"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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venerdì 29 aprile 2016

25 Aprile, Festa dell'eterno opportunismo italiano

La Festa della Liberazione ha avuto quest’anno uno scarso seguito popolare (piazza Duomo, per fare un esempio, era ad esser generosi vuota a metà rispetto a certe adunate oceaniche di qualche tempo fa). Anche i giornali, in linea di massima, si sono adeguati a questo disinteresse e alcuni, come Il Tempo di Roma, hanno concluso drasticamente: “Liberateci dalla Festa della Liberazione”. La Resistenza, che va scritta rigorosamente in maiuscolo, è stata uccisa dalla asfissiante e per niente innocente retorica di cui è stata per decenni caricata.
Dal punto di vista militare la Resistenza, come il maquis francese, fu un fatto irrilevante all’interno di quella grandiosa e tragica epopea che è stata la Seconda guerra mondiale, costata 50 milioni di morti. Fu il riscatto morale di poche decine di migliaia di donne e di uomini coraggiosi, non di una popolazione e di una Nazione. Non siamo stati noi a liberarci dal nazifascismo, ma gli Alleati, gli americani, gli inglesi, i canadesi, i neozelandesi e persino i razzisti sudafricani (si vada a vedere il lindo e commovente Cemetery World a Milano che conserva le salme dei giovanissimi caduti del Commonwealth). La retorica della Resistenza, fattasi sempre più assordante man mano che ci si allontanava da quegli eventi (le pagine dell’Unità dei mesi immediatamente successivi erano molto più sobrie) ha permesso agli italiani di non fare i conti con se stessi e con il proprio passato.
Mi raccontava Arturo Tofanelli, il direttore di Tempo Illustrato, il primo settimanale italiano a colori, che il 25 aprile del 1945 stava viaggiando in treno da Torino verso Milano e sulla massicciata ferroviaria vedeva luccicare dei cerchietti di metallo. Ma per l’abbaglio del sole non riusciva a capire cosa fossero. Il treno si fermò in mezzo alla campagna e Tofanelli poté osservarli con maggior attenzione. Erano i distintivi del Pnf (Partito nazionale fascista) di cui i viaggiatori si stavano furtivamente liberando. Gli italiani da tutti fascisti, o quasi, che erano stati, erano diventati in un sol giorno tutti antifascisti. E poiché avevano la coda di paglia e il terrore che qualcuno li riconoscesse e li indicasse come i fascisti del giorno prima divennero di una ferocia bestiale. Lasciamo pur perdere le vendette personali a cui si abbandonarono dei partigiani dell’ultima ora nell’immediato dopoguerra descritte da Gianpaolo Pansa ne Il sangue dei vinti ma raccontate in modo molto più puntuale e coraggioso decenni prima da quel grande reporter che era Giorgio Pisanò e che allora furono passate sotto assoluto silenzio perché Pisanò era un fascista (per la verità era un mussoliniano, che è cosa leggermente diversa), basta pensare all’orrendo spettacolo di piazzale Loreto il 28/29 aprile del 1945. Gli uomini e le donne che sputarono e pisciarono sui cadaveri di Mussolini, della Petacci e dei diciotto gerarchi stesi a terra sul piazzale e poi appesi per i piedi al traliccio del distributore di benzina di piazzale Loreto erano gli stessi che fino a qualche tempo prima avevano osannato il Duce e i suoi. E poiché alla Petacci le gonne, in quella posizione, le erano ricadute sulla faccia scoprendo il resto e non indossava le mutandine (era stato il ‘colonnello Valerio’, alias il ragionier Walter Audisio, a impedirle di cercarle quando era andato a prelevarla insieme a Mussolini nella cascina di Giulino di Mezzegra: “Tira via” le aveva intimato) qualche ‘mano pietosa’, come qualcuno scrive ancor oggi, gliele legò con una cinghia alle ginocchia. Impiccare una donna a testa in giù non era osceno, osceno era che mostrasse le pudenda. Fu il colonnello americano Charles Poletti a ordinare ai membri del Cln di por fine a quello scempio e di portare i corpi all’obitorio.
Tutti, se ne han voglia, possono vedere i filmati di piazza Venezia il 10 giugno del ’40 il giorno fatale in cui Mussolini dal balcone dichiarò formalmente guerra a Gran Bretagna e Francia. La piazza è gremita fino all’inverosimile e si possono sentire distintamente le voci della folla che prima che Mussolini pronunci la formula di rito grida “Guerra! Guerra!”. Pochi anni dopo non si trovava un solo italiano disposto ad ammettere che quel giorno stava su quella piazza. Tanto che Oreste del Buono affermò col sarcasmo che gli era consueto: “Va a finire che a piazza Venezia quel giorno c’eravamo solo io e Montanelli”.
Alla fine della guerra io avevo solo due anni e non potevo decentemente sostenere che avevo partecipato alla lotta partigiana. Ma i miei fratelli maggiori, quelli che avevano dodici o quattordici anni o poco più, compresa Oriana Fallaci, erano stati tutti perlomeno delle ‘staffette partigiane’. E io nella mia infantile innocenza mi chiedevo: “Ma quanti messaggi si scambiavano questi partigiani?”. E parte della mia vita è stata solcata, quando ero giovane, da questi soggetti che, inventatisi partigiani, mi guardavano in tralice perché io la Resistenza non l’avevo fatta.
Il 25 aprile è in realtà la festa dell’eterno opportunismo e voltagabbanismo italiano. Naturalmente la cosa riguarda innanzitutto le nostre classi dirigenti. Con quell’alleato non ci si doveva alleare, ma è troppo facile, troppo comodo, pugnalarlo alle spalle, in una lotta per la vita e per la morte, quando si avvicina la sconfitta. Anche l’8 settembre di recente è stato elevato a Festa Nazionale mentre è il giorno della nostra vergogna.
La principale responsabilità della guerra civile che ne seguì (fino a poco tempo fa era proibito chiamarla tale) ricade su Mussolini che non seppe dire di no a Hitler e creò la Repubblica fantoccio di Salò. Ma questa non è una buona ragione per infamare i ragazzi che per quella Repubblica andarono a morire (mentre il Capo tentava di fuggire travestito da soldato tedesco) in nome di valori come l’onore, la lealtà, la Patria che, almeno ai loro occhi, non erano meno importanti della libertà per cui si battevano i pochi, veri, partigiani. Io non ho aspettato Violante per dare a questi giovani la stessa dignità che do ai partigiani. L’ho scritto moltissimi anni fa.
Il mito e la retorica della Resistenza ci hanno poi convinto che in fondo avevamo vinto una guerra che invece avevamo perso nel più ignominioso dei modi (i francesi sono stati anche più abili, sono riusciti a passare per vincitori nonostante l’adesione al Governo di Vichy sia stata molto più ampia di quella degli italiani al regime fascista quando a guerra in corso cominciò a traballare). E questo mito e questa retorica hanno avuto conseguenze che si sono protratte nel tempo e forse durano ancora oggi. Basta pensare al fenomeno delle Brigate Rosse che proprio a quel mito e a quella retorica, spesso in buonafede, si richiamavano.
“Resistenza sempre” ha dichiarato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sì, ma contro i ben più concreti nemici di oggi e non contro gli sbiaditi fantasmi di ieri.



giovedì 28 aprile 2016

Stefano Graziano, il silenzio di Renzi dopo l’invettiva antigiustizialista



Dopo aver imperversato per giorni sulla giustizia e aver usato persino la ribalta della mozione di sfiducia per un’invettiva estemporanea, ma forse no, contro “la barbarie giustizialista” che avrebbe avvelenato il paese dai tempi di Mani Pulite, il presidente del Consiglio è rimasto significativamente silente su quanto sta emergendo in Campania con “il caso Graziano”. E pensare che la Campania e Napoli, in mano al “masaniello” De Magistris, sono stati i set prediletti, prefettura inclusa, per esibire la corrispondenza di amorosi sensi con il mitico De Luca presidente anche grazie agli impresentabili “certificati” da cui per lungo tempo si era mantenuto prudentemente distante, e per sostenere la candidata Valente, premiata dalle ennesime primarie opache e contestate.

Ma ora non si tratta di fare passerelle per esibire presunti stanziamenti milionari ma di pronunciare parole nette da parte di un segretario di partito che usa il territorio solo per la propaganda elettorale, nonché di un presidente del Consiglio tanto “interventista” da rivendicare la paternità dell’emendamento su Tempa Rossa per “assolvere” il suo ministro per le Riforme e soprattutto per tentare di delegittimare l’inchiesta di Potenza e “i magistrati che non concludono i processi”. In una regione dove Renzi non ha mai lontanamente messo piede per realizzare la rivendicata politica “autorevole e seria” non più “succube della giustizia”, si è squadernato uno scenario che vede al centro il clan Zagaria quale corruttore di pubblici funzionari tra cui spicca il presidente regionale del Pd, Stefano Graziano, che, come risulta dalle intercettazioni, avrebbe goduto dell’ appoggio elettorale della camorra in cambio degli appalti pilotati in suo favore.

E se si volesse fare una veloce ricognizione della progressiva presa di distanza e poi totale rimozione della proclamata “pulizia” iniziale all’interno del partito, basterebbe andare all’ormai lontano 15 maggio 2014 quando il Pd, sotto la pressione del M5s e nonostante alcune decine di defezioni, si pronunciò per l’autorizzazione a procedere nei confronti di Francantonio Genovese trasmigrato velocemente in Fi; poi a seguire Marco Di Stefano rinviato a giudizio per abuso d’ufficio, truffa e falso è rimasto sempre iscritto al partito, Vito De Filippo, sottosegretario indagato a Potenza per induzione indebita, è sempre al suo posto e la lista degli impresentabili redatta dall’Antimafia, secondo il codice di autoregolamentazione del Pd, è stata usata come un macete contro la presidente Rosy Bindi.

In questo contesto va inserita l’insofferenza velenosa nei confronti degli interventi del neo presidente dell’Anm Piercamillo Davigo, che si è limitato nel suo linguaggio diretto e inequivocabile a una constatazione fattuale e cioè che oggi i politici che rubano, e quanti siano abbiamo modo di constatarlo quotidianamente, non si vergognano più e rimangono al loro posto. E quanto “l’elogio della vergogna come baluardo dell’etica pubblica” preceda le parole puntuali di Piercamillo Davigo ce l’ha ricordato dalle pagine del Corriere Gian Antonio Stella che è partito da Giacomo Leopardi e da Carlo Marx per arrivare alla “scomunica”, molto più recente, per i corrotti definiti da Papa Francesco, lodato da tutti per opportunismo, come “coloro che non hanno vergogna”.

Quanto ai contenuti espressi da Davigo e al diritto-dovere del magistrato di parlare e non solo con le sentenze, come pretendevano i sistemi monarchici precostituzionali che lo relegava a “bocca della legge” e cioè del potere, è intervenuto anche Raffaele Cantone precisando che vi sono scelte della politica imprescindibili che non possono essere sostituite dalla legge. La politica che vuole essere “seria ed autorevole” deve vigilare e intervenire sulla selezione ben prima del controllo della magistratura perché “ci sono impresentabili che hanno la fedina penale immacolata”. E così, pure sull’introduzione dell’agente sotto copertura, utilizzato nelle democrazie più avanzate come deterrente contro la corruzione e che in Italia viene considerato un attentato alla classe politica, Raffaele Cantone, usato troppe volte dal Pd come una specie di santino da ostentare in funzione meramente propagandistica, si è espresso in totale sintonia con “il provocatore” Davigo.

Identica consonanza sulla gravità della penetrazione mafiosa e sulla centralità dello strumento delle intercettazioni, di cui anche Armando Spataro ha segnalato la genericità della delega governativa, ha espresso anche il procuratore Pignatone che è ritornato pure sull’esigenza improrogabile di riformare la prescrizione che ha un impatto fortissimo sui tempi dei processi per corruzione. Viene legittimo il dubbio che l’intralcio al funzionamento della giustizia e ai processi che “non vanno a sentenza” non siano le analisi impietose di Davigo ma il polverone che solleva il presidente del Consiglio per perseguire il contrario di quanto afferma a proposito di voler velocizzare la macchina giudiziaria (a costo zero) in perfetta continuità con il recente passato.



martedì 26 aprile 2016

La giustizia è l’utile del più forte? Trasimaco, Socrate e il dottor Davigo


Alle dichiarazioni di Piercamillo Davigo – la classe dirigente quando delinque fa più vittime di qualunque delinquente di strada – ha risposto, tra gli altri, Bruti Liberati: “Non esiste una magistratura buona contro un’Italia di cattivi”. Il tema della giustizia si fa rovente. L’argomento è antico, Platone gli dedica il primo (e buona parte del secondo) libro della “Repubblica”.
Il grande ateniese può aiutarci a capire il presente? Credo proprio di sì, più di quanto si possa immaginare. Lo scontro in atto, ormai da molti anni – dicono alcuni – è tra politica e magistratura. Sembra un’ovvietà. La frase contiene, invece, un primo errore. Il magistrato che indaga e processa un politico non commette ingerenza: fa il suo mestiere. È un dato evidente, quanto l’altro: troppi politici odiano essere indagati e provano – con leggi, decreti, stroncature di carriere… – a neutralizzare/bloccare il normale corso della giustizia. Dicono: i giudici parlino con le sentenze (Renzi) ma fanno di tutto affinché non si arrivi a sentenza. Mentono.
Platone giustifica la menzogna (“la nobile menzogna”) se il governante la utilizza a fin di bene. Il bene della Polis, anzitutto: “E se a qualcuno sarà dato il diritto di mentire; questo spetta soltanto a chi ha il governo della città… quando lo esiga l’interesse dello Stato”. Prima di Machiavelli il tema del rapporto tra mezzi e fini è impostato da Platone. Dunque. Dunque, si tratterà di capire, anzitutto, se certi mezzi abbiano o meno come finalità il bene collettivo. Insomma: Renzi, quando difende i banchieri, fa l’utile dei risparmiatori? Quando difende i petrolieri, fa l’interesse della comunità e dell’ambiente?
L’impressione, in verità, è che si schieri sempre coi ceti e le classi e le persone più potenti. Domanda: il Premier considera per caso la giustizia l’utile del più forte? Il tema – ben noto a Platone – è di stretta attualità sia per la posizione lucida e coerente assunta dal presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Davigo, sia per la reazione scomposta che la politica (esclusi i 5Stelle) ha avuto alle sue parole. Molti politici si considerano intoccabili – complice certa stampa –, una vera casta attenta ai propri interessi. È la posizione del sofista nel dialogo con Socrate: dimmi, o Trasimaco, cos’è la giustizia? La giustizia è l’utile del più forte (Repubblica, I, 340 C- 341 C). Troppi fatti vanno in questa direzione: dagli interventi in favore di chi evade; alla depenalizzazione dei reati, alle norme pro impunità: col denaro e buoni avvocati si arriva alla prescrizione (appunto: l’utile del più forte).
E allora: cosa accade davvero quando un uomo integro e capace, Davigo, difende i magistrati? “Dire che devono parlare solo con le sentenze equivale a dire che devono stare zitti”. Accade che le sue parole brucino come “il fuoco della verità sulla pelle putrida della menzogna”. E allora via al contrattacco. Legnini: Davigo “alimenta un conflitto di cui il Paese non ha bisogno”. Ma quale conflitto!? I magistrati devono parlare/dire le condizioni in cui versa la giustizia, difendere la collettività dagli abusi del potere – Montesquieu: “il potere limita il potere”; il Fatto Quotidiano lo ricorda da sette anni; MicroMega da trenta; possibile che Cantone e Legnini l’abbiano dimenticato? –, non si tratta di alimentare conflitti ma d’impedire che certi politici straripino/abusino senza rispetto per il bene pubblico. Bene di tutti, anche degli ultimi. In fondo, è la vecchia questione posta da Platone. Socrate capovolge la tesi di Trasimaco: il giusto governante è chi cerca (anche) l’utile del più debole (342 C – 343 A). Ovvero, del ceto popolare, quello che Renzi deride, schierandosi, contro il sindacato, con Marchionne. Siamo in presenza del capolavoro politico della borghesia imprenditrice orientata a destra: si fa rappresentare dal leader della sinistra.
Può meravigliare, dunque, se i cittadini vedono nei magistrati, come nel ’92, la tutela del diritto e della giustizia? Si dice: è “barbarie giustizialista”. Si delegittima o si deride la magistratura (“brr che paura”). Spesso funziona. Platone racconta la tragica sorte del giusto e la fortuna dell’ingiusto (361 D – 362 D) e i motivi per cui la cultura dell’ingiustizia è dominante (365 A – 366 B). Sono pagine interessanti, vengono dal passato ma parlano di noi. Davigo, con splendido senso del proprio ruolo, ne è l’interprete migliore, smonta, oggi, i sofismi del potere: “I politici non hanno smesso di rubare; hanno smesso di vergognarsi.” Il malaffare è aumentato. Ergo: al magistrato il compito di perseguire i reati. Alla filosofia – direbbe Platone – quello di curare l’anima da vizi e corruzione. Insomma, l’etica pubblica. Ma questo è un altro discorso.

Angelo Cannatà (Micromega - 24 aprile 2016)

Franco Roberti: “Una giustizia che funziona non interessa. Colletti bianchi e malaffare, le leggi non arrivano mai”



Franco Roberti, Procuratore nazionale antimafia, davvero Davigo è rimasto solo? Niente affatto. Si può discutere sul suo gusto per la battuta, ma sulla sostanza delle cose i magistrati sono quasi tutti d’accordo. A cominciare dalle leggi per far funzionare i processi, che non arrivano.

Vedi quella sulla prescrizione: se ne parla da anni e in Parlamento non c’è mai la maggioranza. Guardi, se uno non vuole pensar male, rischia di impazzire. Prima assurdità: la prescrizione inizia a decorrere non quando il reato e il possibile autore vengono scoperti, ma quando il fatto viene commesso. Cioè molto prima che il pm lo venga a sapere ed eserciti il diritto punitivo dello Stato chiedendo il rinvio a giudizio.

E le altre assurdità? Quando il pm chiede il processo, di solito, non c’è più il tempo di portarlo a termine perché i termini continuano a decorrere fino alla Cassazione. Anche per la corruzione, malgrado la timida riforma appena fatta. E poi l’ex Cirielli del 2005 ha di fatto dimezzato i termini, già prima insufficienti, anche perché i tempi dei processi sono eterni, con tre gradi di giudizio pressoché automatici (un sistema unico al mondo).

Risultato? Si prescrive il 30-40% dei reati, specie i più difficili da scoprire e puniti con pene basse e prescrizione breve: quelli contro la PA, finanziari, ambientali, urbanistici, le lesioni e gli omicidi colposi. Perlopiù quelli dei colletti bianchi che – ha ragione Davigo – fanno molti più danni di quelli da strada. Con due effetti collaterali: aumenta il senso di impunità fra i criminali, che si sentono incoraggiati a delinquere per il calcolo costi-benefici (fai molti soldi e non rischi nulla); e cresce la frustrazione degli onesti: è sempre raro che denuncino e testimonino.

Renzi dice che le sentenze non arrivano mai. Non mi faccia polemizzare, ma le sentenze arrivano sempre: il guaio è che sono troppo spesso di prescrizione. E mica è colpa nostra. Basterebbero poche norme semplici. 1) La prescrizione decorre dalla scoperta del reato e si blocca alla richiesta di rinvio a giudizio, o al rinvio a giudizio, al massimo alla prima sentenza, poi non se ne parla più. 2) Una delle prime cause di prescrizione è la legge che di fatto annulla tutti gli atti dei processi dove cambia un giudice del collegio: un codicillo che salvi gli atti quando cambia il collegio eviterebbe di ripartire da capo, con scarcerazioni per decorrenza termini e prescrizione. 3) Nel processo accusatorio, col dibattimento nel contraddittorio delle parti, l’appello-fotocopia del primo grado è un assurdo doppione, un’altra fonte di prescrizione: niente più appello, salvo per il rito abbreviato. Almeno sui punti 1 e 2, basterebbe prendere uno dei ddl presenti in Parlamento e inserirlo nella corsia preferenziale della riforma del processo. A parole, tutti sono d’accordo su questi rimedi, ma poi le leggi non arrivano mai.

Chissà perché. Gratteri dice che il partito della prescrizione blocca tutto per salvare dal carcere i potenti. Purtroppo, dentro e fuori dal Parlamento e delle amministrazioni c’è troppa gente che non ha alcun interesse a una giustizia che funziona o che ha il preciso interesse a una giustizia che non funziona. Gratteri parla di ‘ndrangheta, ma la tendenza è di tutte le mafie: non sono più i mafiosi a cercare i politici, ma i politici a cercare i mafiosi. Il camorrista pentito Carmine Alfieri mi raccontò che già negli anni 80 a ogni elezione aveva la fila di politici di tutti i colori alla sua porta per offrirgli favori in cambio di voti, e lui selezionava e appoggiava chi più gli conveniva. Oggi la vera svolta è il salto della mediazione: le mafie mandano in Parlamento e nelle istituzioni i loro uomini, le loro proiezioni.

E i partiti, ricorda Davigo, non fanno il repulisti al proprio interno sulla base dei fatti emersi dalle indagini. Questo è il vero problema. A chi ci obietta che non siamo i depositari dell’etica pubblica perchè anche tra noi ci sono corrotti e collusi, rispondo che certo, nessuno è immune: ma noi non aspettiamo che un magistrato colluso venga condannato in Cassazione per rimuoverlo. C’è un giudizio etico-deontologico che in politica non esiste: si delega tutto alle sentenze definitive, come se certi fatti non fossero abbastanza gravi e chiari per fare pulizia subito. L’autonomia del politico dal giudiziario passa proprio di qui.

Renzi e altri invocano la presunzione di innocenza. Ma che c’entra? Come dice Davigo, quella è un fatto tecnico del processo che impedisce di considerare colpevole chi non ha condanne definitiva. Ma non impedisce di mandare a casa chi fa cose gravi, anche se non sono reati.

L’inchiesta di Potenza, coordinata dalla sua Dna, è stata attaccata dal premier perchè avrebbe trascritto intercettazioni su gossip, pettegolezzi, fatti privati. Non posso entrare nel merito perchè un nostro pm è applicato all’indagine. Ma tutto è stato fatto nel pieno rispetto della legge vigente.

Ecco, ce la spiega? Il pm è responsabile delle intercettazioni che fa trascrivere o meno dalla polizia e che inserisce o meno nelle ordinanze. In base al principio-cardine sancito dall’art. 268 Cpp: negli atti vanno le intercettazioni “che non appaiano manifestamente irrilevanti”. Poi il Gip, nell’udienza-filtro, in base allo stesso principio decide cosa stralciare e lasciare. E alla luce degl’interessi non solo del pm, ma pure dell’indagato: ciò che è irrilevante per l’accusa può essere rilevante per la difesa.

Per Davigo non occorre riformare le intercettazioni. Totalmente d’accordo. La disciplina va benissimo così. C’è il controllo del pm, del difensore e del giudice. E se un giornalista diffama o viola la privacy, è già punibile. Ma se racconta intercettazioni depositate, desegretate, non manifestamente irrilevanti per le parti e di interesse pubblico, perchè impedirglielo?

Ora qualcuno intimerà anche a lei di parlare solo con le sentenze. Già, tanto non le legge nessuno… È un’ipocrisia per levarci il diritto di parola. Io invece penso che i magistrati dirigenti, oltre ovviamente ai rappresentanti dell’Anm, non solo possono, ma devono informare i cittadini.

C’è una guerra tra magistrati e politici? Ma quale guerra. Io vengo continuamente interpellato dal Parlamento e dal ministro Orlando. C’è un dialogo costante. Parliamo di prescrizione, di corruzione (la riforma appena fatta è troppo blanda: mancano gli agenti sotto copertura), Codice antimafia, Agenzia dei beni confiscati. A parole sono sempre tutti d’accordo. Poi però quelle riforme non arrivano mai. Perchè?



lunedì 25 aprile 2016

I "coach aziendali" e Al Baghdadi

Parecchi anni fa un caro amico, un collega cui, quando eravamo all’Europeo avevo fatto, per così dire, un po’ di ‘educazione sentimentale’, perché ha sette anni meno di me e quando si è giovani certe differenze di età hanno il loro peso, mi invitò a una festa a casa sua. Lui, dopo l’Europeo, era diventato un giornalista importante e dirigeva un grande settimanale. Gli invitati erano quindi di un certo livello sociale. Gli uomini yuppie (siamo verso la fine degli anni Ottanta), le donne impellicciate e, spogliatesi di quell’ingombrante indumento non ancora messo definitivamente all’indice dagli animalisti, ingioiellate, griffate e insomma pistolate. Sapendo che avevo una collezione di vecchi ’45 giri’ il mio amico mi aveva chiesto di portarli per animare un po’ la festa. Facevo insomma il disc jockey inanellando sul bussolotto una decina di dischi (di più non ne conteneva, la tecnologia digitale era di là da venire) e poi li sostituivo con altri dieci, fra l’indifferenza generale. Siccome mi annoiavo a morte e non vedevo in giro nessuna ragazza interessante ad un certo punto tirai fuori di tasca un ‘centomila’ e dissi ad alta voce: “Questo è il premio per chi indovina il titolo della prossima canzone e chi la canta”. Il brusio cessò immediatamente. Gli uomini drizzarono le orecchie, che divennero appuntite come quelle delle volpi, e qualcuno si avvicinò cercando di sbirciare. Ma i ‘45’ girano veloci e nessuno indovinò. Era Forty days di Ronnie Hawkins, il rock più scatenato che mi sia mai stato dato di sentire, da far invidia al Little Richard di Lucille, a Jerry Lee Lewis per non parlare dell’imbrillantinato Elvis Presley che aveva un piede nei ’60, ma l’altro gli era rimasto nei ’50, nel melodico (Fame and fortune per esempio. Eppoi ‘Elvis the pelvis’? Ma ‘a mossa’ non era un’antica usanza delle donne e dei ragazzi napoletani?).
Recentemente ho conosciuto una donna che si occupa di ‘coaching aziendale’. Cosa sia il ‘coaching aziendale’ è difficile da spiegare a una persona che sia rimasta sana di mente. Sostanzialmente si tratta di questo: insegnare ai manager, già inseriti ad alto livello nella graduatoria aziendale e persino al mitico AD, come si fa il manager. I poveretti vengono aviotrasportati, in gruppo, in qualche posto esotico ma non pericoloso, poniamo Abu Dhabi o Dubai, e qui sodomizzati con i soliti ‘giochi di ruolo’, il domino, le biglie, le palline colorate e altre cose del genere. Ma la cosa più curiosa è un’altra. Si mette il manager davanti a un cavallo (non in groppa, davanti) e dalle reazioni che ha di fronte all’animale si valutano le sue capacità decisionali e di comando. Non credo che Al Baghdadi per conquistare la leadership abbia avuto bisogno di stare davanti a un cavallo, tutt’al più l’avrà montato o, più probabilmente, avrà estratto il kalashnikov al momento opportuno. “Kalashnikov! Kalashnikov!” è l’inno dedicato a quest’arma, l’arma di tutte le guerriglie moderne, dal serbo Goran Bregovic, l’autore delle colonne musicali di molti film di Kusturica a cominciare dallo splendido Papà è in viaggio d’affari ambientato nella Jugoslavia di Tito che fece il miracolo di tenere insieme tre comunità, serbi, croati, musulmani bosniaci, che si sono sempre detestate. Ah, la nostalgia della violenza, per noi costretti a vivere in democrazia e a sorbettarci oltre alle elezioni politiche, quelle amministrative, comunali, provinciali, regionali e adesso, per non farci mancar nulla, anche le ‘primarie’, angosciati dall’amletico dilemma se scegliere fra Giacchetti e Morassut, fra Bertolaso e il nulla, fra la Meloni e la Meloni, mentre dobbiamo assistere a grottesche polemiche sull’idoneità della donna a fare politica, mentre altrove, in culture diverse, quelle si fanno saltare per aria –anche questa è politica, sia pur non democratica- coraggiose quanto gli uomini, anzi forse di più perché la donna antropologicamente è colei che dà la vita e quindi la ama, mentre il maschio, fuco transeunte e malinconico, è animato da un oscuro istinto di morte.
Poche sere fa sono stato a cena da una mia amica. Bella casa borghese, con tutte le sue cosine a posto, i centrini, i comodini, i divanini, i quadrettini. Aiuto cuoco in cucina. Mancava solo la domestica in grembiule bianco, crestina e guanti bianchi. I commensali sembravano di una certa levatura culturale. Per un’ora e mezza hanno parlato solo di cibo. Ora, io non sono un asceta, pure a me piace mangiare, anche se preferisco bere, ma dopo un’ora e mezza di questa solfa sul cibo mi è venuto il voltastomaco. Anche pensando –ma sì, facciamo pure un po’ di retorica- a quanti, intorno a noi, cibo non hanno. Mi sono alzato, ho detto “vi lascio alla vostra ‘grande bouffe’ “ e me ne sono andato. Ma era troppo presto. Ho girovagato per qualche ora in una Milano spettrale, quella che ruota intorno alla piazza Gae Aulenti, ammiratissima per i suoi ‘boschi verticali’. Io sarò del pleistocene ma a me sembra che nei boschi ci si vada per passeggiare, non per guardare alberi impiccati a pareti di vetrocemento. Poi mi sono fatto portare alle Capannelle, l’unico ristorante che a Milano tiene aperto fino alle sette del mattino. Pare che sia una ‘grida’ del comune, forse di Pisapia, il sindaco che voleva impedire di sbocconcellare i coni gelato in strada, che impone ai ristoranti di chiudere entro le due (a Bari, oltre quell’ora, ci sono almeno quattro pizzerie aperte). Ma Le Capannelle, che non a caso sta vicino a San Vittore, ha delle regole tutte sue, fuorilegge. L’ora ideale per andarci è fra le tre e le quattro di notte. Vi si trova quel che resta della vecchia, cara, onesta ‘mala’ milanese, quella cantata dalla Vanoni, il cui ultimo epigono è stato Renato Vallanzasca, e la fauna inesausta degli inquieti, degli insonni, dei nottambuli, degli irregolari, dei senzadio. I gestori, come sempre accade in questi posti, come nei pochi baracchini ancora rimasti, hanno molto garbo e tratto. Perché bisogna essere abili per gestire una clientela non sempre raccomandabile.
Ma questo mondo popolano è ormai di nicchia. La maggioranza degli italiani fa parte, come ho cercato di raccontare, di un ceto che non saprei se definire piccolo o medio borghese, indifferente a tutto ciò che gli sta intorno tranne il denaro, eternamente basculante fra bulimia e diete nutrizioniste, fra ‘coaching aziendali’ e ‘personal trainer’, fra un orientalismo ridicolo e una totale mancanza di valori, molle, imbelle, svirilizzato. E mi è venuto da pensare che sia una fortuna che fra la Libia e noi ci sia di mezzo il mare (“quant’è profondo il mare”) quel mare che oggi tanto ci inquieta perché traghetta i migranti. Se Libia e Italia fossero unite dalla terraferma i guerrieri di Al Baghdadi ci metterebbero tre settimane per arrivare a Roma (il che, almeno per un po’ tempo, offrirebbe qualche vantaggio: spazzar via il Vaticano e Papa Francesco che non perde occasione per entrare coi piedi a martello negli affari interni dello Stato italiano -se si ha da essere una teocrazia, almeno lo si sia ufficialmente). Certo poi la risalita dell’Italia sarebbe più lenta, come lo fu per gli Alleati nel ‘44/45, ma sfondata la linea gotica e poi quella del Po gli uomini del Califfo si prenderebbero tutto il Nord e verrebbero fermati solo ai confini del Canton Ticino. Perché gli svizzeri saranno anche noiosi, ma le palle (Il formidabile esercito svizzero, John McPhee, Adelphi) almeno quelle, le hanno conservate.



Se Davigo svela che il re (della corruzione) è nudo

Si possono comprendere i toni striduli della polemica politico-istituzionale che ha fatto seguito alle dichiarazioni del consigliere di Cassazione e neo-presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo, ma forse le ragioni di tanta acrimonia non sono quelle addotte ufficialmente. Davigo ha già presentato e discusso innumerevoli volte in sedi pubbliche le tesi dell’intervista senza suscitare particolare sorpresa né scandalo. Evidentemente molti si attendevano, ovvero auspicavano, che assunto il ruolo di vertice dell’Anm il magistrato optasse per la facile strategia della collusione di ceto e si convertisse a più miti consigli, magari ottenendo in cambio il controllo o la promessa di qualche strapuntino di potere. Aspettative che la coerenza e il rigore dimostrate in tutta la sua carriera da Davigo, qualità piuttosto rare tra chi abbia conosciuto equivalenti livelli di popolarità, avrebbero dovuto dissuadere dal coltivare.
Tanto la classe politica – con l’eccezione del M5S e di Sel – che segmenti di vertice della stessa magistratura adesso levano alte le loro voci nell’accusare il magistrato di provocare con le sue denunce di una perdurante corruzione “senza più vergogna” inutili, o peggio ancora pericolose lacerazioni tra i poteri dello Stato. Proviamo però a chiederci: pericolose per chi? Per i cittadini, o per chi nella classe dirigente è riuscito negli ultimi decenni a disinnescare con intese opache, accordi sottobanco, scambi di favori, o magari con leggi ad personam e provvedimenti ad hoc i meccanismi di bilanciamento e di controllo istituzionale formalmente assicurati dallo Stato di diritto? Quegli stessi meccanismi che attribuiscono a una magistratura formalmente indipendente la funzione di rilevare e perseguire la violazione delle leggi, prassi corrente in una quota non irrilevante di quelli che occupano ruoli di vertice, e che dunque pone “fisiologicamente” i giudici benintenzionati in rotta di collisione col potere pubblico corrotto.
Caposaldo dello Stato di diritto è il principio che tutti i cittadini devono essere trattati in modo uguale davanti alla legge, inclusi gli stessi governanti. Ebbene, in Italia tutte le fonti di conoscenza a nostra disposizione – sondaggi, percezioni, inchieste giudiziarie, analisi scientifiche – convergono nel dimostrare che i “colletti bianchi”, inclusa la stessa classe politica, sono coinvolti con frequenza e intensità abnormi rispetto agli altri paesi liberaldemocratici in pratiche illecite, talora apertamente criminali. Nel peggiore dei casi la classe dirigente criminale si fa criminogena, di norma mira comunque alla protezione e all’autoassoluzione, tende ad includere altri attori sociali e istituzionali in reticoli opachi di connivenza e reciprocità, alla separazione preferisce la collusione tra i poteri. Non sorprende che la travolgente ascesa di Davigo nell’associazione di rappresentanza dei magistrati si sia realizzata sparigliando col sostegno della base i giochi delle vecchie correnti, con una sfida aperta al collateralismo politico strisciante dei precedenti vertici associativi.
L’illecito come modello “tollerabile” di condotta per le classi dirigenti – già teorizzato per i partiti da Craxi in un discorso alla Camera il 3 luglio 1992 – produce però costi economici, sociali e persino ambientali insostenibili nel lungo periodo, assai più gravi di quelli della micro-criminalità comune che tanto allarme suscita, restando però sottotraccia. I sintomi dell’anomalia denunciata da Davigo sono molti e concordanti, talora drammatici. Dai prezzi fuori mercato di appalti per lavori, forniture o servizi pubblici spesso di dubbia qualità e discutibile utilità, alle voragini scavate tanto nei bilanci pubblici che nelle casse di aziende e banche, spolpate fino ad azzerare i risparmi di azionisti e obbligazionisti, alla permeabilità alla penetrazione mafiosa di aree del centro-nord (persino nella “civica” Emilia), fino agli sversamenti di liquami tossici e ai disastri ambientali, con le loro ricadute in termini di diffusione di neoplasie e malformazioni infantili. Una zavorra insostenibile, certificata dalle posizioni di coda dell’Italia in tutte le classifiche sulla competitività delle imprese, la crescita economica, la corruzione, l’attrattività per gli investimenti esteri, l’economia sommersa, l’evasione fiscale. Del resto, l’alto status socio-economico può rendere di per sé razionale la scelta di delinquere, visto che la percentuale di “colletti bianchi” in carcere è in Italia un decimo appena della media europea, 0,6 contro il 5,9 per cento. E all’aspettativa d’impunità si accompagnano spesso la generosa tolleranza, quando non la solidarietà omertosa dei pari, che permette a politici, imprenditori, professionisti, funzionari macchiatisi di gravi condotte – non necessariamente reati – di proseguire imperturbabili la proprie carriere, talvolta beneficiando proprio dei propri precedenti penali come “certificazione” di affidabilità nei maneggi illeciti.
Le parole del consigliere Davigo sull’allarmante propensione all’illecito della classe politica e dirigente italiana somigliano allora a quelle del bambino della nota favola di Andersen, che urlando “il re è nudo” osserva una verità sotto gli occhi di tutti, ma che il re (della corruzione) e i suoi molti cortigiani non possono che continuare a negare, nascondendosi sotto il manto invisibile della loro ipocrisia.



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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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