Forse, se vogliamo capire un poco quel che accade in Italia, bisogna pensare alle guerre, ai tabù che esse infrangono. Clausewitz, ad esempio, diceva che le guerre napoleoniche avevano "abbattuto le barriere del possibile, prima giacenti solo nell'inconscio", e che risollevarle era "estremamente difficile". Non dissimile è quel che ci sta succedendo.
Un capo di governo ci s'accampa davanti, e passa il tempo a distribuire soldi perché cali il silenzio su verità che lo riguardano. Non qualche soldo, ma tanti e sfacciati. Sfacciati perché la stessa persona dice che verseremo "lacrime e sangue", per riparare una crisi che per anni ha occultato, non sentendosene responsabile. Mentre noi faticosamente contiamo quello che pagheremo, lui sta lì, in un narcisistico altrove, e dice che i soldi li elargisce a persone bisognose, disperate, a lui care: i coniugi Tarantini, Lele Mora, Marcello dell'Utri, e parecchi altri.
Abbondano i diminutivi, i vezzeggiativi, nelle intercettazioni sempre più nauseabonde che leggiamo: si parla di regalini, noccioline, problemini. I diminutivi sono spesso sospetti, nella lingua italiana: nascondono infamie. Nel caso specifico nascondono la cosa più infame, che è il ricatto: sto zitto e ti sono amico, ma a condizione che paghi. Amico? Piuttosto "complice in crudeltà", come diceva La Boétie nella Servitù Volontaria. Dice la moglie di Tarantini, sul mensile di 20.000 euro che il premier elargì per anni ai coniugi che spedivano escort a Palazzo Grazioli: "Ci servivano tutti quei soldi perché abbiamo un tenore di vita alto". Dovevano andare a Cortina, precisa. Chissà perché: dovevano. Questa è la disperazione che Berlusconi incrocia passeggiando. Uno sciopero, immagino non gli dica nulla su chi dispera.
Ricattare un uomo è peggio di sfruttarlo. È conoscerne i misfatti e racimolando prove guadagnarci. Le conversazioni fra Tarantini e il faccendiere Lavitola sono istruttive: il premier va "tenuto sulla corda"; messo "con le spalle al muro"; "in ginocchio". È insultare il bisogno chiamarli bisognosi. La giustizia accerterà, ma già sappiamo parecchio: il premier è ricattabile, non padrone di sé. È una marionetta, manovrata da burattinai nell'ombra. Si è avuta quest'impressione, netta, quando Dell'Utri commentò, il 29-6-2010, la sentenza che lo condannò in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Ancora una volta glorificò Mangano, il tutore-stalliere distaccato a Arcore dalla mafia che mai nominò Berlusconi. Poi aggiunse, singolare postilla: "Io non l'avrei fatto. Forse non avrei resistito a quello cui ha resistito lui". La frase non era buttata lì; pareva un pizzino: "Stai in guardia, posso parlare, io non sono un eroe".
Uno che accetta d'esser ricattabile pensa di dominare ma è dominato; sproloquia di un Paese che ama ma lo considera "di merda". La guerra distorce gli animi a tal punto. Come può governare, se è ostaggio di uomini e donne che lo spremono? Come, se la sua vulnerabilità al ricatto diventa un male banale, un'ordinaria abitudine omertosa, e questo nell'ora in cui dagli italiani si esige una ripresa, morale oltre che economica, e una solidarietà con i poveri, i giovani derubati di pensione e futuro, i precari che la Banca d'Italia chiede di tutelare (comunicazione al Parlamento del vicedirettore Ignazio Visco, 30-8-11) e che la manovra ignora? Non è solo Berlusconi, il sequestrato. La cultura estorsiva secerne i suoi habitués, per contaminazione. Fra essi potrebbe esserci Tremonti, il così imprudente, così stupidamente spavaldo uomo-chiave della crisi.
Gli stava vicino un ometto tracotante e avido, Marco Milanese: ma proditoriamente. Accusato di associazione a delinquere, corruzione, rivelazione di segreto, si spera che il Parlamento ne autorizzi l'arresto. Milanese aveva anche dato al ministro un appartamento al centro di Roma che Tremonti pagava in parte e senza fattura. Il perché resta oscuro. Il ministro ha detto che la Guardia di finanza lo spiava: cosa strana per chi della Gdf è capo. Più la faccenda s'annebbia, più cresce il sospetto che anch'egli sia ricattato da un "complice in crudeltà".
Ma c'è di più: la debolezza di Berlusconi accresce negli italiani il disprezzo, l'odio della politica. Proprio lui, che entrò in scena vituperando i politici di professione ed esaltando meriti e competenze, incarna ora la politica quando si fa putrescente. La sua è una profezia che si autoavvera: aveva dipinto la separatezza teatrale del politico, e l'immagine s'è fatta iper-realtà. Al posto dei partiti le cerchie, le cosche: più che mai i cittadini sono tenuti all'oscuro. Per questo è così vitale raccogliere le firme per abolire tramite referendum la legge elettorale che ha potenziato le cosche. Disse ancora Dell'Utri, nel 2010, che mai avrebbe voluto fare il ministro: "Voglio scegliere i ministri". Ecco lo scopo delle cosche: scegliere, ma dietro le quinte. Berlusconi accusa tutti, di debilitare il premier: costituzione, Parlamento, oppositori, giornali. Non accusato è solo chi amichevolmente lo irretisce in permanenti ricatti.
Non si creda che basti toglierlo di scena perché tutto torni a posto. Che basti sostituirlo con altri spregiatori della politica, magari invischiati come lui in conflitti d'interesse. Se tante barriere sono cadute, abbassando la soglia del fattibile, è perché da 17 anni la sinistra ingoia i conflitti d'interessi, e si irrita quando qualche stravagante parla di questione morale. Perché anch'essa custodisce sue cerchie. Altrimenti avrebbe capito un po' prima che a Milano e Napoli montava una rivolta della decenza che infine ha incensato, ma di cui non fu l'iniziatrice. Altrimenti si getterebbe ora nella raccolta di firme sulla legge elettorale. Altrimenti elogerebbe ogni giorno l'opera di Visco e Prodi contro l'evasione fiscale. Il male di Berlusconi contagia: è "dentro di noi", come scrisse Max Picard di Hitler nel '46. Come spiegare in altro modo l'incuria, l'impreparazione, davanti ai tanti scandali che assillano il Pd: da Tedesco a Pronzato e Penati?
Certo la sinistra non è Berlusconi: rispetta la giustizia, e non è poco. Ma una cosa rischia di accomunarli: il virus viene riconosciuto solo quando i magistrati lo scoperchiano, non è debellato in anticipo da anticorpi presenti nei partiti. Le condotte di Penati non erano ignote. Fin dal 2005 fu sospettato d'aver acquistato a caro prezzo azioni dell'autostrada Serravalle, quand'era Presidente della provincia a Milano, nonostante la società fosse già pubblica: per ottenere forse dall'imprenditore Gavio, cui comprò le azioni, contributi alla scalata di Bnl. Poi vennero le tangenti per l'ex Area Falck di Sesto San Giovanni. Nel 2007 il giornalista Gianni Barbacetto scrisse su questo un libro (I compagni che sbagliano). Prudenza avrebbe consigliato l'allontanamento da Penati. Invece niente. Passano soli due anni, e nel 2009 Bersani nomina proprio Penati capo della sua segreteria. Era "l'uomo del Nord", scrive Nando Dalla Chiesa sul Fatto, e il Nord s'espugna con i figli del berlusconismo.
Si racconta che un giorno i discepoli di Confucio gli chiesero: "Quale sarà la prima mossa, come imperatore della Cina?". Rispose: "Comincerei col fissare il senso delle parole". È quello di cui abbiamo bisogno anche noi, è la via aurea che s'imbocca quando - finite le guerre - urge rialzare le barriere del fattibile. Rimettere ordine nelle parole è anche smettere gli smorti totem che ci assillano: parole come riformismo, o centrismo. Ormai sappiamo che riformista è chi si accredita conservando lo status quo, facendo favori a gruppi d'interesse, Chiesa compresa. Liberare l'Italia da mafie e ricatti non è considerato riformista. Sbarazzarsi di Berlusconi servirà a poco, in queste condizioni. Gli elettori sono disgustati dalla politica come nel '93-'94. Cercheranno un nuovo Berlusconi.
Barbara Spinelli (La Repubblica - 07 settembre 2011)