoscienza che possa indurre a scelte sbagliate.
Non basta capire, trovare la strada, ma bisogna anche riuscire a comunicare, a spiegare non solo i risultati ma anche la metodologia seguita, per poter essere convincenti in maniera duratura.
Non è facile farlo, ma è possibile farlo. Basta guardarsi intorno per capire che quello che si fa non basta.
Bisogna fare di più, molto di più, e se non lo faremo, non potremo sfuggire alle nostre responsabilità.


Prof. Giorgio Parisi (Fonte: https://www.uniroma1.it/sites/default/files/field_file_allegati/libretto_interventi_inaugurazione_sapienza_ok.pdf)

mercoledì 29 dicembre 2021

“Perduti luoghi ritrovati – Poggioreale Antica” di Roberta Giuffrida



La testimonianza fisica di una memoria costituisce un elemento che aiuta a elaborare sensazioni e sentimenti in coloro che si accingono a voler rivivere indirettamente una storia, appresa attraverso le letture di testi e di racconti visivi disponibili.
Rivisitare i luoghi che testimoniano importanti eventi consente, anche, di poter disporre direttamente di un insieme di dettagli e tasselli indispensabili per comprendere meglio; anche per innescare - personalizzandole - le specifiche visioni fantasiose, nel far rinascere un contesto ormai stabilizzato, sterilizzato e neutro, pressoché indecifrabile per l’osservatore comune, perché avvolto dall’oblio del tempo.
Seguendo questa chiave di lettura, Roberta Giuffrida fotografa con i suoi scatti è quindi riuscita a cogliere, fra i ruderi della vecchia Poggioreale, ciò che il suo sguardo ha saputo ben focalizzare, per svolgere con un insieme di fotogrammi un suo film e trasmettere le emozioni suscitate dall’analisi della moltitudine di elementi che il contesto confusamente offriva.
Così come certi personaggi da lei incontrati, che a me piace immaginare come degli opulenti italoamericani di terza o quarta generazione, forse curiosi di venire a conoscere e visitare le terre dei propri avi, andavano ad animare alcuni scatti, creando storie verosimili, ancor più le presenze diventano più vive nelle foto che evidenziano e enfatizzano l’assenza.
Le due formule creative adottate da un lato simulano l’evidenza e dall’altro un potenziale indefinito completabile a proprio gusto, secondo il nostro intimo immaginario, creando così un unicum di due naturali facce di una stessa medaglia, una definita e un’altra libera, affidata all’osservatore delle foto e rifinibile a proprio piacimento.
In tutto questo, certi scorci manifestano l’esistenza di fantasmi latenti e il palese stato di abbandono appare quasi - e specie in questo tempo natalizio - come una delle fasi intermedie fra quelle che intercorrono nei due momenti della preparazione o dello smontaggio di un presepe.
Lo stesso potrebbe in qualche nodo anche dirsi se dovessimo procedere in eventuali altre visite similari, nel recarci in siti come Pompei o Ercolano ovvero per i campi di concentramento di Auschwitz, Birkenau o quant’altro ancora induca a evocare eventi della storia.
Nell'operazione la scelta del bianco e nero appare idonea e azzeccata per non distrarre dalla narrazione e ben si riallaccia al finale pirandelliano felicemente richiamato nella eccellente prefazione al libro dall’amico Pippo Pappalardo: “Occorre guardare le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più. Ne avremo un rammarico, certamente, ma sarà questo a rendercele più sacre e più belle”.
Un’operazione ben riuscita con la quale, a giusto merito, Roberta ha ottenuto il riconoscimento che le ha consentito di ricevere come premio da ZeroBook, nel febbraio 2021, la pubblicazione del volume “Perduti luoghi ritrovati – Poggioreale Antica”.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

giovedì 16 dicembre 2021

A proposito di "diamanti"



Commentando l’evento a caldo, quando era affiorato a maggiore attenzione mediatica, avevo grosso modo scritto che “a proposito di diamanti … sono tanti che nel contemplare i palazzi confondono i vetri con cristalli. L’opacità non sempre è utile, specie se si è chiamati a garantire trasparenza.”
“Il 13 dicembre la trasmissione televisiva Report ha mandato in onda un servizio riguardante la compravendita dei diamanti attraverso i canali bancari proponendo una ricostruzione lacunosa ed erronea degli eventi e sollevando dubbi sull'efficacia dell'azione di Vigilanza e sul ruolo della Banca d'Italia. Questo documento fornisce informazioni per consentire di inquadrare correttamente il ruolo della Banca d'Italia nella vicenda.”
L’approfondimento pubblicato dalla Banca d’Italia sotto il titolo “La compravendita di diamanti attraverso canali bancari e il ruolo della Banca d'Italia” (https://www.bancaditalia.it/media/approfondimenti/2021/diamanti/index.html) e di cui si riporta l’inizio, appare improntato, più che a precisazioni e chiarimenti rivolti alla pubblica opinione, a riequilibrare i fatti secondo logiche da addetti ai lavori, lasciando ampi dubbi sulla trasparente gestione di chiare specifiche questioni che risultano essere state sollevate da un suo dipendente.
Intanto, si osserva che in quanto istituzione nazionale, le competenze assunte dalla BCE non farebbero venir meno gli obblighi verso gli organi inquirenti e giudiziari italiani. Non già e limitatamente per lo scontato aspetto di collaborazione ma per i compiti impliciti alla funzione svolta che impongono segnalazioni alla magistratura su fatti che comportino dubbi di regolarità o palesi illeciti.
Tale aspetto travalica del resto la specificità della funzione ispettiva, atteso che anche le risultanze degli accertamenti di vigilanza comportano sempre delle valutazioni interne (mini commissioni specialistiche) che, dopo attento esame e sentito il parere diretto del capogruppo ispettivo, eventualmente procedono a trasmettere alla Procura di competenza ogni evento meritevole di segnalazione. Non è pertanto l’ispettore che, in quanto pubblico ufficiale, segnala direttamente all’autorità giudiziaria, bensì la struttura Banca d’Italia nel suo complesso.
Al riguardo, a prescindere dala vicenda "diamanti", oggetto di varie attenzioni per ambito di attribuzioni a ciascuna delle tante parti in causa, apparirebbe interessante poter prendere visione della specifica corrispondenza intercorsa fra il dipendente, la struttura interna all’Istituto d’emissione e la stessa BCE per quanto di sua competenza.
Viene detto che aspetti riservati non possono essere esposti, ma nel caso specifico si tratterebbe di assicurare chiarezza ai fatti andati fuori controllo, senza dover procedere a sintesi e opinioni unilaterali, parziali, se non proprio autoreferenziali, come spesso capita a istituzioni ritenute importanti.
In pratica, leggendo attentamente le considerazioni pubblicate, ci si perde in meandri che esulano dal fatto specifico attenzionato e denunciato dal dipendente. A tal fine avrebbe poca importanza se le competenze smembrate fra Consob e altri, deleghino a differenti compiti e azioni.
Collaborare nel fornire supporto e materiale in una indagine, poi, non corrisponde esattamente a un eventuale obbligo di denuncia che di per sé è indissolubile dai compiti di vigilanza sul sistema finanziario nazionale.
Alla luce di quanto fin qui osservato e dal non detto dalla Banca d’Italia, non rimane che attendere la prossima puntata di Report per capirne di più sulla specifica questione e sui Migliori in genere, che pontificano sull’onniscienza.
Per alcuni aspetti, specie per risvolti gerarchici talvolta confusi, questa strana vicenda richiama un po’ quanto è recentemente occorso anche al PM Paolo Storari, nel corso dell’indagine che avrebbe riguardato anche la presunta esistenza di una loggia massonica denominata Ungheria. Anche qui un brutto intreccio di competenze, obblighi, verifiche e eccessive prudenze che, oltre a coinvolgere il Procuratore di Milano, ha financo interessato il CSM ai suoi alti vertici.
Nel nostro Bel Paese sembra che certi canovacci si muovano secondo logiche e palinsesti che spesso si somigliano, così come ormai avviene per i media e per vari programmi televisivi d’intrattenimento.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

mercoledì 15 dicembre 2021

“Oggi ho imparato a volare” - Un racconto di Sura Bizzarri



Capita spesso di ritrovarsi ad ascoltare discorsi che in qualche modo attirano l’attenzione. Succede pure che talune menti, come quella della mia amica Sura, inconsciamente inneschino una sorta di elaboratore automatico che, già nell’ascolto, intanto immagina l’abbozzo di altre storie correlate.
Del resto a persone che hanno queste capacità basta poco per infarcire racconti che, per la ricchezza di particolari e l’intensità narrativa trasfusa, hanno tanti di quei connotati da renderli quasi storie verosimili, come fossero realmente accadute.
Narratori si nasce e chi ha in dono l’arte di saper raccontare, affastellando peraltro vicende con il proprio sentire, saprà sempre impreziosire con valori aggiunti anche cose semplici, per indurre a pensare.
Con il suo consenso e con l’aggiunta di foto di street art che mi piace abbinare, propongo di seguito questo suo ultimo bel racconto, che merita un’attenzione anche per i tanti messaggi nascosti, apparentemente messi in penombra, in secondo piano.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

“Oggi ho imparato a volare” - Un racconto di Sura Bizzarri

Mia nonna era nata in Ucraina all’inizio del secolo scorso. Da sempre la sua famiglia si occupava di cibo; una cucina e una stanza abbastanza grande con tavoli, sedie e finestre grossolane di tende ricamate. Un orto ben coltivato suddiviso in solchi e quadri che delimitavano le diverse colture, galline e conigli. Cucinavano per la gente, per lo più per i lavoratori delle miniere; piatti poveri ricavati dai prodotti del loro appezzamento.
Lei era ancora giovane quando scoppiò la guerra. E quando i tedeschi occuparono il suo ristorante obbligandola a cucinare per loro, lei e l’intera famiglia furono additati come collaborazionisti.
Olga, il cui giovane marito Piotr era partito per la guerra, allora si addentrò un giorno nella foresta con la figlia fra le braccia per non fare più ritorno.
Quante volte ho ascoltato la sua storia nella cucina nella quale lei si muoveva ancora sicura di sé, sebbene appesantita dall’età. Ed ogni volta saltava fuori un particolare in più a ricostruire un romanzo che mai era stato scritto.
Le sue mani nodose accarezzavano la mia testa mentre con i grossi incisivi addentavo il pane imburrato che lei mi aveva preparato. Il sapore del pane mi pareva antico, come se le sue mani avessero impastato il grano proveniente dalle steppe ucraine.
Ero piccola, la mia immaginazione si addentrava nei boschi muschiosi e freddi di cui lei mi parlava, gli occhi della mente percorrevano distese di betulle argentate per scorgere anfratti protetti nei quali la nonna e sua figlia avrebbero trascorso la notte.
Era ancora bella, mia nonna, gli occhi chiari aperti come una piazza sul mare, il viso pallido senza rughe, i capelli raccolti in un ricordo di femminilità.
Per un bimbo tutto è facile, la sua fiducia nelle parole degli adulti è completa e incondizionata. La fuga della nonna mi pareva un gioco fatto di belle passeggiate nei boschi e rifugi improvvisati sotto foglie morbide, sotto le stelle.
La nonna camminò tanto, fino a raggiungere la Polonia. E in quel periodo sospeso nel quale la sua esistenza si improvvisava giorno dopo giorno, lei incontrò un uomo. Tutti noi siamo naturalmente portati a vedere negli altri ciò che cerchiamo, ciò che abbiamo bisogno di trovare.
Mia nonna sapeva vedere nella gente solo cose belle, le era difficile ed estraneo individuare i difetti, le brutture e gli eccessi. Per di più, nei timori di una vita nomade e inventata con una bimba piccola sempre legata al petto, lei aveva bisogno di trovare un appoggio, di condividere con qualcuno la sua diaspora.
Nonna Olga vide in quell’uomo che conosceva appena l’uomo della sua vita. E a lui si appoggiò, senza mai pesare troppo, che questo aveva imparato dall’educazione ricevuta, con lui continuò il viaggio alla ricerca di una casa e di un lavoro.
Insieme a lui sopportò il freddo delle notti trascorse in capanne, in rifugi di fortuna e fu lui che sposò in una chiesa di campagna ancora prima di giungere a Cracovia.
I suoi bisogni erano tanti, la paura di non riuscire ad allevare la figlia la attanagliava. Non stette a farsi troppe domande quando in un sabato balenante di sole, fra le stoppie bruciate delle campagne, coi vestiti pesanti addosso e la bimba sempre stretta al petto in una fascia ormai logora e sdrucita, disse si all’uomo che sarebbe diventato mio nonno.
Una giovane coppia ed una bimba arrivarono in città, fra le mani non avevano niente, neanche abiti per cambiarsi ma erano disposti a fare qualsiasi cosa. Nonna cominciò a lavorare in un ristorante e nonno, carattere forte e irascibile, passò da un’occupazione all’altra prima di aprire con la moglie un piccolo ristorante subito fuori Cracovia. Acquistarono pagando in tante piccole rate un appezzamento di terreno con baracca annessa e lì aprirono il loro piccolo locale, misero, semplice, una cucina vecchia e logora che produceva ottimi piatti contadini, un locale chiaro e caldo dove mangiare era un piacere antico.
Olga lavorava sodo; accudiva gli animali, aveva le mucche da mungere ogni mattina e ogni sera. Lei cucinava, puliva, lavava al fiume, raccoglieva le verdure e amministrava la sua azienda. Perché quel ristorante, alla fin fine, era solo suo. Sua ogni incombenza, ogni problema, sua la responsabilità di onorare le rate che scadevano ogni mese.
Il nonno era l’uomo, il capo famiglia, il padrone di sua moglie e dei figli che continuava a farle partorire. Col tempo arrivarono ad averne otto; quelli più grandi facevano i genitori ai piccoli, mentre la nonna lavorava, scendeva al fiume e rincasava col fiatone, perché il pranzo doveva essere pronto, abbondante e ben servito, non un minuto di ritardo altrimenti il marito avrebbe preso la catena delle mucche e con questa le avrebbe sferzato le gambe, il busto, le braccia.
Lei si rifugiava nella forza prepotente della sua vita, aiutata da un vigore fisico senza uguali. E mentre le sue braccia lavoravano senza sosta la mente immaginava il futuro dei figli, a Cracovia, nella città della grande bellezza e il suo lavoro non era mai abbastanza per assicurare loro l’istruzione, abiti dignitosi e un amore carico di attenzioni per controbilanciare la grettezza del marito, la cui violenza si caricava dell’alcool trangugiato durante tutta la giornata.
Il sorriso di lei mai era una maschera, ma l’immagine concreta dell’istinto innato di voler trasformare la realtà. I suoi gesti non erano violenti, il suo corpo morbido era lo scudo che proteggeva i figli, perché le botte c’erano anche per loro. Jude, il cane di mio nonno, era diventato il suo alleato, perché era Olga che riconosceva come capobranco e da lei si rifugiava quando la violenza degli scarponi del nonno si abbatteva sulle sue zampe indebolite e tremanti. I gesti di nonna non erano forzati e la dedizione in ogni gesto, anche i più semplici, quelli di ogni giorno, erano la prova della volontà di cambiare la vita dei figli. Senza abbassare mai la guardia.
Ognuno ha il suo modo di reagire agli avvenimenti, ognuno ha una personale scala di valori e in nome di questi è disposto a lottare, fin quasi a soccombere. D’altronde la vita è un continuo esperimento, ogni fase superata preclude a quella successiva.
I dolori più grandi di nonna Olga non erano le botte ma la malinconia dei suoi figli, le umiliazioni che subivano per ogni nonnulla, l’insicurezza che li bloccava ogni volta che il babbo rientrava.
I loro sguardi rivolti alla mamma erano richieste di aiuto e lei li guidava con gli occhi, con i sorrisi di approvazione o con l’invito a scappare, comunicato col linguaggio del corpo e dei segni.
Ormai madre e figli erano organi di uno stesso corpo, correlati e collegati fino a formare una macchina di precisione, dotata di allarmi e segnali in codice.
Così lei gestiva l’errore di aver sposato un uomo che non conosceva, di essersi aggrappata alla prima scialuppa ed esserne salita a bordo senza conoscere l’equipaggio, la direzione, la meta definitiva. Ma Olga non era una perdente e, soprattutto, era disposta a tutto perché i suoi figli non diventassero tali.
Intanto la città cresceva e la prima figlia, ormai grande, lì si era trasferita non appena era riuscita a trovare un lavoro. Nonna stava invecchiando ma ancora riusciva a gestire il suo locale, che senza quello la vita sarebbe stata esclusivamente di proprietà del marito. E il marito continuava a bere e ad invecchiare a ritmo veloce. Il suo corpo si era screpolato, la pancia prominente di chi abusa dell’alcool, i denti sciupati, l’irascibilità sempre più livida contro un mondo nel quale non era mai riuscito ad entrare veramente, troppo concentrato sulla rabbia contro la vita, dalla quale prendeva sempre più le distanze.
Lei si era organizzata seguendo i ritmi dell’uomo che mai le era stato accanto; concentrava i momenti per i figli, per concedersi un attimo di tregua, per guardarsi intorno e riprendere fiato quando lui dormiva, nel primo pomeriggio e la sera presto, che la giornata di lui si concludeva subito dopo la cena. Certo, il calvario di convivere con un nemico era devastante ma, al contempo, le aveva insegnato il valore delle piccole cose, la gioia della normalità. Olga aveva imparato ad assaporare con un piacere speciale, di liberazione, i momenti che erano solo suoi.
Ricordo quando il sabato mattina la nonna e io salivamo sull’autobus per andare in città. Lei era fiera di avermi al suo fianco, ben vestita, le trecce inframezzate da un nastro rosso; la nostra gita seguiva riti ben precisi, il cappuccino e una pasta rigonfia di crema sempre nella stessa drogheria ed ogni volta, immancabilmente, andavamo nel negozio di scampoli. Pile di stoffe arrotolate su se stesse e scale semovibili per raggiungere gli scaffali più alti. Quelle stoffe erano il suo vizio, la sua conquista, l’esplosione liberatoria di esprimere la sua creatività, di pensare e progettare un’attività completamente sua.
Quel mondo incantato era diventato anche il mio. L’odore dei tessuti inamidati, i colori, le fantasie di ghirigori contorti ripetuti all’infinito, un territorio totalmente femminile e curato nei particolari. Quello era un mondo buono, non c’erano oggetti pericolosi, ferri, catene, lo sterco delle stalle e la fatica sempre dipinta sul volto sudato di nonna. Era un porto franco, un’isola di gentilezze femminili che non eravamo abituate a ricevere.
Ci concedevamo quella gita, quel momento solo nostro prima di rientrare nel livore di quell’uomo che non parlava mai, che entrava pesantemente e con ruvidità cattiva usava gli oggetti, per poi lanciarli contro il muro, che intorbidava l’aria, la stessa che eravamo costretti a condividere.
Fu in una tarda mattinata di festa, la nonna e io occupate con le nostre stoffe.
Lei non si fermava mai, non riuscivo a convincerla a starsene seduta. Mi preoccupavo, la vedevo stanca. Avevo superato la fanciullezza e cominciavo ad aver paura della vita. Diverse persone che ruotavano intorno alla nostra famiglia erano morte.
Alcune per vecchiaia, altre erano morte nonostante fossero ancora giovani, nonostante avessero figli da accudire, lavori da portare avanti, progetti appena iniziati. Il racconto della vita che scorreva nella mia testa aveva subito un disguido, c’era una evidente anomalia, un cortocircuito che andava oltre la mia comprensione e creava un disagio che mai avevo avvertito, ancora più penetrante della violenza del nonno.
Sentivo sempre più forte il bisogno di proteggere mia nonna, di regalarle quella spensieratezza che solo con me era tangibile, che le spianava le rughe sulla fronte.
Odiavo mio nonno, finalmente avevo trovato il coraggio di ammetterlo dentro me stessa.
E odiavo anche i suoi figli, quelli che come lui avevano cominciato a bere e ad assumere atteggiamenti violenti, scurrili, inconcepibili per una bimba in bilico fra la fanciullezza e l’adolescenza. Quei figli appartenevano solo a lui, mia nonna li aveva solo incubati ed espulsi. Non avevano con lei alcuna correlazione.
Quel giorno stavo porgendo a nonna Olga le tende da appendere alla finestra. Lei era in bilico sulla scala, protesa verso i vetri, abbagliata dal sole estivo, dai suoi potenti raggi obliqui.
Lui entrò con la violenza di sempre, aprendo la porta con un movimento esagerato, tutto era amplificato dalla sua incoerenza, dalla ferocia della sua infelicità, un tale comportamento non poteva esser dettato che da quello.
Il suo odore, già in un attimo, aveva saturato la stanza. Il sentimento che provavo era una intima nausea, l’incapacità di ribellarmi, di proteggere la persona che più amavo dalla smania cieca di un animale affamato. Entrambe eravamo sulle difensive, smettevamo di parlare, di sorridere; ogni nostra forma espressiva era da lui interpretata come un affronto.
Nella sua mentalità estrema ed estremista eravamo di sua proprietà e solo lui poteva concederci la facoltà di parlare, di ridere, di dedicarci l’una all’altra.
Non ricordo quale fu il motivo scatenante, quale nostro comportamento, sguardo di intesa, o semplicemente gesto di gentilezza dell’una verso l’altra scatenò il suo livore.
Già aveva bevuto, il nonno, nonostante il mattino fosse tutto da trascorrere. E già la sua mente contorta aveva individuato un nostro fallo, una nostra intenzione, il bagliore di un pensiero.
Sorpassò con noncuranza il cane che era entrato prima di lui, poi il suo passo pesante andò pericolosamente verso la scala e un calcio prepotente troncò le assi inferiori facendola barcollare.
La nonna cadde dall’alto, ancora non aveva fatto in tempo a posare la stoffa e scendere di qualche gradino. Rovinò sulle mezzane dure.
Ricordo la mia rabbia, l’urlo che mi uscì dalla gola, il desiderio prepotente di scagliarmi contro di lui, di cancellarlo per sempre dalla nostra vita.
Invece corsi da lei, ferma fra il tavolo e l’acquaio, incapace di muoversi e paralizzata dalla paura. La coprii col mio corpo, le baciai il viso e respirai il suo respiro concitato.
Attendemmo in terra, ferme, in silenzio, finché lui non si chiuse in camera. Solo all’arrivo di mia madre riuscimmo a muovere la nonna e chiamare aiuto.
Correndo fuori avrei voluto bruciare tutto, dimenticare quella casa che pure amavo, allontanarne mia nonna per sempre.
Tirai dietro la porta, intimai Jude a rimanere dentro, di guardia davanti alla porta di camera dove il nonno riposava.
Quello era il suo giaciglio abituale, serviva a lui per piantonare il nonno e a noi per essere avvisate della sua presenza.
Ma sbattere la porta non era abbastanza, dovevo porre una barriera fra lui e noi, dovevo isolare il nonno, renderlo inoffensivo. Chiusi a chiave dall’esterno e puntai un palo sotto la maniglia. In casa quella settimana non ci sarebbe stato nessuno; i figli fuori per lavoro o a studiare.
Nella mia mente stava nascendo un impulso che mai avevo conosciuto. La parte primordiale del cervello, quella più in ombra, si stava gonfiando di rabbia cattiva. La piccola Angelika si stava trasformando in un’eroina ribelle. La piccola Angelika avrebbe voluto ucciderlo, quel nonno che tanto dolore aveva portato nella sua vita. Perché lui aveva paralizzato ogni desiderio, ogni speranza, anche quella semplicissima di poter vivere una vita dignitosa.
Corsi forte, per raggiungere mia madre e dentro martellava un solo pensiero, così prepotente da sembrare reale, la stessa immagine si parava davanti ai miei occhi ad ogni battito del cuore. I piedi picchiavano forte sul terreno, il corpo risuonava di quell’onda pesante che dal suolo si ripercuoteva alle gambe e su, fino al petto, fino al cervello in fiamme.
Avevo mal di gola, tanto il respiro era affannoso e sparato fuori e risucchiato dentro. L’aria sembrava non essere sufficiente e la distanza pareva non finire mai. E dentro la mia testa io vedevo solo il volto paonazzo di mio nonno che scoppiava, colpito da un grosso bastone o dalla vanga che aveva nel tempo curvato la bella schiena dritta della nonna.
Ogni respiro un grido e la gola pulsava e si infiammava e gonfiava. Gli occhi colmi di lacrime quasi non vedevano più la strada e il naso colava fino sulle labbra, dentro la bocca socchiusa, sui vestiti scomposti dalla corsa convulsa.
Caddi diverse volte, i miei ginocchi di bimba cresciuta erano pieni di ghiaino che pizzicava sulla pelle scoperta, macinata dalla terra e aperta in diversi punti. Ero un piccolo mostro urlante che si barcamenava fra il desiderio di vendetta verso l’uomo che aveva condizionato la nostra esistenza e le preghiera perché la vita della nonna fosse risparmiata.
Non appena atterrai nel cortile di casa, come un uccello caduto in volo, mia madre mi abbracciò e mi baciò forte sui capelli, cercava di calmarmi ma le mie braccia quasi la picchiavano per svincolarsi da quella stretta e raggiungere l’ambulanza ancora ferma dove Olga taceva.
Fu un’infermiera a sorridermi e dalla nebbia di una rabbia che assomigliava alla pazzia capii che la nonna non era in pericolo. Saltai sul mezzo ancora fermo e le strinsi la mano. E lei mi lesse dentro.
Capitano talvolta momenti di lucidità estrema nei quali la comunicazione fra due persone molto vicine è una realtà che non ha bisogno di parole. O almeno, non è necessario pronunciarle.
Io e mia nonna in quella mattina di inizio estate ci dicemmo tutto in un attimo. Anni di sentimenti trattenuti, forse addirittura inconsapevoli erano diventati improvvisamente un disegno ben preciso.
Quelli che seguirono furono giorni di riscatto, giorni nei quali io e lei, in silenzio, cominciammo a progettare una nuova esistenza, come se fosse possibile ripartire da una pagina bianca.
I momenti straordinari sono sospesi e, in conseguenza di questo, forieri del nuovo che sta dopo di essi. Quante aspettative stavano dentro la nostra stretta di mano!
Solo quel gesto ci sembrava capace di innescare il cambiamento verso la normalità. In fondo solo ad essa aspiravamo e forse era giunto il momento di provare ad assaporarla.
Dalla nostra parte c’era l’ospedale, c’erano le forze dell’ordine e il racconto di tutto l’orrore che era stato, fino a quel momento. Ma c’era anche di più. C’era una intima consapevolezza che brillava nei miei occhi e in quelli di nonna Olga, ogni volta che si incontravano.
Avevamo capito che la nostra forza, se solo sommata, aveva il potere di moltiplicarsi. Che l’intransigenza del nonno avrebbe dovuto scontrarsi con la nostra intransigenza, uguale se non superiore alla sua. E sentivamo qualcosa che non sapevamo esprimere. Ma che sicuramente era patrimonio di entrambe.
Ci sono cose inspiegabili ma tangibili come i sassi lungo la strada, come la coda dei gatti, come l’esistenza delle montagne, delle distese di alberi, delle onde formidabili del mare che sbattono e deflagrano contro gli scogli. Il nodo che ci aveva trattenute dalla ribellione si stava sciogliendo.
Quello che per tanto era stato taciuto, seppure patrimonio dell’intero villaggio, soffiato dalle donne al mercato, spiato attraverso le tende di casa, ascoltato attraverso le pareti era venuto a galla in modo irrimediabile. E questo giocava a nostro favore. Al punto da farci dimenticare che il nonno era ancora chiuso in casa.
Non avevamo sporto denuncia; il ricovero in ospedale che aveva reso pubblica la nostra situazione era già di per sé un deterrente, l’idea che le violenze subite circolassero ormai liberamente sulla bocca di tutti ci faceva sentire più forti e lui, sempre più debole, chiuso in casa e in se stesso, solo e invecchiato prima del tempo.
Ma qualcosa di superiore, alla stregua di un giudizio divino, della forza livellatrice della natura era il sentimento che ci legava, che ci rendeva uniche in mezzo agli altri, perché partecipi dello stesso stato d’animo, della stessa certezza interiore. C’era uno stato di grazia particolare, fra me e lei, superiore a quello che da sempre ci aveva unite. E questa particolare condizione era visibile, perché ci illuminava, fortificava e saziava. Una serenità immotivata era scesa su di noi. E ci rendeva persino più belle.
Avendo toccato il punto più basso delle nostre relative esistenze davanti a noi si parava un deserto tutto da riempire.
Senza aspettative particolari, se non quelle dei bisogni minimali. E la forza livellatrice della natura, quella che ogni giorno sentivamo sempre più tangibile, stava lavorando effettivamente per i fatti suoi ma, indirettamente, anche nel nostro interesse.
E’ brutto da dirsi, è uno scempio dell’anima ammettere che il male altrui potesse non solo restarci indifferente, ma addirittura gratificarci.
Qualche giorno dopo l’incidente la mamma andò a casa di nonna Olga. Doveva prendere alcuni suoi oggetti perché alle dimissioni ospedaliere lei era venuta ad abitare momentaneamente da noi.
La porta era chiusa e dentro Jude mugolava tristemente. Un’onda forte di calore paralizzò la mano di mamma sulla maniglia. Il cane si agitava, guaiva, era rimasto prigioniero col nonno. E la porta non si apriva, qualcosa di pesante ostruiva dall’interno lo spazio sul pavimento.
Mia madre era una donna intelligente e non nuova agli atti dissoluti del nonno. Pensò che lui potesse essersi ubriacato ed essere caduto davanti alla porta. Cominciò a chiamarlo: “Babu babu”. Ma il silenzio era riempito solo dalle unghie di Jude che grattavano ferocemente la porta.
Ci vollero tanta forza e un piede di porco a contrasto nella fessura che non voleva allargarsi. Ma già da essa si vedeva tanto sangue e l’occhio del nonno fermo, opaco, velato. Indubitabilmente un occhio senza vita. Ci vollero due uomini per scardinare l’infisso e spingere e liberare l’accesso.
Ci volle tanta forza per poter passare e constatare che nonno era morto da tempo. E per capire che Jude, involontariamente, nel tentativo di liberarsi da quella prigione maleodorante aveva raspato, graffiato, scavato per giorni. Sul legno antico e resistente della porta e sul corpo che lì davanti stava disteso, grosso e pesante, ma non più forte e cattivo.
Jude era una maschera di sangue e il nonno era un impasto macilento scavato dalle unghie del cane e dalla sua testarda violenta intransigenza.
Fu con compostezza che mia madre aiutò gli uomini, lavò e ricompose il corpo di suo padre, ripulì Jude e calmò la sua paura. Lo portò a casa nostra ed evitando la retorica ci comunicò che il nonno era morto e la mattina successiva sarebbe andata in comune per i documenti necessari alla sepoltura.
Nessuno pianse, solo la malinconia degli appuntamenti con la vita, e la morte.
Nonna ed io ci stringemmo e avvinghiammo ancora più tenacemente allo stato d’animo che ci aveva tenute vive, avviate verso un futuro che sarebbe stato diverso. Per tutti.
Ci raccogliemmo in salotto, sul divanetto verde, il cane disteso sul tappeto tondeggiante a bearsi dei nostri sguardi senza paura.
Non ci furono particolari circa la morte del nonno. Semplicemente, lui non esisteva più. Solo una volta diventata grande mia madre mi raccontò la precisa dinamica dell’incidente. E anche allora, ingollai la notizia, senza una parola. Ognuna di esse, semmai le avessi pronunciate, sarebbe stata di troppo.
Preferii stringermi a nonna Olga, alle sue dita nodose ma ancora calde e buone e, mentre mi addormentavo, in quel momento in cui il presente comincia a svanire e ad intrecciarsi con le immagini della mente, pronunciai poche parole: “Oggi ho imparato a volare!”
Quella era la sensazione di leggerezza che provavo e che neanche la morte riusciva a incrinare.
Da quel giorno nessuno ha mai più pensato di picchiare me, o la nonna, che la nostra forza e il coraggio che avevamo acquisito eran più solidi di una montagna.
I suoi figli, gli uomini che ho incontrato, chiunque abbia provato rabbia nei miei confronti mai si è permesso di alzare le mani su di me. Non glielo avrei permesso. Si legge nei miei occhi.

© Sura Bizzarri

martedì 14 dicembre 2021

L'archivio mentale del fotoamatore



Tutte le belle fotografie che ciascuno di noi non è riuscito a scattare non rimarranno delle occasioni perse.
Le immagini fotografiche che abbiamo nettamente visto ma che, per vari motivi, non abbiamo fissato con un click, restano indelebili nella nostra mente.
Quasi sempre accade poi che la memoria le riporti a galla, in occasioni similari, e succede che una piccola luce si accende per avvertirci.
Per quanto mi riguarda, il non essere riuscito a cogliere l’attimo che l’intuizione prospettava non ha mai alimentato rammarichi.
L’indole fatalista, del resto, accetta l’insuccesso allo stesso modo di un evento possibile che rimane concretizzato dal “Fattore C”, che costituisce anch’esso parte integrante del processo.
Allora può anche capitare che, durante una lunga camminata con la tua mirrorless, alla ricerca di immagini, riesci ad avere la prontezza di cogliere l’immagine che hai prontamente letto in anticipo nella sua possibile evoluzione, come il vedere nettamente un risultato di una foto solo da scattare, semplicemente, perchè già pronta in compomenti e dettagli, e .... titubare fino a far sì che scemi naturalemtne quella scena (il mancato "cogli l'attimo").
Ma, come detto, tutto fa parte del gioco, dell’imprevisto e dell’imprevedibile, e - ancorché rimasta non immortalata - sai bene che anche quell’ultima immagine non è andata sprecata. Anche se non materialmente fruibile per poter essere mostrata: anche quello scatto rimane fissato in eterno nella mente del fotografo appassionato.
Tutto l’insieme di queste fotografie “apparentemente perse” costituiranno elementi della memoria visiva che accompagna ciascun amante della fotografia.
S’assoceranno anche queste a quelle che per noi sono le più belle foto che raccogliamo lentamente nel tempo, attraverso le visioni di mostre, gallerie, musei e soprattutto dai libri.
Tutti noi abbiamo delle predilezioni per le foto scattate dagli innumerevoli maestri che hanno saputo leggere e rappresentare le manifestazioni umane.
Le selezioni rappresentano per ciascuno gli esempi della grammatica e della sintassi prescelte per esprimerci e cercare di comunicare, tutto quello che costituisce il bagaglio del nostro lessico.
Sono le scelte che andremo a privilegiare per il modo di esprimerci, per manifestare le nostre caratteristiche di autore, per raccontare il nostro punto di vista, per esprimere il nostro pensiero al di là delle immagini e a prescindere da chi poi andrà a leggere le nostre personalissime produzioni.
Per quanto ovvio si sorvola su coloro che continueranno esclusivamente a cercare di copiare modelli non propri, che non potranno mai aggiungere nulla di nuovo a quanto è stato ampiamente detto.
Altro destino avrà riservato, con successo o non, ma poco importa per il nostro discorso, chi saprà leggere il solco tracciato da altri e magari, intuendone possibili risvolti, sarà in grado di sviluppare percorsi innovativi.

Buona luce a tutti!

© ESSEC

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La fotografia è in genere un documento, la testimonianza di un ricordo che raffigura spesso persone e luoghi, ma talvolta può anche costituire lo spunto per fantasticare un viaggio ovvero per inventare un racconto e leggere con la fantasia l’apparenza visiva. (cliccando sopra la foto è possibile visionare il volume)

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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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