"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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giovedì 30 ottobre 2014

La fine del "posto"

Le accanite diatribe di questi giorni sull’abolizione dell’art.18 inducono nell’osservatore spassionato due ordini di considerazioni apparentemente conflittuali. Da una parte, non c’è dubbio che stiamo assistendo al paradosso di un governo “di sinistra” impegnato a perseguire, nella regolamentazione del lavoro, il progetto  liberista tipico del più classico capitalismo. La cosiddetta “flessibilità” – nome nobile per definire la precarietà - è, infatti, in buona sostanza, la rinunzia a garantire la certezza del posto di lavoro e la consegna senza riserve del destino del lavoratore nelle mani dell’imprenditore.
Non a caso Renzi, mentre parla a gran voce di una coraggiosa battaglia combattuta contro i “poteri forti”, si ritrova però a fianco, nel ruolo di entusiasta alleata, la Confindustria, che fino a ieri tutti credevamo la più tipica rappresentante di questi “poteri”. È un dato di fatto che - quali che siano le ragioni (anche comprensibili: su questo tornerò fra poco) che possono giustificare la scelta del PD e del suo leader – quello che  la sinistra italiana sta realizzando è il sogno vanamente accarezzato per decenni dalla destra economica e politica, rafforzando la posizione di chi è forte (il datore di lavoro) e indebolendo quella di chi è debole (il dipendente).
Tutti i tentativi per mascherare questa semplice verità non sono convincenti. Sostenere seriamente, come si è fatto, che nell’impresa padroni e operai sono tutti egualmente lavoratori, senza differenze,  può essere accettato solo a patto di precisare che alcuni di essi, però, hanno (spesso oltre alla villa, alla barca, alla Mercedes, etc.) le leve decisionali e gli altri (spesso senza villa, senza barca, senza Mercedes) non ce l’hanno.
Dall’altra parte, è innegabile che i sindacati siano attestati su posizioni anacronistiche, ampiamente superate dal quadro dell’economia attuale, e che proprio la loro ostinata difesa aprioristica del “posto”, quali che siano le capacità, l’impegno, l’effettivo rendimento, di chi lo occupa, ha reso insostenibile il regime passato.
Perché il lavoro non si identifica con il posto. E troppo spesso proprio questa identificazione ha finito per oscurare il senso del primo e distorcere quello del secondo. Troppo spesso, specialmente al Sud, avere un posto ha significato essere esonerati dal lavorare. Quanta gente in Italia la meta agognata è stata  un “posto di stipendio”, in cui essere pagati molto lavorando poco o nulla! Quante volte l’assenteismo, la  scarsa qualità dell’impegno professionale, il disinteresse per l’esito dell’impresa lavorativa, pubblica o privata che fosse, si sono nutriti di questo modo di pensare!
Il lavoro, in realtà, è tutt’altra cosa. È l’interpretazione creativa grazie a cui  qualcuno, in base alle proprie competenze, riesce a far emergere da un lato le risorse, dall’altro i bisogni, mettendoli per la prima volta in relazione tra di loro e facendoli esistere proprio per questa relazione. Il beduino che trecento anni fa vedeva sgorgare dal terreno del suo campiello un liquido nero, oleoso, maleodorante, che invadeva le sue magre colture, si disperava per la sua disgrazia. Il petrolio, allora, non era ancora una risorsa. Reciprocamente, in quell’epoca nessuno aveva bisogno di fare il pieno di benzina. Risorsa e bisogno sono nati dal loro incontro. Ma per esso, sono stati necessari degli uomini che hanno  saputo vedere, al di là dell’esistente, ciò che ancora non esisteva. Questo significa lavorare.
Non è solo un caso eccezionale. Ogni giorno sperimentiamo la differenza tra un buon idraulico, che capisce al volo le esigenze che noi stessi non gli abbiamo neppure saputo esprimere e sa attingere alle potenzialità del suo repertorio le risposte più appropriate, e un  lavoratore svogliato, che si limita a eseguire meccanicamente il compitino assegnatogli e, quando protestiamo per l’esito del tutto insoddisfacente, si giustifica: «Ma io ho fatto quello che mi ha detto lei!».    E sappiamo tutti la differenza tra un funzionario intelligente, che ci aiuta a definire la nostra vera richiesta e ci indirizza sulla strada più rapida, evitando inutili lungaggini e vicoli ciechi, e un burocrate ottuso e fiscale, che ci costringe a una trafila di pratiche alla fine inutili, facendoci perdere tempo e soldi.
Il lavoro dell’uomo, per essere veramente umano, deve coinvolgere tutte le risorse della personalità del lavoratore, si tratti di un fisico nucleare o di un cuoco, di un medico o di un giardiniere. Ma questo esclude che si possa puntare, come hanno fatto finora i sindacati,  su una sua regolamentazione esclusivamente quantitativa e ciecamente protettiva, che finisce per incoraggiare i nullafacenti e penalizzare, scoraggiandoli,  i veri lavoratori.
Per valorizzare il lavoro, però, non basta abolire le tutele vincolanti, come sta facendo Renzi. Bisogna sconfiggere la logica parassitaria di un capitalismo tipicamente italiano, che chiede mano libera sui licenziamenti nel contesto di un perseguimento  unilaterale dei propri interessi particolari, piuttosto che in vista del bene comune. Lo stesso capitalismo che, in Italia, da sempre privatizza i profitti e socializza le perdite, che quando può evade il fisco, che manda i capitali all’estero in attesa del prossimo condono. Su questo fronte il  governo non sembra particolarmente deciso, anzi forse ha fatto dei passi indietro perfino rispetto ai tempi di Monti.
Non si tratta di tornare indietro, ma di andare avanti nella direzione di una vera modernizzazione. Una cultura del lavoro è inscindibile da quella della giustizia, che non è ottuso rifiuto di ogni forma di differenza (contro un certo livellamento spesso confuso con l’uguaglianza), ma non è compatibile neppure con il mantenimento dei privilegi che a tutti i livelli ancora caratterizzano la nostra società. Non è l’economia di mercato che bisogna combattere, ma  i meccanismi perversi che la viziano e la fanno funzionare solo a vantaggio di alcuni.

Giuseppe Savagnone (tuttavia.eu/leggi-i-chiaroscuri)

I ROTTAMATORI E I CIPPUTIANI



I manganelli della polizia sugli operai di Terni gettano una ulteriore manciata di sale su una ferita non facilmente rimarginabile — ammesso che alle parti interessi rimarginarla. Quella aperta dal duro contenzioso, verbale e dunque politico, tra il Pd di governo e i sindacati, ovvero tra la nuova configurazione (almeno in senso cronologico) della sinistra italiana e le sue radici profonde.
A partire dal colpo d’occhio, la distanza tra Leopolda e piazza romana è sembrata infinita, perfino più di quanto sia interesse della giovane classe dirigente renziana, che sulla rottura con tutti i passati, specie il proprio, punta molte delle sue carte, ma sulla sostanziale unità della sinistra, o di ciò che ne ha preso il posto, poggia molto del suo potere elettorale e parlamentare. Non poteva esserci, quello storico sabato, rappresentazione più efficace delle due antropologie politiche che, pur con cento sfumature intermedie, nei giorni successivi e in modo molto acceso ieri è come se avessero accelerato il reciproco allontanamento, prendendosi a male parole, accusandosi reciprocamente di ogni male e di ogni dolo.
Come potrebbero sopportarsi, del resto, una classe dirigente “democrat” e postideologica, che crede nella forza demiurgica del “fare” e nel dinamismo dell’impresa come sola grande leva per ribaltare la crisi (essendo lei stessa l’emblema di un’impresa politica di successo), tanto da far pensare che Jobs Act derivi da Steve Jobs; e una piazza cipputiana, orgogliosa e scontenta, tenuta insieme, va detto, soprattutto dalle conquiste passate, ma animata dall’idea che la centralità del lavoro, il suo valore, la sua dignità siano la sola vera chiave del futuro, e convinta, a ragione o a torto, che il governo Renzi quella chiave non intenda usarla?
È facile dire, nei convegni e di fronte alle telecamere, che Leopolda e piazza San Giovanni sono complementari, che non ha più senso contrapporre impresa e lavoro (piuttosto complicato spiegarlo agli operai di Terni), che la differenza, in politica, è ricchezza. Sta di fatto che la crisi, drammatizzando i conflitti, mette inevitabilmente in scena molte delle “cose vecchie” delle quali Renzi non vorrebbe più sentire parlare, e che spesso liquida come assurda zavorra: se una piazza operaia è “vecchia”, se “vecchio” è il riflesso condizionato di scioperare e magari occupare una stazione ferroviaria, è perché la vecchia abitudine di considerare il lavoro, e la vita di chi lavora, come il punching ball sul quale scaricare tutti i colpi della crisi, è pienamente in atto. È oggi che succede. Proprio oggi.
Diventa dunque complicato, perfino nella lettura renziana, retrodatare questo pezzo di sinistra al punto da consegnarlo agli archivi. Quella sinistra ce l’ha di fronte qui e ora, ce l’ha in casa qui e ora, il segretario del Pd, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le sue forme di rappresentanza con la loro vocazione sociale («l’interesse generale» rivendicato da Camusso) e le loro pigrizie consociative e corporative. Quando Renzi dice, con la sua sbrigativa franchezza, che il governo non deve trattare le sue riforme con i sindacati, a ogni italiano di buon senso viene alla mente l’estenuante palude della “concertazione” che per decenni ha imbozzolato la vita socio-economica del Paese fino a renderlo quasi comatoso, tarpando le ali a ogni cambiamento. Ma subito dopo, ogni italiano di buon senso si domanda come mai dei tre protagonisti della (non rimpianta) concertazione, tocchi soprattutto ai sindacati finire in rotta di collisione con la dinamica navigazione renziana, non certo a Confindustria, mai come in questo periodo in buoni rapporti con il governo. Per evitare il sospetto di considerare “vecchio” il sindacato e “meno vecchio” un mondo imprenditoriale che dalla produzione ha progressivamente levato risorse e quattrini per destinarli al capitalismo finanziario; e per smentire l’accusa camussiana, per la verità un poco complottarda, di essere uomo dei “poteri forti”, eterna oscura e mitizzata presenza in un Paese dove tutto, alla prova dei fatti, è comunque debole; a Renzi non basterà tassare qualche rendita finanziaria e detassare qualche busta-paga.
Dovrà inventare, per dirla con parole sue, il gettone da mettere nello smartphone, e cioè trovare una forma decente di sopportazione, e magari di collaborazione, tra il suo esercito in camicia bianca e il mondo del lavoro salariato così com’è. Una società di soli imprenditori e di sole partite Iva non è nelle cose, il lavoro dipendente, a tempo determinato o indeterminato che sia, è ancora la forma prevalente di sussistenza (dunque di vita) della stragrande maggioranza degli italiani che lo votano, e il vero limite della Leopolda non sono i bollori thatcheriani (molto vetero) del finanziere Serra, è il sogno ingenuo di un mondo del lavoro di soli vincenti, tutto energia, ottimismo e sorrisi, una specie di Truman Show che tiene fuori dalla porta, e lontano dalle telecamere, la durezza del conflitto e l’umiliazione di tante vite a perdere.
Se questo sindacato non valesse più come interlocutore politico degno, Renzi e i suoi collaboratori hanno calcolato e/o immaginato chi e che cosa, nell’ambito dell’agognato “nuovo”, possa farne le veci? Un ribellismo frantumato e casuale? Corporazioni tignose ed egoiste? Ognuno per sé, Dio per tutti? Sindacati aziendali alla tedesca, pienamente coinvolti nella gestione, ma poi chi glielo dice a Marchionne e a Squinzi? Come capo del governo e ancora di più come segretario del maggiore partito della sinistra europea, Renzi sicuramente sa che la spaccatura astiosa di questi giorni non è liquidabile con le battute, e merita una riflessione. Fa rima con concertazione, ma non è la stessa cosa.

 

mercoledì 29 ottobre 2014

Tiki Taka e Unione Bancaria


Tiki Taka e Unione Bancaria 
Si chiude una settimana horribilis, iniziata con una manovra finanziaria restituita al mittente e reinviata a Bruxelles con una ulteriore zavorra di oltre quattro miliardi di euro. Domenica scorsa, poi, all'ora da sempre dedicata alla canonica benedizione urbi et orbi, si apprende che nove banche italiane sulle quindici che hanno partecipato agli esami di ammissione europea non hanno superato la prova. Ieri infine dal Capo dello Stato abbiamo appreso che la mafia ricatto' lo Stato. Lacrime di coccodrillo, recriminazioni, accuse di complotti orchestrati dai poteri forti, denunce di gare falsate a nostro danno sono la reazione disordinata ed ipocrita che abbiamo messo in scena a livello istituzionale e internazionale. Tutte chiassose lamentazioni che non finiranno qui, perché italicamente sono modalità che ci sono sempre piaciute, salvo poi chiudere la ferita con nonchalance. Cioè lasciando i problemi alle cure del tempo.
Per soffermarci solo sulle questioni bancarie riusciamo a sapere dal Ministro Padoan che abbiamo finalmente le regole migliori in Europa quanto a governance societaria, banche comprese, e dal Corriere della Sera che i vertici del Banco de Santander sono stati ricevuti oggi dai vertici della Banca d'Italia per una eventuale acquisizione di Mps.
Ahi, di nuovo gli spagnoli di Franza o Spagna purché se magna, anche se qui a tavola forse si metteranno loro e non noi. Ahi, di nuovo gli spagnoli che, nel 2008, incassarono una plusvalenza di quattro miliardi di euro quando, dopo aver comprato Banca Antonveveta dagli olandesi, la vendettero dopo poco a prezzi astronomici al Mps, che oggi più o meno tanto capitalizza in Borsa. È come dire che il Santander può tranquillamente offrire una cifra per il controllo della più vecchia e disperata banca del mondo, utilizzando quella somma dallo stesso Monte graziosamente (e con qualche complicità di cui nessuno vuole parlare) all'epoca servitagli. A livello europeo una partita di giro, per noi una partita persa.
Avevamo un bel dire del sistema bancario spagnolo qualche anno fa in crisi profonda, mentre quello italiano, sempre presentato come il più solido, manifestava al massimo qualche focolaio di crisi. E con un po' di supponenza, che non ci è mai mancata, prendevamo le distanze dal sistema economico spagnolo in crisi e con aree di evasione fiscale da far impallidire le nostre partite iva.
Tiki Taka, Tiki Taka con un po' di esasperante lentezza, gli spagnoli riusciranno forse a prendersi Mps, dopo aver risolto, facendole fondere, la questione delle banche minori, nessuna delle quali finite sotto la lente di ingrandimento della Vigilanza Europea, ed essendo anche riusciti in ambito Sepa a promuovere un rapido sviluppo dei pagamenti elettronici. Nessuno si ricorda anche se sono passati pochi mesi, la fatica che il nostro sistema ha fatto per adeguarsi alla SEpA, arrivando comunque per ultimo e senza rinunciare al primato...del contante tuttora saldamente in nostre mani. Potremmo parlare degli errori fatti nel non accettare, orgogliosi come siamo, gli aiuti europei per le banche. Ma senza un piano di riconversione del sistema, non certo da lasciare al mercato, avremmo forse sprecato altre risorse. Ed eccoci a guardare di nuovo alla Spagna. Con un po' di sforzo possiamo capire oggi a cose quasi fatte, perché i nostri cugini erano così lenti e quasi sonnacchiosi da stufare la gente italica così dinamica e sempre all'arrembaggio: per non farci capire nulla! Il segreto: un problema alla volta e un forte indirizzo politico. Chapeau!

“Sbankor”



FORTUNA CHE ERA INUTILE - La Triade dello Stato sapeva del ricatto: poi il governo sbracò.


Chissà che cosa scriverà, ora, chi aveva teorizzato che la testimonianza di Napolitano era inutile, superflua, un pretestuoso accanimento dei pm di Palermo a caccia di vendette per il conflitto di attribuzioni, un pretesto per “mascariare” il presidente della Repubblica agli occhi degli italiani e del mondo intero, per trascinarlo nel fango della trattativa Stato-mafia, per spettacolarizzare mediaticamente un processo già morto in partenza sul piano del diritto, naturalmente per violare le sue prerogative autoimmunitarie, e altre scemenze. Quel che è accaduto ieri nella vecchia Sala Oscura del Quirinale è la smentita più plateale e, per certi versi, sorprendente di tutti gli inutili (quelli sì) fiumi d’inchiostro versati per un anno e mezzo da corazzieri, paggi e palafrenieri di complemento che, con l’aria di difendere Giorgio Napolitano, hanno guastato forse irrimediabilmente la sua immagine pubblica, spingendolo a trincerarsi dietro segreti immotivati, privilegi inesistenti, regole riscritte ad (suam) personam e spandendo tutt’intorno a lui una spessa e buia cortina fumogena che ha indotto molti cittadini a sospettare. Quando ieri, finalmente, il capo dello Stato s’è trovato di fronte ai giudici e ai giurati della Corte d’Assise, ai quattro pm e ai legali degli imputati (mafiosi, carabinieri e politici) e delle parti civili, è stato lui stesso a dissipare – per quanto possibile – tutto quel fumo. Facendo la cosa più normale: rispondere alle domande dicendo la verità, come ogni testimone che si rispetti. E, finalmente libero dai cattivi consiglieri, ha preso atto che la ricerca della verità è il solo movente che anima i giudici e i pm di questo processo: nessuno vuole incastrare o screditare nessuno, tutti vogliono sapere cos’accadde fra il 1992 e il 1993, mentre Cosa Nostra attaccava il cuore dello Stato e pezzi dello Stato la aiutavano a ricattarlo, scendendo a patti e firmando cambiali in bianco. Insomma, ha detto la verità. E così, consapevolmente o meno, ha fornito un assist insperato alla Procura di Palermo.

L’AUT AUT

Ripercorrendo i suoi ricordi e anche i suoi appunti di ex presidente della Camera, Napolitano ha fornito un contributo che forse nemmeno i magistrati si aspettavano così nitido e prezioso, confermando in pieno l’ipotesi accusatoria alla base del processo: che, cioè, i vertici dello Stato sapessero benissimo chi e perché metteva le bombe. Per porre le istituzioni dinanzi a quello che Napolitano ha definito un “aut aut”: o lo Stato allentava la pressione e la repressione antimafia, cominciando dall’alleggerimento del 41-bis, oppure si consegnava alla strategia destabilizzante di Cosa Nostra, che avrebbe seguitato ad alzare il tiro dello stragismo per rovesciare l’ordine costituzionale. I fatti – all’epoca sconosciuti a Napolitano, ma persino al premier Carlo Azeglio Ciampi – ci dicono che fra il giugno e il novembre del 1993 quell’allentamento ci fu: prima – all’indomani della bomba in via Fauro a Roma e della strage in via dei Georgofili a Firenze – con la rimozione al vertice delle carceri del “duro” Nicolò Amato, rimpiazzato con il “molle” Adalberto Capriotti e col suo vice operativo Francesco Di Maggio; poi – in seguito all’eccidio di via Palestro a Milano e alle bombe alle basiliche romane di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano (Giorgio come il presidente della Camera Napolitano, Giovanni come Spadolini presidente del Senato) – con la revoca del 41-bis a centinaia di mafiosi. Il risultato, in simultanea con gli ultimi preparativi per la nascita di Forza Italia (da un’idea di Marcello Dell’Utri) e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, fu la fine delle stragi. O meglio, la loro sospensione sine die, per dare a chi aveva chiuso la trattativa il tempo e il modo di pagare le cambiali. “Violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, cioè al governo, anzi ai governi italiani: questa è l’accusa formulata dalla Procura (e confermata dal Gup) agli imputati di mafia e di Stato. Un’accusa che la lunga testimonianza di Napolitano sull’“aut aut” mafioso – tutt’altro che inutile, anzi fra le più utili fin qui raccolte – ha clamorosamente rafforzato.

LA LETTERA

Il contributo meno interessante Napolitano l’ha fornito a proposito di un passo della lettera di dimissioni che gli inviò il 18 giugno 2012 il suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio, nel pieno delle polemiche per le sue telefonate con Nicola Mancino: “Lei sa di ciò che ho scritto anche di recente su richiesta di Maria Falcone. E sa che, in quelle poche pagine, non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993 che mi preoccupano e fanno riflettere…”. Napolitano sostiene che D’Ambrosio non gli disse nulla, anche se riconosce che poi nel libro della Falcone quegli episodi non li raccontò. Ha trovato anche la lettera dattiloscritta che il consigliere inviò alla Falcone, ma assicura ai pm che il testo è identico a quello poi pubblicato. “… (episodi) che mi hanno portato a enucleare ipotesi – solo ipotesi – di cui ho detto anche ad altri…”. Quell’“anche ad altri” fa pensare, per la seconda volta, che ne abbia parlato anche con Napolitano. Il quale però nega. “…quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Il presidente riconosce che si tratta di frasi “drammatiche”. Perché allora non ne chiese conto al suo collaboratore dopo averle lette? La risposta è evasiva: quando, l’indomani, parlò con D’Ambrosio, lo fece soltanto per convincerlo a ritirare le dimissioni e non affrontò con lui il tema degli “indicibili accordi”. Ora, visto che D’Ambrosio è morto e gli “altri” destinatari delle sue confidenze sono ignoti, il giallo rimane insoluto.

IL 1992

Anche sul 1992 – quando inizia l’attacco ricattatorio di Cosa Nostra allo Stato dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso, con il delitto Lima, la strage di Capaci, l’inizio della trattativa del Ros con Vito Ciancimino (intermediario prima con Riina poi con Provenzano), la mattanza di via D’Amelio, l’accantonamento di Ciancimino e le trame di Provenzano per consegnare Riina ai carabinieri – Napolitano ha poco da dire. Se non che ricorda bene come, alla Camera da lui presieduta, il decreto Scotti-Martelli sul 41-bis, varato il 6 giugno subito dopo Capaci, si arenò e occorse l’omicidio di Borsellino perché il Parlamento lo convertisse in legge il 1° agosto. E che, stranamente, il neopresidente dell’Antimafia Luciano Violante, suo compagno di partito, rivelò anche a lui che Ciancimino voleva esser convocato e sentito in commissione (cosa che Violante promise di fare, e poi misteriosamente non fece mai). Per la verità, a raccomandare don Vito per un incontro a tu per tu con Violante, era stato proprio il colonnello Mario Mori, ma questo il compagno Luciano non lo disse al compagno Giorgio. Perché il presidente dell’Antimafia avvertì proprio il presidente della Camera di quella richiesta di Ciancimino? Napolitano non sa spiegarselo.

IL 1993

Dopo la cattura pilotata di Riina, Cosa Nostra si rifà sotto a suon di bombe per costringere lo Stato a piegarsi. Roma e Firenze a maggio. Poi Milano e di nuovo Roma nella notte fra il 27 e il 28 luglio. Il presidente ricorda che subito, fin dal 29 luglio, “la Triade” Scalfaro-Spadolini-Napolitano, cioè i massimi vertici dello Stato che condividevano tutte le conoscenze (mutuate dall’intelligence e dalle forze investigative) su quel che stava accadendo, erano certi che anche quelle stragi avevano una matrice mafiosa (“corleonese”, specifica il presidente) e un movente ricattatorio, estorsivo. Napolitano ricorda di averne parlato col presidente Scalfaro e forse, ma non lo ricorda con precisione, col premier Ciampi. Il quale, dopo il black out dei centralini di Palazzo Chigi nella notte delle bombe, dirà di aver temuto un colpo di Stato e tirerà in ballo la P2. Non solo Cosa Nostra voleva ricattare lo Stato: ma i massimi esponenti dello Stato si sentivano sotto ricatto di Cosa Nostra. Napolitano ricorda una imprecisata “pubblicistica” che già all’epoca avrebbe riferito di due correnti divergenti fra i corleonesi: l’ala guerrafondaia e un’ala più morbida (quella di Provenzano). In realtà nessuno allora scrisse mai nulla del genere: lo disse il ministro dell’Interno Mancino, nel dicembre ’92, poco prima della cattura di Riina, in un’incredibile intervista al Giornale di Sicilia. Poi si giustificò con i pm sostenendo di averlo saputo da Pino Arlacchi, consulente della Dia. Ma l’allora capo della Dia, Gianni De Gennaro, ha smentito: in quei mesi riiniani e provenzaniani risultavano una cosa sola, anzi si pensava che Provenzano fosse addirittura morto. Solo chi trattava con Ciancimino, e dunque con Provenzano, sapeva che quest’ultimo era vivo e si era smarcato dall’ala stragista. Ma su questi fatti Napolitano non ha nulla di utile da riferire.

TUTTI SAPEVANO

In una nota del Sismi appena scoperta e depositata dai pm, datata 29 luglio ’93 (il giorno dopo le stragi di Milano e Roma), si legge: “Tra il 16 ed il 20 agosto ci sarà un attentato che non sarà portato a monumenti o a teatri, ma a persone. A livello grosso. Una strage. Poi si faranno ad uno grosso (inteso in senso di personalità politica). Spadolini e Napolitano, uno vale l’altro. Gli autori sono sempre i soliti: quelli là (riferito ai corleonesi?) d’accordo coi grossi (riferito ai politici) e coi massoni”. Parole che fanno scopa con quelle pronunciate ieri da Napolitano, che fra l’altro ha ricordato il rafforzamento delle misure di sicurezza sulla sua persona proprio in quei giorni. Perché è così importante, per la pubblica accusa, la testimonianza del presidente sulla matrice corleonese e sulla finalità ricattatoria delle stragi dell’estate ’93 come consapevolezza comune e unitaria fin da subito presso i massimi vertici dello Stato? 
1) Perché, della “triade”, Napolitano è l’unico superstite: Scalfaro e Spadolini sono morti, e così l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, uomo-chiave di quella stagione, anche per il suo filo diretto con Scalfaro. 
2) Perché nessun altro uomo delle istituzioni di allora è mai stato così chiaro ed esplicito sul livello di consapevolezza dei rappresentanti dello Stato sul significato dell’offensiva stragista di Cosa Nostra: una lunga sfilza di politici smemorati e/o reticenti. 
3) Perché, se già il 29 luglio ’93 si sapeva che le bombe in via Palestro e contro le basiliche erano roba di mafia per piegare lo Stato, non si comprende quel che accadde subito dopo.

PISTE E DEPISTAGGI

Il 6 agosto ’93, attorno a un tavolo del Cesis (il comitato che coordinava i servizi segreti militare e civile), si riunirono i capi dell’intelligence, ma anche il capo della Polizia Parisi, il capo della Dia De Gennaro, il vicecomandante del Ros Mori e il vicecapo e uomo forte del Dap Francesco Di Maggio. E se ne uscirono con una fumosa relazione, sulle bombe della settimana precedente, piena di piste fasulle al limite del depistaggio: oltre all’eventuale matrice mafiosa, ipotizzarono quella del terrorismo serbo, o palestinese, o del narcotraffico internazionale. Del resto, se gli apparati e i servizi avessero davvero avuto dubbi sulla pista mafiosa per strappare allo Stato un cedimento sul 41-bis, cioè sul trattamento dei boss detenuti, perché mai invitare a quel tavolo un estraneo come il vicecapo delle carceri Di Maggio? Fin da giugno, il suo superiore Capriotti aveva scritto al ministro Conso sollecitando un taglio lineare dei 41-bis per “dare un segnale di distensione nelle carceri”. E proprio per accelerarlo Cosa Nostra aveva seminato morte e terrore in quella primavera-estate. Infatti appena quattro giorno dopo il vertice al Cesis, il 10 agosto, De Gennaro firmò un rapporto della Dia, destinato a Mancino e a Violante, che metteva nero su bianco la pista mafioso-trattativista delle bombe e invitava il governo a non cedere sul 41-bis: “È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale… del 41-bis potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato intimidito dalla stagione delle bombe”. Un modo per smarcarsi dal fumoso e depistante rapporto del Cesis, che pure lo stesso De Gennaro aveva siglato? Un mese dopo, 11 settembre, lo Sco della Polizia, guidato da Antonio Manganelli, fu ancora più esplicito, usando per la prima volta il termine “trattativa” in una nota inviata all’Antimafia di Violante: “Obiettivo della strategia delle bombe sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’… Creare panico, intimidire, destabilizzare, indebolire lo Stato, per creare i presupposti di una ‘trattativa’, per la cui conduzione potrebbero essere utilizzati da Cosa Nostra anche canali istituzionali”. Più chiaro di così…

LO SBRACO

Anche questo allarme, come i precedenti, viene ignorato sia da Mancino sia da Violante. E il 5 novembre il ministro Conso non rinnova il 41-bis in scadenza a 334 mafiosi detenuti, contro il parere negativo della Procura di Palermo. Ma in ossequio alla sollecitazione che gli veniva dal nuovo capo del Dap fin da giugno. Per negare l’evidente cedimento al ricatto mafioso, Conso s’è trincerato dietro il rapporto del Cesis che ipotizzava matrici diverse da quella di Cosa Nostra per le stragi dell’estate. Ma, oltre ai rapporti Dia e Sco, a smentirlo ora c’è anche la parola di Napolitano: i vertici dello Stato sapevano fin da subito che era stata Cosa Nostra per ricattarlo. E lo Stato sbracò.



martedì 28 ottobre 2014

CACCIARI: “MATTEO ABBATTE I SIMBOLI DELLA SOCIALDEMOCRAZIA PER SEDURRE IL CENTRODESTRA”

«Non c’è nulla di casuale, nulla di improvvisato, nell’attacco di Matteo Renzi al posto fisso e all’articolo 18. Lui sta abbattendo i simboli della sinistra socialdemocratica per penetrare nel centrodestra con il progetto del Partito della Nazione. E’ un piano lucidissimo ». Non è per niente stupito, Massimo Cacciari, della durezza dello scontro che si è acceso nel Pd. 
Professor Cacciari, non è la prima volta che un presidente del Consiglio di sinistra dice che è finita l’epoca del posto fisso (lo disse D’Alema 15 anni fa). Eppure stavolta sembra diventato lo spartiacque tra le due anime del Pd, quella che si è radunata alla Leopolda e quella che è scesa in piazza con la Cgil. Perché? 
«A volte il tono è tutto. Mentre gli altri dicevano queste cose con un tono di analisi, anche spietata, Renzi mi presenta un destino come se fosse un suo successo personale: ah che bello, finalmente è finita l’epoca del posto a tempo indeterminato! Ma come si fa a non comprendere il carico di ansia, di frustrazioni che una situazione di questo genere può determinare? Un politico non può fermarsi all’analisi: deve dirmi quali sono i rimedi. Deve dirmi quali ammortizzatori sociali ha previsto, e quali garanzie avranno i lavoratori senza più posto fisso per la loro pensione». 
Il segretario del Partito democratico, dice lei, non dovrebbe parlare così. 
«Neanche il più feroce dei conservatori ha mai presentato queste trasformazioni sociali che possono generare ansie ed angosce come se fossero delle pensate geniali». 
Il vero centro della polemica sembra però l’abolizione dell’articolo 18. Difenderlo oggi, ha detto Renzi, è come cercare di mettere il gettone nell’Iphone. E’ così? 
«Ma è evidente che l’abolizione dell’articolo 18 è una bandiera ideologica, una banderuola rossa che Renzi sventola sotto il naso dei suoi oppositori e dei suoi sostenitori. L’ha detto lui stesso». 
E perché, secondo lei, ha scelto questo tema, in questo momento e in questo modo? 
«Perché è il tema che gli dà più spazio nel costruire il Partito della Nazione. E’ un tema ideologico molto forte, che gli permette di penetrare nell’ambito dell’elettorato di centrodestra. E l’articolo 18 è una formidabile arma ideologica per costruire questo consenso trasversale, infinitamente al di là dei confini tradizionali del centrosinistra. Siamo di fronte a un politico puro, e di razza secondo me. Il suo è un calcolo tutto politico, non c’entra nulla il ragionamento economico». 
Ma il partito della Leopolda e quello di piazza San Giovanni possono convivere? 
«Queste due anime sono sempre meno avvicinabili, ma Renzi il problema di tenerle insieme non se lo pone neanche. Lui pensa: se io do l’impressione di entrare in un gioco di compromessi e di mediazioni tra personaggi che la pubblica opinione ritiene assolutamente sorpassati, io divento uno di loro, e perdo». 
Ormai il tema della scissione è sul tavolo. Non la temo, dice Renzi. Sarà inevitabile, secondo lei? 
«Io credo che lui non solo non la tema ma sia sul punto di desiderarla. Fino a qualche tempo fa no, ma ora forse comincia a pensare che la scissione gli convenga ». 
Cioè crede che tagliare le radici, e perdere un pezzo del partito, gli porti più voti? 
«Se c’è una scissione, è chiaro che senza i Bersani e i D’Alema eccetera non potrà mai rifare il 41 per cento. Ma il taglio delle radici potrebbe convenirgli, per realizzare il suo progetto. E forse avrà fatto questo ragionamento: se escono da qui, cosa fanno? Si rimettono con Vendola? Fanno un’altra Rifondazione? Se ci fosse qualcuno che ha un’idea oltre Renzi, beh allora francamente sarei il primo io a iscrivermi al partito di questo qualcuno. Ma qui hanno tutti facce, e idee, pre Renzi. Eccetto Civati. Se togli lui, gli altri sono i reduci, come li chiama Renzi. Hanno fatto il Partito democratico senza uno straccio di idea nuova: l’unico che ce l’aveva era Veltroni, che infatti oggi appoggia Renzi. A parte Veltroni, conservatorismo puro, su tutto: dalle riforme istituzionali al lavoro. Cosa vuole che possano combinare, se escono dal Pd? Niente. Il vero problema è: ma a noi piace, il Partito della Nazione?». 
Già. A lei, per esempio, piace? 
«Mi piace? Ma io lo detesto! E’ una boutade populistica per arraffare voti e conquistare un’egemonia attorno alla figura di un leader. Ogni decisione favorisce una parte e sfavorisce un’altra. Perciò sono nati i partiti politici, nella democrazia. Partiti: da “parte”. Un Partito della Nazione è una contraddizione logica. Da analfabeti della politica. Ma questo non inficia minimamente la strategia di Renzi e la sua coerenza. Lui oggi si fa un partito suo e se lo fa grosso, rappresentativo, tendenzialmente egemone, chiamandolo Partito della Nazione. Approfittando dello sfascio della tradizione socialdemocratica e cattolico-democratica e anche dello sfascio del berlusconismo. E’ un’occasione unica, irripetibile. E lui la sta cogliendo».

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