"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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sabato 29 aprile 2017

I delusi del lavoro: la flessibilità non ha vinto, torna la richiesta del posto fisso




Il "lavoro" rimane un riferimento importante per la nostra società. Così la "Festa del lavoro" del Primo maggio suscita sempre grande consenso. Lo conferma il sondaggio condotto, nei giorni scorsi, dall'Osservatorio sul Capitale sociale di Demos-Coop per Repubblica. Più di due italiani su tre ritengono, infatti, che "celebrare" il Primo Maggio abbia ancora senso. È un sentimento diffuso in tutta la popolazione. Senza chiare "esclusioni" ideologiche. E quindi anche fra gli elettori di centro-destra e di destra. Celebrare il lavoro, a questi italiani, appare tanto più significativo perché si tratta di una risorsa sempre più scarsa e dequalificata. Una larga parte degli intervistati, oltre 7 su 10, afferma di non aver percepito la ripresa. Secondo loro, l'occupazione non è mai ripartita. E se le statistiche dicono cose diverse, loro non se ne sono accorti. Semmai, pensano che si sia allargato il lavoro "nero". E, ancor più, il lavoro "precario". Ne sono convinti 3 italiani su 4. D'altra parte non c'è fiducia nella politica e nelle politiche. Nei risultati delle leggi approvate negli ultimi anni. Meno di 1 italiano su 10 pensa che il Jobs Act abbia prodotto effetti. Mentre l'abolizione dei voucher ha convinto quasi tutti gli intervistati. Ma del contrario: allargherà ancor più il lavoro nero e precario. Il "reddito di inclusione sociale", invece, per ora, lo conoscono in pochi.

Così, il lavoro resta un riferimento importante, per gli italiani. Almeno, per gran parte di essi. Che celebreranno il Primo Maggio con un sentimento di "attesa". L'attesa che il lavoro ritorni. D'altronde, si assiste a un mutamento sensibile dei progetti, professionali e di vita, tra gli italiani, rispetto agli ultimi anni. In particolare, ritorna, con forza, la richiesta del "posto fisso", soprattutto nel settore pubblico. Checco Zalone lo aveva colto - e narrato - con efficacia, nel suo film "Quo vado?", un anno e mezzo fa. Oggi quell'intuizione appare confermata dai dati di questo sondaggio. Che, a differenza del film di Zalone, non sono divertenti. L'indagine di Demos-Coop, infatti, ci racconta come, nell'ultimo anno, il clima d'opinione intorno alle professioni libere e liberali si sia sensibilmente raffreddato. La quota di persone che, per sé e i propri figli, vorrebbero un'attività in proprio o da libero professionista, infatti, è in calo. Di qualche punto. Mentre l'unica vera "ripresa" convinta, nell'ambito del lavoro e dei "lavori", riguarda, appunto, il "posto fisso". Sottolineato dalla crescente importanza attribuita agli Enti Pubblici. Tanto delegittimati (per non dire disprezzati), come soggetti e come istituzioni, quanto apprezzati, come sbocchi professionali. Si ripropone, dunque, uno scenario noto, in un passato recente. Quando il grado di attrazione di "un" lavoro, coincideva con il suo livello di "sicurezza". Intesa come "stabilità" e "continuità". Mentre la "flessibilità" piaceva agli imprenditori - e ai politici "liberisti". Ma non ai lavoratori. Per questa ragione è significativo il sostegno espresso, nel sondaggio Demos-coop, all'ipotesi di ripristinare l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, abrogando le modifiche apportate dal Jobs Act del governo Renzi. Questa proposta, avanzata dalla Cgil, come quesito da sottoporre a referendum, era stata bocciata dalla Corte costituzionale, lo scorso gennaio. Ma oggi, nel sondaggio, ottiene il consenso di 7 italiani su 10. È un indice ulteriore del livello di sfiducia e di incertezza che pervade la società nei confronti del lavoro. Soprattutto e tanto più, negli ultimi anni. 


Tuttavia, alcuni segnali muovono in direzione diversa. Espressi, però da chi ha un lavoro. Ne indichiamo due, fra gli altri.

Il primo: le aspettative nel futuro. Cresce, infatti, la quota di lavoratori che scommettono su una situazione personale migliore, "nei prossimi 2-3 anni". Oggi è circa il 30%. Tuttavia, quasi un lavoratore su due ritiene che la propria condizione non cambierà. E per il 18% potrebbe, perfino, peggiorare. L'altro segnale in controtendenza riguarda la soddisfazione del lavoro svolto. Molto elevata, per il 55% del campione intervistato da Demos-Coop. Ma, comunque, più che sufficiente, per un altro 27%. Solo il 18% degli italiani, in definitiva, si ritiene insoddisfatto del lavoro svolto. Tuttavia, il problema riguarda "gli altri". La componente "esclusa" dal mercato del lavoro. A questo proposito è interessante il tratto generazionale che impronta l'insoddisfazione. Particolarmente marcata fra i "giovani-adulti". Coloro che hanno fra 25 e 34 anni. Nati fra i primi anni 80 e 90. Le fasce "anziane" dei Millennials. Ancora "giovani" e non ancora "adulti". In una società nella quale la giovinezza si prolunga sempre più, ma riflette dipendenza, rinvio dell'autonomia. I "giovani-adulti": non riescono ad affrancarsi dalla famiglia (non conviene), né a mettersi davvero in proprio. Oggi, si sentono più precari di alcuni anni fa. Sicuri che, se mai riuscissero a raggiungere la pensione, questa non basterebbe per vivere.

A loro, il lavoro appare un'esperienza meno soddisfacente rispetto agli altri. Anche perché, più degli altri, ne sono esclusi. Per questo, come gran parte della popolazione, ritengono che i giovani, per fare carriera, se ne debbano andare dall'Italia. E molti di essi se ne vanno davvero. Spesso non ritornano.

La loro "insoddisfazione", peraltro, si è espressa anche politicamente, quando hanno bocciato, in massa, il referendum costituzionale.

I giovani-adulti: sono lo specchio di una società che invecchia senza accettarlo. Una società di finti-giovani.








Non "i barbari" ma il vuoto di valori ci finirà


Credo che noi siamo in una situazione molto simile a quella in cui dovettero trovarsi a vivere i Romani nei decenni che precedettero il crollo dell’Impero. C’è nell’aria un ‘sensus finis’, un’assenza di speranze, collettive e individuali, uno sfinimento, uno sfibramento, una mancanza di vitalità, un sentimento di impotenza. Che sono i classici segni di un mondo in decadenza. 

I ‘barbari’ sono alle porte, molti sono già dentro le mura, premono, come ai tempi dell’Impero, ai nostri confini. I Goti, i Burgundi, i Franchi, i Vandali poterono averla vinta sulle ben più potenti e organizzate armate romane, fino a conquistarne la Capitale, riducendola ai tempi dei Lanzichenecchi a 37 mila abitanti, perché nei secoli precedenti, l’Impero e le sue strutture istituzionali e mentali erano state corrose da un tarlo che si chiamava cristianesimo. Invano gli imperatori, da Diocleziano in poi fino all’ultimo e disperato tentativo di Giuliano l’Apostata, avevano cercato di estirpare, con la repressione e la violenza, questo tarlo. Il mondo pagano, corrotto fino al midollo proprio a cagione della propria potenza, verrebbe da dire della Superpotenza, non poté nulla contro un’ideologia che portava in sé valori fortissimi e nuovi. Ma solo parzialmente nuovi perché originavano dal giudaismo. Insomma il cristianesimo rimaneva un fenomeno mediterraneo che non partiva dal nulla e non veniva dal nulla. Perciò nel giro di pochi secoli il cristianesimo poté avere di fatto la meglio sul mondo germanico, apparentemente vincitore, convertendolo a sé com’è documentato dai canti dell’Edda. Alle quasi infinite superstizioni che avevano attraversato quel mondo, ma che avevano anche, per misteriosi canali, molti punti di contatto con la Bibbia e con il Vangelo, se n’era sostituita un’altra, unica, più forte, più convincente, più coinvolgente.

Ma anche il cristianesimo, tradotto da San Paolo in una struttura potente, religiosa ma anche temporale come la Chiesa, aveva in sé i germi e i prodromi della sua fine. Dopo venti secoli di egemonia e di ascesa il pensiero cristiano nelle sue varie declinazioni cattolica, ortodossa, protestante ha terminato la sua fase propulsiva, per dirla con le parole di Enrico Berlinguer in riferimento al comunismo sovietico. 

Forse noi non abbiamo compreso appieno cosa ha voluto dire “la morte di Dio”. Quando Friedrich Nietzsche la proclama nei primi anni ’80 dell’Ottocento, constata, con qualche decennio di anticipo, perché era un genio, che Dio, in virtù o a causa dell’Illuminismo e dell’affermarsi della Dea Ragione, è morto nella coscienza dell’uomo occidentale. Ma i suoi funerali non saranno affatto indolori. Non per nulla il capitolo successivo a questa affermazione nicciana si intitola Incipit tragoedia. Dio sarà sostituito dalle Ideologie. Ma le Ideologie, nel giro di un tempo relativamente breve, due secoli e mezzo all’incirca, periranno anch’esse. E anche la loro morte, come quella di Dio, verrà salutata come una liberazione. Invece è un’altra tragedia. Perché è venuto meno ogni punto di riferimento laico o religioso (un Dio morto non può essere resuscitato), non potendosi considerar tale il libero mercato che non è nemmeno più non dico un’ideologia, com’era ai tempi di Adam Smith e di David Ricardo, ma neppure un’idea. E’ semplicemente un meccanismo che va per conto suo, autopotenziandosi nella misura in cui indebolisce l’uomo che lo ha innescato, sfuggito di mano non solo agli ‘apprendisti stregoni’ che lo concepirono, ma anche alle mosche cocchiere che si illudono di guidarlo e del quale, prima o poi, saranno anch’esse vittima.

Da qui lo smarrimento che ci coinvolge tutti, poveri e ricchi. E la paura, l’abbietta paura (basta pensare a quanto è avvenuto pochi giorni fa alla Gare du Nord dove c’è stato un fuggi fuggi generale dei passeggeri, che hanno abbandonato persino i loro bagagli, la ‘robba’, perché un uomo si aggirava armato di un coltello) nei confronti dei ‘nuovi barbari’ che sono davvero, a differenza di quelli d’antan, ‘altro da noi’. Ma non è del terrore che noi dovremmo aver terrore. Ma del nostro vuoto di valori. Sarà questo che ci perderà, nonostante noi occidentali si sia tanto superiormente armati, come lo erano i Romani di fronte alle orde di origine germanica. 

Presso ogni cultura, quasi senza eccezioni, è previsto che il proprio sistema di valori non sia eterno, ma a un certo punto collassi. Ma la favola convenuta, nella inesausta necessità di speranza che è propria di quella tragica creatura che è l’uomo, vuole che dopo ogni krisis, intesa in senso greco, rinasca un mondo migliore e più degno di essere vissuto. A noi non resta che aggrapparci a questa favola e augurarci che non sia veritiera la premonizione di Eraclito che nel VI secolo prima di Cristo ammoniva che l’umanità era destinata a degenerare senza soluzione di continuità. Anche se la Storia, almeno finora, sembra dargli ragione.



mercoledì 26 aprile 2017

Arte satellitare (Lassù qualcuno ci guarda!)

La visione dall’alto della realtà risulta sempre affascinante perché offre le caratteristiche prospettive “falsate”, uno strano “schiacciamento” delle masse solide ed un insolito risalto cromatico. Per queste evidenti ragioni ha sempre suscitato l’interesse di tutti coloro che cercano di osservare il mondo da un punto di vista svincolato dalla modesta statura degli esseri umani per comprendere meglio la dimensione terrena  e la grandezza dell’Universo.

L’introduzione delle riprese aeree nella Storia della Fotografia si deve al pioniere ottocentesco Gaspard-Félix Tournachon, noto come  Nadar, un eccelso ritrattista che nel 1858, volando su Parigi a bordo di una “tecnologica” mongolfiera, realizzò le prime incredibili fotografie aeree.


Oggigiorno è possibile realizzare delle formidabili fotografie  con l’ausilio fornito dalla piattaforma virtuale Google. La differenza sostanziale, tra quanto ci consente di osservare il servizio dell’azienda americana e le precise immagini estrapolate, consiste nello scopo informativo di indirizzo divulgativo e scientifico da parte di Google e nella ricerca estetica compiuta, invece, dagli intraprendenti artisti. Il prevedibile successo della nuova tecnica di reportage naturalistico è divenuto realtà. Gli appassionati di fotografia satellitare diventano sempre più numerosi ed insieme allestiscono anche splendide mostre collettive animati dalla comune  ricerca delle bellezze naturali e della difesa della nostra Terra. Senza allontanarsi dal computer, coloro che praticano questa moderna tecnica hanno annullato ogni distanza e superato tutti i confini per accedere agevolmente anche alle opere d’arte presenti in tutto il Pianeta.



Il grafico palermitano Max Serradifalco è stato tra i primi a creare valide espressioni artistiche attraverso la “perlustrazione” satellitare rivelatasi particolarmente stimolante e creativa.

La mostra “Meta Land Art. Apofenie Satellitari”, a cura di Fabiola Di Maggio, propone le opere dell’ultimo progetto fotografico realizzato da Max Serradifalco. In occasione dei suoi eventi espositivi precedenti, Massimiliano aveva individuato una serie di panorami satellitari attirato da particolari elementi oro-idro-geologici, mentre, nella sua produzione più recente, l’artista ha puntato l’attenzione principalmente sulle opere di Land Art, degli artisti Robert Smithson, Nancy Holt, Michael Heizer, Alberto Burri e James Turrell, collocate in diverse regioni del mondo. Dalla tenace ricerca di Max Serradifalco scaturiscono immagini nuove, che costituiscono certamente opere suggestive, all’interno delle quali si trova il monumento originale (Land Art) contestualizzato nel territorio su cui insiste. Dalla  fusione di arte e natura, presenti contemporaneamente nelle grandi stampe fotografiche ottenute, nasce un nuovo esemplare di opera meta-artistica. Ma la più curiosa particolarità è rappresentata dall’insolito aspetto col quale vengono percepite le forme e gli spazi ripresi. Si tratta di “apofenie”, che consentono all’immaginazione dell’osservatore di scorgere in forme casuali o astratte delle improbabili immagini figurative. Le sagome e i volti più o meno distinguibili tra la vegetazione e i rilievi, sembrano trovarsi sul posto appositamente per contemplare l’opera creata dall’artista. L’autore, inoltre, ha scelto di non alterare le immagini né di modificare i colori della terra ed il risultato finale, talvolta, può sembrare proprio un dipinto. Realizzati in numero limitato e certificati dall’autore i lavori di Max Serradifalco hanno già suscitato l’interesse di parecchi collezionisti.


La mostra “Meta Land Art. Apofenie Satellitari” di Max Serradifalco, a cura di Fabiola Di Maggio, organizzata dal  Polo Museale regionale d’Arte moderna e contemporanea di Palermo, è stata inaugurata sabato 8 aprile e resterà allestita presso la Foresteria di Palazzo Belmonte Riso, in via Vittorio Emanuele a Palermo, fino al 7 maggio 2017 (orario visite martedì mercoledì e domenica dalle 10 alle 19,30, il giovedì, venerdì e sabato dalle 10 alle 23,30). L’ingresso è libero.


lunedì 24 aprile 2017

Il Mediterraneo. Così vicino, così lontano



 
Una storia ricca di invasioni, conquiste e migrazioni, di ricchezze e di povertà, tra intolleranza e comprensione, battaglie e intensi commerci. La storia dei popoli del Mediterraneo. Medius – Terraneus, dove il mare è il centro ed i continenti da esso bagnati, Asia, Africa ed Europa, sembrano periferie.

Un mare che ha sempre favorito lo scambio di culture, che trasporta gli stessi sentimenti in lingue diverse, talvolta anche con le stesse parole. Gesti nei quali ci riconosciamo, parole comuni, musica con le stesse sonorità, stessi sapori, nei fiori gli stessi odori, sulla pelle solo sfumature della stessa luce.

Una magia: puoi chiudere gli occhi per riaprirli dentro un mercato e chiederti se sei in Sicilia o in Marocco, in Tunisia o addirittura in Turchia o in Israele. Dentro una medina, in una casbah, fra banchi e bancarelle di un mercato dove si sente lo stesso vocìo, le stesse “banniate” da secoli incomprensibili e famigliari, le stesse merci e gli stessi volti.

Ed io ho vissuto questa magia.

Con tre amici partiamo sul nostro piccolo fuoristrada per un Capodanno in Tunisia. Avevamo deciso di fermarci a Tunisi solo un giorno, giusto il tempo di ambientarci e pianificare questo tour day-by-day, con la nostra guida turistica per viaggiatori indipendenti come unico riferimento.

Così stabiliamo di risalire verso nord-ovest sulla costa, decisi a fermarci a Bizerte, conosciuta per essere la città più antica e più francese della Tunisia.

Lasciamo in custodia il nostro mezzo e girovaghiamo per strade e vicoli cercando di scoprire tutto di quel luogo in cui ci troviamo per la prima volta.

La primissima cosa che mi colpisce è il porticciolo circondato da  piccole costruzioni a schiera color sabbia, dalle porte e finestre celesti, e la sua somiglianza con la mia amata Marettimo.

Ci avviciniamo curiosi alle barche ancorate. C’è un giovane pescatore seduto sul bordo interno della sua imbarcazione, che discute probabilmente con un cliente in piedi sul molo. In un turbine di gesti gli indica il suo pescato.

Vengo catturata da un particolare e non sconosciuto movimento: dopo aver segnato dei numeri su un quadrato di cartone, il marinaio, con un rapido gesto, ripone la biro sul lobo superiore dell’orecchio continuando ad indicare la somma con un dito ed insistendo più volte su alcune cifre – si tira sul prezzo? Un sorriso suscitato dalla familiarità del gesto: lo stesso dei nostri venditori di pesce al mercato, che probabilmente scelgono quella collocazione così pratica per  riporre e ritrovare velocemente la penna, la sigaretta, l’ago per cucire le reti. Un gesto, un piccolo segno che rimbalza sul Mediterraneo.

Proseguiamo verso la casbah alla nostra sinistra, andiamo a zonzo, senza consultare la guida; c’è tanto da vedere e non voglio perdermi la sorpresa di girare un angolo e trovarmi davanti uno spettacolo mai visto.

Imbocco un vicolo, e ad ogni passo si fanno sempre più forti suoni di voci concitate. gli odori di spezie e di cibo che l’aria tiepida porta con sé. Sono di certo vicina al mercato, e infatti, girato l’angolo, il mercato è lì: colori, suoni, odori… frastornata chiudo gli occhi per un istante, assaporo i profumi, ascolto le voci dei venditori che con enfasi o con le consuete cantilene esaltano le loro mercanzie.

E riaprendo gli occhi mi si svelano colori che mi sono familiari. Per un attimo penso di non essere mai partita, di trovarmi al mercato di Ballarò o al Capo. Il banco del pesce di fronte a me ha in bella mostra sarde, orate, spigole, piccoli merluzzi e triglie di scoglio… Il pesce azzurro. Il pesce pescato nello stesso mare della mia città. No, non sto sognando, sono proprio a Bizerte, ma non sono  “straniera”, sono a casa.

Nei nostri dialetti vivono le parole di questi popoli, nei nostri gesti le stesse loro espressioni: quelle del popolo mediterraneo.

Attorno a questo mare nessuno è estraneo. Anche se i confini tra gli Stati possono essere rigidi, quelli culturali sono fluttuanti e intrecciano un’identità in continua evoluzione, cambiamento. Inarrestabile come il mare.



domenica 23 aprile 2017

Gli Stati Uniti uccidono molto più del morbillo

 
Il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) di Atlanta ha diffuso una nota in cui consiglia ai cittadini americani di prendere delle precauzioni quando vengono in Italia perché il nostro Paese è ad alto rischio epidemiologico. Vi infuria una pericolosissima malattia: il morbillo. Nei primi tre mesi di quest’anno il morbillo ha colpito 1.473 persone. Un’enormità, circa lo 0,0025% della popolazione italiana. Per la prima volta siamo considerati un Paese ‘a rischio’ come la Sierra Leone colpita dal virus dell’Ebola.
Il morbillo, come la varicella o la rosolia, è una di quelle classiche malattie esantematiche (le ‘malattie infantili’ come si diceva una volta) che, scarlattina a parte, non hanno mai fatto male a nessuno. Nella mia generazione, che è quella della guerra e del primo dopoguerra, tutti abbiamo preso il morbillo, eppur siam vivi. Ci facevano molta più paura (o meglio la facevano ai nostri genitori) le bombe che gli americani gettavano a man bassa su Milano senza peraltro riuscire a colpire un qualche obbiettivo militare come la Stazione Centrale. Il morbillo, come la varicella o la rosolia, è probabilmente una autoimmunizzazione. Tanto che ai tempi miei molte madri usavano mettere i loro figli sani accanto ai bambini malati di morbillo, così se lo beccavano e non ci si pensava più. Solo in casi rarissimi il morbillo –ma il discorso vale anche per una semplice influenza- può avere effetti collaterali pericolosi. Ma evidentemente gli americani lo temono come la peste. Del resto sono dei maniaci dell’igiene oltre che del controllo su tutto e su tutti. A qualcuno dei lettori sarà certamente capitato di andare a letto con qualche ragazza americana del tipo WASP. Ti chiede preventivamente di farti una doccia, poi va in bagno e si fa abluzioni per mezz’ora. Quindi esce con una camicetta (un tempo babydoll) in cui manca poco che ci sia scritto “fuck me”. E a te cade tutta la libido, ammesso che non l’avessi persa nel frattempo.
Molto attenti alla loro salute (anche se l’Aids in grande stile è partito proprio dall’America a causa di una eccessiva promiscuità omossessuale e bisessuale) lo sono pochissimo per quella altrui. E’ notizia di pochi giorni fa che hanno gettato la GBU-43 Massive Ordnance Air Blast bomb detta in acronimo Moab e in volgare la ‘madre di tutte le bombe’, di cui negli States pare che vadano molto fieri (qualche flebile protesta c’è stata solo per il costo: 314 milioni di dollari che forse potevano essere usati diversamente) un ordigno dal peso di 10 tonnellate che certo fa un po’ più male del morbillo. “Non si sa, non è ancor certo” se abbiano colpito gli jihadisti, il loro obbiettivo dichiarato, ciò che è sicuro è che i contadini afgani che abitavano nelle vicinanze dell’esplosione non ne sono usciti bene.
Gli americani hanno una vera fobia per le ‘armi di distruzione di massa’ specialmente chimiche. Non fan che disegnare ‘linee rosse’ insuperabili, quando queste armi le usano gli altri. Eppure sono i più grandi dispensatori di ‘armi di distruzione di massa’. Chi ha gettato l’Atomica su Hiroshima e, tre giorni dopo, su Nagasaki quando il Giappone era già in ginocchio? Al bilancio di 80 mila morti in un colpo solo va aggiunto quello, ancor più grave, dei bambini e degli adulti contaminati per decenni dalle radiazioni nucleari. Hanno usato il napalm in Vietnam. Hanno utilizzato proiettili all’uranio impoverito in Bosnia. Fra i soldati italiani che accompagnarono quella spedizione punitiva antiserba i morti per leucemia, al 2016, sono 333 e quelli che si sono ammalati di cancro per essersi contaminati con quei proiettili sono oltre 3.600 (dati forniti dall’Osservatorio Militare). Non si hanno informazioni precise sugli abitanti di Bosnia, ma se tanto mi dà tanto i morti e gli ammalati devono essere molti di più, visto che i nostri soldati qualche precauzione l’avevano pur presa e sul territorio ci sono stati per un periodo limitato, mentre gli abitanti hanno continuato a viverci o piuttosto a morirci.
In Afghanistan, per stanare gli uomini di Bin Laden nascosti nelle caverne di Tora Bora, hanno usato i gas tossici per stessa ammissione del segretario della Difesa Donald Rumsfeld. E poi hanno continuato imperterriti. Nel marzo del 2003 un vecchio, Jooma Khan, che viveva in un villaggio della provincia di Laghman, nell’Afghanistan nord-orientale, ha raccontato: “Quando vidi mio nipote deforme mi resi conto che le mie speranze per il futuro erano scomparse. Ciò è differente dalla disperazione provata per le barbarie russe, anche se a quel tempo persi mio figlio più grande, Shafiqullah. Questa volta invece sento che noi siamo parte dell’invisibile genocidio che l’America ci ha buttato addosso, una morte silenziosa da cui non potremo fuggire” (Robert C. Koehler, in Tribune Media Services, 2004). Del resto ai genocidi, silenziosi o meno, questi cowboy vigliacchi non sono nuovi. Parte della loro storia inizia col genocidio dei pellerossa, usando, oltre i winchester contro le frecce, l’’arma chimica’ del tempo, il whisky, per indebolire e fiaccare una popolazione altamente spirituale, poi descritta nei loro indecenti film western come tribù di barbari ‘scalpatori’. In seguito li hanno chiusi nelle riserve, ma non bastandogli continuano a farci i loro porci comodi. Nel gennaio di quest’anno Donald Trump ha deciso, nonostante la disperata opposizione dei Sioux, di far passare alcuni oleodotti nelle loro riserve del North Dakota.
Se erano vigliacchi in partenza ora lo sono diventati all’ennesima potenza. Non hanno il coraggio di scendere sul terreno, ma usano quasi esclusivamente bombardieri e droni. Affermano che l’Isis è il maggior pericolo per l’Occidente, ma per conquistare Mosul utilizzano il coraggio (quelli ce l’hanno) dei peshmerga curdi e dei pasdaran iraniani. Non c’è quasi ospedale che non abbiano colpito, in Afghanistan, in Siria e altrove.
Dal 1990, collassato il contraltare sovietico, non fanno che inanellare guerre di aggressione: prima guerra del Golfo (1990), guerra antiserba in Bosnia con l’appoggio degli europei (1992-1995), guerra alla Serbia del 1999 con la partecipazione di altri membri di quella finzione che è la Nato, ma non tutti (la piccola Grecia si rifiutò di parteciparvi, l’Italia invece si prestò nella poco nobile parte del ‘palo’, gli aerei che andavano a bombardare Belgrado partivano da Aviano), guerra all’Afghanistan (2001-?), guerra all’Iraq (2003) nonostante l’opposizione dell’Onu che si era opposta anche all’aggressione alla Serbia, guerra alla Somalia per interposta Etiopia (2006-2007), guerra alla Libia (2011) con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti quelli che ora piangono lacrime di coccodrillo. In attesa di ulteriori sviluppi della crisi nordcoreana.
Hanno un centinaio di basi militari, anche nucleari, in tutto il mondo, persino nella piccola e pacifica Islanda, e possono colpire chi vogliono e quando vogliono.
E allora chi sono i terroristi internazionali? Una bella epidemia di morbillo e magari di varicella e anche di pertosse è il minimo che gli si può augurare.


I problemi della tutela contro le notizie false




La libertà di espressione del pensiero è la regola prima della democrazia. Ma che fare quando se ne abusa? «Uno dei problemi più gravi del momento» — ha scritto il procuratore di Roma — è quello di un’informazione inadeguata e manipolatrice, alcune volte denigratoria e diffamatoria. Particolarmente grave quando corre sul «web», che consente una straordinaria circolazione delle informazioni, ma è una specie di giornale senza né direttore né redazione, quindi senza autocontrolli. Lì l’ottavo Comandamento, quello che proibisce la menzogna, viene violato ancor più facilmente e più di frequente, come la cronaca recente ha dimostrato, con notizie false, di cui è difficile capire la fonte, è complesso identificare l’autore, impossibile richiedere che vengano fornite le prove. 

Il nostro ordinamento è attrezzato per far fronte a questo problema? La Corte di Cassazione ha fatto molto bene il suo dovere, fissando, in una ricca giurisprudenza che risale alla sentenza-decalogo del 1984, i criteri ai quali debbono attenersi i tribunali. Essa ha stabilito che il «free speech» deve essere bilanciato con l’interesse alla reputazione e il diritto all’onore. Che vi è diritto di critica, purché i fatti siano veri e riferiti in modo completo, indicando la fonte e verificandone l’attendibilità. Che alla critica è richiesta «continenza espressiva» (non deve cioè contenere ingiurie e inutili offese) e obbligo di motivazione (cioè il dissenso deve essere spiegato). Infine, che vi è diritto di satira, e che questa può essere anche aspra e pungente, purché rispetti gli stessi limiti della critica. 

Questi principi che consentono di bilanciare libertà di stampa e reputazione di coloro che sono oggetto di critica, come sono stati applicati? Conosciamo i dati relativi al Tribunale di Roma, dove, dopo un decennio di severità, vi è stata una inversione di tendenza, con il rigetto di quasi tre quarti delle domande di risarcimento. Da ultimo, ha ripreso quota un atteggiamento più severo, simboleggiato da tre sentenze esemplari, pronunciate in sede civile, per il risarcimento dei danni subiti, da corti diverse. La Corte di appello di Milano, e poi la Corte di cassazione, hanno ritenuto che l’onore di Ilda Boccassini fosse stato leso da opinioni espresse su Panorama senza «continenza», senza controllare la veridicità dei fatti, a scopo denigratorio. Il Tribunale di Torino è giunto a conclusioni analoghe riguardo a Renato Schifani, nei confronti del quale erano stati pubblicamente espressi, alla Rai, giudizi ingiuriosi non motivati. Il Tribunale di Milano e poi, recentemente, quello di Roma hanno riconosciuto le ragioni di Giuliano Amato, affermando che notizie e giudizi contenuti in un libro e nel Fatto quotidiano, relativi all’acquisto dell’abitazione, al cumulo di stipendio e vitalizio, ai rapporti con il Monte dei paschi, erano frutto di manipolazioni, non rispettavano il criterio della «continenza», non erano attendibili. 

Se, dunque, il sistema giudiziario, fissati i criteri, ne ha fatto applicazione, possiamo ritenerci soddisfatti? Rimangono due problemi aperti. Il primo riguarda l’intensità e la frequenza della tutela giudiziaria. «Fake news», ingiurie, denigrazioni, campagne diffamatorie, «bufale», affermazioni ciarlatanesche, sono sempre più frequenti, ma i giudici faticano a star loro dietro. Dunque, sarebbe necessaria maggiore attenzione da parte dei giudici, attivati dall’iniziativa delle persone offese, moltiplicando i casi esemplari, come quelli citati. 

Il secondo problema riguarda quel terreno vastissimo e sconosciuto che è la rete. Si tratta di un terreno poco sorvegliato. Gli stessi interessati possono essere oggetto di offesa senza venirne a conoscenza. Non vi sono filtri interni, quali possono essere i giornalisti in una trasmissione televisiva o in un quotidiano o settimanale. I gestori delle reti o i fornitori di servizi «on line» dichiarano di non essere responsabili di quel vi viene immesso (basti pensare al caso della vendita di cimeli nazisti in Francia, sollevato dall’unione degli studenti ebrei, o al «diritto all’oblio», sollevato da uno spagnolo). Google e Facebook hanno avviato tentativi di controllo, ma finora senza successo. Non c’è neppure un’autorità pubblica globale. L’«Internet Corporation for Assigned Names and Numbers» (Icann) è un ente di governo della rete, ma regola alcuni problemi tecnici di vertice, e i vari «registries» e «registrars» territoriali fanno altrettanto a livello locale. Essi, tuttavia, non si interessano delle notizie immesse in Internet. Qui c’è una vera lacuna da colmare, alla quale si spera che le corti pongano rimedio (la Cassazione in sede penale, peraltro, ha già sanzionato messaggi sulla rete, a mezzo di blog o tramite Facebook), cercando su base nazionale una soluzione che possa essere accettata a livello globale (altrimenti, succederà quel che è accaduto nel caso della vendita di oggetti nazisti, proibita dal codice penale francese, che è continuata da un sito collocato in altra nazione). 



venerdì 21 aprile 2017

Altro che pace: il Papa non stringa mani insanguinate


Papa Francesco aveva deciso di andare in Egitto, dove avrebbe incontrato, come incontrerà, anche il generale Abd al-Fattah al-Sisi, prima dei due attentati terroristici, marcati Isis, che hanno causato 46 morti e circa 160 feriti. Il motto di questo viaggio era: “Il Papa di pace nell’Egitto di pace”. L’Egitto di pace! Il Papa dimentica, come tutti dimenticano o fan finta di dimenticare, che cos’è il regime di Al Sisi e come costui è diventato il dittatore di quel Paese. 

Il 24 giugno del 2012 le prime elezioni libere in Egitto erano state vinte dai Fratelli Musulmani, movimento sostanzialmente moderato guidato dall’avvocato Mohamed Morsi. Nell’anno e mezzo in cui Morsi ha potuto guidare il Paese i Fratelli Musulmani non si erano macchiati di alcun crimine, come invece ho sentito incredibilmente affermare in un servizio di Sky Tg24 che mischiava disinvoltamente e appositamente le date: nessuna persecuzione religiosa, tantomeno nei confronti dei cristiani copti, nessun arresto di oppositori politici, neppure di quelli che avevano appoggiato la precedente e trentennale dittatura di Hosni Mubarak, nessuna restrizione alle libertà civili, nessuna legge tipo sharia diversa da quelle che già vigeva in Egitto. E infatti per trovare un pretesto per rovesciare il governo Morsi si dovette ricorrere alla ridicola accusa che era “inefficiente”. A parte che, inefficienti o meno, i Fratelli Musulmani non potevano essere particolarmente preparati al governo perché essendo stati gli unici oppositori di Mubarak avevano pagato questa opposizione a carissimo prezzo: arresti, torture (in cui la polizia egiziana è specializzata), assassinii, desaparecidos. Ed è proprio per questa loro opposizione alla dittatura, mentre i cosiddetti ‘laici’ se ne stavano al coperto ben stretti al regime di Mubarak, che gli egiziani li avevano premiati, votandoli e portandoli al governo. 

Il 3 luglio del 2013 il generale Al Sisi fu autore di un colpo di Stato appoggiato da tutti i dirigenti politici occidentali (Matteo Renzi si spingerà a definire Al Sisi “un grande statista”). Morsi, con tutta la dirigenza musulmana, fu messo in galera e sottoposto a un processo farsa. Approfittando di una manifestazione contro il colpo di Stato, in cui era stato ucciso un poliziotto, furono uccisi 2.500 oppositori, quasi tutti Fratelli Musulmani. Altri verranno assassinati in seguito. Altri ancora finiranno fra i desaparecidos, circa 4.000, di cui ci siamo accorti solo quando è stato assassinato Giulio Regeni che non è che uno dei tanti. Nel frattempo Al Sisi procedeva a istituire Tribunali Speciali, ad abolire di fatto la libertà di stampa, a vietare ogni tipo di manifestazione, a procedere ad arresti indiscriminati (40 mila oppositori sono in galera). Adesso, dopo gli attentati di Tanta e di Alessandria, Al Sisi ha proclamato tre mesi di ‘stato di emergenza’ cioè come ha osservato sarcasticamente un oppositore socialdemocratico (i Fratelli Musulmani stanno comprensibilmente alla macchia) continuerà a fare ciò che ha sempre fatto: crimini e misfatti. 

Il paradosso dei paradossi in questa vicenda è che il generale Al Sisi era stato l’uomo forte del governo Mubarak. Insomma veniva restaurata la dittatura precedente con alla testa un despota se possibile ancora più sanguinario. Si ripeteva la stessa storia avvenuta in Algeria quando nel 1991 il FIS (Fronte Islamico di Salvezza), anch’esso sostanzialmente moderato, aveva vinto a larghissima maggioranza le prime elezioni libere algerine dopo decenni di una sanguinaria dittatura dei generali tagliagole. I dirigenti del FIS furono arrestati e uccisi, migliaia di militanti trucidati. Il pretesto di questa mattanza, appoggiata come sempre dall’Occidente, era che il FIS avrebbe istaurato una dittatura, cioè per evitare una ipotetica dittatura si riportava al potere quella, concretissima, precedente. Ma nel caso di Morsi e dei Fratelli Musulmani non può nemmeno valere questo pretesto. Perché i Fratelli hanno governato per un anno e mezzo senza istaurare alcun regime, ma in perfetto stile democratico. Non ci si può ora stupire se, stando così le cose, una frangia dei Fratelli Musulmani è andata a ingrossare le file dell’Isis e da qui viene la serie di attentati culminati, per il momento, negli eccidi della domenica delle Palme.
Ora nessuno, nemmeno un Papa, può gabellare l’Egitto di oggi, l’Egitto di Al Sisi, come “Un Paese di pace”. Un Papa può fare naturalmente ciò che vuole ma se va a stringere le mani piene di sangue di un dittatore tagliagole come Abd al-Fattah al-Sisi non può pensare di mantenere una credibilità morale. Sarebbe come se un Papa, allora era Montini, nel 1973 o negli anni successivi fosse andato a stringere la mano al generale Pinochet. Ma Montini non lo fece. Anche perché, sia concesso di dirlo a chi sta in partibus infidelium, era di un’altra caratura, intellettuale e morale.

 

Viale Vaccini





Ma vi rendete conto che un quivis de populo, un passante, un signor nessuno che non ha neppure un mestiere e che l’ultima volta che fu eletto fu al Comune di Firenze e poi basta, che non è più premier e neppure segretario del suo partito, tiene in ostaggio un intero Paese, che incidentalmente è il nostro? Vi rendete conto che questo noto frequentatore di se stesso ha appena nominato i vertici delle aziende di Stato, controlla militarmente le tre reti e i tre tg della Rai, dà ordini al governo e le pagelle ai ministri, pretende una punizione esemplare o meglio la chiusura dell’unico programma di giornalismo investigativo rimasto (Report) e – siccome l’unica qualifica che gli è rimasta è quella di figlio di papà Tiziano – fa il diavolo a quattro affinché il Csm o il ministro della Giustizia o magari i caschi blu dell’Onu radano al suolo la Procura di Napoli e il Noe che hanno osato scoperchiare le tangenti e i traffici alla Consip per truccare il più grande appalto d’Europa? Ieri abbiamo scritto che B. non sa più che dire e fare perché i renziani gli rubano le parole, le leggi e le malefatte di bocca. Ma c’è una differenza: pur con tutti i conflitti d’interessi, B. era un premier e un leader eletto dal popolo. Renzi non ha mai sottoposto se stesso né il suo programma (lo stesso di B.) agli elettori ed è improbabile che, se l’avesse fatto, avrebbe avuto la maggioranza. 

Figurarsi quanti voti prenderebbe nel popolo del centrosinistra se li chiedesse per attaccare i pm e gl’investigatori che indagano su suo padre e i giornalisti che non gli chiedono il permesso. La canea scatenata dall’inchiesta di Report sul vaccino contro il papilloma virus fa dubitare della legge Basaglia. Prima di trasmetterla, il direttore Sigfrido Ranucci ha premesso che “il servizio non è contro l’utilità dei vaccini. Parliamo di farmaco-vigilanza. Di cosa succede quando ti inietti il vaccino e hai una reazione avversa. La legge prevede che il medico informi l’ufficio di farmaco-vigilanza entro 36 ore. Ma in quanti lo fanno?”. Poi il racconto di alcune ragazze affette da Hpv che, dopo il vaccino, hanno subìto reazioni avverse e faticato a segnalarle ai medici e alla vigilanza. Anche perché i dati sugli effetti negativi sono discordanti, inattendibili, sottostimati per la carenza di studi e istituti davvero indipendenti: forse per non creare allarmismi fra la gente poco informata, più probabilmente per compiacere le case farmaceutiche, che muovono capitali spaventosi, si comprano i media e spesso la ricerca, la medicina e la vigilanza. Di che altro dovrebbe occuparsi il “servizio pubblico”, se non della nostra salute? 

  Lo spiega bene al Fatto il farmacologo Silvio Garattini, interpellato da Report con altri esperti internazionali: “Nessuno scandalo, occorrono più trasparenza, più studi e più controlli indipendenti sugli effetti di tutti i farmaci, non solo dei vaccini”. Quanto al papilloma, “non esistono prove certe della sua correlazione col tumore alla cervice uterina”. Ma noi conosciamo solo “il 10% di quel che dovremmo sapere sulle sostanze che assumiamo” perché la gran parte degli studi sono “presentati dalle industrie farmaceutiche”: come chiedere all’oste se il vino è buono. Ma salta su tale Beatrice Lorenzin, del cui curriculum medico-scientifico nessuno può dubitare: maturità classica, stage al Giornale di Ostia, dirigente di FI ed Ncd, dunque ministra della Salute (senza laurea). Dall’alto di cotanta cattedra, spiega a Report (e dunque pure a Garattini e agli altri esperti intervistati) che chi non ha i titoli scientifici non deve parlare di vaccini, altrimenti “diffonde paura con tesi antiscientifiche”. Ha parlato Marie Curie. Poi c’è il novello Albert Einstein, al secolo Guelfo Guelfi, che sta nel Cda Rai perché scriveva i discorsi a Renzi, quindi ha la laurea ad honorem in farmacologia. Infatti discetta di vaccini e, già che c’è, chiede la testa di Ranucci e Berlinguer, e pure di Campo Dall’Orto che non li ha ancora decapitati. Il resto lo fanno i telegiornaloni e i giornaloni aggreppiati alla lobby del farmaco, che non ammette discussioni sui medicinali (ripetiamo: dibattiti tra scienziati sui pro e i contro, non inviti di ciarlatani a non vaccinarsi), e alla politica mainstream, che s’è autoproclamata Partito dei Vaccini contro il fantomatico Partito dei Virus, cioè – nella narrazione fumettistica della banda del buco – i 5Stelle.  

Dopo 20 anni di difesa strenua, La Repubblica unisce i suoi fuciletti a quelli del Pd contro Report. Il tutore dell’ordine Sebastiano Messina disperde con gl’idranti l’ultimo fiore all’occhiello della Rai perché nomina Benigni invano e, “anziché smascherare il grande imbroglio di chi vuole impedire agli italiani di vaccinarsi, sostiene la tesi opposta”. In attesa di svelarci chi vuole impedire agli italiani di vaccinarsi (la Papilloma Spectre? le Forze Oscure della Scarlattina in Agguato? la Morbillobby?), il gendarme chiede la cacciata di Ranucci che avrebbe tradito la lezione di Milena Gabanelli (peccato che fosse il suo braccio destro, che lei l’abbia scelto come suo successore e l’abbia difeso ancora ieri). Il tutto, beninteso, per “salvare Report da se stesso, allontanandolo velocemente dal sinistro latrato degli spacciatori di bufale”. Dunque Ranucci, nella prosa stilnovista di questo fuochista della macchina del fango, sarebbe un cane che latra bufale (e quali? Messina si scorda di indicarne una). Nasce così un nuovo reato: il leso vaccino. E un nuovo dogma di fede: l’Immacolata Vaccinazione. Il tutto, quando si dice la combinazione, pochi giorni dopo che Report ha smascherato i conflitti d’interessi fra l’Unità del figlio di Tiziano e il costruttore Pessina. Ma davvero questi impuniti pensano di farci credere che sparano su Report per difendere i vaccini? Ma pensano che siamo tutti fessi?

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Monte Pellegrino visto da casa natia di Acqua dei Corsari

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