"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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domenica 30 giugno 2019

Le due curve Sud



La banchina di Lampedusa invasa da due fazioni di esagitati che salutano la capitana Carola Rackete appena sbarcata e arrestata, alcuni insultandola e altri esaltandola, è la perfetta rappresentazione di questo povero Paese che non riesce più a ragionare, ma solo a tifare. E a twittare. 
Chi volesse ragionare saprebbe distinguere tra ciò che ha fatto di buono la Sea Watch-3, cioè caricare da un gommone pericolante in acque libiche 53 migranti (un giorno magari le Ong ci sveleranno quale divina ispirazione le fa trovare sempre nel posto giusto al momento giusto nello sterminato Mediterraneo); e ciò che han fatto di inaccettabile, cioè infischiarsene della legge del porto sicuro più vicino (in Tunisia o a Malta) per creare l’ennesimo incidente politico col governo italiano, ricorrere al Tar contro il no di Roma e poi fregarsene della sentenza negativa, appellarsi alla Corte di Strasburgo e poi ignorare il verdetto contrario, violare i divieti di ingresso in acque italiane e di sbarco a Lampedusa, fino alla manovra spericolata e criminale di ieri, quando per poco non c’è scappato il morto tra i finanzieri della motovedetta schiacciata sulla banchina. Non lo diciamo noi fottuti giustizialisti. Lo dice il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio, non certo sospettabile di filo-leghismo visto che aveva chiesto di processare Salvini per sequestro di persona e abuso d’ufficio per il caso Diciotti e ora ha disposto l’arresto in flagranza della Rackete: “Le ragioni umanitarie non possono giustificare atti di inammissibile violenza nei confronti di chi, in divisa, lavora in mare per la sicurezza di tutti”. Lo ribadiscono gli uomini della Guardia di Finanza sulla motovedetta: “La Sea Watch non ha fatto nulla per evitarci, siamo stati fortunati: poteva schiacciarci”. E il Reparto Operativo Aeronavale delle Fiamme Gialle di Palermo parla di “un atto di forza inaspettato, un gesto irresponsabile che ti puoi aspettare da un narcotrafficante o un contrabbandiere su un motoscafo”. Cos’hanno fatto e cos’hanno da dire ora i parlamentari-crocieristi de sinistra saliti a bordo della Sea Watch per garantirvi la loro personalissima “legalità”? E i fan dell’eroina non potrebbero almeno smetterla di chiedere la liberazione di un’indagata che, magari animata dalle migliori intenzioni, commette illegalità che non verrebbero tollerate in nessuna democrazia del mondo? 
Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra la simpatia umana che ispira la giovane cooperante e le ragioni del diritto, che non autorizzano chi compie un gesto umanitario a commettere reati. 
E non c’entrano nulla con Salvini che chiede arresti e condanne come se fosse il padrone dei magistrati e passa dalla parte del torto annunciando che i 42 migranti “possono restare in mare fino a Natale”. Parole e condotte che vanno censurate duramente, senza per questo tacere le illegalità della Sea Watch. 
Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra l’apprezzamento per il coraggio di una donna che sfida le legittime leggi di un Paese che legittimamente non condivide con un atto di disobbedienza civile di cui si assume le conseguenze senza scappare né piagnucolare, opposta alla viltà di Salvini che dal suo processo è scappato grazie all’impunità parlamentare, e i doveri di uno Stato di diritto che non può farsi dettare la politica migratoria da un’Ong tedesca di bandiera olandese. 
Chi volesse ragionare saprebbe distinguere fra le leggi di uno Stato democratico come il nostro e quelle di regimi totalitari o autoritari come l’Italia fascista, la Germania nazista, il Sudafrica dell’apartheid e l’India colonia britannica. Ed evitare paragoni impropri fra la capitana e i partigiani della Resistenza, Mandela e Gandhi. Il governo italiano non è frutto di un golpe militare né di un’invasione: è espresso dalla maggioranza del Parlamento regolarmente eletto un anno e mezzo fa, appena plebiscitata da consensi persino superiori alle Europee del mese scorso. Dunque le leggi italiane, giuste o sbagliate che siano, sono perfettamente legittime e conformi alla Costituzione, a meno di non accusare di alto tradimento i presidenti della Repubblica che le hanno promulgate (incluso Mattarella) e di incostituzionalità la Corte costituzionale che, quando interpellata, le ha validate. Oltretutto i reati contestati alla capitana (resistenza a nave da guerra, tentato naufragio e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina) non li ha inventati questo governo, ma esistono nei codici dell’Italia e di tutti gli Stati degni di questo nome da tempo immemorabile. Certo, per battersi contro una legge c’è sempre la disobbedienza civile. Purché non venga spacciata per la nuova Resistenza, specie da chi, anziché salire sulle montagne, la combatte comodamente assiso sul suo bel sofà. 
Chi volesse ragionare vedrebbe che le due propagande, opposte ma speculari, della Sea Watch e di Salvini hanno motivazioni diverse, ma si alimentano a vicenda. La Sea Watch schiva i porti più vicini per puntare sempre solo sull’Italia perché sa di trovarvi il nemico perfetto: Salvini. E Salvini ha bisogno di una Sea Watch al giorno perché è il nemico perfetto per dirottare l’attenzione generale dalle vere emergenze a quella fasulla, ma elettoralmente più lucrosa: l’immigrazione che, purtroppo per lui, ormai scarseggia. Altrimenti gli toccherebbe spiegare se vuole votare o no, perché non espelle un solo clandestino, dove prende i soldi per la Flat Tax, dove sono finiti i 49 milioni rubati dalla Lega, cosa deve ad Arata&Siri, perché difende a spada tratta i Benetton, Arcelor Mittal e gli affaristi delle grandi opere inutili. Cioè, quel che per lui è peggio, gli toccherebbe governare.


 

giovedì 27 giugno 2019

Il "Metodo Falcone"


Vicissitudini professionali varie e non solo, che non vale la pena raccontare, mi hanno consentito di conoscere persone che, nonostante navigassero in contesti sociali complessi, proiettati verso il consociativismo, hanno e praticano principi etici di non comune morale. 
Qualche tempo addietro, a uno di questi amici, stante la sua profonda conoscenza delle questioni giuridiche e non solo, ho proposto di scrivere qualcosa su Giovanni Falcone. 
Suggerivo di sviluppare un profilo, non tanto dell’uomo ampiamente narrato dai tanti, ma di illustrare il personaggio secondo taglio squisitamente tecnico, mettendo principalmente in luce l’evoluzione professionale del magistrato, come quando si va a costruire con mattoncini lego, guardando da una visuale prospettiva giuridica e, perché no, con riferimenti sull’apporto diretto e indiretto generato nel campo legislativo. 
La voglia di intrigare in questo progetto mi si è rinnovata in occasione di un casuale incontro con un soggetto alquanto qualificato, non siciliano, il quale a un certo punto della conversazione mi venne a chiedere del perché Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avessero operato quelle loro scelte coraggiose e fuori dal comune, atteso che, come da lui stesso per la sua professione verificato, a Palermo (e più in generale in Sicilia) tutti conoscono tutti e le varie categorie/lobbies si incrociano in un quotidiano che spesso comporta compromessi, accordi, soluzioni facili. 
Nello specifico si riferiva, ad esempio, ai tanti circoli, laddove magari i magistrati intrattengono rapporti troppo amicali con gli avvocati o con alti esponenti dell’imprenditoria, ovvero ai luoghi ove connessioni strane si intrecciano in associazioni settarie di pseudo “templari”, “cavalieri del Santo Sepolcro” e giù di lì. 
Ho spiegato che intanto si trattava di due soggetti integerrimi di sani principi. Dei due, un caro amico ha scritto "entrambi ispirati ad una vocazione al senso della 'giustizia dovere e non potere', fino all'estrema conseguenza, ancora più lucidamente perseguita da Borsellino".
Senza, pertanto, voler minimamente sminuire la figura di Paolo Borsellino, è da osservare che quella di Giovanni Falcone è stata comunque un’altra cosa …… perchè era il “metodo Falcone” …… lo strumento che il mondo degli affari e della politica temevano. Un sistema elaborativo di puzzle infiniti, il cui sofisticatissimo e raffinato software  era tutto custodito e perfettamente funzionante nel suo cervello! 
L’occasionale amico non siciliano che voleva sapere da me era anche lui avanti negli anni e, seppur aveva avuto modo di conoscere - per questioni di lavoro - una moltitudine di situazioni torbide, una miriade di burocrati, di soggetti appartenenti all’alta società, quella che conta e variegate fattispecie delle tante umanità diffuse, è rimasto perplesso e, con le mie semplici argomentazioni, credo proprio di non averlo convinto.

 © Essec


Massimo Fini: "Lula e i Cinque Stelle, socialismi diversi ma uniti contro il Dio Mercato"


E adesso sappiamo che non c’è solo la magistratura italiana a essersi corrotta, immersa in un marciume di lotte intestine, di scambi di favori che nulla hanno a che fare con la giustizia, di rapporti equivoci con esponenti politici della cosiddetta sinistra per indirizzare le inchieste, c’è anche una magistratura brasiliana corrotta con conseguenze ancor più politicamente devastanti per quel Paese: l’eliminazione degli esponenti del chavismo bolivariano, la forma che il socialismo ha preso in Sudamerica, Dilma Rousseff e Luiz Inacio Lula, la prima estromessa dal potere con procedure molto simili a quelle con cui in Venezuela si è cercato di far fuori Maduro, il secondo messo in galera con accuse di corruzione. Sull’eliminazione politica, attraverso il braccio giudiziario, di Rousseff e Lula avevamo espresso molti dubbi già un anno fa (Fatto11.4.2018, “Non ci provate: il caso Lula non c’entra niente con Berlusconi”). Ora questi dubbi sono confermati da un’inchiesta del sito investigativo The Intercept che ha accertato che le principali accuse nei confronti di Rousseff e di Lula sono frutto di una macchinazione giudiziaria e che il principale capo d’accusa contro Lula, l’essersi fatto regalare un lussuoso appartamento, è falso perché quell’appartamento non risulta di proprietà né di Lula né di persone a lui vicine. Alle spalle di tutto questo ci sono i soliti americani che già nel 2014 facevano spiare dai Servizi l’ex presidente Rousseff e i suoi uomini perché interessati al grande giacimento petrolifero del Presal.
Tutti i quotidiani italiani hanno dato rilievo a questa vicenda, tranne Il Giornale stretto nell’imbarazzante morsa dei suoi attacchi alla magistratura, in qualsiasi Paese del mondo, si trattasse anche della Nuova Zelanda, in funzione pro Berlusconi e il fatto che uno dei principali totem dell’estrema destra mondiale, Bolsonaro, sia arrivato al potere proprio grazie alle mene dei magistrati. C’è un dettaglio che riporta le vicende brasiliane a quelle nostrane: i magistrati carioca esultarono per il successo delle manifestazioni di piazza che aiutarono a far cadere Rousseff come, lo abbiamo ricordato sempre sul Fatto, tutta la ricca e ricchissima borghesia italiana esplose in uno scomposto tripudio dopo i risultati delle elezioni europee non tanto per la vittoria di Salvini ma per il tonfo dei Cinque Stelle. Il vero nemico in Italia, per tutti coloro che non stanno con gli “umiliati e offesi” ma dall’altra parte, compresi i dem, sono i Cinque Stelle, perché è l’unico partito italiano che, sia pur a modo suo, ha un’ispirazione socialista. Non è certamente un caso che quello italiano, per volontà dei Cinque Stelle e non certo di Salvini, sia stato l’unico governo europeo a non prendere partito per il fantoccio americano Guaidò. Numerose sono le misure di tipo socialista già prese dai Cinque Stelle, dal reddito di cittadinanza a quota 100 in comproprietà con la Lega, al decreto dignità, al taglio dei vitalizi, mentre altre bollono in pentola come il taglio alle pensioni d’oro. Nell’ideologia dei Cinque Stelle ci sono, per usare una terminologia di cui ho fatto piazza pulita a partire dalla Ragione aveva Torto? (1985), fattori sia di sinistra sia di destra, e altri che sono specifici di questo movimento.  In ogni caso l’ideologia ‘grillina’ ha preso una strada tutta sua che nulla ha a che vedere con le categorie partorite dall’Illuminismo, sia in chiave liberista che marxista, con la loro mitologia della produzione, del lavoro, della scienza tecnologicamente applicata. E’ significativa l’opposizione alle grandi infrastrutture di cui il no alla Tav è il simbolo perché non si può avere nello stesso tempo un mondo ecologicamente ed esistenzialmente equilibrato e un modello di sviluppo basato sulla produzione e il consumo compulsivo. Particolarmente interessante, in senso esistenziale, è la distinzione espressa, sia pur in modo un po’ confuso, da Grillo fra ‘tempo libero’ e ‘tempo liberato’. Il ‘tempo libero’ è destinato sempre al consumo, senza il quale il modello di sviluppo occidentale collasserebbe su se stesso, il ‘tempo liberato’ è invece il tempo della riflessione, della contemplazione e delle cose che ci piace veramente fare. In Occidente si è utilizzata la tecnologia in modo assurdo. Le macchine avrebbero potuto lavorare, almeno in parte, per noi, invece siamo noi a lavorare per le macchine e addirittura per gli algoritmi finanziari sfuggiti di mano agli stessi apprendisti stregoni (si veda il libro di Alexandre Laumonier “6/5. La Rivolta delle macchine”) che sbattono le persone fuori dal mondo del lavoro mandandole nella caienna della disoccupazione.  E’ ovvio che un’impostazione di questo genere mandi fuori dai gangheri le élites e i mercati internazionali in cui l’Italia non ha certo una parte di rilievo. Ed è questo il vero motivo dell’omnicomprensiva ostilità nei confronti dei ‘grillinos’ come li chiamano in Spagna.


martedì 25 giugno 2019

"E quando mangeremo gli spaghetti toglieremo la bottiglia del latte dal tavolo"



Nei tanti anni, nell’arco di una vita si ha modo di incontrare moltitudini di genti. Tante, ma proprio tante persone.
Ci si rapporta con molti e le eventuali frequentazioni portano a conoscere più approfonditamente umanità diverse.
Forse anche per necessità di sopravvivenza, in qualche modo tentiamo di evitare e possibilmente rimuovere dai ricordi, i personaggi negativi che inevitabilmente s’incrociano. 
Taluni poi, sembra che la negatività se la portino dentro e inducono a temere il rischio di un possibile contagio.
Come tanti, ho avuto anche modo di conoscere - e fortunatamente continuo ancora a incontrare - bella gente, di spessore, dotata di umanità a tutto tondo, splendide figure (usando un aggettivo qualificativo del quale spesso abuso), che racchiudono nell’intimo grandi positività, che, spesso, sanno pure comunicare e trasmettere - con semplicità ed in modo diretto - il loro modo d’essere e di intendere la vita.
Soggetti generosi che con la loro intelligenza ogni volta sanno sempre ben leggere i referenti di turno, per porsi davanti a loro senza in alcun modo atteggiarsi, ostentare borie, supponenze, cialtronerie o altri strani stupidi diffusi atteggiamenti.
Individui che si adattano all'interlocutore cercando di metterlo a proprio agio, aiutandolo nel caso ad esprimersi nel dialogo, perché sanno che le fonti di conoscenza sono infinite e che nell'altro, fosse anche il più umile dei soggetti, ci sarà sempre qualcosa da carpire e magari da poter apprendere.
La prolissa premessa è utile per introdurre quanto si vuole proporre nel voler mettere l’attenzione su email recentemente incrociate fra amici.
Anche se sarà facile individuare i soggetti  della corrispondenza preventivamente autorizzata da entrambi i mittenti, si vuole semplicemente renderne pubblico il gradevole contenuto.
Un'ultima cosa rimane da precisare e cioè che l'argomento in oggetto era imperniato sul: “cazzeggio”. Volando liberi nel mondo delle idee e delle parole. Buona lettura.


“In gergo, s’incassano i pugni e le mie parole tali non possono e non devono essere considerate. 
Carezze, semmai, come le definizioni che Walker Evans dava alle sue realizzazioni fotografiche: “carezze fatte al mondo”.
Caro Toti,
proprio tu mi provochi per uscire dal “cazzeggio”?
Il sottoscritto non è mai uscito da quel recinto. 
Sarebbe come uscire dalla poesia e fare prosa, dalla religione e fare teologia, dal vagabondare  e restare ad un semplice camminare, dal vedere e capire solo il guardare, dall’errare e ringraziare qualcuno o qualcosa per aver sbagliato strada.
Questa progressione di “infiniti presenti” (e sottolineo se non bastassero le virgolette) me la impongo per mascherare la presunzione intellettuale del mio “personalissimo cazzeggio”. 
Se così non mi comportassi non potrei sorridere serenamente davanti al tuo: e tu mi scrivi perchè io sorrida.
Quasi due secoli di fotografia non sono stati sufficienti a rispondere alle tue domande. Questo accade perchè l’accumulo di cultura (inteso come crescita e curiosità) non è altro che un laboratorio inarrestabile di produzione di domande. E allora?
Proverò quando avrò un’idea “cazzeggiante” per risponderti. Per ora accontentati di un consiglio di lettura (che magari hai già accolto e digerito):
- Geoffrey Batchen, “Un desiderio ardente, Alle origini della fotografia”, 2014, ed. Johan Levi. 
Attento a quelle parole: Desiderio, ardente, origini (libro senz’altro bello ma dalla fortuna editoriale spropositata.
Per quanto mi riguarda, per adesso, e per il nostro futuro epistolare, ne attenzione solo una riflettendo sull’etimo: PRO – VOCARE.
by pip
N.B.: e quando mangeremo gli spaghetti toglieremo la bottiglia del latte dal tavolo.”

L’email a cui l’amico risponde è:

“Nel film un Americano a Roma ad un certo punto Alberto Sordi davanti ad un piatto di spaghetti, dopo aver scartato con disgusto cibarie all’americana, dice più o meno “spaghetti, mi avete provocato e mò ve magno”.
Alla stessa maniera, visto che mi hai provocato con la tua ultima risposta ….. io non te posso magnà, ma provocare si!
E allora ti lancio un insieme di dubbi, ipotesi, teorie, che sicuramente susciteranno in te una certa ilarità per l’ingenuità con la quale vengono proposte, ma che certamente ti attrarranno e susciteranno un effetto “rimbalzo”.
Sono curioso di leggere la tua risposta. Ciao e una buona giornata.

Essere o non essere, questo è il problema.
Perché fotografiamo? Qual’è la molla che ci spinge? Cosa vogliamo veramente fare attraverso uno scatto? Qual è l’attesa che ci pervade, cosa vorremmo vedere nell’immagine catturata? Quanto è importante la fotografia per noi stessi? Quanto c’è di autonomia/emulazione nei nostri scatti fotografici? Quanto vogliamo, al di là della estetica vanesia, che gli altri leggano di noi stessi nelle nostre proposte fotografiche? Come raccontare/trasmettere le emozioni che ci pervadono nelle letture fotografiche immortalate in un click? Perché la partecipazione alle competizioni fotografiche possono diventare perversione o una forma di dipendenza? Com’è da intendere un successo fotografico e vivere l’eventuale occasionalità come un fatto normale. Come evitare ubriacature vivendo nella stratosfera degli intellettuali o presunti tali? Come accorgersi di voler dire qualcosa ricorrendo, in questo caso, alle opportunità che può offrire la fotografia? Quanto voglia di possesso c’è nel nostro modo di fotografare? Quanta poesia può esprimersi in uno scatto? Cosa manca in una immagine che non dice nulla? Quanto l’umore incide nel modo di fotografare? Che ruolo ha il caso? Perché la concentrazione non è indispensabile nel fare reportage? Quante letture presuppongono metodologia consolidate di racconto? Chi è il fotografo? Chi è un artista? Rapporto tempo e spazio nell’arte fotografica. Quali i limiti e i confini?”


Quella dimenticanza "morale" di Berlinguer


Sull’onda della corruzione della Magistratura –perfino della Magistratura- è tornata all’onor del giorno la “questione morale” e si dice e si scrive che Enrico Berlinguer, allora segretario del Pci, fu il primo a porla, legandola allo strapotere assunto dai partiti, nella famosa intervista del luglio 1981 a Scalfari. Per la verità Berlinguer non fu il primo. Già nel 1960, cioè vent’anni prima di Berlinguer, Cesare Merzagora in un vibrante discorso al Senato, di cui era presidente, aveva denunciato che la democrazia stava trasformandosi in partitocrazia, con annessa e inevitabile corruzione, e lo stesso aveva fatto nel medesimo anno il grande giurista Giuseppe Maranini. Cosa diceva Berlinguer in quell’intervista a Scalfari? “I partiti… sono macchine di potere e di clientela…Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi…sono federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’…i partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni, a partire dal governo”. E ancora: ”Hanno occupato gli enti locali, gli enti previdenziali, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali”. E concludeva: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, con la guerra per bande”. Un discorso ineccepibile. All’apparenza. 
Nel 1983 in una “Lettera aperta a Claudio Martelli”, allora il più importante leader socialista dopo Bettino Craxi, scrivevo sul Giorno, che non poteva certamente essere accusato di ostilità nei confronti dei partiti di governo, Dc e Psi in testa: “Non c’è angolo della nostra vita pubblica e privata che non sia occupato dai partiti i quali, debordando dalla loro sede naturale, il Parlamento, hanno lottizzato, oltre al governo, alla presidenza della Repubblica, alle Regioni, alle Province, ai Comuni, anche l’industria pubblica, il parastato, la burocrazia, le forze armate, la magistratura, le banche, gli ospedali, l’università, le grandi compagnie di assicurazione, le camere di commercio, gli appalti, la Rai Tv, i giornali, le aziende municipalizzate, le Spa comunali, gli enti culturali, gli Iacp, i porti, le terme, le mostre, le aziende di soggiorno, gli acquedotti, i teatri, i conservatori, le casse mutue, le unità sanitarie locali, i tranvieri, i vigili urbani, gli spazzini, gli urbanisti, gli architetti, gli ingegneri e, infine, anche i corpi di ballo, le soliste e i primi ballerini”. Uno scritto che sembra pantografato sulle parole di Berlinguer. Ma fra i due discorsi, a parte l’importanza dei personaggi in campo, corre una differenza. Sostanziale. Quale? Berlinguer dimenticava disinvoltamente, molto disinvoltamente, di essere segretario di un partito, il Pci, che era parte integrante di quella partitocrazia di cui denunciava il clientelismo e la corruzione, a cui partecipava come tutte le altre formazioni politiche, ma le riferiva solo alla Dc, al Psi, alle frattaglie repubblicane e liberali (“occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi”). Insomma si tirava fuori, sorvolando tra l’altro che il Pci riceveva cospicui finanziamenti dall’Unione Sovietica (la Dc e il Psdi dagli americani) uno Stato apertamente nemico delle democrazie occidentali e che ricevere quattrini dall’Urss poteva essere considerato “alto tradimento”. Il buon Zingaretti è quindi figlio di quel Pci, partitocratico e clientelare come tutti gli altri, e non può perciò essere accusato di proseguirne, sia pur con qualche resistenza, se non la politica certamente la stessa immorale moralità.  

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2019)

lunedì 24 giugno 2019

Lettera ad un giovane fotografo di Pippo Pappalardo


In risposta a una mia email, Pippo riesce sempre a sorprendere, quindi pubblico un articolo che appare sempreterno e che ho riletto con sempre vivo interesse.

Il solo nuovo testo aggiunto in risposta è ....... Quand’ero saggio e equilibrato; “e meno gonfio”:

Lettera ad un giovane fotografo di Pippo Pappalardo
 
Egregio Signore,
la vostra lettera mi ha raggiunto solo qualche giorno fa. Voglio ringraziarvi per la sua grande e cara fiducia. Poco più posso. Non posso entrare e diffondermi sulla natura delle vostre fotografie; ché ogni intenzione critica è troppo remota da me. Nulla può tanto poco toccare un’opera d’arte quanto un discorso critico: si arriva per quella via a sempre più o meno felici malintesi. Le cose non si possono afferrare o dire tutte come ci si vorrebbe di solito far credere; la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato, e più indicibili di tutte sono le opere d’arte, misteriose esistenze, la cui vita, accanto alla nostra che svanisce, perdura.

Premesso questo punto, vi posso ancora soltanto dire che le vostre fotografie non hanno un loro proprio stile, ma sommessi e coperti avvii a un accento personale. Più chiaro che altrove l’avverto nell’ultima fotografia “la mia anima”. Ivi qualcosa di proprio vuol giungere ad una sua espressione. E nella bella fotografia “a Leopardi” cresce forse una sorta di affinità con quel grande solitario. Tuttavia non sono ancora le vostre fotografie cose per sé, indipendenti, neppure l’ultima né quella al Leopardi. La vostra benevola lettera, che le ha accompagnate, non manca di chiarirmi qualche difetto, ch’io ho sentito guardando le vostre fotografie, senza tuttavia poterlo designare per nome.

Voi domandate se le vostre fotografie siano buone. Lo domandate a me. L’avete prima domandato ad altri. Le spedite a riviste. Le paragonate con altre fotografie e v’inquietate se talune redazioni rifiutano i vostri tentativi. Ora (poiché voi mi avete permesso di consigliarvi) vi prego di abbandonare tutto questo. Voi guardate fuori, verso l’esterno e questo soprattutto voi non dovreste ora fare. Nessuno vi può consigliare ed aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrare in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a fotografare; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di fotografare.

Questo anzitutto: domandatevi nell’ora silenziosa della vostra notte: “devo” io fotografare? Scavate dentro voi stesso per una profonda risposta. E se questa dovesse suonare consenso, se v’è concesso affrontare questa grave domanda con un forte e semplice “debbo”, allora edificate la vostra vita secondo questa necessità.

La vostra vita fin dentro la sua più indifferente e minima ora deve farsi segno e testimonio di questo impulso. Poi avvicinatevi alla natura. Tentate come un primo uomo al mondo di dire quello che vedete e vivete e amate e perdete.

Non fotografate volti e paesaggi, evitate all’inizio le forme troppo correnti e abituali: sono esse le più difficili, perché occorre una grande e già matura forza a dar qualcosa di proprio dove si offrono in gran numero buone tradizioni, anzi splendide in parte. Perciò salvatevi dai motivi generali in quelli che la vostra vita quotidiana vi offre; raffigurate le vostre tristezze, e nostalgie, i pensieri passeggeri e la fede in qualche bellezza, raffigurate tutto questo con intima, tranquilla, umile sincerità e usate, per esprimervi, le cose che vi  circondano, le immagini dei vostri sogni e gli oggetti della vostra memoria. Se la vostra vita quotidiana vi sembra povera, non l’accusate; accusate voi stesso, che non siete assai fotografo da evocarne la ricchezza; ché per un creatore non esiste povertà  né luoghi poveri e indifferenti.

E se anche foste in un carcere, le cui pareti non lasciassero filtrare alcuno dei rumori del mondo fino ai vostri sensi, non avreste ancora sempre la vostra infanzia, questa ricchezza preziosa, regale, questo tesoro dei ricordi?

Rivolgete in quella parte la vostra attenzione. Tentate di risollevare le sensazioni sommerse di quel vasto passato; la vostra personalità si confermerà, la vostra solitudine s’amplierà e diverrà una dimora avvolta in un lume di crepuscolo, oltre cui passa lontano il rumore degli altri. E se da questo viaggio all’interno, da quest’immersione nel proprio mondo giungono immagini fotografiche, allora non penserete ad interrogare alcuno se siano buone immagini fotografiche; né tenterete d’interessare per questi lavori le riviste: ché in loro vedrete il vostro caro possesso naturale, una parte ed una voce della vostra vita.

Un’opera d’arte è buona, s’è nata da necessità. In questa maniera della sua origine risiede il suo giudizio: non ve n’è altro.

Perciò, egregio signore, io non vi so dare altro consiglio che questo: penetrare in voi stesso e provare le profondità in cui balza la vostra vita; alla sua fonte troverete voi la risposta alla domanda se “dobbiate” creare. Accoglietela come suona, senza perdervi in interpretazioni.

Forse si dimostrerà che siete chiamato all’arte. Allora assumetevi tale sorte e portatela, col suo peso e la sua grandezza, senza mai chiedere il compenso, che potrebbe venir di fuori. Ché il  creatore dev’essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura, cui s’è alleato.

Ma forse anche dopo questa discesa in voi stesso e nella vostra solitudine dovrete rinunciare a divenire fotografo; (basta come ho detto, sentire che si potrebbe vivere senza fotografare, per non averne più il diritto). Ma anche allora questa immersione, di cui vi prego, non sarà stata invano.

La vostra vita di lì innanzi troverà senza dubbio vie proprie, e che vogliano essere buone, ricche, e vaste, questo io ve lo auguro più che non possa dire.
Che vi debbo ancora dire?

A me tutto sembra accentuato secondo il suo merito; e infine volevo consigliarvi ancora solo di sostenere lo sviluppo calmo e serio; non lo potete disturbare più violentemente che se guardate fuori ed attendete di fuori risposta a domande, cui può forse rispondere solo il vostro più intimo sentimento nella vostra ora più sommessa. (Omissis)

Vi rimando insieme le fotografie che amichevolmente m’avete voluto confidare. E vi ringrazio ancora per la grandezza e cordialità della vostra fiducia, di cui ho tentato di rendermi un po’ più degno di quello che io, come estraneo, realmente non sia, con questa risposta sincera, data secondo la migliore coscienza.

Con ogni devozione e simpatia

        Rainer Maria Rilke
 
Il superiore testo riporta fedelmente la prima delle lettere che Rilke inviò al giovane scrittore Kappus. Io, Pippo Pappalardo, mi sono ignobilmente permesso una modesta parafrasi sostituendo soltanto le parole versi, poesia o scrivere, con fotografia, fotografare. Chiedo perdono a tutti gli amanti della poesia ma ho pensato di far cosa utile ai fotografi."

(Pubblicato su ACAF - Associazione Catanese Amatori Fotografia)


sabato 8 giugno 2019

Massimo Fini. "Giustizia: il "marasma senile" rovina una storia anche buona".


Il Fatto ha dato un grande spazio allo scandalo che per comodità chiameremo “Palamara” ma che in realtà coinvolge l’intero sistema giudiziario. Ed è comprensibile per l’importanza che hanno in uno Stato di diritto l’indipendenza e la credibilità della Magistratura che la nostra Costituzione, dopo l’esperienza fascista, volle indipendente da ogni altro potere. Per non farne però un organo lontano dalla società i nostri Padri costituenti vollero che il Csm, da cui dipendono “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”,  fosse composto per due terzi da giudici ‘togati’, cioè  da magistrati, e per un terzo dai cosiddetti ‘laici’ scelti dal Parlamento fra “professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. Furono ingenui i nostri Padri costituenti perché non potevano immaginare la presa che i partiti avrebbero assunto nella società per cui questi stessi partiti immisero nel Csm ‘laici’ non per la loro esperienza in campo giudiziario ma per la loro dipendenza da l’una o dall’altra formazione politica. E questo è stato il primo tarlo che ha cominciato a corrodere la Magistratura italiana nell’era repubblicana. 
E qui bisogna fare un passo indietro. La storia della nostra Magistratura dopo l’unificazione del Paese è, sostanzialmente, una buona storia. I magistrati erano talmente gelosi della propria indipendenza, considerando il loro lavoro più che una professione una vocazione, che il fascismo non riuscì a piegarli ai suoi fini e dovette ricorrere ai Tribunali Speciali. Erano altri tempi. Altri uomini. Mi ricordo un bell’articolo di Salvatore Scarpino dove raccontava l’isolamento dei magistrati nella cittadina dove era nato, Cosenza, che limitavano al massimo le proprie frequentazioni sociali per non dare adito a dubbi sulla loro attività. 
Nel dopoguerra, dopo una prima fase di euforia generale dovuta alla ricostruzione e con uomini politici di notevole spessore perché forgiati da quel conflitto, la nostra classe dirigente comincia a corrompersi e per uscire indenne dalle proprie malefatte cerca di mettere le mani anche sulla Magistratura. Tentativo in buona parte riuscito. Tutti ricordiamo che il Tribunale di Roma, cui erano affidati i processi più scottanti, era chiamato “il porto delle nebbie” per la sua abilità nell’insabbiarli. Ma attraverso l’istituto dell’avocazione, cioè la possibilità del Procuratore capo da cui dipendono i Pubblici ministeri, molte istruttorie venivano tolte ai titolari perché non ficcassero troppo il naso in vicende delicate. E questo accadeva non solo a Roma ma in Procure di città anche meno importanti. Di fatto la classe dirigente, politica e imprenditoriale, si era assicurata, salvo rari casi, l’impunità. Il momento del riscatto venne con Mani Pulite. Mani Pulite è frutto di un avvenimento storico estraneo al nostro Paese ma che vi ha inciso profondamente: il collasso dell’Unione Sovietica. I voti dei cittadini non più costretti a votare Democrazia cristiana perché il pericolo comunista non esisteva più (il “turatevi il naso” di Montanelli) si diressero verso un movimento nuovo e sostanzialmente antipartitocratico, la Lega di Umberto Bossi. Cioè nasceva finalmente un vero partito di opposizione, in quanto quello ufficiale, rappresentato dal Pci, si era consociato con la Dc e ne condivideva sostanzialmente gli interessi, anche nell’ambito dell’autodifesa della classe dirigente dalla Magistratura. 
Con la Lega in campo simili sporchi giochetti non erano più possibili. La Lega liberò le mani ai magistrati milanesi che per la prima volta nella storia repubblicana poterono richiamare la classe dirigente, politica e imprenditoriale, al rispetto di quella legge cui noi cittadini, diciamo così, normali, siamo obbligati. Non ci furono e non ci sono ombre sui componenti di quel formidabile pool, dal Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli a Ilda Boccassini a Piercamillo Davigo a Gherardo Colombo e allo stesso Antonio Di Pietro, particolarmente bersagliato, soprattutto dal mondo berlusconiano allora vincente, e sottoposto a sette processi da cui è uscito regolarmente assolto. Fu l’ultima stagione in cui noi cittadini, perlomeno quelli, diciamo così, normali, potemmo avere piena fiducia nella Magistratura. Ma l’illusione durò poco. Nel giro di pochissimi anni, con l’appoggio dell’intera stampa nazionale, e non solo di quella berlusconiana, i magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime e spesso, proprio attraverso il Csm zeppo di politici mascherati da professionisti dello ‘iure’, giudici dei loro giudici. Fu un segnale. Decisivo per la nostra storia successiva. Era un ‘liberi tutti’ per la corruzione di lorsignori che poi, discendendo giù per gli rami, ha finito per coinvolgere anche noi cittadini, diciamo così, normali. Inoltre la corruzione, morale e non solo, si è incistata negli altri corpi istituzionali, non solo nella Magistratura, finendo per sfiorare anche le Forze Armate dove circola un’aria di insubordinazione. Non si era mai visto che un ministro della Difesa, in questo caso Elisabetta Trenta, fosse messo sotto accusa da importanti generali che sia pur da poco pensionati evidentemente respirano qualche cosa che bolle in pentola nelle nostre Forze Armate. Non si capisce come il nostro Paese possa uscire da una simile confusione generale che assomiglia molto a quello che in termini psichiatrici si chiama “marasma senile”. 

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2019)


domenica 2 giugno 2019

Fotografie




Quante volte ci capita di camminare distratti per strada, ripensando ad accadimenti appena occorsi, ripercorrendo la dinamica di fatti per gestire decisioni. In questi casi i passi si susseguono normalmente in forma automatica, con il pensiero che vaga, e succede di procedere senza guardare, senza riuscire quasi a vedere, camminando per l’appunto senza particolare attenzione. 
Ma l’occhio della mente però è sempre attento e cattura le particolarità anche in una forma inconscia e succede che, dopo aver registrato un’immagine appena vista, una elaborazione del cervello ci induce a tornare indietro, per porre maggiore attenzione a un segnale che ha catturato. 
L’atro giorno mi è capitato di trovarmi in uno stato d’animo come quello sopra descritto e procedendo per il mio percorso lo sguardo è caduto su una piccola immagine abbandonata per terra, probabilmente caduta distrattamente, forse nella necessità di prendere affrettatamente un qualcosa da un portafogli durante una interlocuzione con altri. 
Nello specifico la foto in argomento è quella che introduce a questo scritto e l’ho raccattata lungo un marciapiede assai transitato, nei pressi di un mercato popolare di Palermo, quasi adiacente al palazzo di giustizia. 
Si tratta della fototessera che ritrae un soggetto a me del tutto sconosciuto e rappresentato da un volto giovanile. 
Era un po’ malridotta, poiché era stata in precedenza calpestata da altri passanti – forse anch’essi distratti come me - che magari non l’avevano neanche notata o che, come avevo in un primo momento fatto anch’io, l’avevano intravista ma erano passati oltre indifferenti, non ritenendo utile soffermarsi a raccoglierla. 
Tornando sui miei passi l’ho sollevata dalla polvere per il rispetto che, secondo me, merita ogni fotografia che ritrae qualcuno, in quanto testimonianza del tempo, perché rappresenta comunque una traccia fissata nella storia, che merita di rivivere comunque in un album che raccoglie ricordi. 
Osservandola con maggiore attenzione, mi ritrovo ora fra le mani la fotografia di un giovane che immagino oggi assai più maturo e così mi ripassa nella mente uno vecchio scritto che recitava ……. “Fotografie: l’immagine di un momento che nel tempo muta fissa un reale destinato al ricordo. Paesaggi, volti, avventure, scene di vita, tante tessere destinate al domani per riportare alla mente la tua vita vissuta. E rivivrai quei momenti colorati col tempo con tinte diverse di colori pastello, forse dissimili da ciò che le immagini fanno intuire e ti accorgerai che la vita è piena di ricordi, anche se la mente ti sembra vuota del tutto”. 

Buona luce a tutti!

© Essec


Massimo Fini: "Col M5S perde la politica sociale"


A furia di osservare il mostro si finisce per assomigliargli. Lo notavo nei commenti che ieri Il Fatto ha affidato ad alcuni intellettuali noti per la loro indipendenza e nello stesso editoriale del direttore, Marco Travaglio. Tutti, a parte Daniela Ranieri, parlavano in stretto politichese con un linguaggio estrapolato dalla politique politicienne, elaboravano strategie. Più che intellettuali o giornalisti sembravano dei segretari di partito. Nessuno, mi pare, ha notato che queste elezioni europee hanno segnato l’ennesima sconfitta del socialismo, in Italia ma anche in Europa. Nel nostro Paese gli unici ad avere un programma sociale erano e sono i grillini (poiché nel Pd, abbia il 18 o il 20 o il 40 % di sociale non c’è più nulla- “D’Alema di’ qualcosa di sinistra. Di’ qualcosa”, Nanni Moretti). Naturalmente, per sua natura, un programma sociale per realizzarsi ha bisogno di tempo, non ha l’immediatezza delle facili invettive contro gli immigrati e le immigrazioni. E questo programma i Cinque Stelle avevano provato a metterlo in atto con alcune misure, solamente iniziali ma già piuttosto concrete. Ma sono stati stoppati sul posto. La loro ostilità nei confronti delle grandi opere delle infrastrutture ha un doppio significato. E’ notorio, anzi è storico, che più un Paese si modernizza più si allarga la forbice fra i ceti ricchi e quelli poveri. Inoltre per salvare l’ambiente non bisogna aumentare, ma diminuire la produttività e con essa i consumi. Le manifestazioni per l’ambiente con ragazzette tipo Greta Thunberg hanno un significato solo folcloristico se non si è disposti a pagarne i duri prezzi nel campo della produzione e del consumo. Non si può avere nello stesso tempo la botte piena e la moglie ubriaca. 
Ma, a parte la Spagna, queste elezioni hanno mostrato che il socialismo arretra in tutta Europa. Fuori dal Vecchio Continente, attraverso Donald Trump, il bolivarismo chavista, cioè la forma che il socialismo aveva preso in Sudamerica, verrà spazzato via dal Venezuela, dalla Bolivia, dopo aver subìto la stessa sorte nel Brasile di Lula e della Rousseff. E’ l’ora dei Bolsonaro. E così continueremo a vivere in un modello di sviluppo che ho definito “paranoico” che oltraggia sempre di più gli “umiliati e offesi”, senza più alcuna difesa, e riesce anche nell’impresa di far viver male, esistenzialmente, chi sta economicamente bene (negli Stati Uniti, il Paese per ora ancora dominante e più ricco, oltre il 60% degli abitanti fa uso abituale di psicofarmaci, cioè è gente che non vive bene nella propria pelle). Le parole del Papa cattolico, che in qualche modo cerca di opporsi a questa deriva, non contano più nulla. E il crocefisso esibito da Matteo Salvini ne è la clamorosa e penosa dimostrazione.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 30 maggio 2019)

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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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