"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."
Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post parzialmente pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).
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domenica 30 agosto 2015
sabato 29 agosto 2015
Il saluto di Ferruccio de Bortoli ai lettori del Corriere della Sera «I giornali devono essere scomodi»
Devo ai
lettori del Corriere,
una meravigliosa comunità civile, un piccolo rendiconto della mia seconda
direzione. Ho avuto l’onore di guidare questa straordinaria redazione per
dodici anni complessivi. Un privilegio inestimabile. All’editoriale Corriere
della Sera fui assunto, giovanissimo praticante, la prima volta nell’ottobre
del ‘73. La proprietà era ancora Crespi. I Rizzoli sarebbero arrivati l’anno
dopo. Il Corriere era stato il mio sogno giovanile, è diventato la mia casa, la
mia famiglia. Il rapporto di lavoro con gli editori pro tempore si conclude
oggi, come è ormai noto da nove mesi. Il legame sentimentale con il giornale
era e resta indissolubile.
Nell’aprile
del 2009, al momento
di assumere la seconda direzione, scrissi che il Corriere - lungo il
solco della sua tradizione liberaldemocratica - ambiva a rappresentare
«l’Italia che ce la fa». Credo che vi sia riuscito perché è stato indipendente,
aperto e onesto. Ha svolto il ruolo che compete a un grande organo
d’informazione, orgoglioso dei suoi valori e di una storia di ormai 140 anni.
Ha dato spazio e rappresentatività a un’Italia seria, laboriosa, proiettata nel
futuro e nella modernità. Il Corriere non è stato il portavoce di nessuno,
tantomeno dei suoi troppi e litigiosi azionisti. Non ha fatto sconti al potere,
nelle sue varie forme, nemmeno a quello giudiziario. Ha giudicato i governi sui
fatti, senza amicizie, pregiudizi o secondi fini. E proprio per questo è stato
inviso e criticato. Chi scrive ha avuto lunghe vicende giudiziarie con gli
avvocati di Berlusconi, con D’Alema e tanti altri. Al nostro storico
collaboratore Mario Monti - che ebbe, per fortuna dell’Italia, l’incarico dal
presidente Napolitano di guidare il governo - non piacquero, per usare un
eufemismo, alcuni nostri editoriali. Come a Prodi, del resto, a suo tempo.
Pazienza.
Del giovane
caudillo Renzi, che dire? Un maleducato di talento. Il Corriere ha appoggiato le
sue riforme economiche, utili al Paese, ma ha diffidato fortemente del suo modo
di interpretare il potere. Disprezza le istituzioni e mal sopporta le critiche.
Personalmente mi auguro che Mattarella non firmi l’Italicum . Una legge
sbagliata. Ad alcuni miei - ormai ex - azionisti sono risultate indigeste
talune cronache finanziarie e giudiziarie. A Torino come a Milano. Se ne sono
fatti una ragione. Alla Procura di Milano si sono irritati, e non poco, per
come abbiamo trattato il caso Bruti-Robledo? Ancora pazienza. L’elenco potrebbe
continuare.
Con il tempo, cari lettori, ho imparato che i
giornali devono essere scomodi e temuti per poter svolgere un’utile funzione
civile. Scomodi anche quando sono moderati ed equilibrati come il Corriere
. La verità è che i bravi giornalisti spesso ne sanno di più di coloro che
vorrebbero zittirli. In questo Paese, di modesta cultura delle regole,
l’informazione è considerata da gran parte della classe dirigente un male
necessario. Uno dei tanti segni di arretratezza. Piaccia o no, le notizie sono
notizie. I fatti sono i fatti, anche quando smentiscono le opinioni di chi
scrive. E le inchieste sono un dovere civile, oltre che professionale. Perché
le democrazie si nutrono di trasparenza e confronto, di attenzione e rispetto.
Dove c’è trasparenza c’è riconoscimento del merito, concorrenza e crescita.
Nell’opacità si regredisce. Una società democratica non deperisce solo se ha
un’opinione pubblica avvertita e responsabile, alla quale - come diceva Luigi
Einaudi, collaboratore del Corriere e presidente della Repubblica -
devono essere forniti gli ingredienti utili per scegliere. Non solo nelle urne
ma nella vita di ogni giorno. Conoscere per deliberare. L’opinione pubblica,
architrave di una democrazia evoluta, è composta da cittadini con spirito
critico non da sudditi che se le bevono tutte. E le opinioni vanno rispettate.
Tutte.
Il giornale
si è distinto in questi anni per aver promosso un tavolo costante di confronto
fra idee diverse, salvo dire
quando era necessario, la propria. Errori ce ne sono stati. E non pochi. La
colpa è esclusivamente mia. Un esempio? I giornali dovrebbero tutelare di più
le persone coinvolte in fatti di cronaca o inchieste. Non sono oggetti
inanimati delle notizie o protagonisti involontari di una fiction . Hanno
famiglie e sentimenti. La loro dignità va sempre salvaguardata e l’onore
restituito quando è il caso.
Poche cifre,
credo significative,
sull’andamento in questi anni del sistema Corriere della Sera che ha
raggiunto una vastità e complessità, come vedremo, non a tutti nota. Dal
quotidiano - nelle sue diciassette edizioni locali, nelle versioni digitale e
cartacea, online, e su smartphone - ai supplementi Sette , La Lettura ,
Corriere Economia , Io Donna , ViviMilano , Corriere Eventi , Corriere
Innovazione , Living e Style . In un mercato assai difficile se non drammatico
per l’editoria, il sistema Corriere ha realizzato nel 2014 un giro d’affari di
poco inferiore ai 300 milioni, con una redditività dell’11%, in crescita
rispetto all’anno precedente quando era stata del 9%. E questo nonostante il
crollo degli introiti pubblicitari, diminuiti del 40% circa in sei anni.
Efficienze e risparmi, negli ultimi due esercizi, sono stati pari a 45 milioni.
La redditività della parte stampa è del 7 per cento, di quella digitale del 16.
La casa editrice di libri e pubblicazioni collaterali a marchio Corriere è
diventata in questi anni una delle principali del mercato italiano. L’anno
scorso ha realizzato un fatturato di 30 milioni e un margine, in crescita, di
10.
Il Corriere
conserva la sua leadership nella diffusione (carta più digitale) con 421 mila
copie nella media del 2014. È quello che ha più lettori nei quotidiani
d’informazione generalista. Nelle ultime due rilevazioni Audipress ha superato
- e non accadeva da anni - il suo più diretto concorrente, con 2 milioni e 617
mila lettori giornalieri. Corriere.it , che ha rinnovato profondamente
la propria offerta (non senza qualche problema tecnologico, che ammettiamo),
con la diretta tv dei principali avvenimenti, ha circa 2 milioni e mezzo di
utenti unici al giorno, più di 30 milioni di pagine viste. Straordinario il
successo dei video: nel solo mese di febbraio gli streaming sul nostro sito
sono stati 24 milioni, contro i 16 del nostro diretto concorrente.
L’editoria
digitale del Corriere ha conosciuto una fase di grande sviluppo. Dalle
videoinchieste alle docufiction . Sono stati creati blog multiautore di
rilevante successo (come la 27esima ora oggi anche radio), prodotte alcune
importanti webseries (dalla Mamma Imperfetta al Viaggio di Vera , alla Scelta
di Catia , all’ultimo La Resistenza di Norma ). L’intero sistema Corriere è
presente su tutti i social network; su Twitter, per esempio, ha più di un
milione di followers . Un cenno solo all’attività sociale. La onlus Un Aiuto
subito , creata dal Corriere nel ‘97, è intervenuta, dopo tutte le più
grandi sciagure, terremoti e inondazioni, a favore delle popolazioni colpite,
impiegando i fondi ottenuti grazie alla generosità dei lettori (in totale oltre
40 milioni). Le realizzazioni sono documentate sul nostro sito.
Tutti questi
risultati sono stati possibili grazie a una grande redazione, al condirettore Luciano Fontana,
ai vicedirettori Antonio Macaluso, Daniele Manca, Venanzio Postiglione,
Giangiacomo Schiavi, Barbara Stefanelli. Sono certo che con la nuova direzione
il Corriere sarà ancora più autorevole, forte e innovativo. A tutti i
colleghi, al direttore generale Alessandro Bompieri e al suo staff, va la mia gratitudine.
Ai lettori, molti dei quali in questi giorni non mi hanno fatto mancare i segni
della loro vicinanza, un grande e ideale abbraccio.
Ferruccio de Bortoli (fdebortoli2@gmail.com)
venerdì 28 agosto 2015
giovedì 27 agosto 2015
Berlusconismo e antiberlusconismo: scusi Renzi, ma lei da che parte stava?
Suscita qualche legittima curiosità ciò che ha detto Matteo Renzi
all’entusiasta platea di Cl sulle colpe storiche del “berlusconismo e
dell’antiberlusconismo che hanno fatto perdere all’Italia vent’anni”.
Una frase furba e anche abbastanza ignobile. Come nel carattere del
personaggio, perché mette tutto e tutti sullo stesso piano (con lui al
piano di sopra). Ma che lo espone ad alcune inevitabili domande sulle
sue personali scelte di campo, tenendo conto che, a differenza del
calcio, su certi argomenti non è possibile lo zero a zero e neppure
mandare la palla in tribuna.
Per esempio, nei giorni del G8 di Genova quando la polizia del governo Berlusconi mandava all’ospedale le persone che sfilavano pacificamente – per non parlare della macelleria messicana nella scuola Diaz –, il cuore del Matteo già grandicello, batteva per i manganelli o per quelli a cui spaccavano la testa?
E nei giorni dell’editto bulgaro quando lesse (se leggeva i giornali) che Biagi, Santoro e Luttazzi
erano stati cacciati dalla Rai perché invisi al presidente-padrone,
Renzi continuò a giocare con le macchinine o pensò tra sé e sé (perché
Verdini non sentisse): però, che schifo?
E se con gli amici del bar di Rignano il discorso cadeva sul
conflitto d’interessi del presidente del Consiglio, proprietario di tre
tv e controllore del servizio pubblico, la reazione di Renzi qual era?
Che palle, non se ne può più?
E delle numerose leggi vergogna, e dei vari lodi Schifani e Alfano
poi dichiarati incostituzionali, il giovanotto Renzi cosa pensava
esattamente? Che costituivano utili innovazioni di un sistema
giudiziario obsoleto? O che era un insopportabile uso del governo e del
Parlamento per consentire all’Imputato di farla franca dimostrando che
la legge non è affatto uguale per tutti?
Sappiamo invece da che parte stava quando il suo maestro Silvio cercò di smantellare a proprio uso la Costituzione. Il discepolo non è da meno.
E quando (andiamo a memoria) nella campagna elettorale del 2006, Berlusconi attaccò frontalmente Prodi
dicendo che non poteva credere che “ci fossero in giro così tanti
coglioni pronti a votare contro i loro interessi”, possibile che il
futuro premier stesse dalla parte dei coglioni antiberlusconiani?
E quando all’apice del bunga-bunga, Dario
Franceschini chiese agli italiani: “Fareste educare i vostri figli da
quest’uomo?”, Renzi cosa rispose: sì, no o forse? Oppure pensava che il
suo futuro ministro stesse parlando di Roman Polanski?
Infine (ma potremmo continuare a lungo), quando l’allora presidente
Napolitano rifiutò di firmare l’infame decreto del governo Berlusconi
che avrebbe vietato l’interruzione dell’alimentazione e idratazione
artificiale di Eluana Englaro, Renzi rinunciò a provare vergogna per non contribuire alla paralisi del Paese?
Verrebbe da pensare che un premier cresciuto nella cultura dei
Telegatti rappresenti la media di ignoranza (e di smemoratezza) vigente
nel resto del Paese. Invece, il suo è puro cinismo. Renzi conosce troppo bene i guasti prodotti dal ventennio berlusconiano
ma non gliene frega nulla. O meglio, ne fa un uso personale per
azzerare tutto ciò che viene prima di lui e per alimentare la
conveniente leggenda dell’“uomo nuovo”, senza scheletri nell’armadio e
ignaro delle nefandezze di chi l’ha preceduto. Tutto già visto. Ne sanno
qualcosa Furio Colombo e chi scrive che ai tempi dell’Unità “antiberlusconiana” subirono lo stalking della dirigenza Ds e successivamente Pd (da Fassino a Veltroni)
che con crescente irritazione ci andavano ripetendo: non si può dire
solo no (slogan che fornì anche il titolo a un libretto renziano ante
litteram che andrebbe ripescato). Fummo persino sottoposti a una sorta
di mini-processo dai senatori diessini guidati da Franco De Benedetti
che garbatamente minacciava di toglierci il finanziamento pubblico di
cui il giornale si giovava. Rispondemmo: fate pure. Andò a finire che
Colombo fu accompagnato alla porta e che un paio d’anni dopo toccò a me.
Felix culpa, visto che anche da quella “spinta” nacque il Fatto.
La differenza è che, allora, pur nella fregola di farsi benvolere dal
Sultano, quel gruppo dirigente agiva con un minimo di timore e di
rispetto verso un elettorato di sinistra che non poteva certo mandare
giù l’inciucio con un personaggio che aveva elogiato le
“tante buone cose fatte da Mussolini”, che aveva definito l’Italia “un
paese di merda” e che della sua affiliazione alla loggia di Gelli
diceva: “Essere stato piduista non è titolo di demerito”. Mettendo
sullo stesso piano Berlusconi e chi lo ha combattuto per anni in
Parlamento, sulle piazze e su alcuni giornali, quel rispetto Renzi lo ha
preso a calci. La storia, che lui fa finta di non conoscere, insegna
che presto o tardi sarà ricambiato della stessa moneta.
Antonio Padellaro (Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2015)
Così lontano così vicino
Tra le immagini che provengono dal satellite attraverso Google maps, Max Serradifalco seleziona quelle che diventeranno le sue personalissime rappresentazioni della Natura e del paesaggio dall’aspetto talvolta geometrico e schematico o più spesso assolutamente informale e astratto.
La differenza sostanziale tra quanto il servizio
dell’azienda americana ci consente di osservare e le immagini del
giovane palermitano consiste nello scopo informativo di indirizzo
divulgativo e scientifico da parte di Google, e nella ricerca artistica di Serradifalco, che si è rivelata particolarmente stimolante e creativa.
La precedente produzione artistica di Max era rivolta
prevalentemente verso la sua grande passione: la fotografia
naturalistica, con suggestivi paesaggi ripresi durante i viaggi e le
escursioni. Può accadere, però, che al fotografo naturalista non basti
più il panorama così come si presenta agli occhi di un “giovane
esploratore” a passeggio, ed è stato a questo punto, non del tutto
casualmente, che nel 2011 le temerarie vedute satellitari con il
contributo delle conoscenze acquisite come abile grafico, gli hanno
fornito qualcosa di nuovo e vitale. Luoghi che si trovano agli antipodi,
distanti migliaia di chilometri l’uno dall’altro, sono raggiungibili in
un istante senza spostarsi dalla postazione del proprio computer, e
forniscono forme inattese, visioni vigorose come un ghiacciaio,
scorrevoli come un fiume, esplosive come un vulcano. Perché proprio di
elementi oro-idro-geologici si tratta. Ecco la natura della Terra come
gli abitatori del nostro pianeta, coinvolti dalle emergenze e dai rischi
ambientali, non potranno mai vedere! Inoltre per realizzare le immagini
desiderate non è affatto necessaria la fotocamera con tutto il suo
tradizionale corredo fotografico.
Le fotografie stampate su carta fotografica e montate
su pannelli rigidi, vengono presentate nei formati 70×100 cm. e 100×150
cm. In quanto il grande formato permette più agevolmente di apprezzare
lo spazio farsi forma e la materia diventare colore con apparente
semplicità ed estrema armonia.
Certamente la web-photography
apre prospettive nuove al reportage naturalistico, ed i suoi sviluppi
futuri in questo momento hanno ancora dimensioni imprevedibili, ma di
sicuro successo.
Le opere di Serradifalco sono state premiate a Los Angeles nel 2012 nell’ambito dell’”International Photography Awards “, mentre a Londra, nel 2013, il reportage è stato finalista del “Wildlife photografer of the year”, prestigioso concorso riservato alla fotografia naturalistica. Anche il pittore Arrigo Musti e il critico Aldo Gerbino
hanno apprezzato ed elogiato la nuova tecnica ed i loro testi sono
inseriti nel catalogo delle opere di Max che durante lo scorso mese di
Marzo sono state esposte alla Galleria Elle Art.
Ad Aprile la mostra dal titolo “Web landscape photography” è stata ospitata all’interno della Libreria Feltrinelli di Palermo. Appena pochi giorni addietro presso la Galleria Pittalà di Bagheria ha
avuto luogo la serata-evento “La terra vista dal satellite diventa
arte”, durante la quale si potevano ammirare sedici gigantografie
realizzate da uno dei più innovativi tra i fotografi contemporanei.
domenica 23 agosto 2015
Massimo Fini: "Sto con il Mullah Omar, ma non mi converto all'Islam"
Fra le tante email che mi sono arrivate a proposito del necrologio
negato dal Corriere al Mullah Omar c’è quella di un lettore, Ettore
Fumagalli, che, senza entrare nel merito di quel necrologio, che
comunque non condivide, mi chiede se mi sono convertito alla religione
islamica (“Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar”). Se non sono
insomma una specie di Magdi Cristiano Allam al contrario.
Se c’è qualcosa che è lontanissima dal mio modo di vedere il mondo è
la cupa religione islamica, come mi sono estranei, anzi odiosi, tutti i
monoteismi, da quello della Chiesa fondata da Paolo (Cristo è un’altra
cosa, è un simpatico e affascinante borderline, uno che delira, che
crede veramente di essere figlio di Dio ma che sulla Croce dubita,
umanamente dubita, “Padre, padre, perché mi hai abbandonato?”, in quello
che, per me, è il più commovente verso del Vangelo) all’ebraismo pur
essendo io di madre ebrea e quindi tecnicamente, secondo le leggi
razziali di quella comunità, che io rifiuto, un ebreo. Semmai mi sento
più vicino, ma solo culturalmente, all’animismo dei neri che hanno una
visione magica e spirituale dell’esistenza e della Natura, o meglio la
avevano finché è esistita un’Africa Nera, prima che fosse penetrata
dall’islamismo, dai pii missionari a seguito dei colonizzatori europei e
infine distrutta, non solo culturalmente, ma socialmente ed
economicamente dal modello di sviluppo occidentale (sui barconi dei
disperati viaggiano anche ghanesi, ivoriani, senegalesi, cioè gente di
Paesi dove non c’è nessuna guerra, ma solo la fame).
Nel Mullah Omar e nei suoi Talebani io non difendo la loro ideologia,
difendo il diritto elementare di un popolo, o di parte di esso, ad
opporsi all’occupazione dello straniero, comunque motivata. Se neghiamo
agli afghani questo diritto allora dobbiamo buttare nel cesso la nostra
Resistenza, su cui abbiamo fatto tanta retorica, che durò solo un anno e
mezzo ed ebbe il supporto degli Alleati, mentre in Afghanistan va
avanti da quattordici anni senza l’aiuto di nessuno (se ci fosse stato,
come si è spesso favoleggiato, quello dell’Isi pakistano, almeno un
missile terra-aria ai guerriglieri afghani sarebbe arrivato, invece son
soli contro tutti, Nato, russi e Iran compreso).
A me pare che nel civilissimo Occidente sia venuta meno ogni forma di
‘pietas’ o di misericordia come direbbe Papa Bergoglio (che Domineiddio
l’abbia sempre in gloria). Persino i terribili, esecrabili ed
esecratissimi Talebani, dopo aver giustiziato, per ordine di Omar,
Naisbullah responsabile di essere stato il Quisling dei sovietici a
Kabul, ne riconsegnarono il corpo alla famiglia perché potesse avere
un’onorata sepoltura. L’ordine era del Mullah ma Abdul Razak, il
comandante talebano entrato a Kabul, lo eseguì a modo suo. E le
modalità furono atroci. Razak prese con sé tre soli uomini (segno che si
sentiva sicuro dell’appoggio della popolazione) si recò nel compound
dell’Onu dove Naisbullah si era rifugiato col fratello, lo evirò e lo
finì con un colpo di pistola. La stessa sorte toccò al fratello. I due
corpi, straziati, furono poi appesi ad una garitta, come monito. Ma
queste modalità furono un’iniziativa di Razak, disapprovata da Omar che
non era un uomo che amava le atrocità gratuite e tantomeno le
umiliazioni (il giorno dopo concederà a tutti l’amnistia) come
confesserà lo stesso Razak due anni dopo in un’intervista concessa a Kan
Behraoz, Taliban commander admits ordering Naish killing, in News
16/2/1998.
Catilina era per lo Stato romano l’equivalente di un Bin Laden di
quei tempi, ma il suo corpo, dopo la morte in battaglia, fu restituito
agli anziani genitori. E anche a Nerone, pur costretto al suicidio e
condannato alla damnatio memoria, non fu negata una tomba. Sulla quale
il popolino di Roma, che aveva sempre amato questo imperatore che aveva
preso le sue difese contro i senatori latifondisti e fancazzisti,
continuò per trent’anni a portare fiori.
Oggi vedo che i civilissimi occidentali gettano in mare il cadavere
del nemico senza tante cerimonie o sputano sulla bara di un nazista
centenario e ne occultano la sepoltura.
Su Repubblica del 2/8 ho letto due begli articoli di Alberto Manguel
ed Emiliano Morreale sulla ‘guerra senza epica e la fine dell’eroe
Rambo’. Questo è verissimo per noi occidentali che non combattiamo più
con gli uomini ma con le macchine ed è difficile fare di un drone un
eroe. Non per i nostri nemici. Tantomeno per il Mullah Omar. Che non ci
ha semplicemente messo la faccia (questo è capace di farlo anche Renzi,
tanto può sempre rifarsela), ci ha messo il suo corpo, ci ha rimesso un
occhio, è stato ferito gravemente quattro volte, ci ha messo il suo
coraggio, fisico e morale, la sua tenacia, la sua dignità. (Sia detto di
passata: all’inizio il Mullah Omar non era un antioccidentale era
semplicemente un a-occidentale, non voleva cioè che i nostri costumi e
valori che non condivideva entrassero nel suo Paese e lo travolgessero,
come è poi puntualmente avvenuto). Quindi in quella che viene chiamata
la ‘guerra asimmetrica’ l’eroe, piaccia o no, è lui. Per questo, nemico
che fosse, ho dedicato un necrologio alla sua memoria. “Che Allah ti
abbia sempre in gloria, Omar”.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2015)
Quando un Papa cita Ulisse e si oppone al potere temporale
Al di là delle numerose occasioni che papa
Francesco offre a tutto il mondo dei cattolici, dei cristiani, dei
fedeli di altre religioni ed anche ai non credenti, l'ultima va colta
per alcune importanti novità della sua predicazione: è il messaggio da
lui inviato al meeting di Comunione e Liberazione il giorno
dell'apertura a Rimini, per il tramite del vescovo di quella diocesi.
Francesco siede sul soglio di Pietro ormai da due anni e la sua attività
è enormemente aumentata. Vorrei dire il suo lavoro, le sue iniziative,
la sua fatica. Eppure non sembra. Viaggia, scrive, parla, prega,
incontra e soprattutto pensa e combatte. È un uomo come noi, la sua
vecchiaia avanza e sta sfiorando gli ottant'anni, ma sembra miracolato.
Forse è la fede ad imprimergli un'energia incommensurabile. Ho scritto
più volte che un uomo così la Chiesa non lo vedeva al suo vertice da
millesettecento anni. Ma non per sapienza teologica né per scaltrezza
politica e neppure per inclinazioni mistiche. Francesco ha dentro di sé
un'energia rivoluzionaria e un dono profetico, queste sono le sue
eccezionalità.
Qualche settimana fa, nel corso di un lungo colloquio telefonico dopo
vari incontri, gli domandai se avesse preso in considerazione l'ipotesi
d'un nuovo Concilio, un Vaticano terzo che discutesse e sancisse le
novità rivoluzionarie che sta introducendo nella struttura della Chiesa.
Mi ha risposto di no aggiungendo che il compito che sta cercando di
condurre a termine è il mandato ricevuto dal Vaticano II laddove indica
come finalità l'incontro della Chiesa con il mondo moderno. Sono passati
cinquant'anni da allora e tre Pontefici si sono susseguiti: Paolo VI,
Giovanni Paolo II, Benedetto XVI senza contare papa Luciani che durò
poco più di un mese e papa Giovanni XXIII che di quel Concilio fu il
promotore. Alcuni obiettivi previsti dal Vaticano II furono realizzati,
ma l'incontro con la modernità no, non è stato affrontato e questo è il
compito che Francesco si prefigge. Solleverà, non c'è dubbio, una selva
di problemi ma lui ha tutte le qualità e tutta l'energia per portarli a
termine. O almeno così sperano quelli che gli sono amici per la tempra,
l'umanità e la bontà che gli sono innate.
***
"È una ricerca, quella che dobbiamo intraprendere, che si esprime in
domande sul significato della vita e della morte, sull'amore, sul
lavoro, sulla giustizia e sulla felicità. Le esperienze più frequenti
che si accumulano nell'animo umano provengono dalla gioia d'un nuovo
incontro, dalle delusioni, dalla solitudine, dalla compassione per il
dolore altrui, dall'insicurezza del futuro, dalla preoccupazione per una
persona cara". E più oltre: "Perché dobbiamo soffrire e alla fine
morire? Ha ancora un senso amare, lavorare, fare sacrifici e impegnarsi?
Che cosa stiamo a fare nel mondo?" E infine: "Il mito di Ulisse ci
parla del "nostos algos", la nostalgia, che può provare soddisfazione
solo in una realtà infinita".
Il testo del messaggio inviato al meeting di Rimini è molto più lungo e
si conclude con il sostegno che proviene dal Dio creatore e
misericordioso e dall'amore di Cristo verso gli uomini suoi fratelli, ma
il tema che sta al centro di questo documento papale è racchiuso
secondo me nelle frasi che ho qui citato. Esse colgono i problemi, le
domande, la sofferenza e le speranze che gli uomini si sono posti in
tutte le epoche e che oggi più che mai la modernità scatena nei cuori
dei giovani e degli anziani, degli uomini e delle donne, dei credenti e
dei non credenti. Rispondere a quelle domande realizza l'incontro della
Chiesa con la modernità, ci fa sentire tutti simili e, anche se le
singole risposte sono differenti, risulterà sempre più chiaro che la
radice della nostra specie è comunque la stessa: libertà, dignità,
fratellanza. Francesco lo dice esplicitamente nel messaggio ma
consentirà ad un amico quale io mi sento di ricordare che quei tre
valori, con l'aggiunta dell'eguaglianza che anche Francesco più volte
evoca, sono quelli che dominarono il pensiero liberale e illuminista
inaugurando l'Europa moderna.
Non a caso nel messaggio si parla perfino di Ulisse, della sua nostalgia
del ritorno ai valori tradizionali della famiglia e della patria, ma
insieme al suo inestinguibile desiderio di "realtà infinita".
Che io sappia nessun Papa aveva evocato il mito odisseico, l'eroe
moderno per eccellenza che Dante, pur collocandolo all'Inferno, eleva
alle vette più alte del pensiero: "Considerate la vostra semenza / fatti
non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza".
"Una scintilla di divinità c'è in tutti noi" mi disse il Papa in uno dei
nostri incontri. Lui a questo crede: in tutti, di qualunque nazione,
etnia, condizione sociale, male e bene, fede o miscredenza, peccato e
perdono. La scintilla di divinità c'è in tutti e il Dio in cui Lui crede
è unico in tutto il mondo. Un solo Dio che nessuno può sostituire con
un Dio proprio da opporre agli altri. Il fondamentalismo è l'errore più
terribile e porta con sé guerre, stragi, terrore.
La Chiesa predica da duemila anni la fede e l'amore del prossimo e una
larga parte di essa mise in pratica quei valori. Ma contemporaneamente
quella stessa Chiesa patrocinò guerre, stragi, inquisizioni, crociate,
in nome del proprio Dio contro quello degli altri. E quando cessò di far
questo, continuò a praticare in varie forme e misura il potere
temporale. Contro il potere temporale, questa è la battaglia che
Francesco sta conducendo e che incontra opposizioni numerose e potenti
dentro la Chiesa. E questo è anche il significato del pensiero moderno
che divide la politica dalla religione. Rappresentano entrambe il bene
comune, la politica quello del benessere, la religione quello
dell'anima. Ho detto più volte a papa Francesco nei nostri incontri che
Lui concepisce una libera Chiesa in un libero Stato, esattamente come
diceva il conte Camillo Benso di Cavour. Benso e Bergoglio uniti
insieme: per un liberale come me non ci potrebbe essere un sodalizio
ideale migliore di questo. E chi l'avrebbe mai detto: un miscredente e
un gesuita che prende il nome di Francesco d'Assisi? La vita è faticosa,
ma a volte ti dà anche soddisfazioni e felicità e per me questo è un
caso felice.
***
C'è stata finora una sola voce della sinistra che ha chiarito e difeso
il segretario della Conferenza episcopale italiana, il vescovo Nunzio
Galantino, indicato come traditore del nostro Paese e perfino della
Chiesa da gran parte della forze politiche ed è lui che voglio citare
per introdurre un tema che coinvolge ancora una volta, sia pure
indirettamente, papa Francesco e la politica. Si tratta di Enrico Rossi,
governatore della Toscana e comunista come lui ama definirsi
nell'intervista rilasciata ieri a Repubblica . "Basta leggere la "lectio" di Monsignor Galantino
su De Gasperi per capire che non ce l'ha affatto con la politica ma con
il politichese ridotto alla ricerca del consenso e del marketing.
Proprio riconoscendo il ruolo cruciale della politica nella società,
Galantino l'ha invitata a ritrovare una forte dimensione ideale ed
etica. È una sfida lanciata a tutti, nessuno escluso, non a un governo e
ad una parte politica. La destra ha risposto in modo sguaiato ma anche
dal Pd sono venute repliche segnate dal risentimento. Dobbiamo invece
riconoscere che Galantino ha ragione, la politica non ha più una
propensione ideale e pensa solo a difendere se stessa. Se la sinistra
italiana non si misurerà con questo tema proprio nel senso indicato
dalla Chiesa di papa Francesco e di Galantino, è destinata a somigliare
sempre più alla destra e quindi a scomparire".
Ho letto anch'io nella sua integralità la lectio di Galantino su De
Gasperi e vi ho trovato una visione sociale e politica che va molto al
di là del personaggio, certamente rilevante, che guidò la Dc e la
politica italiana dal 1945 al '54, nel periodo che vide la ricostruzione
del Paese dalle macerie lasciate dalla guerra. Quella visione
degasperiana è una democrazia governante sulla base di un'alleanza tra
la classe operaia e il ceto medio; un obiettivo la cui realizzazione
costò a De Gasperi "come una traversata del deserto", dice Galantino;
alla fine De Gasperi riuscì a trasformare l'Italia da un Paese sconfitto
in una repubblica democratica che puntò su un'Europa unita, insieme
alla Germania di Adenauer e alla Francia della sinistra e degli
intellettuali. Naturalmente Galantino ricorda il De Gasperi della legge
"maggioritaria" del 1952 ma soprattutto il suo scontro con papa Pio XII,
che per le elezioni del 1953 puntava su un'alleanza della Dc con i
fascisti del Msi e con i monarchici. De Gasperi rifiutò e il Papa affidò
alla rivista Civiltà cattolica il compito di stroncarlo partendo dalla
notizia che il Papa non condivideva la linea politica degasperiana e
ritirava il suo appoggio alla Dc.
È contro quel tipo di Chiesa pacelliana e temporalistica che ancora
esiste e combatte duramente contro Francesco per la propria
sopravvivenza, che Galantino ricorda i passaggi fondamentali della
politica di De Gasperi e chiama in campo personaggi più recenti,
cattolici che sia pur nelle mutate condizioni politiche hanno proseguito
quella visione del bene comune cattolico-liberale e
cattolico-democratica. Cita Pietro Scoppola, un anti-pacelliano molto
acuto; cita Romano Prodi che un anno fa a Trento disse che "la risposta
ai problemi del Paese non va cercata in un solo individuo ma nella forza
delle idee". Cita addirittura Rosmini che un secolo prima e in
tutt'altra situazione storica delineò una Chiesa che fu respinta e
scomunicata dal Vaticano di allora. E ancora il De Gasperi del congresso
Dc del 1954, quando disse che "il credente opera come cittadino nello
spirito e nella lettera della Costituzione, e impegna se stesso, la sua
classe, il suo partito ma non la Chiesa". Naturalmente Pio XII non fu
d'accordo e lo disse pubblicamente. Ad un certo punto improvvisamente
nel documento che stiamo esaminando l'autore cita un pensiero di Pascal
che è sorprendente; due righe che dicono cosi: "Gesù Cristo senza
ricchezze e nessuna ostentazione esterna di scienza, sta nel proprio
ordine di santità. Non ha fatto invenzioni, non ha regnato, ma è stato
umile, paziente, santo di Dio, terribile per i demoni, senza alcun
peccato ".
Dico sorprendente perché Pascal, citato senza commenti da Galantino,
descrive Gesù non come un Dio ma come un uomo, "santo di Dio, ma
terribile con i demoni e senza peccato ". Un uomo con qualità ammirevoli
proprio perché uomo. Così lo concepiscono i non credenti che proprio
perché uomo lo ammirano. Così lo considera ormai gran parte
dell'Occidente moderno e secolarizzato. Fa parte di quell'incontro con
la modernità che Francesco si propone di realizzare. Ed ora il finale di
Galantino: "De Gasperi ha avuto il dono di comprendere che nella
società contemporanea la politica deve ispirarsi a valori universali, a
cominciare dalla carità. La politica non è quella che vediamo oggi,
forze che disputano all'interno di un piccolo harem di cooptati e di
furbi. Noi vescovi italiani dobbiamo pensare al destino del nostro Paese
a cui siamo non solo fedeli ma servitori". L'atroieri, parlando
brevemente al meeting di Rimini, Galantino ha concluso dicendo: "Non va
bene la politica guidata da interessi e fini immediati, etichettati
spesso dalla ricerca dell'utile
e meno da un progetto consapevole. Ma anche la Chiesa è destinata a rinnovarsi ".
Caro papa Francesco, ti faccio gli auguri più affettuosi e mi permetto
di abbracciarti. Hai ancora lunga strada da percorrere ma credo e spero
che arriverai fino in fondo.
Eugenio Scalfari (La Repubblica - 23 agosto 2015)
sabato 22 agosto 2015
Mafia, si cambia verso: cacciato Ultimo, onore al capoclan e bavaglio a Mafia Capitale
Ci sono segnali
che contano più di un trattato di sociologia. Ci sono messaggi che, messi
assieme come le tessere di un puzzle, descrivono il Paese meglio di qualsiasi
studio storico-politico. In queste settimane ne abbiamo colti tanti. L’immagine dei vigili urbani che
scortano la carrozza funebre di Vittorio Casamonica, identica a
quella utilizzata per le esequie di Lucky Luciano, si rivolge, per
esempio, al mondo di sotto. Comunica agli altri boss che “Roma è loro”
perché nella Capitale ci si può ancora mettere d’accordo con lo Stato e le
altre istituzioni. Dice alle mafie: noi siamo qui e ci resteremo sempre, nonostante
le inchieste e la memoria da moscerino di tanti politici, di molti giornali e
di troppe tv.
La destituzione dalle funzioni operative
di coordinamento tra i vari nuclei del Noe del colonnello Sergio De Caprio,
parla invece agli investigatori. Spiega semplicemente a tutti che non
farai carriera se arresti Luigi Bisignani, scopri i conti del tesoriere
leghista Francesco Belsito, rompi le uova nel paniere a Finmeccanica e sveli le
tangenti rosse della Cpl Concordia. Chiarisce che ti faranno saltare pure se
sei il Capitano Ultimo, se hai catturato Totò Riina e ora stai facendo
solo il tuo dovere. Anche perché non sta bene intercettare per caso il numero
due della Guardia di Finanza mentre parla con il premier Matteo Renzi, o
va a cena con il sindaco di Firenze Dario Nardella conversando amabilmente di
presunti ricatti al presidente Giorgio Napolitano.
La decisione
del direttore dell’Isola del Cinema, Giorgio Ginori, di vietare al Fatto Quotidiano
la sua festa a Roma, guarda poi – anzi si mostra – alle nomenklature
di partito. Dire “niente Festa se recitate le stra-pubbliche trascrizioni di
Mafia Capitale” fa sapere che si può stare tranquilli. Nel Belpaese c’è ancora
un sacco di gente che pagherebbe per servire. In autunno quando quasi
tutto il Parlamento (con complice sottovalutazione da parte della magistratura)
voterà una nuova legge bavaglio per limitare, con la scusa della privacy, la
pubblicazione di intercettazioni sgradite al Potere, da frotte di sedicenti
intellettuali gli applausi arriveranno a scrosci.
Infine, c’è la
scelta del governatore della Campania, Vincenzo De Luca. C’è la sua
decisione, avallata da Matteo Renzi, di correre alle elezioni appoggiato da
una lista ispirata dagli uomini Nicola Cosentino, il forzista
detenuto in attesa di giudizio per fatti di camorra. Quell’alleanza parla ai
cittadini. Dice che davvero l’Italia #cambiaverso. Perché cammina veloce a
passi da gambero. Torna ai Settanta e Ottanta quando nella Dc c’era posto per
uomini da rispettare come Mino Martinazzoli o Carlo Rognoni e per i voti e i
volti sporchi di Salvo Lima e Vito Ciancimino. Racconta come oggi per vincere
si faccia di nuovo finta di non sapere che la mafia è mafia solo se ha
rapporti con la politica. Perché se non li ha è solo “normale”
gangsterismo. E sarebbe già stata sconfitta da un pezzo.
Con una
differenza però. La linea della Palma, di cui scriveva tanti anni fa Leonardo
Sciascia, ha superato Roma e Firenze. E viaggia veloce verso le Alpi. Diventa
quotidiana normalità non solo per la politica. Anche per milioni di italiani.
Così, mentre si ascoltano le Autorità giustificarsi per mancata prevenzione
sulle esequie solenni per Vittorio Casamonica dicendo che in fondo quello
era un boss di secondo piano, vale la pena di prepararsi al futuro funerale di
Riina. Guardato il puzzle nel suo insieme, quando verrà il tempo, è giusto che
sia di Stato.
Peter Gomez (Il FattoQuotidiano del 22 agosto 2015)
Edoardo Pellegrini: "Romanziere autonomo" autore di "Angeli o Angeli" e "Percorsi e incontri"
Credo che sarà capitato anche a
tanti altri palermitani di avere incrociato in via Ruggiero Settimo, all’angolo di via
Belmonte, Edoardo Pellegrini. Una persona gradevole che con molto garbo
intrattiene o almeno cerca di intrattenere
occasionali passanti, prima per stimolarne reazioni su argomenti
complessi che riesce ad esporre rapidamente, poi, se gli lasci lo spazio,
proponendoti un romanzo autoprodotto. Nel mio incontro, intrigato anche dal
personaggio che di certo incuriosisce, ho aderito alla proposta acquistando
copia del suo libro.
Dopo qualche settimana ne ho
cominciato la lettura che ho ultimato in brevissimo tempo. “Percorsi e
incontri”, edito nel luglio 2012; supportato da una buona scrittura, mi è apparso
un romanzo alquanto originale.
Definirne il genere risulta compito
arduo, di certo è un’opera coinvolgente, per nulla banale, che evidenzia una
veemente vena creativa dell’autore. L’estrosità dialettica di Pellegrini
corrisponde alla sua voglia di comunicare. Del resto l’invito al lettore di
interloquire in merito al suo scritto ne è testimonianza. Al riguardo, nel sito
lo stesso autore si propone, in modo inconsueto, per l’invio gratuito della sua
opera prima “Angeli o Angeli” pubblicata
nel 2008, ricezione verificata e avuta a strettissimo giro di email.
Dopo alcune settimane, ne ho iniziato
la lettura ed ho subito riscontrato lo stile sobrio e scorrevole che
caratterizzava già “Percorsi e incontri”. Stesso metodo di scrittura e stessa
efficacia comunicativa mi hanno fatto attendere con ansia l’immancabile colpo
di scena che puntualmente anche in questo caso arriva e che costituisce poi centralità
della vera storia,
Anche qui la prima parte del
romanzo risulterebbe apparentemente strana e leggera, ma rimane pienamente coerente
e significativa premessa per l’intero racconto.
Nel leggere “Angeli o Angeli”
il pensiero porta subito a Nanni Moretti ed al suo film “Habemus Papam” del
2011. Però, anche se è comune l’idea dell’aspetto umano dei personaggi principali
nelle storie, lo svolgimento dei due racconti si sviluppa su percorsi completamente
diversi.
Non saprei dire quale fra i due
libri di Edoardo Pellegrini possa
definirsi il migliore, di certo entrambi hanno uno specifico stile, un loro
spessore e un’originalità che li accomuna.
Per quanto superfluo posso ben
dire che risulterebbero entrambi meritevoli di maggiore visibilità e di una più
ampia platea. Per i contenuti e le trame si omette ogni anticipazione per
mantenere intatta la curiosità del lettore.
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