“Adesso basta. A questi gli taglio i fondi... Vado al Giornale e batto i pugni sul tavolo. E se Indro fa le bizze. lo prendo a calci in culo”. E davvero un peccato che il nostro immenso Montanelli se ne sia andato prima di sentire, al processo contro Dell’Utri di Palermo, la registrazione delle telefonate intercettate il 27 agosto 1983 nelle quali Berlusconi parlava di lui. Si sarebbe fatto una risata. Per carità, le conversazioni non contengono una parola che sembri avere un rilievo giudiziario. Di più: recuperarle da un altro fascicolo processuale e farle sentire in aula è stata forse da parte dei giudici, provocati dall’insistenza con cui i difensori martellavano sull’assoluta «impermeabilità» dei giornali e delle tivù berlusconiane alle interferenze d’un editore profondamente liberale, una rasoiata. L’immagine che ne esce dell’ex Sua Emittenza destinata a diventare premier, però, è dispettosamente indimenticabile.
Sono anni, infatti, che il Cavaliere spiega di essere l’editore più tollerante e rispettoso del pianeta. Lo disse nella celebre intervista ai tg della Fininvest quell’11 gennaio del 1994 in cui di fatto diede al grande vecchio il suo benservito: «Non ho mai interferito con la linea del Giornale... Avevo detto che Montanelli poteva scrivere i suoi articoli di qui all’eternità. Ho anche aggiunto che avrebbe potuto mandarmeli con un fax speciale che stavo facendo costruire dal Paradiso».
Lo ridisse dopo aver vinto le elezioni del ‘94: «Li ho sempre avuti tutti contro anche in questa campagna elettorale: Scalfari, Repubblica e l’Espresso perché sono di un altro partito, Mieli al Corriere e Mauro alla Stampa per le loro convinzioni e quelle dei loro redattori. E poi Montanelli, che ha lasciato il Giornale senza che io gli dicessi mai nulla». Lo ribadì nel ‘97: «Montanelli ha lasciato il Giornale senza che io gli dicessi mai nulla, solo una frase a colazione su Segni, che mi pareva uno destinato a perdere». Lo confermò dopo la morte del grande giornalista che pure aveva definito sprezzantemente «un mio ex dipendente» incassando in cambio l’accusa di avere «una voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne»: «Piango l’amico con cui ho condiviso molte battaglie e al quale sono rimasto legato anche quando ha espresso dissenso dalle mie po-sizioni, con lo spirito di libertà che ha sempre animato il suo lavoro e che ho sempre rispettato».
Certo, non che il Cavaliere abbia mai avuto una grande stima dei giornalisti... Gli archivi sono pieni di sfuriate. «Il 90% dei giornalisti italiani milita sotto le bandiere del fronte comunista o paracomunista. Quanto ai corrispondenti esteri...». «La stampa è bugiarda, la voglia di scoop prevale troppo spesso sulla verità, tutto questo non può e non deve avvenire. Non possiamo non condannare la menzogna». «Anche se un giorno camminassi sulle acque, Stampa, Corriere, Repubblica e Unità, che si telefonano per concordare i titoli, scriverebbero che Berlusconi non sa nuotare...».
Ammette, ovvio, delle eccezioni. Come certi titolisti del Giornale arrivati a scrivere che le corna fatte allo spagnolo Piqué nella foto dei leader europei a Caceres erano «gesti che servono per creare amicizia, cordialità, simpatia e rapporti affettuosi». O certi cronisti plaudenti: «Segreterie e collaboratori si alternano, con diversi turni, mentre il Cavaliere sembra l’omino delle pile Duracell: chi scrive riesce a stento a girare lo zucchero nella tazzina del caffè, nello stesso tempo in cui il presidente di Forza Italia fa almeno tre cose». O ancora Paolo Liguori, che secondo lui faceva a Studio Aperto «il tg più sereno e obiettivo», O ancora Emilio Fede il quale, coperto di elogi per la leggendaria imparzialità, ha ricambiato giurando: «Berlusconi non mi dà mai ordini. Mai, mai, mai». Ecco: non essere amato da tutti l’ha sempre in qualche modo stupito: «Io, uomo delle tivù, sono per essenza l’uomo della democrazia».
Potete dunque immaginare quanto lo abbia amareggiato la diffusione delle telefonate di quel 1983. Nella prima Craxi, da tre settimane presidente del Consiglio, si lagna con l’amico Silvio perché Montanelli gli ha dato del «guappo». Nella seconda il futuro premier, dopo avere assicurato a Bettino che avrebbe preso il vecchio Indro «a calci in culo», chiama il condirettore del Giornale Biazzi Vergani, gli riferisce della sfuriata craxiana e gli raccomanda di trattar bene il Cinghialone («Dobbiamo tenercelo buono, fra poco ci farà avere le concessioni per le tivù») e di starsene zitto: «Per ora a Montanelli non dire che ti ho chiamato». La terza è di Biazzi Vergani a Berlusconi: «Tutto a posto». Chissà, se fosse qui, cosa direbbe Indro. Forse, fatta una risata, racconterebbe di come Berlusconi gli avesse un giorno spiegato il suo rapporto con la stampa, i critici, i bastian contrari e il dispiacere che prova quando chi gli è intorno non lo apprezza quanto lui ritiene di meritare:
«Faccio come zia Marina, che ha 80 anni e siccome nessuno le dice che è bella un giorno si è messa davanti allo specchio con un vestito a fiori e si diceva: “Mariiina, cume te se bela”».
SETTE - n. 15 - 10 aprile 2003
Sono anni, infatti, che il Cavaliere spiega di essere l’editore più tollerante e rispettoso del pianeta. Lo disse nella celebre intervista ai tg della Fininvest quell’11 gennaio del 1994 in cui di fatto diede al grande vecchio il suo benservito: «Non ho mai interferito con la linea del Giornale... Avevo detto che Montanelli poteva scrivere i suoi articoli di qui all’eternità. Ho anche aggiunto che avrebbe potuto mandarmeli con un fax speciale che stavo facendo costruire dal Paradiso».
Lo ridisse dopo aver vinto le elezioni del ‘94: «Li ho sempre avuti tutti contro anche in questa campagna elettorale: Scalfari, Repubblica e l’Espresso perché sono di un altro partito, Mieli al Corriere e Mauro alla Stampa per le loro convinzioni e quelle dei loro redattori. E poi Montanelli, che ha lasciato il Giornale senza che io gli dicessi mai nulla». Lo ribadì nel ‘97: «Montanelli ha lasciato il Giornale senza che io gli dicessi mai nulla, solo una frase a colazione su Segni, che mi pareva uno destinato a perdere». Lo confermò dopo la morte del grande giornalista che pure aveva definito sprezzantemente «un mio ex dipendente» incassando in cambio l’accusa di avere «una voluttuaria e voluttuosa propensione alle menzogne»: «Piango l’amico con cui ho condiviso molte battaglie e al quale sono rimasto legato anche quando ha espresso dissenso dalle mie po-sizioni, con lo spirito di libertà che ha sempre animato il suo lavoro e che ho sempre rispettato».
Certo, non che il Cavaliere abbia mai avuto una grande stima dei giornalisti... Gli archivi sono pieni di sfuriate. «Il 90% dei giornalisti italiani milita sotto le bandiere del fronte comunista o paracomunista. Quanto ai corrispondenti esteri...». «La stampa è bugiarda, la voglia di scoop prevale troppo spesso sulla verità, tutto questo non può e non deve avvenire. Non possiamo non condannare la menzogna». «Anche se un giorno camminassi sulle acque, Stampa, Corriere, Repubblica e Unità, che si telefonano per concordare i titoli, scriverebbero che Berlusconi non sa nuotare...».
Ammette, ovvio, delle eccezioni. Come certi titolisti del Giornale arrivati a scrivere che le corna fatte allo spagnolo Piqué nella foto dei leader europei a Caceres erano «gesti che servono per creare amicizia, cordialità, simpatia e rapporti affettuosi». O certi cronisti plaudenti: «Segreterie e collaboratori si alternano, con diversi turni, mentre il Cavaliere sembra l’omino delle pile Duracell: chi scrive riesce a stento a girare lo zucchero nella tazzina del caffè, nello stesso tempo in cui il presidente di Forza Italia fa almeno tre cose». O ancora Paolo Liguori, che secondo lui faceva a Studio Aperto «il tg più sereno e obiettivo», O ancora Emilio Fede il quale, coperto di elogi per la leggendaria imparzialità, ha ricambiato giurando: «Berlusconi non mi dà mai ordini. Mai, mai, mai». Ecco: non essere amato da tutti l’ha sempre in qualche modo stupito: «Io, uomo delle tivù, sono per essenza l’uomo della democrazia».
Potete dunque immaginare quanto lo abbia amareggiato la diffusione delle telefonate di quel 1983. Nella prima Craxi, da tre settimane presidente del Consiglio, si lagna con l’amico Silvio perché Montanelli gli ha dato del «guappo». Nella seconda il futuro premier, dopo avere assicurato a Bettino che avrebbe preso il vecchio Indro «a calci in culo», chiama il condirettore del Giornale Biazzi Vergani, gli riferisce della sfuriata craxiana e gli raccomanda di trattar bene il Cinghialone («Dobbiamo tenercelo buono, fra poco ci farà avere le concessioni per le tivù») e di starsene zitto: «Per ora a Montanelli non dire che ti ho chiamato». La terza è di Biazzi Vergani a Berlusconi: «Tutto a posto». Chissà, se fosse qui, cosa direbbe Indro. Forse, fatta una risata, racconterebbe di come Berlusconi gli avesse un giorno spiegato il suo rapporto con la stampa, i critici, i bastian contrari e il dispiacere che prova quando chi gli è intorno non lo apprezza quanto lui ritiene di meritare:
«Faccio come zia Marina, che ha 80 anni e siccome nessuno le dice che è bella un giorno si è messa davanti allo specchio con un vestito a fiori e si diceva: “Mariiina, cume te se bela”».
SETTE - n. 15 - 10 aprile 2003
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