"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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mercoledì 26 novembre 2014

Contro la crescita serve l'Europa autarchica

Cosa sarebbe successo, in epoca preindustriale, se su un campo dove lavoravano e si mantenevano dieci persone si fossero accorti che otto erano sufficienti a coltivarlo tutto? Avrebbero cacciato i due 'in esubero' a pedate? Nient'affatto, si sarebbero diminuiti proporzionalmente i carichi di lavoro e il tempo così guadagnato se lo sarebbero andati a spendere in taverna, a giocare a birilli, a corteggiare la futura sposa o a cornificare, fra i cespugli, quella che avevano. Perché per quegli uomini il vero valore era il tempo, che noi abbiamo trasformato nel mostruoso 'tempo libero', un tempo non da vivere ma da consumare altrimenti le imprese vanno a rotoli. Anche l'artigiano lavora per quanto gli basta. Il resto è vita. Se leggiamo gli Statuti artigiani medioevali sbalordiamo: era proibita la concorrenza. Ognuno doveva avere il suo spazio vitale. Dice: ma allora cosa impediva all'artigiano di fornire prodotti scadenti? Gli Statuti che stabilivano minuziosamente gli standard e lo stesso artigiano cui l'orgoglio per proprio mestiere (che è un concetto diverso dal lavoro) gli imponeva di dare il meglio di sè, il capolavoro in senso tecnico. Quel mondo non era basato sulla competizione economica. Non che quella gente snobasse la ricchezza. Come nota sarcasticamente Max Weber «la sete di lucro...si trova presso camerieri, medici, cocchieri, artisti, cocottes, impiegati corruttibili, soldati, banditi, presso i crociati, i frequentatori di bische, i mendicanti, si può dire presso all sorts and conditions of men». La sconvolgente novità che porta il borghese è che il guadagno si fa attraverso il lavoro (robb de matt). E' questa la folgore che cambierà tutti i rapporti economici, sociali, esistenziali e renderà centrale la figura ripugnante del mercante e dell'imprenditore perché è colui che dà lavoro. Sono patetiche le masse di uomini e di donne che oggi premono ai cancelli per poter diventare, o ridiventare, degli 'schiavi salariati'. La competizione chiude poi il cerchio. Per un imprenditore che vince magari usando la tecnologia al posto degli esseri umani ce n'è un altro che perde e deve liberarsi dei suoi dipendenti. A livello globale per un Paese che apparentemente si arricchisce ce n'è un altro che va in default. 'Apparentemente' perché la 'ricchezza delle Nazioni' di smithiana memoria non corrisponde affatto a quella delle loro popolazioni (la Nigeria è il Paese più ricco dell'Africa ma ha il più alto tasso di poveri).
La soluzione? Tutti, da Obama a Camerun, da Renzi a Camusso, la indicano nella crescita. Chiunque parli di crescita è un lestofante. Perché le crescite infinite, su cui è basato un modello di sviluppo ormai planetario, esistono in matematica ma non in natura. E noi abbiamo ormai superato abbondantemente il confine. Può crescere ancora qualche settore come l'informatica ma anche'essa troverà presto il suo limite (dopo aver ridotto l'iPod a 6 millimetri a tre a uno ed essersi inventati qualche ulteriore applicazione, che altro?). Adesso la parola magica è 'banda larga' che significa una maggiore velocizzazione delle comunicazioni, come se uno dei nostri problemi non fosse proprio la velocità cui stiamo andando, che permetterebbe, si dice, una maggior produttività. Ma produrre che cosa e soprattutto per chi, inducendo nuovi bisogni di cui l'uomo non aveva mai sentito il bisogno, caricando il pianeta, già al collasso, di un surplus di fardello?
Non si può più crescere, bisogna, sia pur gradualmente, decrescere. Una soluzione, per quanto circoscritta e limitata, io l'avrei. Si chiama Europa. Ma un'Europa molto diversa da quella attuale: unita, neutrale, armata, nucleare e autarchica. Una formula dove la parola chiave è 'autarchica'. Lo chiarirò meglio in un prossimo Battibecco. Se nel frattempo non avrò perso il lavoro.


LETTERA DEL MILITE IGNOTO

Salve, sono l’Italiano Medio. Non mi sento particolarmente né di destra né di sinistra: le ho viste all’opera tutt’e due e non mi sono parse un granché. Il centro, poi, non ho mai capito che roba sia, sebbene abbia letto per anni il Corriere della Sera, o forse proprio per questo. Non ho mai chiesto la luna, anzi sono uno che si accontenta di poco: vorrei essere governato da gente normale più o meno come me, mediamente perbene e abbastanza competente, che parla solo quando ha qualcosa da dire, e per il resto lavora. Siccome poi pago le tasse (anzi, me le trattengono: sono un lavoratore dipendente in attesa della pensione, se mai la vedrò), gradirei saperle utilizzate per servizi pubblici decenti e non sperperate in sprechi o rubate in furti vari. Tutto qui. 
Nella Prima Repubblica votavo i partiti di governo per paura dei comunisti, anche se non riuscivo a scrollarmi di dosso la fastidiosa impressione che Berlinguer fosse meglio di Andreotti e di Craxi (a volte quel pensiero molesto si estendeva perfino ad Almirante, almeno quando appariva in tv, ma riuscivo a scacciarlo subito). Poi è arrivata Tangentopoli e istintivamente ho simpatizzato per i magistrati di Mani Pulite, che trattavano i ladri di Stato esattamente come i ladri di polli. Mi pareva di aver letto da qualche parte, credo nella Costituzione, che è giusto così. Ma da un certo momento in poi sentii dire in tv e lessi sul Corriere che a furia di ripetere “non rubare” rischiavo di ammalarmi di giustizialismo, così smisi. Quel Berlusconi che si affacciava sulla scena, tutto denti e miliardi, non è che mi convincesse molto, ma tutti dicevano che era un grande imprenditore che si era fatto tutto da sé e vai a sapere che si era fatto dare una mano da gente poco raccomandabile: la prima volta lo votai, vedi mai che di quel successo nella vita privata ne portasse un po’ anche in quella pubblica. Me ne pentii subito, anche perché durò meno di un anno e badò solo agli affari suoi: a me però bastarono due facce, quelle di Previti e Dell’Utri, furono più utili di mille politologi. 
Nel ’96 votai Ulivo: mi stava simpatico Prodi perché non è un comunista, ma un tipo normale, che non le spara grosse e parla, anzi borbotta poco, un po’ come me. Ci portò in Europa con l’aiuto di Ciampi, e mi parve una cosa buona: il biglietto d’ingresso, l’Eurotassa, fu la prima imposta che pagai volentieri, anche perché ce ne restituirono un pezzo. Ma durò poco anche lui: D’Alema diceva che un Paese normale non può essere governato da un professore che non ha dietro un grande partito tutto suo e non dialoga con Berlusconi per rifare la Costituzione. Sarà. A me la Costituzione, per quel poco che ne so, non pare malaccio, però tutti dicevano che andava rifatta e intanto Prodi cadde. Dei governi “normali” al posto del suo, D’Alema e Amato, non ricordo granché. Se non che fecero tornare Berlusconi, stavolta per cinque anni: un disastro epocale, solo affaracci suoi (s’arrabbiò perfino la mafia, sentendosi trascurata). Quando il Cavaliere cancellò il falso in bilancio e cacciò pure Enzo Biagi dalla tv, trattandolo come Renato Curcio, partecipai anche a un paio di girotondi. Poi però il Corriere disse che eravamo dei pericolosi manettari nemici del dialogo, e allora smisi. 
Nel 2008 volevo astenermi, ma poi mi trascinai a rivotare Prodi, che restava il meno peggio. Lo rifecero fuori un paio d’anni dopo: il tempo di mandar fuori di galera 30 mila delinquenti (non ho mai capito perché, quando le carceri scoppiano, non ne apriamo di nuove, ma spalanchiamo le porte di quelle vecchie). Quattro anni di film horror: “Il ritorno del morto vivente”. Poi arrivò Monti con i suoi tecnici e respirai: vabbè, almeno hanno studiato e sanno far di conto. Anch’io facevo i conti: mi mancava qualche mese alla pensione. Ma subito una ministra che piangeva con la faccia cattiva mi spiegò che ero un nababbo parassita come tutti i pensionati, insomma dovevo lavorare altri 7-8 anni. E mio figlio, che aveva appena trovato lavoro, era un privilegiato e doveva vergognarsi per via dell’articolo 18, che infatti fu dimezzato. Boh. Mi vennero dei cattivi pensieri anche sui tecnici e mi buttai sui 5Stelle. 
Mica per Grillo: per quei ragazzi puliti che entravano in Parlamento senza un euro di soldi pubblici. Grande vittoria. Speravo che cambiassero un po’ le cose, ma furono subito messi ai margini. Per farmi capire che il mio voto contava zero, tornarono le larghe intese e, per maggior chiarezza, fu pure rieletto Napolitano. Letta durò nove mesi, poi arrivò Renzi: diceva cose giuste, più o meno le stesse di Grillo. Intanto i 5Stelle litigavano e si espellevano: sospetto che qualcosa di buono stiano facendo, in Parlamento, ma è solo un’impressione. In tv non li vedo mai e il computer non fa per me. Così, alle Europee, ho votato Renzi. Grande vittoria. Ma me ne son subito pentito: il giovanotto ha cominciato a fare il contrario di quel che diceva. Ha riesumato il morto vivente, ha ricominciato a menarla con la Costituzione da cambiare e con i parlamentari da nominare. Ha perfino ripetuto che mio figlio è un privilegiato, sempre per l’articolo 18. Domenica mi sono astenuto, come i due terzi dei miei corregionali: stavolta capiranno il messaggio forte e chiaro. Macché: il tipetto dice che siamo secondari. Ma che devo fare per farmi ascoltare? Se voto, non conto niente. Se non voto, idem. Dovrò mica mettermi a menare, alla mia età? 

Marco Travaglio (Jack's Blog - Il Fatto Quotidiano - 26 novembre 2014)

 

venerdì 21 novembre 2014

Un presidente bianco in campo bianco

Che Giorgio Napolitano, nonostante le pressioni di Renzi, abbia l'urgenza di lasciare al più presto è cosa ovvia. Il Tempo, il padrone inesorabile delle nostre vite, non fa sconti a nessuno e benché Napolitano non abbia fatto una sola ora di lavoro nella sua lunga vita e non abbia quindi svolto alcuna attività usurante se non per il suo didietro che si è strusciato su ogni possibile cadrega, 90 anni son pur sempre 90 anni.
Se il Financial Times ha potuto scrivere che Napolitano è «una personalità che svetta nello scenario italiano» ciò dice di per sè della mediocrità della nostra attuale classe dirigente. Per 80 dei suoi 90 anni di vita Napolitano è stato un personaggio inesistente, una suppellettile del comunismo italiano, notato solo per la sua irrilevanza. «Coniglio bianco in campo bianco» lo aveva definito impietosamente qualcuno. E' nato vecchio, «nu guaglione fatt'a vecchio» aveva detto di lui lo scrittore Luigi Compagnone. Non è mai stato giovane e anche questo spiega la sua longevità non solo politica. Mentre i suoi compagni di liceo giocavano al pallone, lui partecipava ma stava a guardare. Per tutta la vita è stato a guardare. Anche, se non ci si fa suggestionare dalle apparenze, negli otto anni e mezzo del suo doppio mandato.
La cosiddetta destra lo ha dapprima avversato perché lo riteneva comunista (ma andiamo) e artefice del 'golpe' che avrebbe fatto fuori Berlusconi, poi lo ha rivalutato quando, sia pur con gran circospezione, ha ricevuto al Quirinale il Detenuto. La cosiddetta sinistra l'ha sostenuto perché lo sapeva innocuo. Il Fatto Quotidiano ne ha fatto un bersaglio 'da tre palle un soldo' soprattutto per quel suo monitar 'urbi et orbi', contemporaneamente a destra e a manca, riuscendo così a non dir nulla. Ma questo è in perfetto 'stile Napolitano'di sempre. Secondo me è stato un buon Presidente della Repubblica perché chi ricopre quel ruolo deve essere come l'arbitro delle partite di calcio: meno lo si nota e meglio è. Il 'coniglio bianco in campo bianco' ci ha provato a rimanere tale, sono stati i partiti e soprattutto i media a creare un personaggio inesistente e che senza il loro apporto non sarebbe mai esistito: Re Giorgio.
Adesso si tratta di scegliere un nuovo Presidente della Repubblica che rappresentando l'unità della Nazione dovrebbe essere 'super partes', cioè di nessuna parte. Ma un soggetto del genere è introvabile in Italia. Anche nel mondo della cosiddetta 'intellighenzia' dove tutti, per opportunità di carriera, si sono messi al traino di qualche partito. Forse bisognerebbe pescare in quel che resta del nostro mondo artistico. Un Riccardo Muti che 'ha bene meritato della Patria' in Italia e all'estero sarebbe l'ideale. Ma a parte che difficilmente il Maestro lascerebbe il suo affascinante mestiere per i polverosi stucchi del Quirinale, il Parlamento dei partiti non ha nessun interesse né la creatività e l'audacia per una soluzione del genere. Staremo quindi a vedere. Spero che Grillo non si incaponisca su Stefano Rodotà, che oltre ad avere 81 anni, ha attraversato l'ultimo trentennio ben imbozzolato nel Pci-Pds-Ds, un radical chic che nulla a che vedere, per quel che li conosco io, col mondo dei grillini. La sola cosa certa è che per l'elezione del nuovo Capo dello Stato sarà indispensabile l'apporto del Detenuto. Una cosa che può accadere solo in Italia. Un Paese irredimibile. Per rifondarlo ci sarebbero così tante cose da fare che ormai non c'è più nulla da fare.



MORS TUA, PRESCRIZIONE MEA

Diciamo subito che la Cassazione non era affatto obbligata dalla legge a dichiarare prescritto il reato di disastro colposo per il patron dell’Eternit Stephan Schmidheiny, condannato in primo e secondo grado per la morte da amianto di 2154 persone (bilancio parziale). Anziché allinearsi alla richiesta del Pg Jacoviello, noto annullatore di processi eccellenti, e dell’avvocato Coppi, sempre molto fortunato al Palazzaccio quando fa certi incontri, la Corte poteva sposare l’interpretazione alternativa data dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Torino, che con due sentenze molto ben motivate avevano spiegato come il disastro provocato dall’amianto, rimasto a lungo latente e poi esploso con effetti che semineranno malati e morti per tanti decenni ancora, non può cristallizzarsi – come invece ritiene la Cassazione – all’istante in cui le fibre del minerale-killer smisero di depositarsi sul terreno con la chiusura della fabbrica di Casale nel lontano 1986 (ragion per cui il reato, pur accertato, si sarebbe estinto addirittura prima del processo, che dunque non avrebbe dovuto neppure cominciare). Insomma, come scrive Vladimiro Zagrebelsky su La Stampa (clicca qui) , c’era un’altra “scelta, ragionata e seriamente argomentabile, tra un’interpretazione che metteva d’accordo diritto e giustizia e un’altra che proclamava summus jus summa injuria”. I giudici hanno imboccato la via più facile, e anche più comoda dinanzi al potente di turno. E, trattandosi della Cassazione, non c’è rimedio al loro eventuale errore: per convenzione, l’ultimo giudice che si alza è quello che ha ragione.
 Ma c’è qualcosa di ancor più odioso della sentenza Eternit: il commento furbastro di Matteo Renzi: “Cambieremo le regole della prescrizione e faremo in modo che i processi siano più veloci”. Intanto denota un’ignoranza sesquipedale del caso Eternit: se la Cassazione ritiene che il processo non sarebbe dovuto neppure iniziare, la sua durata non c’entra nulla. E poi il tempo dei “faremo” è scaduto da nove mesi: da quando Renzi smise di essere outsider e diventò premier. Che la prescrizione non rientri fra le sue priorità fu chiaro fin da subito, anzi da prima che entrasse a Palazzo Chigi: precisamente dal 18 gennaio 2014, quando siglò il Patto del Nazareno con il recordman mondiale delle prescrizioni. Poi quando accettò che Napolitano gli depennasse il nome di Gratteri dal ministero della Giustizia. Quando rinviò a settembre la riforma della giustizia promessa per giugno. E infine quando firmò due decreti per altrettante scemenze, cioè le ferie delle toghe e alcune regolette inutili del processo civile, avviando invece le cose serie (prescrizione, anticorruzione, autoriciclaggio ecc.) sul binario morto dei disegni di legge. Che, come tutti sanno, non passeranno mai perché B. non vuole. 
Come spiega Davigo sull’ultimo Micromega (leggi qui) , la prescrizione non è l’effetto dei processi lunghi: ne è la causa principale, perché incoraggia i ricorsi dilatori e le perdite di tempo degli imputati ricchi e dei loro avvocati specialisti in criminalità & impunità. Un pilastro della Costituzione materiale di quest’Italia marcia, che consente a centinaia di politici, amministratori, imprenditori e finanzieri di riunirsi in Parlamento e nei Cda anziché nell’ora d’aria. Il timidissimo ddl Orlando, ove mai fosse approvato, non cambierebbe una virgola dello sconcio, che dipende da due fattori nemmeno sfiorati dal ministro della Giustizia: in Italia la prescrizione parte quando il delitto viene commesso, non quando viene scoperto; e – caso unico al mondo – non si ferma mai, nemmeno dopo due condanne di merito alla vigilia del giudizio di legittimità in Cassazione, e neppure quando uno patteggia la pena (e poi fa ricorso contro la sanzione da lui stesso concordata). 
Quindi le chiacchiere stanno a zero: se Renzi vuole avere titoli per parlare, faccia subito un decreto per bloccare la mannaia della prescrizione al momento del rinvio a giudizio, come in tutti i paesi civili. Se il Pd è una cosa seria, troverà in Parlamento i voti dei 5Stelle e di Sel per convertirlo in legge. I requisiti di necessità e urgenza, se non li capisce da sé, se li faccia spiegare dai parenti dei morti ammazzati dall’Eternit. 


 

martedì 18 novembre 2014

XX Maratona di Palermo 2014 a Carmine Buccilli dell’Atletica Casone Noceto che ha fermato il crono a 2h24’58



http://maratonadipalermo.blogspot.it/

Il Patron Totò Gebbia, con il suo consueto equilibrismo e la sua prestidigitazione finanziaria, è riuscito, ancora una volta, a mettere in piedi e a far girare il complesso carrozzone della Maratona di Palermo: quest’anno arrivata alla XX edizione.
Un appuntamento atteso e rinvigorito dallo spirito goliardico che accompagna la manifestazione. Noi dell’UIF (Unione Italiana Fotoamatori) collaboriamo, nel nostro piccolo, per la sua buona riuscita dal 2009, con un gruppo composito e variegato che annovera fedelissimi fotoamatori ed altri che si sono alternati nelle varie edizioni.
Con l’esperienza i  nostri risultati fotografici si sono affinati in forza ad una partecipazione coinvolgente, disinteressata ma sempre motivata a migliorarci. Fotografare gli eventi sportivi non è facile, ma la bellezza del nostro gruppo è quella di saper cogliere le tante sfumature che gli atleti e l’evento più in generale consentono di immortalare: ciascuno in relazione alle proprie sensibilità e alle estemporanee suggestioni.
Maschere imperturbabili o affaticate lungo il percorso splendono tutte all’arrivo (magari una volta riavutesi) in radiosi sorrisi; forse di soddisfazione per avere ritoccato i tempi o soltanto per avere raggiunto, anche quest’anno e ancora una volta il traguardo.
Per non parlare del fantastico scenario offerto dallo stadio intitolato a Vito Schifani, che ospita nelle tribune i tantissimi familiari e amici accompagnatori che acclamano gli atleti al loro passaggio o via via che portano a compimento l’impresa.
E poi c’è l'evento sportivo, dove i migliori gareggiano in loro eterne sfide, che si rinnovano ogni anno. Goliardiche sfide però, dove ognuno è contento anche dei risultati altrui, dove magari taluni supportano anche le crisi momentanee che talvolta bloccano l'atleta concorrente.
Ci sono anche supporters speciali, fatti dai maratoneti temporaneamente impediti che fremono al bordo gara e comunque avrebbero voluto esserci e ci sono; nonostante problemi a ginocchia, tendini e altro, te li ritrovi tutti lungo il percorso e poi all’arrivo a tifare per gli amici che concorrono.
Se poi ci mettiamo una splendida giornata, per noi fotografi ovviamente, il gioco è fatto: una serena mattinata d’umanità e passione che racchiude tantissimi gioiosi sorrisi.
Per la cronaca ha vinto la XX edizione della Maratona di Palermo Carmine Buccilli, con il tempo di 2h24’58, secondo il marocchino Mohamed Hajjy con 2h28’21, terzo Vito Massimo Catania - vincitore nella passata edizione - con il tempo di 2h47’34. Nella gara al femminile la vittoria è andata a Giusy Chiolo con 3h13’25, seconda l’atleta polacca Agnieska Lecka in 3h16’15, terza Maria Grazia Bilello in 3h26’21 (fonte: Siciliarunning).

Essec 

lunedì 17 novembre 2014

Così il "progresso" uccide l'educazione alla vita dei ragazzi degli anni '50

"Da bambini andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né airbag. Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata speciale. Le nostre culle erano dipinte con colori vivacissimi, con vernici a base di piombo. Non avevamo chiusure di sicurezza per i bambini nelle confezioni dei medicinali, nei bagni, alle porte, alle prese. Quando andavamo in bicicletta non portavamo il casco. Bevevamo l’acqua dal tubo del giardino invece che dalla bottiglia dell’acqua minerale. Uscivamo a giocare con l’unico obbligo di rientrare prima del tramonto. Non avevamo cellulari, cosicché nessuno poteva rintracciarci. Impensabile. Ci tagliavamo, ci rompevamo un osso, perdevamo un dente e nessuno faceva una denuncia per questi incidenti. La colpa non era di nessuno, se non di noi stessi. Condividevamo una bibita in quattro, bevendo dalla stessa bottiglia e nessuno moriva per questo. Non avevamo Playstation, Nintendo 64, Xbox, videogiochi, televisione via cavo 99 canali, videoregistratori, dolby surround, cellulari personali, computer, chatroom su Internet. Avevamo solo tanti, tanti amici. Uscivamo, andavamo in bicicletta o camminavamo fino a casa dell’amico, suonavamo il campanello semplicemente per vedere se lui era lì e poteva uscire. Sì! Lì fuori! Nel mondo crudele! Senza un guardiano! Facevamo giochi con bastoni e palline da tennis, si formavano delle squadre per giocare una partita, non tutti venivano scelti per giocare e gli scartati dopo non subivano un trauma. Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dallo psicopedagogo, nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né di iperattività, semplicemente prendeva qualche scapaccione e ripeteva l’anno, perché gli insegnanti avevano sempre ragione. Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsabilità e imparavamo a gestirli. E allora la grande domanda è questa: come abbiamo fatto a sopravvivere noi bambini degli anni ’50 e ‘60, a crescere e a diventare grandi?".
Questo ‘mantra’ circola da qualche settimana su WhatsApp. L’autore, certamente un uomo in età, è ignoto, come ignoti quasi sempre sono gli autori di certe barzellette fulminanti che nascono in genere negli ambienti impiegatizi da qualcuno che, per non morire di noia, dà libero sfogo alla propria fantasia.
L’obbiettivo sarcasticamente polemico dell’Autore Ignoto è lo Zeit Geist, lo spirito del tempo, la pretesa di mettere tutto ‘in sicurezza’, ‘a norma’, omologato da rigidi protocolli. Non siamo più in grado di accettare il rischio, l’imprevedibile, l’imponderabile, il Caso che i Greci chiamavano Fato. Ma in questa pretesa di controllare in tutto e per tutto la vita finiamo per non viverla più.
Io mi identifico totalmente nell’Autore Ignoto che offre una serie di spunti che mi spiace di non poter qui sviluppare. Sono anch’io ‘un ragazzo degli anni ‘50’, la nostra ‘educazione sentimentale’ è stata sulla strada e, sia pur fra qualche rischio e pericolo, ci ha insegnato, fra le altre, una cosa fondamentale: il principio di responsabilità (nel ‘mantra’ è l’accenno al ragazzino che si rompe un osso facendo a bastonate in una lotta fra bande o al ripetente). Oggi bambini o, peggio, adulti che si sia, la colpa è sempre degli altri, di un’infanzia difficile, della scuola, degli insegnanti, delle cattive compagnie, del ‘così fan tutti’. Quel principio di responsabilità che da tempo è venuto meno nella società italiana, in particolare nella classe politica ma anche fra i ‘very normal people’, e che è uno dei motivi principali, se non addirittura il principale, della nostra difficoltà a vivere insieme.



Ma perché si festeggia un compleanno?

Sono davvero settanta. Non uno di più, non uno di meno. Ho compiuto settant’anni sommerso, commosso da un oceano di auguri che rendono questa giornata un po’ speciale, rispetto alle altre 364 dell’anno che sta per concludersi.  Da alcuni anni li festeggio a decenni, 10, 20, 30 e così via molto meglio così, poiché il tempo passa in fretta. Sono trascorsi ad oggi sette decenni. Sette come i vizi capitali, come le virtù teologali e cardinali. Sette come i cieli dell’antichità: Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno; come le stelle più luminose dell’Orsa maggiore e dell’Orsa Minore. Sette come i colori dell’arcobaleno. Sette come i mari. Sette come le isole Eolie. Sette i simboli alchemici come sono le arti liberali, come le chiavi musicali e le note. Sette come i giorni della settimana. Sette sono i nani della favola di Biancaneve. BubuSETTEte diceva mio padre me bambino.
Ma perché si festeggia un compleanno? La tradizione vuole che quello della nascita sia un giorno da celebrare. Sofocle diceva: “Meglio per un uomo non essere mai nato e, se nato, morire giovane”. Ma gli uomini, che filosofi non sono, nonostante le difficoltà della vita, festeggiano la data della loro nascita o quella dei loro cari e degli amici, anno dopo anno. Fino alla fine dei giorni. Festeggiare il compleanno, per chi ne ha già festeggiati tantissimi può aiutare ad accettare la propria età, sapendo di essere circondato da persone care, da attenzioni, da stima e sentimenti di affetto. Forse è importante festeggiare, un pretesto come tanti altri,  per inventare un momento affrancato dai problemi, nei vari momenti della vita, alcuni molto difficili. Forse un modo, non dichiarato, per verificare a noi stessi la solidità dei legami affettivi, parentali, amicali, ma anche un metaforico certificato di esistenza in vita.
Nel lontano 1944 mio padre, all’anagrafe del Municipio di Tripoli, dichiarò che il 16 novembre era il giorno della mia nascita, mentendo. La verità però è un’altra. Sono nato in ospedale alle ore 1,00 di venerdi17, secondo la testimonianza di mia madre e la conferma-confessione di mio padre molto, ma molto tempo dopo. Avrebbe dovuto dichiarare la mia nascita il 17 venerdì e non il 16 giovedì. Erano soltanto 60 minuti in meno. Sufficienti per consentire a mio padre di dichiarare come data anagrafica il giorno precedente della mia nascita, alle ore 11,46, quindici minuti prima della mezzanotte, per mettersi al sicuro e soprattutto per mettermi al sicuro dalla catastrofe di non essere nato il 17 venerdì, giorno particolarmente sfortunato. Con la complicità di mia madre che in tutto e per tutte condivideva le sue decisioni. Insomma aveva detto, mio padre, per proteggere il mio futuro, una piccola bugia per scaramanzia. Mi confessò che non se la era sentito di dichiararmi di essere nato il 17 venerdì. Perché gli chiesi? Era come se segnassi il tuo destino negativamente, mi rispose. Anche perché, all’Ospedale di Tripoli, una infermiera, appena nato invece del collirio, usò maldestramente la tintura di jodio con il rischio concreto di accecarmi. Potete immaginare. Ebbi problemi, ma tutto si risolse bene, per fortuna della mia vista. Mia madre disperata per ciò che stavo passando, si affidò a Santa Lucia e fece un voto. Avrebbe mangiato la cuccia per devozione tutta la vita e nel voto incluse anche me. Anch’io avrei mangiato la cuccia il giorno dedicato alla Santa protettrice della vista. Me lo fece promettere solennemente appena giunsi all’età della ragione. Ed ho sempre rispettato la volontà di mia madre. Questo incidente agli occhi che mi era capitato, io appena nato, per mio padre era un brutto segno. Che male c’è, mi disse, se ti ho dichiarato un’ora prima? Ho fatto torto a qualcuno? Certamente no. Il travaglio è stato lungo. Un’ora più o un’ora in meno non cambia nulla - sostenne- e poi sei il mio primogenito. Ascoltavo con rispettoso silenzio. Li ascolto ancora, lui e mia madre, da settant’anni con un ricordo delicato e riconoscente. E li ringrazio, come sempre faccio, per avermi messo al mondo. Per avermi dato l’irripetibile possibilità di vivere la vita assieme ad Aurelia, ai miei fratelli Mario e Jose, ai miei nipoti, alle persone a me care, agli amici sinceri. Condividere la gioia di amare gli altri, poiché noi siamo fatti soprattutto degli altri. Forse è bene anche per una festa di compleanno non dimenticarlo.

Nicolò D'Alessandro - Palermo, 16 novembre 2014


martedì 11 novembre 2014

SMETTO QUANDO VOGLIO

Oddio, Napolitano se ne va e nessuno sa cosa mettersi. Come se non bastassero tutte le cause fisiologiche che fanno fibrillare la politica italiana, se ne aggiunge una patologica: i boatos sulle imminenti dimissioni del presidente della Repubblica. Non si tratta del solito gossip dei retroscenisti appostati nei corridoi dei palazzi: a scrivere che entro fine anno, o al massimo a gennaio, Re Giorgio annuncerà o addirittura rassegnerà le dimissioni sono stati non solo il Fatto (notoriamente poco gradito sul Colle più alto), ma anche due fra i giornalisti più introdotti al Quirinale: Stefano Folli su Repubblica e Marzio Breda sul Corriere. Domenica, dopo 24 ore di silenzio, è arrivata la “nota del Colle”, al solito sibillina e fumantina. “Né si ha da smentire né da confermare” alcunché, ma sia chiaro che “le decisioni che riterrà di dover prendere” sono “esclusiva competenza del capo dello Stato”. Quindi è tutto vero, ma Napolitano non gradisce che se ne parli adesso ed è furibondo con i giornali e le tv che danno “ampio spazio a ipotesi e previsioni sulle eventuali dimissioni”. E a cosa dovrebbero dare ampio spazio, di grazia? Sta per accadere un fatto mai visto prima: le dimissioni di un presidente (e che presidente: il monarca padrone dell’esecutivo, delle Camere, del Csm e ogni tanto della Consulta, che da 8 anni e mezzo fa e disfa i governi a prescindere dagli elettori e dà ordini e moniti a tutto su tutti) appena un anno e mezzo dopo la sua elezione, destinate a terremotare per mesi e mesi la vita politica con una serie di ripercussioni a catena prevedibili e già tangibili sul governo, sul Parlamento, sulla nuova legge elettorale, sulla nuova Costituzione, sulla “riforma” della giustizia, sulle alleanze fra i partiti, sulle tentazioni di elezioni anticipate, sulla Borsa, sui rapporti internazionali. E di che dovrebbe parlare la stampa? Di Balotelli che torna in Nazionale? O di Razzi che va all’Isola dei famosi?
Vengono rapidamente al pettine i nodi che – in beata solitudine – il nostro giornale evidenziò fin da subito, all’indomani della precipitosa rielezione di Napolitano il 20 aprile 2013 per scongiurare l’ascesa al Colle di un vero cultore della Costituzione come Stefano Rodotà, tradire l’ansia di rinnovamento uscita due mesi prima dalle urne e imbalsamare l’eterno inciucio fra il centrosinistra e Berlusconi. Tralasciando le bugie di Napolitano, che per un anno aveva detto e ripetuto che mai e poi mai avrebbe accettato la riconferma, scrivemmo che il suo discorso di reinsediamento a Montecitorio poneva ufficialmente sia lui sia la Repubblica fuori dalla Costituzione. Il Ripresidente disse infatti che sarebbe rimasto “fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno”. E solo a patto che Pd e Pdl si mettessero subito insieme per fare ciò che avevano giurato agli elettori di non fare: un governo di larghe intese per le cosiddette “riforme”, cioè per manomettere la seconda parte della Costituzione e anche la giustizia. Espropriando il Parlamento, unico titolare del potere legislativo, il Presidente Monarca espose alle Camere il suo personale programma politico e le minacciò di andarsene se non avessero obbedito: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”. Dunque il governo e i partiti dovevano ripartire dai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo”: i 10 fantomatici “saggi” extraparlamentari che, alle dipendenze del Quirinale e senz’alcuna legittimazione popolare, avevano scritto il programma del nuovo governo prim’ancora che nascesse. Insomma, in barba alla Costituzione che prevede un mandato pieno e incondizionato (art. 85: “Il Presidente della Repubblica è eletto per 7 anni”), Napolitano fece sapere che il suo era “a tempo” e “a condizione”. 
E quando il suo ex portavoce Pasquale Cascella si lasciò sfuggire a La Zanzara che se ne sarebbe andato ben prima della scadenza del settennato, Re Giorgio con l’aria di smentirlo confermò quel che era chiaro a tutti: “Ho legato la mia rielezione al raggiungimento dell’obiettivo delle riforme e anche alla capacità delle mie stesse forze. Ma nessuno certo è in grado di prevederne la durata, sia per l’uno che per l’altro aspetto”. 
Quell’albero marcio, trapiantato un anno e mezzo fa su un Paese ansioso di cambiare, produce oggi i frutti marci che tutti possono vedere a occhio nudo. Napolitano e chi lo rielesse sapevano benissimo che il suo secondo mandato sarebbe finito presto, per ovvi motivi anagrafici. Ma la fregola di mummificare il sistema contro ogni cambiamento fu più forte di ogni buonsenso. E anche dello spirito e della lettera della Costituzione (quella vera, quella del 1948) che, precisa come un cronometro svizzero, prevede un ordinato e sereno funzionamento delle istituzioni, con tempi certi e scadenze prevedibili. Il presidente dura in carica 7 anni perché si deve sapere quando inizia e quando finisce: negli ultimi sei mesi (il semestre bianco) non può sciogliere le Camere (a meno che la sua scadenza coincida con quella della legislatura) affinché il Parlamento sia libero di prepararne la successione senza condizionamenti, con la dovuta calma e serenità. Strano che l’unico presidente ad aver giurato due volte sulla Costituzione non lo sappia, o se ne infischi. Infatti fa sapere che se ne va quando vuole lui e ce lo farà sapere quando pare a lui. Niente semestre bianco, e Parlamento sotto ricatto fino all’ultimo giorno. La bomba a orologeria delle sue dimissioni anticipate seguiterà a ticchettare per settimane, forse per mesi, ben nascosta sotto le istituzioni, destabilizzandole vieppiù con uno stillicidio di indiscrezioni, moniti e finte smentite. Intanto l’Italia resterà appesa agli umori e ai malumori di un vecchietto bizzoso e stizzoso che cambia idea a seconda di come si sveglia. Nessuno, tranne lui, sa quando finirà il toto-Quirinale. Forse finirà soltanto quando Sua Maestà avrà qualche finto successo da sbandierare (una legge elettorale, una riforma della Costituzione, del lavoro e della Giustizia purchessia) per mascherare il misero fallimento del suo bis; e magari anche la garanzia che il suo successore sarà un suo clone e non farà nulla per riportare l’Italia dalla monarchia alla Repubblica. Solo allora abdicherà e, quando lo farà, sarà sempre e comunque troppo tardi. 

lunedì 10 novembre 2014

Cosa rimane del sistema bancario italiano dopo gli esami europei



Cosa rimane del sistema bancario italiano dopo gli esami europei
(D.Corsini, D. De Crescenzi)

Larchitettura di vigilanza di Basilea è il regno dei fini, vale a dire è un punto di arrivo per chi esercita lattività bancaria. Per essere sul mercato è necessario rispettare i ratios di capitale, secondo le modalità di calcolo che si sono nel tempo succedute. Come fare per rispettarli rientra nelle strategie di impresa, nelle politiche stabilite e perseguite dai manager, nelle caratteristiche dei mercati serviti: più credito e meno finanza, ovvero più titoli di Stato e meno finanza, ovvero ancora più credito meno finanza e titoli di Stato e così via secondo mix diversi tra le macro attività.
A questo sistema di regole, che è molto chiaro nel suo insieme, è stato associato lesercizio di valutazione compiuto da BCE e da EBA partendo dai dati di bilancio 2013, cui si sono aggiunti i risultati della revisione degli attivi a rischio e infine quelli degli stress test per tener conto dell'impatto sul capitale delle banche di alcuni scenari di turbolenza economica.
Lenorme mole di dati rilasciati e disseminati sul sito web della BCE ci permette di mostrare cosa è effettivamente accaduto e quali sfide ha il nostro sistema bancario da affrontare, essendo uscito purtroppo un pomalconcio dagli esami europei.
Il punto di partenza delle valutazioni è dunque il dicembre 2013 per ciascuna istituzione creditizia o gruppo di banche ritenute a rischio sistemico, con limportante avvertenza che non l'intero attivo di bilancio è rilevante ai fini di che trattasi, ma soltanto quelle componenti che presentano rischi secondo le categorie economico/finanziarie individuate dalle regole di vigilanza prudenziale. Pesano molto le partite deteriorate e i crediti alleconomia (seppure con diversi coefficienti di ponderazione) e hanno invece impatto minore i titoli di Stato e tutto il coacervo degli strumenti finanziari.
La disclosure dei dati ci consente di capire come le banche si sono di fatto presentate allimportante appuntamento. Tra il totale attivo di bilancio e le attività a rischio considerate - proprio per il differente peso dei coefficienti vi sono differenze eclatanti. Esse riflettono sia le relative specializzazioni di business in concreto perseguite sia la capacità di governare i rischi prescelti. Come si vede dalla tabella, la differenza più ampia si riscontra per le grandi banche tedesche e per le francesi che hanno poco più di un terzo delle attività di bilancio a rischio cui proporzionare il capitale di primo e secondo livello.
Per le banche italiane e quelle spagnole la differenza tra valore ponderato e valore nominale degli attivi è pari a circa la metà. Il valore minimo si ha per Deutsche Bank, una tra le più grandi banche del mondo, con il 22%, mentre il valore massimo si ha per la banca spagnola Banca Bilbao con quasi il 60%, che segna soprattutto il grado di esposizione al rischio di credito.
Nella quarta colonna della tabella è poi riportato il peso del rischio di controparte per sovereign and supranational non governamental organization che riflette i rischi connessi con la detenzione di titoli di Stato. Si nota agevolmente che per le banche italiane, come per tutte le altre, esso è del tutto trascurabile, in virtù del trattamento di favore riservato dalle regole di Basilea ai titoli del debito pubblico e nonostante le quantità accumulate da ciascuna banca. E, come si sa, alcune banche italiane hanno in bilancio titoli della specie per centinaia di miliardi di euro sia per diversificare il proprio portafoglio sia per gli effetti indotti dalle operazioni di rifinanziamento promosse dalla BCE.
In definitiva, si capiscono un podi cose.
Basilea concede aree di facilitazione, di ammorbidimento molto ampie invero, e un potutte le banche ne hanno beneficiato, come è abbastanza comprensibile per assicurare un accettabile livellamento del campo di gioco. Si è tuttavia detto che le banche italiane avevano le mani legate: recessione, sofferenze e altro ancora. In effetti, nonostante manovre di bilancio volte a modificare la composizione dellattivo a favore dei titoli di Stato, molte di esse non sono riuscite a passare lesame o lo hanno passato a stento. Con il che si è data la stura ad asseriti svantaggi competitivi rispetto agli altri sistemi bancari.
Si trascura però un aspetto essenziale. Basilea va adattata alla struttura di ciascun sistema creditizio e un pocome hanno fatto gli spagnoli era necessario intervenire con una incisiva opera di razionalizzazione e di consolidamento del sistema, mettendo al centro una decisa regia politico/strategica che, per noi, è chiaramente mancata. Di per sé una operazione di fusione tra banche migliora i ratios sia per rivalutazione di asset, ma, se si accompagna a un forte progetto industriale, anche per la crescita delle prospettive reddituali; ciò induce il mercato a valutare con favore l'immissione di nuove risorse, consentendo di aumentare il capitale di migliore qualità. La questione della profittabilità è quindi centrale, venendo a dipendere dal mix capitale/lavoro più adatto al business. E qui ci si imbatte in una di quelle peculiarità italiche, di cui siamo gelosissimi e convinti della loro bontà al punto da volerle esportare a tutta Europa, la quale, al contrario, non è tanto propensa ad accoglierle.
Si tratta della base sociale di ben nove delle 15 banche che abbiamo affidato alle cure dirette di Francoforte: tutte a base cooperativa e quindi a) difficili da far aggregare sia come preda che come cacciatore, b) a ridotta redditività, stante le politiche distributive fortemente dispersive loro tipiche.
Quindi a ciascuno il suo. Se le grandi banche continentali hanno usato la finanza per lenire le pene di Basilea e le due principali banche italiane hanno modificato il mix delle attività di bilancio, riducendo il credito all'economia rispetto ai titoli di stato, le altre banche italiane, in specie quelle contrassegnate da siffatte peculiarità/debolezze di governance, avrebbero dovuto prepararsi meglio e in tempo prima di presentarsi allesame di questi ultimi mesi. Invece sono andate avanti come se nulla fosse, pensando che sarebbero state sufficienti operazioni sul capitale da approntare all'ultimo minuto. A qualcuna è andata bene, ad altre meno, avendo superato la prova davvero per il rotto della cuffia. Le eccedenze di poche decine di milioni dopo le misure di rafforzamento varate da 4 banche su 15 lasciano facilmente prevedere che la loro propensione al rischio di credito sarà in futuro praticamente nulla: Veneto Banca eccedenza 24 milioni di euro, Popolare di Sondrio 26, Popolare di Vicenza 30 e Credito Valtellinese 50 (quest’ultima poi uscita dalla lista perché, al termine dei conteggi, non in possesso dei parametri dimensionali previsti). A queste sono da aggiungere MPS e Carige con i noti, cospicui deficit. Ma sta di fatto che per tutti, mercato in testa, la valutazione che conta era quella misurata alla partenza, dove nessuna banca dei grandi paesi europei si è fatta cogliere impreparata. Le nove italiane, su 25 bocciate, sono infatti rimaste in compagnia di banche greche, slovene, cipriote....
E ora?
Pensavamo, prima di conoscere i risultati finali, che il sistema bancario si sarebbe diviso tra banche assoggettate alla vigilanza diretta della Bce – cioè tutte le 15 esaminate - e le restanti assoggettate alla vigilanza indiretta cioè tutte le banche locali, le piccole popolari e le bcc e compagnia cantante. Si scommetteva insomma che gran parte del sistema si assicurasse lEuropa e la vigilanza comune.
Sappiamo invece oggi che il treno su cui viaggiano le nostre banche ha tre classi e non due. In prima viaggiano le due banche maggiori fermamente ancorate al mercato europeo, in seconda banche medie, alcune delle quali presentano difficoltà strutturali avendo superato di poco e con grande sforzo il passaggio europeo, in terza classe, infine, tutte le restanti istituzioni. In seconda e terza classe troviamo banche davvero problematiche i cui nomi sono cronicamente sulla stampa quotidiana anche per essere, alcune di esse, commissariate. Una sola operazione di aggregazione, peraltro tra banche interprovinciali, è stata nel frattempo annunciata. Anzi i pur limitati superamenti degli stress test fanno, un po' spavaldamente, dire ad alcuni esponenti aziendali di essere in grado di proseguire la loro strada in piena autonomia. Anche questo ci spinge ad affermare che non abbiamo ancora imparato la lezione che, in situazioni come quella descritta, non si possa procedere caso per caso, riconoscendo una buona volta che, trattandosi di criticità a più ampio raggio, occorre una visione di insieme e una forte azione di politica creditizia. Questo è l'auspicio che chi scrive si sente di formulare, avendo anche ben presenti i ripetuti, quasi noiosi, richiami al localismo bancario, considerato un po' acriticamente, assoluto fattore di distinzione e di sviluppo del paese. Quel tempo, che ci ha comunque portato ad avere un sistema configurato come l'attuale senza considerarne gli elevati costi impliciti ed espliciti, è passato da un pezzo. E forse è anche il momento che una spinta alla sua rapida riconversione diventi istanza politica, per suffragare le speranze di una ripresa economica ancora di la' da venire. Riconoscere l'esistenza di una questione bancaria fa parte del mosaico da ricomporre.
Circolava in questi giorni a Francoforte un aneddoto riferito a un alto funzionario della vigilanza europea che, di fronte alla lista delle 15 banche italiane, pensava che vi fosse un errore, dato che nella piccola città di Sondrio (50.000 abitanti) risultavano coesistere ben due banche popolari aventi rilevanza sistemica.
Gli è stato risposto che non c'era nessun errore.
Se non fossimo stati sufficientemente netti, lo ripetiamo. Noi pensiamo fermamente che per le banche della II e III classe sia indifferibile procedere ad aggregazioni e fusioni intorno a credibili progetti industriali affidati a una nuova classe dirigente che punti sulla tecnologia e risponda professionalmente a strutture proprietarie meno farraginose e complesse. Forse solo a queste condizioni potranno riprendere adeguati flussi di credito a favore dell'economia.
Ma già, dimenticavamo che da ieri, 4 novembre, le responsabilità di vigilanza sono ormai saldamente in mano alla BCE!



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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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