Quando si
dice vederci lungo nelle cose. Nel ricercare nuove letture attinenti alla
fotografia capita pure di imbattersi in qualcuno che ha anticipato i tempi,
intuendo innovazioni e sviluppi.
In un saggio pubblicato all’incirca trentacinque anni fa, Vilem Flusser ebbe a prevedere peculiarità attinenti ad alcuni aspetti della fotografia del nostro tempo.
Nel volume intitolato “Per una filosofia della fotografia” (titolo originario “Für eine Philosophie der Fotographie”), edito in Germania nel 1983 e rieditato nel 2006 da Bruno Mondadori, l’autore, disquisendo sulla “filosofia della fotografia”, evidenziava già le complesse interconnessioni esistenti tra la tecnologia fotografica, l’azione umana e la casualità. Flusser scriveva, infatti, che: “la fotografia è un’immagine generata e distribuita automaticamente e necessariamente nel corso di un gioco basato sul caso da apparecchi programmati.”
Tralasciando le sue teorie e i pur importanti aspetti, riguardanti le concettualizzazioni sul significato delle immagini fotografiche, sul loro ruolo sociale e sulle varie metodologie di lettura, particolarmente interessante e premonitrice è risultata anche la sua visione rispetto agli aspetti tecnologici, inerenti alla robotizzazione crescente del mondo fotografico, inteso come sistema.
Al riguardo teorizzava, infatti, che, seppur alimentato da creatività e fantasie individuali dell’uomo, il mondo della fotografia andava sempre più sviluppandosi attraverso automatismi tecnologici utili a ripetere “combinazioni sperimentate”.
Osservava altresì che, anche se ogni progresso fotografico rimaneva sempre ancorato alla cultura del tempo, i fotografi si sono da sempre e comunque distinti nel ricercare costantemente combinazioni e chiavi di ripresa innovative.
Attraverso il loro apporto di ricerca sperimentale, gli apparecchi fotografici sono via via divenuti delle “black box scientifiche” che in qualche modo creano “cultura simulando pensiero” (in quanto racchiudono in sé moltitudini sempre crescenti di “combinazioni intelligenti” create dall’uomo per realizzare scatti fotografici predeterminabili e voluti).
La ricchezza delle opportunità possibili ha quindi fatto sì che la così detta “cultura” delle macchine ha alimentato nel tempo produzioni di eccellenze tecnologiche, con strumenti di ripresa sempre più complessi e avanzati.
Già negli anni ottanta Flusser immaginava come la robotizzazione avrebbe consentito all’uomo di emanciparsi rispetto agli aspetti artigianali connessi alla manualità. Quelli che connotava come degli ‘utensili intelligenti’ andavano cioè ad affrancare il fotografo dalla mera funzione di operatore, lasciandogli sempre più ampi margini da poter dedicare al “processo fotografico ludico/creativo”.
Del resto, Flusser intuiva pure perfettamente che nel tempo l’hardweare avrebbe assunto sempre meno importanza rispetto al softweare, poiché quest’ultimo (elemento molle ovvero cultura intelligente) era destinato a espandersi grazie all’assorbimento di ogni innovazione tecnologica sperimentata (possibilità/combinazioni prontamente disponibili), incrementata da nuovi automatismi e facili soluzioni “infinitamente superiori a ogni fantasia umana”.
Col tempo è effettivamente accaduto quanto immaginato, ovvero che le macchine fotografiche sono diventate dei sofisticatissimi robots, volti a assicurare sempre, attraverso un loro giusto utilizzo e grazie ai tanti innumerevoli automatismi combinati, una elevatissima serie di risultati certi.
Il tutto ha fatto quindi sì che il fotografo potesse scegliere di mantenersi sempre più libero per essere principalmente creativo e innovativo; in modo autonomo rispetto alle tante combinazioni certe e disponibili, “preconfezionate nella black box” (“Il fotografo si impegna così a individuare le possibilità ancora inesplorate: maneggia l’apparecchio, lo gira e lo rigira, vi guarda dentro e attraverso”).
Il successo di nuove immagini così prodotte ha continuato a garantire con costanza evoluzioni tecniche nelle nuove macchine di ripresa che, nel loro insieme (hardweare e softweare), oggi inglobano tutte le tecniche fotografiche che si sono mano mano validamente sperimentate.
Come in tutti i campi di ricerca, l’evoluzione tecnologica e le diverse scuole di pensiero hanno portato a innalzare sempre più l’asticella, ponendo all’uomo moderno nuovi e più ambiziosi traguardi.
Tutto però, come già sostenuto in premessa dallo stesso Flusser, è rimasto e rimane - comunque e sempre - ancorato ai vincoli culturali “spazio/tempo” che caratterizzano ogni contesto; legati ai costumi e alle diverse scuole di pensiero che continuano a disciplinare le diverse civiltà, negli angoli del mondo.
In questo disquisire fondamentale rimane ancor oggi la frase che il saggista riserva ai circoli e alle associazioni laddove costituiscono luoghi in cui si tende a sublimare le mode e le tendenze del momento. Sostiene al riguardo Flusser che “i Circoli di fotoamatori sono luoghi in cui ci s’inebria delle complessità strutturali degli apparecchi, sono luoghi di trip, fumerie d’oppio postindustriali”.
In verità si riferisce ai casi in cui gli automatismi prevalgono, se non proprio egemonizzano l’utilizzo di una macchina fotografica ovvero, più in generale, alla progressiva democratizzazione dell’attività fotografica osservando che “chi sfoglia l’album di un dilettante non vi riconoscerà esperienze, conoscenze o valori di un uomo fissati in immagine, ma possibilità dell’apparecchio realizzate in modo automatico”.
Scrive anche che quasi tutti scattano foto, ma “benchè la macchina fotografica si fondi su principi scientifici e tecnici complessi, è molto semplice farla funzionare. E’ un giocattolo strutturalmente complesso ma funzionalmente semplice. In questo, è il contrario del gioco degli scacchi, che è strutturalmente semplice e funzionalmente complesso: le regole sono facili, ma difficile è giocare bene a scacchi. Chi tiene in mano una macchina fotografica può creare fotografie eccellenti, senza avere la minima idea di quali processi complessi metta in moto schiacciando il pulsante di scatto”.
Buona luce a tutti!
In un saggio pubblicato all’incirca trentacinque anni fa, Vilem Flusser ebbe a prevedere peculiarità attinenti ad alcuni aspetti della fotografia del nostro tempo.
Nel volume intitolato “Per una filosofia della fotografia” (titolo originario “Für eine Philosophie der Fotographie”), edito in Germania nel 1983 e rieditato nel 2006 da Bruno Mondadori, l’autore, disquisendo sulla “filosofia della fotografia”, evidenziava già le complesse interconnessioni esistenti tra la tecnologia fotografica, l’azione umana e la casualità. Flusser scriveva, infatti, che: “la fotografia è un’immagine generata e distribuita automaticamente e necessariamente nel corso di un gioco basato sul caso da apparecchi programmati.”
Tralasciando le sue teorie e i pur importanti aspetti, riguardanti le concettualizzazioni sul significato delle immagini fotografiche, sul loro ruolo sociale e sulle varie metodologie di lettura, particolarmente interessante e premonitrice è risultata anche la sua visione rispetto agli aspetti tecnologici, inerenti alla robotizzazione crescente del mondo fotografico, inteso come sistema.
Al riguardo teorizzava, infatti, che, seppur alimentato da creatività e fantasie individuali dell’uomo, il mondo della fotografia andava sempre più sviluppandosi attraverso automatismi tecnologici utili a ripetere “combinazioni sperimentate”.
Osservava altresì che, anche se ogni progresso fotografico rimaneva sempre ancorato alla cultura del tempo, i fotografi si sono da sempre e comunque distinti nel ricercare costantemente combinazioni e chiavi di ripresa innovative.
Attraverso il loro apporto di ricerca sperimentale, gli apparecchi fotografici sono via via divenuti delle “black box scientifiche” che in qualche modo creano “cultura simulando pensiero” (in quanto racchiudono in sé moltitudini sempre crescenti di “combinazioni intelligenti” create dall’uomo per realizzare scatti fotografici predeterminabili e voluti).
La ricchezza delle opportunità possibili ha quindi fatto sì che la così detta “cultura” delle macchine ha alimentato nel tempo produzioni di eccellenze tecnologiche, con strumenti di ripresa sempre più complessi e avanzati.
Già negli anni ottanta Flusser immaginava come la robotizzazione avrebbe consentito all’uomo di emanciparsi rispetto agli aspetti artigianali connessi alla manualità. Quelli che connotava come degli ‘utensili intelligenti’ andavano cioè ad affrancare il fotografo dalla mera funzione di operatore, lasciandogli sempre più ampi margini da poter dedicare al “processo fotografico ludico/creativo”.
Del resto, Flusser intuiva pure perfettamente che nel tempo l’hardweare avrebbe assunto sempre meno importanza rispetto al softweare, poiché quest’ultimo (elemento molle ovvero cultura intelligente) era destinato a espandersi grazie all’assorbimento di ogni innovazione tecnologica sperimentata (possibilità/combinazioni prontamente disponibili), incrementata da nuovi automatismi e facili soluzioni “infinitamente superiori a ogni fantasia umana”.
Col tempo è effettivamente accaduto quanto immaginato, ovvero che le macchine fotografiche sono diventate dei sofisticatissimi robots, volti a assicurare sempre, attraverso un loro giusto utilizzo e grazie ai tanti innumerevoli automatismi combinati, una elevatissima serie di risultati certi.
Il tutto ha fatto quindi sì che il fotografo potesse scegliere di mantenersi sempre più libero per essere principalmente creativo e innovativo; in modo autonomo rispetto alle tante combinazioni certe e disponibili, “preconfezionate nella black box” (“Il fotografo si impegna così a individuare le possibilità ancora inesplorate: maneggia l’apparecchio, lo gira e lo rigira, vi guarda dentro e attraverso”).
Il successo di nuove immagini così prodotte ha continuato a garantire con costanza evoluzioni tecniche nelle nuove macchine di ripresa che, nel loro insieme (hardweare e softweare), oggi inglobano tutte le tecniche fotografiche che si sono mano mano validamente sperimentate.
Come in tutti i campi di ricerca, l’evoluzione tecnologica e le diverse scuole di pensiero hanno portato a innalzare sempre più l’asticella, ponendo all’uomo moderno nuovi e più ambiziosi traguardi.
Tutto però, come già sostenuto in premessa dallo stesso Flusser, è rimasto e rimane - comunque e sempre - ancorato ai vincoli culturali “spazio/tempo” che caratterizzano ogni contesto; legati ai costumi e alle diverse scuole di pensiero che continuano a disciplinare le diverse civiltà, negli angoli del mondo.
In questo disquisire fondamentale rimane ancor oggi la frase che il saggista riserva ai circoli e alle associazioni laddove costituiscono luoghi in cui si tende a sublimare le mode e le tendenze del momento. Sostiene al riguardo Flusser che “i Circoli di fotoamatori sono luoghi in cui ci s’inebria delle complessità strutturali degli apparecchi, sono luoghi di trip, fumerie d’oppio postindustriali”.
In verità si riferisce ai casi in cui gli automatismi prevalgono, se non proprio egemonizzano l’utilizzo di una macchina fotografica ovvero, più in generale, alla progressiva democratizzazione dell’attività fotografica osservando che “chi sfoglia l’album di un dilettante non vi riconoscerà esperienze, conoscenze o valori di un uomo fissati in immagine, ma possibilità dell’apparecchio realizzate in modo automatico”.
Scrive anche che quasi tutti scattano foto, ma “benchè la macchina fotografica si fondi su principi scientifici e tecnici complessi, è molto semplice farla funzionare. E’ un giocattolo strutturalmente complesso ma funzionalmente semplice. In questo, è il contrario del gioco degli scacchi, che è strutturalmente semplice e funzionalmente complesso: le regole sono facili, ma difficile è giocare bene a scacchi. Chi tiene in mano una macchina fotografica può creare fotografie eccellenti, senza avere la minima idea di quali processi complessi metta in moto schiacciando il pulsante di scatto”.
Buona luce a tutti!
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