Da parecchi decenni si registra, in Occidente, un fenomeno del tutto nuovo e sconosciuto alle società che ci hanno preceduto: i suicidi dei vecchi. Quelli, recenti, di personaggi illustri come Monicelli e Magri, che pur erano dei privilegiati rispetto ai loro coetanei, non fanno che evidenziare un trend ben noto agli studiosi. Le ragioni sono principalmente due: la perdita di ruolo e la solitudine.
Nella società agricola, premoderna, preindustriale, prevalentemente a tradizione orale, statica, il vecchio è il detentore del sapere (ma sarebbe forse meglio dire di una sapienza) che tramanda ai suoi discendenti. Resta, sino alla fine, il capo indiscusso della famiglia e conserva quindi un ruolo e la sua vita un senso. Nella società attuale avviene esattamente l’opposto. Le rapidissime trasformazioni tecnologiche fanno del vecchio un analfabeta di ritorno, uno spaesato, uno spostato, la sua esperienza non serve più a nulla, non conta più nulla. Non è lui a insegnare ai giovani che, con una condiscendenza che lo ferisce, devono insegnare a lui. Scrive lo storico Carlo Maria Cipolla: “Un vecchio nella società agricola è il saggio, in quella industriale un relitto”.
Terribile, davvero terribile, è poi la solitudine del vecchio di oggi, soprattutto nella società urbana, rinchiuso in qualche bilocale negli hinterland delle grandi città, senza sapere più cosa fare di sé. In Europa solo il 2% dei vecchi vive con i propri figli o nipoti. La famiglia mononucleare, le ridotte dimensioni degli appartamenti, gli impegni sempre più stressanti dei figli, impediscono di tenere in casa i genitori, sempre più vecchi e malandati (viviamo troppo a lungo, dio stramaledica la medicina tecnologica). Nella società d’antan il vecchio viveva invece nella famiglia allargata, circondato dai numerosi figli, dai nipoti, dai molti bambini, dalle donne di casa e da esse accudito nel periodo, fortunatamente breve, in cui non era più in grado di badare a se stesso.
Come terzo elemento mettiamoci che oggi è proibito essere vecchi. E così la vecchiaia ha perso anche uno dei suoi pochi lussi: quello di potersi abbandonare alla propria età e ai suoi inevitabili limiti. “Vecchio è bello”, figuriamoci. Ma a patto che rinneghi se stesso, che appaia giovane, che se la dia da giovane, che faccia il giovane, che consumi, possibilmente, come un giovane. È costretto quindi a sgambettare impudicamente nelle balere, a scopare, con viagra o altri accorgimenti pompettari, anche se non ne ha più voglia, a imbarcarsi in maratone assassine in cui regolarmente si infartua. Se invece è vecchio e lo dimostra è irrimediabilmente out e viene emarginato senza pietà. Foera de ball.
Fra i vecchi si suicidano gli uomini, non le donne. Perché sono più vitali. Lo si vede anche fuori dall’ambito dei suicidi. Se in una vecchia coppia muore prima lui, lei, liberatasi dal rompicoglioni, rifiorisce, comincia a far viaggi, a visitare mostre, a curare antichi interessi. Se invece muore lei, il marito intristisce, rinsecchisce, perde ogni voglia, com’è capitato a Lucio Magri. Si obietta che anche in altre civiltà è esistito, o esiste, il suicidio dei vecchi. Fra gli esquimesi il vecchio capofamiglia una sera, nell’igloo, dopo la cena, fissa negli occhi, in silenzio, i propri familiari. Poi esce, da solo, nella notte polare. Ma il suo è un suicidio per consapevolezza, a suo modo sereno, naturale. La consapevolezza che il suo compito è terminato. Quello di Magri e degli altri è invece un suicidio per disperazione. Questa è la differenza.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 3 dicembre 2011)
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