«La paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza» Maestro Yoda
Nel discorso politico di oggi, sempre più assimilabile al tifo da
stadio o alla propaganda militare, difficilmente riusciamo a mettere a
fuoco le dichiarazioni dei capi politici per comprendere gli obiettivi e
le reazioni che tendono a suscitare. Questo campo è stato studiato
dalla psicologia politica che ha scoperto perché la cosiddetta “politica
della paura” riesce a guadagnare sempre più sostenitori, svelando quali
siano gli interessi elettorali, e i valori in gioco posti dietro il
conflitto politico attuale.
Per “politica della paura” si intende la politica che mira ad agitare
volutamente dei fenomeni, narrati come problemi, che minerebbero la
sicurezza e il benessere della popolazione su base nazionale. Che si
tratti di sostituzione etnica, concorrenza di manodopera straniera,
pericolo di infiltrazione terrorismo, migrazioni di continenti interi,
la retorica contro il presunto “diverso” agita talvolta spettri
infondati.
Vi starete chiedendo come mai siamo ancora capaci di mettere in
secondo piano diritti umani e libertà, lasciando che l’egoismo e l’odio
siano le direttrici della politica mondiale odierna. In un mondo in cui
siamo sempre connessi agli altri, mai come oggi, paradossalmente
sentiamo un crescente bisogno di innalzare barriere, come mostrato dalla
cartina.
In un mondo sempre più veloce che ci costringe a sradicarci dalla
propria casa per spostarci alla ricerca di lavoro, la nostra identità
viene messa in discussione, e nella babele di informazioni che ci
colpiscono continuamente, diviene sempre più difficile essere empatici
con il prossimo. Questi ultimi due elementi determinati dalla
globalizzazione si rivelano fondamentali nel creare il terreno su cui
può attecchire la politica della paura.
Vedremo quindi perché, da un punto di vista clinico-scientifico, la
politica della paura vince sulla razionalità facendo leva sui nostri
istinti, in seguito cercheremo di capire perché la politica della paura,
legata alla crisi di identità, attecchisce in periodo di crisi facendo
leva sul bisogno di appartenenza.
L’efficacia della politica della paura ha origini antropologiche:
tocca le corde della nostra specie e della nostra evoluzione sfruttando
meccanismi primordiali che trascendono luoghi e periodi storici.
La politica della paura fa infatti perno su un riflesso che non
coinvolge la razionalità, bensì l’amigdala. “I nostri organi di senso
(vista, udito, olfatto..) ricevono dall’ambiente informazioni che
segnalano la presenza o la possibilità di un pericolo: ad esempio un
serpente o qualcosa che gli assomiglia. Tali informazioni raggiungono
l’amigdala attraverso percorsi diretti[…] (1)
innescando così una risposta meramente emotiva. Questo percorso
consente di rispondere a stimoli potenzialmente pericolosi, prima di
sapere esattamente cosa siano”. “Meglio trattare un bastone come un
serpente, che accorgersi troppo tardi che il bastone in realtà è un
serpente” J. LeDoux.
La riflessione è successiva. La paura è un’emozione primitiva
essenziale per la sopravvivenza, che per salvarci da un presunto
pericolo ci spinge a reagire prima ancora di pensare.
Secondo l’articolo di Giovanni Sabato nella rivista Mind “c’è chi vede
questi meccanismi inscritti nell’architettura stessa del cervello, il
“centro della paura”, che invia una profusione di connessioni alla
neocorteccia, sede dei pensieri più ponderati, mentre i collegamenti in
senso inverso sono molti meno. Perciò la paura si impone così facilmente
sulla ragione, mentre controllarla razionalmente è così faticoso e
funziona solo in parte”.
Nonostante vi sia chi sostiene che in politica i meccanismi non siano
legati alla paura ma all’ansia, che sfrutterebbe l’incertezza dettata
da immigrazione, disoccupazione, terrorismo, crisi, il principio
fondamentale di questa politica resterebbe immutato: scatenare
un’emozione indotta proponendo immagini negative, per presentarsi come i
risolutori.
Secondo gli studi portati avanti dalle ricerche di psicologia
politica questa strategia funzionerebbe con maggior efficacia lì dove vi
sono bassi livelli di istruzione.
Riuscire a smontare e de-costruire la paura indotta, è un’operazione che
richiede investimenti in educazione e che richiede il tempo
dell’educazione di nuove generazioni.
“No! Non diverso! Solo diverso in tua mente. Devi disimparare ciò che
hai imparato!” disse il maestro Yoda a Luke. Intanto la psicosi
collettiva infragilisce le menti e trasforma la società, le sue pulsioni
e i suoi bisogni.
Per capire come si è arrivati a tutto questo, intanto occorre
ricercare gli elementi che collegano globalizzazione e crisi d’identità.
La globalizzazione ha ridotto la percezione dello spazio, e nella velocità dei flussi si perdono riflessione e ponderazione.
Da un punto di vista umano essa ha aumentato la quantità e il ritmo dei flussi umani ed ha provocato una crisi di identità che Paul Mason (2),
prendendo come esempio una piccola cittadina inglese, descrive così:
“Il neoliberismo ha sostituito i vecchi principi di collaborazione e
coesione con un racconto i cui protagonisti sono gli individui. Persone
astratte con diritti astratti: il cartellino sull’uniforme era solo a
beneficio del cliente o del capo, non serviva a esprimere un’identità. I
lavoratori delle comunità sconfitte e abbandonate si sono aggrappati a
ciò che rimaneva della loro identità collettiva. Ma dal momento che la
loro utopia trainante, il socialismo, era stata dichiarata impossibile
da chiunque tranne che dai partiti socialisti, essi hanno iniziato a
fondare la propria identità su ciò che restava loro: l’accento, il
luogo, la famiglia e l’etnia.”
E da siciliano, vale la pena ricordare quanto la “famiglia” abbia
rappresentato l’àncora di salvataggio dei meridionali in cerca di
giustizia e lavoro, in mancanza di uno stato. Ai siciliani avendo tolto
tutto, non è rimasto altro che fondare la propria identità, la loro
società, sulle uniche cose che si pretende che non possano essere tolte:
onore e famiglia.
La politica della paura soffia costantemente su questo ardente
bisogno di appartenenza, riproponendo i vecchi richiami mitologici del
sangue, del territorio nazionale, del maschio bianco, avendo chiaro un
progetto identitario e raccogliendo i delusi e gli emarginati dal
benessere, che la sinistra non è riuscita a realizzare minimamente.
D’altro canto la sinistra liberale ha narrato il mito
dell’universalismo che alimenta e non risolve questa crisi d’identità.
Baumeister e Leary (1995) hanno studiato il bisogno di appartenenza come
bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e
capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto.
Nell’idea di uniti nella diversità, l’universalismo della
pseudo-sinistra ha raccontato agli individui che le proprie peculiarità,
la propria identità sono uguali a quelle degli altri, senza spiegare
sufficientemente che, per uguale, non si intende senza differenze, ma di
ugual diritto. Questa ambiguità, mal raccontata cozza con l’atavico
bisogno di appartenenza dell’individuo che si identifica nei valori,
simboli e rituali di una comunità. Così adesso c’è chi, nel discorso fondativo di un nuovo corso, si presenta come il “padre” di una famiglia di figli disorientati in cerca di identità(3).
Ora, sicuramente la crisi economica è un fattore decisivo per
l’efficacia della strategia della paura, come lo dimostrano gli studi
sulla proporzionalità tra voti dati ai partiti di estrema sinistra e
destra durante gli anni’30 in Germania, alternata a periodi di
diminuzione degli stessi nel periodo di ripresa che precede il crollo
del’29, pur se posteriore alle rivendicazioni internazionali dei
Trattati di Versailles.
Ma, come mai, l’identità si sente minacciata in periodo di crisi, e non
durante un periodo di benessere economico? Perché cerchiamo di
ridefinire i criteri della nostra società soltanto allo scatenarsi della
crisi economica, pur avendo un numero totale di immigrati più o meno
costante nel periodo antecedente e posteriore alla stessa? I soldi e il
benessere corrompono la nostra identità oppure scopriamo quanto essa sia
importante soltanto quando ci stiamo impoverendo?
Intanto si potrebbe affermare che, come detto sopra, l’identità,
l’onore e il bisogno di appartenenza siano tutto ciò che resta ad una
persona a cui è stato tolto qualcosa. Ma non basta. Di fronte ad
un’espropriazione, ad un fallimento, alla negazione di futuro possiamo
reagire in due modi.
Il primo modo di reagire è infatti il più semplice. Possiamo mettere
la testa sotto la sabbia e individuare in coloro che sono già ultimi,
l’alibi dei nostri fallimenti, la causa dei nostri mali. La nostra
identità diventa così l’elemento più rilevante, perché é l’unica cosa
che ci rimane nel momento in cui rischiamo di perdere la nostra
posizione sociale, o la libertà di vivere dignitosamente.
La politica della paura scatena quel bisogno di appartenenza frustrato
dalla globalizzazione, evidenziando l’ importanza di ciò che ci
distingue da coloro che consideriamo gli ultimi e che rischiamo di
raggiungere in basso alla “piramide sociale”: l’identità di essere
italiani, bianchi, non troppo poveri, quindi ricchi, educati, buoni e
lavoratori.
Così ci definiamo, dando importanza a come ci vediamo idealmente
rispetto alla realtà, non ci resta che sentirci più forti puntando il
dito contro il debole, per issarci un attimo sopra qualcuno e sentirci
un po’ meglio.
Questo meccanismo non è altro che la teoria del “capro espiatorio”,
studiata ed elaborata da René Girard, secondo la quale, gli individui e
le società scaricano la responsabilità e le colpe su degli outsider, dei
capri espiatori, la cui eliminazione riconcilia gli antagonisti
riportando l’unità. La redenzione dalle colpe di una cattiva gestione
personale e collettiva della politica viene fatta attraverso il
sacrificio redentore degli ultimi. Su scala diversa è un po’ quello che
accade nel caso del bullismo. Proiettando nei difetti del più debole, le
proprie debolezze il bullo rafforza la propria immagine all’interno del
gruppo e l’immagine del gruppo stesso. Ognuno si sentirà più al sicuro
di far parte di un gruppo che incarna le proprie caratteristiche ed
elimina gli elementi di differenza.
Il terrore di ogni membro di subire la stessa fine dell’escluso, pur
somigliandovi, lo porterà a “farsi amico” il bullo e a simularne
imitandone i comportamenti. Egli ne diventa inconsapevolmente complice.
Lasciando stare in questa sede gli argomenti che spiegano che la nazione non è altro che un mito, una costruzione sociale e politica dell’Ottocento (4),
a questo punto, se proprio non riuscissimo davvero ad uscire dall’idea
che ci sia un gruppo, un “noi” e un “loro”, allora potremmo scegliere un
criterio diverso che definisca il “noi”.
Potremmo definire “noi” come i belli, e “loro” i brutti, oppure noi gli
intelligenti e loro gli stupidi. Prendercela con i brutti e con gli
stupidi ci farà sentire meglio e sarebbe facile, ma alla lunga dubito
che risolverebbe i nostri problemi.
Ma intanto è quello che stiamo facendo, giustificando il tutto con
teorie darwiniste della legge del più forte, raccontando che la società
umana sia retta dagli stessi principi del mondo animale. Peccato che
queste teorie, oltre usate a sproposito in quanto strumentali, siano
anche scientificamente false, dato che l’uomo, in quanto mammifero, è
l’essere con il più alto tasso di inclusione del malato e del diverso
attraverso le cosiddette cure parentali.
In effetti scegliere come criterio di “diverso” colui che è ricco,
vigliacco, corrotto e che evade, potrebbe anche significare puntare il
dito contro uno specchio; scegliamo quindi volutamente di mettere nel
contenitore di “diverso” ciò che non vogliamo essere e ciò che temiamo
di più essere: poveri, ultimi, senza nulla da perdere, emigrati, ma in
fondo è tutto ciò che siamo e non abbiamo il coraggio di raccontarcelo.
Quale sarebbe quel gruppo che esalta come caratteristiche proprie,
persino dell’italianità, la povertà, la disperazione che ti porta in
molti casi ad andare via? La memoria delle nostre emigrazioni è fin
troppo corta, e quando rievocata, viene fatta con toni agiografici di
chi descrive i nostri avi come gente seria che si è dovuta sudare tutto,
di fronte ai migranti di oggi, scansafatiche a cui tutto è dovuto.
Se scegliamo invece come criterio di definizione del “loro”, non
quello del “povero”, del “non italiano” ma quello di scoprire chi siano i
responsabili della crisi e del peggioramento della nostra situazione,
il quadro si fa inquietante.
Il secondo modo di reagire infatti consiste nel cercare di
riprenderci quel che ci è stato tolto da chi ne è il responsabile; ci
vuole una buona dose di coraggio nel dire e dirsi la verità, nel
guardarsi bene allo specchio e chiedersi cosa ho fatto per evitare
questo, oppure cosa posso fare oggi per riprendermi quanto ci è stato
tolto. E ci vuole ancora più coraggio nel riconoscere i veri
responsabili della situazione. Mettere in discussione se stessi e quello
che è stato il nostro modo di essere, persino le responsabilità di chi
ci ha preceduto, della nostra famiglia, chiedendosi se i nostri hanno
fatto il loro dovere, se hanno pagato le tasse, se si sono opposti
quando dovevano farlo, se hanno scelto il proprio tornaconto quando
questo cozzava con l’interessa generale.
Chi ha abbastanza coraggio nell’identificare i responsabili
dell’attuale situazione nella politica di favore alle banche, nella
corruzione e nell’illegalità diffusa a tutti i livelli, negli
imprenditori che sfruttano il lavoratore precario o stagista?
Chi ha abbastanza lucidità da definire come responsabili coloro che
hanno fatto sentire la nostra generazione come inadatti al mondo, di non
essere all’altezza di lavorare, e quindi di dovere necessariamente
vivere uno status di apprendista perpetuo fino ai 40 anni e oltre, fino a
quando non si potranno ereditare i benefici di una fantomatica
“gavetta”?
Chi si sente abbastanza onesto nell’individuare nei responsabili coloro
che, compreso la generazione dei nostri genitori, ci ha raccontato che
non eravamo all’altezza di avere una responsabilità, al punto che a loro
abbiamo affidato quella politica, insieme alla nostra indipendenza
economica?
E chi ha abbastanza senso della verità per affermare che responsabili di
uno stato spendaccione, oltre alla politica, vi sono milioni di evasori
che ci hanno, con il loro egoismo, tolto servizi, opportunità e
investimenti?
Basterebbe un briciolo di quel facile coraggio usato quotidianamente
dietro le nostre tastiere per affermare che il criterio che stabilisce
il “noi” e il “loro” dovrebbe essere quello dello sfruttamento, sotto
ogni sua forma: il rider di Foodora, l’impiegato controllato di Amazon,
lo stagista in nero o pagato in voucher presso il libero professionista,
l’operaio della fabbrica Whirpool che delocalizza per colpa di una
fantomatica crisi che si racconta per coprire i miliardi di dividendi
guadagnati dai consiglieri d’amministrazione della stessa azienda.
Il dito andrebbe quindi puntato contro il datore di lavoro che ti
tiene in continuo ricatto, contro il politico corrotto che ha preferito
qualcun altro a te, o a cui hai chiesto un favore per preferire te a
qualcun altro, contro il padre tuo o del tuo amico che ha evaso il
fisco, pretendendo dal politico che vota un comportamento più virtuoso
del proprio.
Insomma significherebbe in molti casi mettersi contro i propri padri,
i propri amici, o noi stessi che, oberati dal peso del dovere di
riuscire a tutti i costi, e sfruttati da qualcuno, abbiamo invece
scatenato volentieri le nostre frustrazioni contro chi sta sotto di noi,
evadendo, corrompendo o umiliandolo.
Un’esame di coscienza è quindi l’ostacolo posto davanti ad un futuro
migliore. Una presa d’atto sulle nostre responsabilità sarebbe la ruspa
che sfonda le mura della complicità su cui abbiamo costruito la nostra
pseudo-sicurezza minacciata dalla concorrenza migrante e più in generale
dell’Altro.
Invece di procedere a questa analisi, intanto scegliamo la prima
reazione, la via più comoda e facile, quella che consiste nel serrare i
ranghi e attaccare colui che è stato definito diverso da chi ha paura di
diventare povero, con criteri identitari, comunitari, di gruppo.
Accettiamo la guerra tra poveri perché in quella contro i ricchi non ci
crediamo. Ecco perché la politica della paura attecchisce in periodi di
crisi: come una vera scorciatoia mentale collettiva, essa permette di
auto-assolverci dalle nostre responsabilità, di evitare il confronto con
noi stessi, rendendo impossibile il confronto con l’Altro.
Link utili e approfondimenti:
(1)http://www.stateofmind.it/2017/06/amigdala-percezione-paura
(2) https://www.linkiesta.it/it/article/2017/06/20/paul-mason-questa-globalizzazione-crollera-loccidente-sta-vivendo-la-s/34645/
(3) https://www.internazionale.it/bloc-notes/christian-raimo/2018/07/03/salvini-pontida
(4) https://www.internazionale.it/video/2018/03/07/identita-nazionale-invenzione