"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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sabato 30 novembre 2019

Prescrizione, chi ha interesse a mantenerla


Il dibattito sullo stop ai tempi della prescrizione alla sentenza di primo grado sarebbe surreale se non nascondesse interessi molto concreti e tutt’altro che limpidi. Chi si oppone a questa legge afferma che allungherebbe i tempi del processo. Vero, ma questo avviene su processi già lunghissimi che sono l’autentico nocciolo della questione, di cui parleremo più avanti. Per l’intanto la nuova legge se entrerà in vigore offre enormi vantaggi. Con l’attuale regime i magistrati vengono demotivati perché già durante l’iter del processo sanno che il loro lavoro cadrà nel nulla. Lo Stato (cioè noi cittadini) spende un fracasso di soldi altrettanto per nulla. Non c’è la certezza della pena. La parte offesa non otterrà mai alcuna soddisfazione. Per evitare questa legge che Di Maio ha definito giustamente “di assoluto buon senso” gli oppositori ricorrono a un escamotage: la legge deve essere subordinata a una preventiva riforma del Codice di Procedura penale. E’ come dire: non se ne fa nulla. La precedente riforma, quella curata da Giandomenico Pisapia insieme a uno stuolo di giuristi, ha voluto un lavoro durato dieci anni per partorire peraltro un obbrobrio, un ibrido fra sistema accusatorio e inquisitorio che non ha funzionato.
La riforma del Codice di Procedura penale, nel senso di uno snellimento dei processi, dovrebbe quindi correre in parallelo con la legge sulla prescrizione e non rimandarla alle calende greche. Ad opporsi alla legge sono soprattutto quei partiti, Forza Italia e Pd in particolare, che hanno nel loro dna una particolare propensione a delinquere come dimostra l’infinità di loro imputati in attesa di un giudizio definitivo. Costoro se la caveranno perché la legge non può essere retroattiva. I loro successori no. Secondo la ricostruzione di Antonella Mascali sul Fatto nel solo 2018 i processi caduti sotto la mannaia della prescrizione sono 117.367 e al primo posto ci sono i reati in materia edilizia, 13.260. E qui casca l’asino perché i “reati in materia edilizia” sono quelli propri di ‘lorsignori’: corruzione, appalti truccati, traffico di influenze, finanziamento illecito ai partiti.
Il nocciolo della questione non è quindi la legge sulla prescrizione ma l’abnorme durata del nostro processo che va a incidere, fra le altre cose, sulla durata, spesso altrettanto abnorme, della carcerazione preventiva e sulla possibilità o meno, durante la delicata fase delle indagini preliminari, di dare informazioni sull’attività degli inquirenti. Al segreto istruttorio, in questa fase, si oppone, bisogna pur dirlo, un’altra casta, quella dei giornalisti.
Alleggerire le procedure quindi. Purtroppo il sistema giudiziario italiano ha preso dal diritto bizantino, una stupenda cattedrale fatta di pesi e contrappesi, di ricorsi e controricorsi, di revisioni e controrevisioni, di misure e contromisure, che dovrebbe eliminare l’errore e invece finisce per favorirlo perché a distanza di tanto tempo i testimoni non ricordano o sono morti, le carte sono ingiallite, illeggibili e a volte scomparse. Il sistema anglosassone prende invece dal diritto latino (di cui noi dovremmo essere gli eredi, ma non lo siamo) un diritto di matrice contadina, pragmatico, efficiente, che sconta la possibilità dell’errore a favore della velocità dei processi. Il nostro impianto giudiziario, già farraginoso per queste ragioni storiche, negli ultimi anni è stato ulteriormente appesantito da leggi ‘pseudogarantiste’ che sembrano fatte apposta per salvare i furfanti. Perché l’interesse dell’innocente è di essere giudicato il prima possibile, quello del colpevole il più tardi o possibilmente mai come è avvenuto tante volte a partire dall’entrata in campo’ di Silvio Berlusconi. Ritorniamo quindi alla nostra matrice latina. Un passo indietro che sarebbe in realtà un grande passo in avanti.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2019)

lunedì 25 novembre 2019

“Eppure, avevo pensato che”



Qualche tempo fa raccontavo a un amico che un mio vecchio capoufficio aveva la caratteristica di riciclare, in qualche modo, idee che aveva appena sentito proferire dai collaboratori.
Lui ascoltava in maniera apparentemente distaccata le eventuali ipotesi di soluzione per problematiche che necessitavano scelte. Gli erano sufficienti un paio d’ore per elaborare e sentirgli dire: “eppure ragazzi, avrei avuto un’idea” e andava a esplicitare come fosse sua l’idea che aveva distrattamente recepito e che, in assoluta buona fede, spacciava come una sua illuminata intuizione.
Se si fa mente locale si tratta di un fenomeno molto diffuso, ancor più di quanto si creda,  che, nel caso approdi a risultati positivi, costituisce comunque un passo importante per la soluzione di qualsiasi problematica.
Certo, magari alla lunga, può dare anche fastidio non tanto l’imputazione della paternità ma il fatto di non essere mai gratificati nell’estensione della idea proposta, spesso risolutiva.
In ogni modo, scoperto l’arcano e studiato il soggetto, noi collaboratori eravamo avvezzi a buttare giù quasi distrattamente l’idea risolutiva nell’attesa che il capo, lento ad assimilarla, la facesse diventare sua.
Era un modo certo per non scalfire l’orgoglio di capo ed era così che noi, con un innocente stratagemma, raggiungevamo puntualmente lo scopo.
Altra tendenza sempreverde è anche quella di mettere, come si usa dire, il capello su tutto quello che ormai si delinea come un sicuro successo. Di regola costituisce un vezzo della politica, ma anche in altri ambiti trova piena applicazione.
Chi si adopera nei settori organizzativi sa bene quanto sia complesso coordinare e combinare i tanti tasselli necessari per la buona riuscita degli eventi. In genere il lavoro oscuro che c’è dietro ogni organizzazione è quasi dato per scontato e chi si propone a presenziate a inaugurazioni o, come si usa dire, l’utilizzazione finale viene individuato e acclamato come fosse il creatore del tutto, l’ideatore della complessa macchina che ha generato e che conduce in scena.
Aneddoti al riguardo non mancano e ciascuno ne avrà vissuto di personali, ma questo pensiero scritto nasce dall’avere assistito all’ennesimo opportunismo dei politicanti che si buttano a pesce su qualunque cosa li possa porre in risalto, occupando ogni cono di luce.
Qualche giorno fa ero presente alla conferenza stampa dell’ennesima maratona cittadina che, grazie all’ampiezza organizzativa e alla rilevanza assunta nel panorama internazionale, quest’anno annoverava quasi duemila partecipanti rappresentanti di ben trentotto nazioni.
Premesso che negli ultimi tempi sono stato sempre presente nella presentazione dell’evento, notavo che per l’edizione che si andava a presentare c'erano, tra gli altri, il vicesindaco cittadino e l’assessore regionale al turismo e spettacolo.
Assodato che le presenze politiche in passato erano sempre state di ben più bassa caratura, mi ha impressionato in particolare la leggiadria del giovane esponente regionale nell’asserire che da sempre loro avevano supportato l’evento intervenendo anche alle conferenze stampa precedenti.
Non ricordo di aver mai visto un esponente regionale di tale caratura nell’ultimo decennio, ma il palcoscenico offerto evidentemente era assai allettante e costituiva un’occasione "politica" che non andava persa. Meglio metterci il cappello sopra, allora.

 © Essec


venerdì 22 novembre 2019

Evviva, è arrivato il popolo delle sardine.


Senza voler essere disfattisti, l’ultima moda politica dell’italiano medio, di quello insofferente e propenso alla critica costante, che vuole tutto, ora e subito, sembra essere quella del “popolo delle sardine”, che oggi cerca di coalizzarsi in una pseudo resistenza preventiva “antisalviniana”.
Lungi da me dal dire che il pericolo di una svolta destroide anomala, ignorante e populista non sia un problema reale, ma dall’altro lato del campo non è che le cose, per come si delineano, vadano poi tanto meglio.
Dopo aver passivamente subito e sopportato un’evidente deriva a destra avviata da improvvisati leaders arrivisti, impegnati a occupare spazi lasciati vuoti da una dirigenza di sinistra “progressista” non all’altezza - distratta sostanzialmente a scimmiottare, per conquistarsi la benevolenza di quei poteri “economicofinanziari” dediti esclusivamente al profitto - come si suol dire, scioltasi ora la neve il “popolo bue” di orientamento socialista vede affiorare le tante buche profondamente scavate.
Indipendentemente da quello che gli succede intorno, per il militante di sinistra in genere la colpa è sempre degli altri, per principio e a prescindere.
Di regola nel suo argomentare il termine usato nei suoi discorsi non è quello: “mi sono spiegato” ma quasi costantemente: “hai capito” ….. e già questo costituisce un grande problema nell’approccio dialettico minimale con chiunque venga ad essere l’interlocutore.
Al riguardo mi sovviene un aneddoto personale. Particolarmente efficace fu quella volta l’intervento che venne a fare un delegato sindacale in azienda quando, in un’animata disputa in cui emergevano forti dissensi e visuali strategiche alquanto differenti, ebbe a dire che noi non capivamo nulla e che solo lui era in grado di capire la reale portata dei problemi. Al di là del fatto che magari potesse anche avere ragione in quella circostanza, il delegato in questione tenne a evidenziare la “presunzione di superiorità” di chi esercita una delega. Perdeva, evidentemente di vista il fatto che le cariche di qualunque genere ricoperte, se rappresentative, non attribuiscono in ogni caso superiorità oggettive e chi temporalmente le esercita ha il dovere e l’obbligo di esplicitare sì il suo punto di vista, ma anche di rimettersi in ogni caso all’orientamento della maggioranza che lo ha legittimato. Una forma di dissenso concesso sarebbe, nel caso, quello di avanzare le proprie dimissioni. Rinunce e dimissioni però oggigiorno, salvo sparute eccezioni, non sono di moda, specie per coloro che si sono molto impegnati non tanto per portare avanti proprie visuali politiche ma per raggiungere principalmente posizioni di potere.
Tornando a noi, un popolo disilluso dalla crisi di valori e toccato dalla recessione economica ha prima alimentato la massa degli astenuti e avulsi dall’impegno civile minimale di partecipazione al voto, poi in parte ha reso reale un’operazione politica chiamata “Cinque Stelle”.
Un’operazione che ha subito alimentato le speranze dei tanti, che ha realizzato la possibilità di rendere fattibile un’idea sostanzialmente utopistica e che in poco tempo ha raggiunte livelli di successo imprevedibili e insperati.
Anche qui la sinistra ha effettuato un ennesimo errore, individuando il risultato crescente del movimento non come un’opportunità di cambiamento per se ma classificando i nuovi arrivati come degli “abusivi” di un esercizio politico riservato per "volontà divina" solo a loro.
Era ed è evidente che l’irrazionale crescita di un movimento improvvisato avrebbe portato alla ribalta anche personaggi inadatti e non all’altezza dei compiti, ma anche qui quelli di sinistra, anziché domandarsi del perché non ricevevano più - e da tempo - un consenso popolare si intestardivano a denigrare i presunti “infiltrati abusivi”. 
In questa operazione, forse inconsciamente, hanno dato una inaspettata forza alla fazione destrorsa che ha sempre visto come fumo negli occhi i nuovi arrivati, assurti agli scranni parlamentari in forza della validità delle loro proteste. Ma una cosa è fare opposizione e cosa diversa è amministrare la cosa pubblica nella veste istituzionale.
Ma qui non sono stati responsabili esclusivamente i dirigenti dei partiti di “avanti popolo” ma anche i molti supporters delusi. 
Appagati nell’esaltare l’uso improprio del gerundio di taluni o del possibile lapsus di soggetti assurti a parlamentari dalla società civile ordinaria, l’esperto e acculturato popolo di sinistra ha perfino legittimato l’OPA politica di un gruppo locale toscano che in maniera cinicamente scientifica, cavalcando consenso attraverso social e bombardamenti mediatici, nel ricercare appoggi delle classi che contano, ha smantellato decenni di conquiste sindacali del mondo del lavoro frutto di lotte e chi più ne ha più ne metta.
Ancora una volta l'occasione offerta di una pletora di ragazzi, anche ruspanti, armati dall'entusiastico desiderio di voler scardinare un sistema incancrenito e succube delle molteplici lobbies che controllano l'ordinamento sociale, non è stata raccolta come una opportunità di cambiamento, per cercare di portare le innovazione teoricamente coltivate e che da sempre sono state custodite nei cassetti, anche nei loro cassetti.
Oggi sorge un popolo delle sardine che vorrebbe affrancarsi dal possibile destino del pesce in conserva. Occhio ai sacchi di sale che circolano in giro!
Ma finchè c’è vita c’è speranza, nei tempi di berlusconiana memoria vennero i girotondi, poi altro ancora ma con la costante e l’errore di non attenzionare mai chi ogni volta stava alla guida di ogni movimento di protesta.
Sono convinto che soggetti meritevoli di fiducia ce ne siano ancora e tanti nel nostro paese. Il problema sta nel fatto che prevalgono e si mettono ancora in luce le ambizioni di taluni che, ancorchè supponenti, sono capaci di conquistare facilmente le masse assetate di riscatto, che ancora ci sono ma che la rabbia ha però irrimediabilmente reso miopi, nella loro spasmodica ricerca di ritrovare finalmente un "buon pastore" che li guidi verso un futuro migliore.

 © Essec


sabato 16 novembre 2019

“La regola dell’equilibrio” un romanzo di Gianrico Carofiglio


Ho appena finito di leggere il libro dal titolo “La regola dell’equilibrio” di Gianrico Carofiglio. E’ uno di quei romanzi in cui il suo soggetto preferito come protagonista, l’avvocato Guido Guerrieri, si districa in problematiche giudiziarie, evidenziando peculiarità di quel mondo complesso e spesso nebuloso.
Questo romanzo, anche a detta di molti critici e lettori, contiene in diverse parti dei tecnicismi specifici che non rendono facile la lettura per chi non è addetto ai lavori ma, isolando per un po’ questi aspetti o, per meglio dire, ridimensionando l’enucleazione di prassi/cavilli in uso nei procedimenti giudiziari, evidenzia l’enorme complessità che caratterizza quell’universo e l’italiano in particolare.
Le vicende narrate e le differenti angolature con le quali si può avviare qualunque procedimento in contenzioso, investigativo, di accusa, di difesa, giudicante, fanno emergere come sia alquanto complicata e variegata l’intera materia.
Il racconto, senza voler anticipare nulla sul finale, narra di un magistrato che diviene oggetto di un’indagine giudiziaria e che si affida per la sua difesa a quello che lui reputa il più integerrimo e valido legale presente nella piazza di Bari, che peraltro è anche stato suo collega nel corso di laurea in legge conseguita nel locale ateneo.
Quindi, il caso, per i tempi che corrono, si rivela abbastanza attuale e le dinamiche che via via si vanno a sviluppare non sono da meno.
Capita spesso che, nel leggere un romanzo, il lettore possa intravedere a distanza un percorso parallelo. Talvolta, cioè, quello che stai leggendo si accosta in maniera assai curiosa ad avvenimenti che hai tu stesso vissuto o che stai, magari con qualche debita variante, vivendo in quello stesso momento. Le considerazioni che possono nascere in questi casi risultano per chi legge, quindi, intriganti e molteplici.
Partirei col dire già che in vicende legali è sempre fondamentale saper scegliere un buon legale, anche se ciò non basta.
Il professionista prescelto oltre a dover essere di fiducia deve anche essere preparato, scaltro, duttile e propenso a capire a volo le tante variabili che possono in ogni momento imprevedibilmente mutare, cambiando di colpo la staticità originaria della problematica di base; in più - e non in ultimo - deve anche avere una buona capacità comunicativa verso l'assistito, coinvolgendolo opportunamente nel saperlo indirizzare a scegliere il meglio per ogni decisione.
Al di là dell’eventuale fase dibattimentale, un buon avvocato deve cioè saper approfondire – con l’aiuto del suo assistito e con la capacità di analisi asettica che il ruolo impone – la questione da gestire. In più, oltre a trovare il bandolo principale che gli possa consentire di svolgere la matassa, deve anche saper ben fotografare l’apparato difensivo messo in piedi dalla controparte.
Inoltre, escludendo possibili incompetenze o incomprensioni sul nocciolo della materia in esame, è compito di un buon legale quello di focalizzare con immediatezza gli aspetti centrali della vicenda e andare a valutare i possibili risvolti che eventuali azioni da intraprendere possano ulteriormente innescare.
A questo punto possono insorgere accadimenti come quelli narrati nel romanzo ovvero: chi ci assicura che il legale scelto tuteli veramente i tuoi interessi? Oppure, nel caso in cui il professionista valuti la questione inadeguata al suo livello, può capitare che la negligenza e la superficialità applicata possa determinare un “vulnus” che vada a pregiudicare possibili azioni future?
Nel caso di problematiche deontologiche, per esempio, avviare un’azione in cui si affermino presupposti che possano poi essere impugnate contro la stessa parte offesa, contro cioè chi intenta la causa, costituisce certamente un errore alquanto plateale, ma, anche in questi casi può sorgere il dubbio, ovverossia: quanto ciò può solo imputarsi al caso? Del resto, anche in ambito calcistico è una costante il fatto che tutti gli “autogol”, seppur involontari, restano dei tiri imparabili e spesso sono decisivi nell’esito del finale di una partita.
Esperienze passate mi hanno insegnato che quando si analizza una questione, qualunque essa sia e a prescindere della complessità della stessa, occorre avviare una disamina asettica e autonoma, senza che sussistano pregiudizi e procedere studiando il caso per l’unicità che esso rappresenta, a prescindere anche dagli eventuali punti di comunanza con casistiche similari. Ne deriva che per ogni questione è necessario un percorso originale e, comunque, a sè stante.
Il mondo della giustizia, come efficacemente racconta Carofiglio nel suo romanzo è affollato da una fauna promiscua e non sempre sono immediatamente distinguibili le specie e le "razze" che si districano nelle aule giudiziarie. 
In un precedente scritto in cui mettevo in luce le anomalie dei soggetti come i giudici Falcone e Borsellino, assurti a eroi post mortem, avevo già illustrato il panorama giurisdizionale palermitano e grossomodo, a tutt’oggi, sembra che non sia cambiato molto. E, in questo, non credo neanche che il fenomeno vada a costituire un caso isolato rispetto al panorama nazionale.
Del resto, quando si approccia a intentare una causa – e di qualunque genere – la prima cosa che ti dice qualsiasi legale è che, indipendentemente dalle frecce che si hanno in faretra, il risultato finale è sempre incerto. Dipende dall’abilità dei legali coinvolti, dalle “conoscenze”, dalla validità degli elementi di prova e non ultimo e forse principalmente da chi sarà il “giudice” chiamato a dirimere e giudicare il caso.
Discorso a parte meriterebbero poi fattispecie di corruttela, più o meno velata, più o meno grave, più o meno accertabile.
In conclusione appare quindi discutibile la dizione che recita “la legge è uguale per tutti” apposta nelle aule dei tribunali, forse, nel caso,  apparirebbe più realistico il titolo di un altro libro, scritto in questo caso dal siciliano Pif , ovvero “futti futti cà Dio perdona a tutti”.
Nella quarta di copertina del romanzo di Gianrico Carofiglio si legge: “Quando chiudemmo il verbale e l’udienza, lo spiacevole sentore della parola calunnia aleggiava sul procedimento. Tutti sapevamo che in qualche modo sarebbe rimasto lì, e tutti sapevamo che la procura avrebbe dovuto trovare qualcosa di molto solido, se non voleva che quel fascicolo finisse nella discarica delle archiviazioni o dei proscioglimenti”. 

© Essec


martedì 12 novembre 2019

E non c'indurre in tentazione. Amen.



Tempo addietro, seduti al solito bar, per il solito caffè addolcito con zucchero di canna per lui, amaro per me, l'amico Nino mi porse la classica domanda: "ma secondo te c'è nulla di veramente originale nelle idee umane dei nostri giorni?" Ne discutemmo a lungo, per poi  alla fine convenire che nella quasi totalità dei casi c'era già stato qualcuno che quella cosa l’aveva già pensata prima, almeno nei fondamentali.
Spesso esistono prove scritte e studi di autori/pensatori minori che ci hanno preceduto nel tempo, in qualche caso anche relativamente remoto, rimasti talvolta dimenticati o poco valorizzati dalla storia, nella confusione del mondo che macina con la sua ruota incessante. Sono anche quei personaggi nei quali talvolta ci imbattiamo casualmente con le nostre letture.
L'invenzione della scrittura, quindi, li testimonia senza alcuna ombra di dubbio, come pure i racconti tramandati o quelle tradizioni attive che comprovano quasi tutto, portandoci indietro sulle vere origini di tante ispirazioni/intuizioni, spesso oggi millantate per nuove. C’era già stato, quindi, qualcuno che lo aveva immaginato o detto!
Se fosse stato tutto quanto scritto forse molte altre idee non sarebbero state disperse, ma in ogni caso le rielaborazioni nel tempo e nello spazio di tante immaginazioni costituiscono sempre un arricchimento, dei passi avanti, perché le idee necessitano di continue verifiche e esperimenti.
Se pensiamo alla ruota, quell'invenzione primordiale è stata straordinaria, ma altrettanto nobile e meritevole di elogio sono state le sue applicazioni e le evoluzioni successive, a partire dalla carriola e poi il carro, la bicicletta, l'automobile. Tutto è nato dall'invenzione della pietra circolare, il resto è stato la naturale evoluzione immaginata dalla mente umana e ogni stadio e livello ha avuto una nobile funzione, a prescindere della cultura vigente in ogni tempo.
Chissà perché ma da taluni le idee, se son loro ad averle, vengono congelate e assunte come fossero esclusive e guai se altri s’ispirano a quel canovaccio e, nel caso, sviluppano ulteriormente quell’originaria intenzione.
Il marchio d’esclusiva, per loro, sembrerebbe valere a prescindere dai contenuti, dal tema che si è chiamati a svolgere, dalle parole da usare, dalla specifica natura del racconto.
E’ come dire, tu non puoi fare un film che dura 54 minuti perché di questa durata di tempo l’ho pensata già io e se fai un cortometraggio di 24 minuti, mi stai copiando l’idea. Ovvero, forzando il concetto, è un voler mantenere l’esclusiva delle parole, come se non fossero dei termini base di uso comune che si rendono necessari per una composizione, per lo svolgimento di un discorso o di una qualunque forma di comunicazione artistica.
Il termine “albero” è mio e guai a chi me lo tocca. “Incantevole” l’ho inventato io e nessun altro lo può scrivere o pronunciare senza che io lo autorizzi.
Roba da non crederci direi ……. Ma lasciamo che tutti i sapiens creativi possano essere protagonisti.
Direi pure che se qualcuno mette a disposizione una chitarra a me che non so suonare, non potrà generare tentazioni di copiature o ingenerare ispirazioni simili; magari a un altro che conosce la musica l’indurrà a creare una nuova melodia, composta sì da note sempre uguali e alla portata di tutti.
Nel caso, acclarata l’originalità del nuovo brano, pur fatto utilizzando sempre le solite note, nessuno andrà a sostenere che si sarà trattato di un plagio. Ma, a dire il vero, ripensandoci, il mondo degli artisti è veramente strano e imprevedibile e le copiature sono sempre dietro l’angolo a “indurre in tentazione”.

Buona luce a tutti! 

© Essec


venerdì 8 novembre 2019

La radicalità come strategia retorica delle destre. La finestra di Overton


Qualcuno si stia svegliando dal torpore, dopo aver passato decenni a sottovalutare le destre, ripetendo il mantra che si tratti di quattro cretini, o comunque di comportamenti minoritari. Dicono che hanno vissuto gli anni’70, poi gli “anni di piombo” e che il pericolo in fondo è già scampato.
Se oggi sentiamo il bisogno di mettere sotto scorta i testimoni diretti del nazi-fascismo, ridotti sempre di più dal ricambio generazionale, evidentemente la nostra memoria collettiva si è indebolita oltre misura.
Questa amnesia generalizzata, sotto i colpi delle crisi cicliche del sistema capitalista, come quella del 2008, dimostrano che non siamo abbastanza immuni da quella che Croce chiamava “una malattia morale” e che oggi assume sempre più marcatamente anche i caratteri di una malattia culturale.
I suoi sintomi febbrili riscaldano il corpo sociale che individua quel virus che è sempre lo stesso, confezionato e conservato per essere scatenato al momento opportuno al fine di vessare gli ultimi e dividerli e governarli.
Eppure questa febbre nera ormai si è diffusa in molti paesi. E forse quei “tiepidi” che hanno sottovalutato questo pericolo se ne stanno pentendo. Forse pensano che, nell’illusione che la lotta sia tra sovranisti ed europeisti, alla fine il mercato vincerà, come se il mercato non fosse uno dei due volti dello stesso potere, quello (forse) “più esteticamente accettabile” rispetto a quello dei muscoli dei nazionalismi.
Molti oggi sono sorpresi nel vedere Lega e Fratelli d’Italia al 40%. Ma se ci chiedessimo in quale momento nell’opinione pubblica abbiano iniziato a fare strada le idee di destra, convinti che la gente non avrebbe ripetuto gli orrori del passato, limiteremmo la risposta agli effetti della crisi economica e al fatto che nel disagio da essa provocato, serpeggiano i semi del consenso di queste destre.
Ma il consenso si produce diffondendo delle idee e spesso sottovalutiamo i messaggi radicali che vengono da tempo iniettati nel dibattito pubblico, prima ancora della crisi economica.
Il punto è quindi eminentemente culturale e riguarda il modo in cui vengono sdoganate le idee razziste nell’opinione pubblica. Non si tratta di un procedimento improvviso, bensì lento e invisibile, che passa attraverso dei pensieri radicali prima estremi ed inaccettabili, ora chiamati solo “duri” o “forti”, inoculati periodicamente, non direttamente o non solo, dai politici di estrema destra, ma anche dai loro intellettuali e giornalisti.
La strategia è semplice: le estreme destre influenzano la cultura di massa per vincere le elezioni. Un’idea radicale diventa moderata se sorpassata da un’idea ancora più radicale, fino alla conquista dell’egemonia culturale.
Il ruolo chiave spetta ai media, in mano ai gruppi di interesse o di potere che rincorrono una sola logica, quella dell’audience. L’elemento più grave è che l’audience o le visualizzazioni, le “leggi supreme” del mercato televisivo o social, favoriscono questo tipo di pensieri radicali o estremi, dandogli visibilità.
I vari provocatori come Sgarbi, Feltri, Giordano, Belpietro, Ferrara, Grillo, Salvini, Meloni, hanno spinto il limite dell’accettabile, introducendo nel dibattito idee, prima inaccettabili. Sgarbi, il meno politico tra questi, e per questa ragione il più fintamente innocuo, è l’esempio più eclatante di questa funzione.
Sia che si prenda sul serio quello che dice, sia che lo si bolli come personaggio provocatore costruito, sia che si rida per la sua violenza verbale “fuori le righe” questo non gli impedisce di introdurre qualcosa di nuovo che entra nel dibattito.
Le loro idee inizialmente impensabili, radicali, a forza di essere dette, spostano a colpi di risata, di un poco il campo, o meglio “la finestra” dei pensieri possibili.

Un sociologo ha spiegato questo con la “finestra di Overton”.
Overton descrive uno schema di idee dalla “più libera” alla “meno libera” riguardo l’azione del governo, rappresentata su un asse.
Prendiamo l’esempio del cannibalismo che è considerato immorale e condannabile nella società studiata. A questo stadio il cannibalismo si trova al livello più basso di tolleranza nella finestra: è impensabile ed inaccettabile.
Per fare cambiare l’opinione pubblica si trasforma il tema in argomento scientifico, che per statuto non ha limiti di investigazione. Un piccolo gruppo di “estremisti” pro-cannibalismo espone l’idea nei media e questa opinione diventa radicale. Il cannibalismo non è più un tabù.
Il passaggio seguente è che l’idea radicale diventi piano piano accettabile. Chi continua a percepirli come intransigenti verranno tacciati di fanatici che si oppongono alla scienza, contribuendo a modificare il linguaggio. Ad esempio nel caso del cannibalismo si parlerà di antropofagia o di antropofilia. Il dibattito pubblico integra progressivamente questa idea anche se non è ancora completamente accettata.
In seguito il cannibalismo può passare da accettabile a ragionevole portando esempi di giustificazione in casi estremi, come in quello di una carestia e del relativo spirito di sopravvivenza. Esempi di giustificazione vengono poi generalizzati.
Infine l’idea diventa popolare tramite canali culturali, per esempio (banale) dei film di zombies. Infine i gruppi di pressione cercano una rappresentazione politica che legalizzerebbero l’idea inizialmente impensabile.
Questo procedimento rappresentato dal sociologo si è svolto e si svolge quotidianamente sotto i nostri occhi, spostando ogni giorno i limiti di questa finestra allargata nella direzione voluta dai centri di potere.
Esso è accompagnato da una tendenza generale a minimizzare gli eventi, come lo dimostrano i fatti di Verona (cori a Balotelli), al Lucca Comics, o la dichiarazione dello “stato d’emergenza nazismo” a Dresda. Il partito di Angela Merkel ha infatti parlato di “puro simbolismo” e di “errore linguistico”.
Lo sdoganamento di pensieri e comportamenti razzisti è calcolata ed accettata persino da quei tiepidi e moderati liberali-liberisti che pensano di poter giocare “al lupo al lupo” contro l’ondata nera credendo di poterla cavalcare. Speriamo che, come già accaduto in passato, non finiscano per aprirgli definitivamente le porte. Noi restiamo vigili.


 

mercoledì 6 novembre 2019

Ibrahim e mi chiede quanti centesimi mi mancano


Stazione metropolitana. È l'alba. Sempre di fretta corro verso l'unica macchinetta per l'acquisto dei biglietti.
Un ragazzo di colore tocca il display ma è in difficoltà, si guarda attorno, poi mi vede. Siamo da soli io e lui in tutta la stazione. Intuisco che ha qualche problema ma che è timoroso nel rivolgermi la parola. Mi avvicino e gli chiedo se ha bisogno di una mano. Gli si illuminano gli occhi, mi rivela che non sa fare il biglietto della metro, poi mi chiede se posso insegnarglielo. Senza esitare chiedo la destinazione e inizio a mostrargli i "passaggi" per l'acquisto del biglietto. Intanto inizia a raccontarmi di se e della sua giornata.. . Lui è Ibrahim, viene dal Senegal e oggi sarà una lunga giornata; dice che dovrà andare in giro per la città a fare lavoretti fino a tardi e che solitamente si sposta a piedi solo che stavolta la sua meta è troppo lontana ed è la prima volta che si spinge ad "avventurarsi" con la metro.
"Hai fatto bene"; gli dico. È arrivato il momento di inserire le monete. Ritira il biglietto, mi ringrazia e si allontana verso il binario.
È il mio turno, inizio a toccare lo schermo per fare il mio di biglietto quando all'improvviso mi accorgo che le monete non mi bastano e la macchinetta non prende contanti, mannaggia...
Si avvicina Ibrahim e mi chiede quanti centesimi mi mancano per l'acquisto del biglietto, non ho il tempo di rispondere che già lo ha letto sul display. Mette la mano in tasca e mi porge i 20 centesimi mancanti. Resto ferma per una frazione di secondo, avrei voluto che molta gente avesse visto quel gesto per tanti motivi. Lo ringrazio mille volte, inserisco le monete e ritiro il biglietto. Arrivo al binario e continuo a ringraziarlo e lui mi dice:
"Sono io che devo ringraziarti perché mi hai insegnato a fare il biglietto della metropolitana e sono sicuro che la prenderò più spesso". Mi fa un sorrisone, sta arrivando il mio treno, lo ringrazio ancora e vado via, lui aspetterà la metro per andare nella direzione opposta...
Mi siedo e inizio a pensare al fatto che questi gesti dovrebbero essere normali ma che negli ultimi tempi sembrano non esserlo più soprattutto da quando qualcuno vuole far credere che restare sola alla stazione con una persona dal colore di pelle diverso dal tuo sia sinonimo di morte sicura...
Io avrò insegnato a Ibrahim a fare il biglietto ma lui mi ha regalato un buon giorno bellissimo.

Pubblicato su FB da Carmela Catalano

 

lunedì 4 novembre 2019

TrapanInPhoto 2019 – 9^ Edizione



Anche quest’anno, dal 18 al 27 ottobre, si è rinnovato l’evento “TrapanInPhoto”, organizzato dall’associazione “I Colori della Vita” con la supervisione dell’instancabile Arturo Safina.
L’appuntamento è quindi arrivato alla nona edizione e alle consuete mostre collettive e personali, si sono anche succeduti altri importanti eventi e, non ultimo, si è svolta la consueta lettura di portfolio.
La domenica del 20 a leggerli quest’anno sono stati Silvana Turzio, Roberto Mutti, Pino Ninfa, Charley Fazio e Pippo Pappalardo.
Come osservatore e improvvisandomi un po’ video-operatore mi sono soffermato ai vari tavoli, sostando nei diversi capannelli che hanno fatto da cornice alle coppie formate dal proponente il portfolio e dal rispettivo esperto scelto per la lettura.
I lavori prospettati sono risultati interessanti, come sempre, talvolta intriganti e alquanto variegati, sia nella forma che nella sostanza.
Come ha detto l’amico Pippo, infatti e diversamente dagli altri appuntamenti della specie, in quest’occasione sono stati presentati portfolio aventi diverse tematiche e non solamente concentrati sui temi che vanno oggi di moda, ovverossia di migranti e affini.
Assistere alle letture è un modo di scoprire e apprezzare la fantasia e le tante possibili forme di grammatica e sintassi fotografica che ogni autore mette in campo per raccontare una storia.
Non sempre, però, le intenzioni del fotografo corrispondono all’intento, vuoi per la forma visiva scelta o per come la stessa è stata impaginata ma, in ogni caso, affascinano le argomentazioni che sgorgano in modo fluido dall’input iniziale.
In altri articoli ho avuto già modo di scrivere discernendo delle considerazioni sulle letture di Pippo Pappalardo e su come Giancarlo Torresani – altro noto esperto in materia – ci spiega cosa è in verità un “portfolio fotografico”; chi vuole può leggerli cliccando sopra i due nominativi.
Un esperimento che avevo avviato l’anno passato, esclusivamente sulle letture a confronto di mie fotografie e sempre a TrapanInPhoto, l’ho voluto ripetere anche in questa 9^ edizione. Questa volta, però, ho voluto documentare letture riguardanti lavori differenti, per consentire di osservare come da proposte differenti possano sempre derivare interpretazioni composite, complesse, mai banali e – in ogni caso – sempre costruttive per il proponente.
Nel postare sul web il link di una di queste letture (“Don Chisciotte” proposto da Antonella Messina), al fine di dare un’idea esplicita su come la penso, ho già scritto "Assistere a questa lettura di portfolio di Pippo Pappalardo è come ritrovarsi in un'aula universitaria durante una lezione di letteratura o di filosofia o di semiologia o di antropologia o di psicanalisi, fate voi. Gli argomenti trattati da Pappalardo sono sempre molteplici, complessi e incrociati in una composizione unica che adombra tante sfumature ma anche tanti contrasti forti. Chiaroscuri delicati e Neri assoluti - che si alternano nell’interpretazione del lettore - ripercorrono le pagine del poema del Cervantes, invitando infine l'osservatore a una personale lettura o rilettura del ‘Don Chisciotte’. 
Non occorrono altre parole, s’invita a seguire con attenzione il filmato per poter cogliere i tanti dettagli che arricchiscono la splendida operazione del "Critico" (con la "C" maiuscola) Pappalardo."
In conclusione indico di seguito tre links relativi a rispettivi video di questa 9^ edizione che ho anche stavolta postato su You Tube per un maggiore accesso pubblico e permettere di verificare agli appassionati e rispondere alla eventuale curiosità di non addetti ai lavori:
- “Don Chisciotte” di Antonella Messina https://youtu.be/kqbd6XPE-1M 
- “L’isola” di Gregorio Bertolini https://youtu.be/56cQD8Mar4A 
- “Lentamente” di Daniela Basiricò  https://youtu.be/-VyGUn7UbpE

Buona luce a tutti!

 © Essec


domenica 3 novembre 2019

TrapanInPhoto - Letture Portfolio di Pino Ninfa: "L'Isola" (di Gregorio Bertolini)


A.F.A. Sezione di Palermo



Certo di associazioni e circoli siamo pieni. Quasi tutti abbiamo tratto conclusioni creandone o transitandovi in alcuni semplicemente.
In genere le esperienze, almeno si dice, aiutano a crescere ma è certo che qualunque “aggregazione” è fatta di uomini e donne che, in relazione alle caratteristiche e qualità, possono determinare il successo o l’insuccesso.
Di recente, con un gruppo di amici sufficientemente collaudati, si è dato vita a una costola di un’associazione preesistente, allo scopo di non disperdere un gruppo che aveva già trovato un buon equilibrio di “pacifica coesistenza” nel convivere in una comune passione.
Confluiti da diverse esperienze, ci si era ritrovati in un’associazione storica palermitana che, per ragioni economiche e altro, era arrivata al punto che non poteva più continuare a mantenersi.
Dopo diverse ipotesi sperimentate per tenere in piedi in qualche modo - e con ipotesi organizzative e strutturali diverse - la baracca, si decise di dare vita a un’avventura nuova che, oltre a mantenere il gruppo “vagabondo”, tendesse a creare nuove opportunità e occasioni di incontri e di crescita.
Da qui è nata la Sezione palermitana dell’A.F.A., che ha già visto premiare l’impegno profuso con l’arrivo di nuovi soci, anch’essi appassionati di fotografia e pure loro alla ricerca di luoghi e persone nuove per svolgere attività “costruttive”.
Riducendo, quindi, al minimo i costi gestionali e, conseguentemente, di adesione all’associazione, ci si è concentrati nel convogliare idee e iniziative da sviluppare, immaginando le soluzioni su come realizzare le tante idee possibili.
Tutti gli associati sono qui abilitati a portare l'innovazione che necessita per mantenere vivo l’impegno e l’interesse; le proposte vengono argomentate, collegialmente discusse e viene infine deciso sul come portare avanti l'ipotesi di lavoro selezionata.
Costante rimane l’opportunità e la possibilità del più ampio e libero confronto, senza preclusione o pregiudizio alcuno.
Ciascuno, con le variegate proposte e sottoponendo altresì all’esame le proprie produzioni visive, illustra, esplicita, manifesta le proprie teorie/visioni sottoponendosi e accettando serenamente eventuali possibili critiche o di ascoltare i diversi punti di vista degli altri soci che, a turno, si pongono come osservatori e critici attenti.
Siamo già al secondo anno di attività e, oserei dire, che le prospettive augurano al momento un orizzonte alquanto luminoso.

 © Essec


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Dissertazioni su Street Art, ne vogliamo parlare? A cura di Toti Clemente

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Un'immagine, un racconto

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La fotografia è in genere un documento, la testimonianza di un ricordo che raffigura spesso persone e luoghi, ma talvolta può anche costituire lo spunto per fantasticare un viaggio ovvero per inventare un racconto e leggere con la fantasia l’apparenza visiva. (cliccando sopra la foto è possibile visionare il volume)

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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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