Il dibattito sullo stop ai tempi della prescrizione alla sentenza di
primo grado sarebbe surreale se non nascondesse interessi molto concreti
e tutt’altro che limpidi. Chi si oppone a questa legge afferma che
allungherebbe i tempi del processo. Vero, ma questo avviene su processi
già lunghissimi che sono l’autentico nocciolo della questione, di cui
parleremo più avanti. Per l’intanto la nuova legge se entrerà in vigore
offre enormi vantaggi. Con l’attuale regime i magistrati vengono
demotivati perché già durante l’iter del processo sanno che il loro
lavoro cadrà nel nulla. Lo Stato (cioè noi cittadini) spende un fracasso
di soldi altrettanto per nulla. Non c’è la certezza della pena. La
parte offesa non otterrà mai alcuna soddisfazione. Per evitare questa
legge che Di Maio ha definito giustamente “di assoluto buon senso” gli
oppositori ricorrono a un escamotage: la legge deve essere subordinata a
una preventiva riforma del Codice di Procedura penale. E’ come dire:
non se ne fa nulla. La precedente riforma, quella curata da Giandomenico
Pisapia insieme a uno stuolo di giuristi, ha voluto un lavoro durato
dieci anni per partorire peraltro un obbrobrio, un ibrido fra sistema
accusatorio e inquisitorio che non ha funzionato.
La riforma del Codice di Procedura penale, nel senso di uno
snellimento dei processi, dovrebbe quindi correre in parallelo con la
legge sulla prescrizione e non rimandarla alle calende greche. Ad
opporsi alla legge sono soprattutto quei partiti, Forza Italia e Pd in
particolare, che hanno nel loro dna una particolare propensione a
delinquere come dimostra l’infinità di loro imputati in attesa di un
giudizio definitivo. Costoro se la caveranno perché la legge non può
essere retroattiva. I loro successori no. Secondo la ricostruzione di
Antonella Mascali sul Fatto nel solo 2018 i processi caduti
sotto la mannaia della prescrizione sono 117.367 e al primo posto ci
sono i reati in materia edilizia, 13.260. E qui casca l’asino perché i
“reati in materia edilizia” sono quelli propri di ‘lorsignori’:
corruzione, appalti truccati, traffico di influenze, finanziamento
illecito ai partiti.
Il nocciolo della questione non è quindi la legge sulla prescrizione
ma l’abnorme durata del nostro processo che va a incidere, fra le altre
cose, sulla durata, spesso altrettanto abnorme, della carcerazione
preventiva e sulla possibilità o meno, durante la delicata fase delle
indagini preliminari, di dare informazioni sull’attività degli
inquirenti. Al segreto istruttorio, in questa fase, si oppone, bisogna
pur dirlo, un’altra casta, quella dei giornalisti.
Alleggerire le procedure quindi. Purtroppo il sistema giudiziario
italiano ha preso dal diritto bizantino, una stupenda cattedrale fatta
di pesi e contrappesi, di ricorsi e controricorsi, di revisioni e
controrevisioni, di misure e contromisure, che dovrebbe eliminare
l’errore e invece finisce per favorirlo perché a distanza di tanto tempo
i testimoni non ricordano o sono morti, le carte sono ingiallite,
illeggibili e a volte scomparse. Il sistema anglosassone prende invece
dal diritto latino (di cui noi dovremmo essere gli eredi, ma non lo
siamo) un diritto di matrice contadina, pragmatico, efficiente, che
sconta la possibilità dell’errore a favore della velocità dei processi.
Il nostro impianto giudiziario, già farraginoso per queste ragioni
storiche, negli ultimi anni è stato ulteriormente appesantito da leggi
‘pseudogarantiste’ che sembrano fatte apposta per salvare i furfanti.
Perché l’interesse dell’innocente è di essere giudicato il prima
possibile, quello del colpevole il più tardi o possibilmente mai come è
avvenuto tante volte a partire dall’entrata in campo’ di Silvio
Berlusconi. Ritorniamo quindi alla nostra matrice latina. Un passo
indietro che sarebbe in realtà un grande passo in avanti.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2019)