In una delle sue Epistulae familiares, Francesco Petrarca detta le condizioni che esige dal suo lettore. Dico «esige» perché questo è il tono, che definirei imperativo, né c'è da meravigliarsi. I libri costituivano la vera passione del poeta («librorum avidum»), sempre molto severo con tutti dal punto di vista professionale, a cominciare da se stesso. Per quel che riguarda i libri la sua volontà suona così:
Io voglio che il mio lettore, chiunque egli sia, pensi solo a me e non stia a pensare alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l'amante, alle trame dei suoi nemici, alla causa in tribunale, alla terra o ai soldi, e almeno mentre legge voglio che sia solo con me.
Mi piace moltissimo questa pretesa così «professionale» che, del resto, il poeta giustifica subito dopo, precisandone le ragioni:
Io non voglio che nello stesso tempo faccia i suoi affari e studi, non voglio che si impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto.
Sul fatto che la «conoscenza» costi comunque fatica quando si tratti sia di trasmetterla sia di apprenderla, vorrei raccontare una versione scherzosa del celebre episodio del serpente, di Eva e della mela nel paradiso terrestre, che un giorno mi raccontò il mio amico rabbino. Mi disse, dunque, il sant'uomo che il Signore del Tempo e dello Spazio, vedendo che Eva e quell'altro scervellato di Adamo pensavano che per acquisire la conoscenza bastasse mordere una mela colta dall'albero giusto, chiamò indignato l'arcangelo e gli ordinò: «Vedi quei due laggiù? Per favore toglimeli dai piedi. Va' e scaccia per sempre quei due scemi dall'Eden, non li voglio più vedere».
Nell'episodio, quindi, non ci sarebbe alcuna allusione al sesso o ad altri peccati. La cacciata sarebbe la semplice e meritata punizione per una stupidità senza rimedio. Infatti, eccoci quaggiù, ridotti come siamo. L'interpretazione è scherzosa, tipica di quell'umorismo ebraico che si caratterizza spesso per una notevole capacità autoironica. È probabile che il mito del paradiso perduto sia nato, piuttosto, da vicende o sentimenti molto più drammatici, che hanno a che fare con la nostra finitezza, l'umana presunzione, la consapevolezza della fine.
Per tornare a Petrarca, l'atteggiamento che il poeta esigeva dal suo lettore possiamo vederlo riflesso, direi «in controcampo», rubando un'espressione al cinema, in un lettore di eccezione, nonché autore fra i più geniali: Niccolò Machiavelli.
Siamo nel dicembre 1513, ser Niccolò, segretario fiorentino compromesso proprio a causa di quel segretariato al servizio del governo repubblicano della città, si trova a
malpartito con il ritorno dei Medici. È un uomo già oltre la quarantina, viene prima incarcerato poi confinato nella sua villa in un paesino vicino a San Casciano in Val di Pesa. Qui passa giornate forzatamente oziose, delle quali, però, approfitta per mettere mano ad alcuni dei suoi testi maggiori, compreso il suo capolavoro, Il Principe.
L'opera, prima nel mondo, svela la natura della politica, in qual modo, con quali strumenti, si possa perseguire l'utile e conquistare o mantenere il potere. Di tale lavoro, in corso o appena terminato, dà notizia al suo amico Francesco Vettori, che in quel momento è, come recita l'intestazione della missiva, «Magnifico ambasciadore fiorentino presso il Sommo Pontefice [si tratta di Leone X] suo Patrono e benefattore in Roma».
Per la prima volta, nel suo splendido italiano, Machiavelli espone una concezione che svincola l'attività politica dalle leggi morali. Il che non vuol dire, sia chiaro, che per il politico sia lecito intascare il denaro pubblico, vuol dire che la reale «virtù» d'un principe consiste nel tenere presente l'utilità generale dello Stato anche quando questa comporti il ricorso alla doppiezza, all'inganno e perfino al delitto. Sempre, però, avendo come fine supremo il bene dei sudditi. Gli uomini sono malvagi e avidi, dice Machiavelli con sacrosanta ragione; ecco perché i reggitori di un principato possono essere costretti, se vogliono operare nel mondo, ad allontanarsi dalla moralità corrente.
Molte altre cose dice il segretario, fondando con quel piccolo libro ogni posteriore scienza della politica. Una sopra tutte, per quel che ancora oggi ci interessa: che le divisioni hanno fatto la rovina dell'Italia, che la frammentazione in piccoli Stati, mentre in Europa si vanno formando le grandi monarchie nazionali, rischia di togliere alla penisola ogni possibilità di supremazia, che o l'Italia saprà ritrovare un'unità politica o sarà condannata al declino. Veda chi legge se il segretario non aveva colto già allora l'eterna radice del nostro problema. Infatti, l'Italia, che aveva primeggiato fra Quattro e Cinquecento nella finanza e nei commerci, riuscirà a comporre un'unità nazionale solo nella seconda metà dell'Ottocento, in un momento, cioè, di debolezza economica e culturale, che ne segnerà il successivo destino.
È l'ennesima digressione, lo so. In realtà ho richiamato Machiavelli per via della lettera a Francesco Vettori e a quella devo tornare, però chiedo ancora qualche riga. Prima vorrei dare un piccolo esempio della prosa con cui II Principe è scritto, perché l'italiano di Machiavelli è quanto di più vicino io conosca alla mirabile concisione del latino. Le prime righe dell'opera ne offrono buona testimonianza:
Tutti gli stati, tutti e' dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati. E' principati sono, o ereditarli, de' quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e' sono nuovi. E' nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi a essere liberi; et acquistonsi o con le armi d'altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.
Ma torniamo alla lettera a Vettori. Siamo, come dicevo, nel dicembre 1513 e si può
immaginare quali fossero le condizioni materiali di vita di messer Niccolò in quel borgo sperduto. Quale freddo, quali disagi, quale povero cibo (come egli stesso scrive), quali umili compagnie e occupazioni, lui che aveva spirito vivace ed era amante della buona cucina e della compagnia femminile, senza escludere, all'occasione, quella maschile (il famoso «vizio fiorentino»).
Sempre a Vettori, in un'altra lettera, vedendolo attraversare un momento di tristezza e di astinenza, aveva rivolto questo scherzoso rimprovero: «Ambasciadore, voi ammalerete; e non mi pare che vi pigliate spasso alcuno; qui non ci è garzone, qui non sono femmine; che casa di cazzo è questa?». Dove si vede, fra l'altro, che la celebre espressione, oggi di uso così frequente, può accampare nobile e antica attestazione.
La lettera, dunque. Nel corpo centrale della missiva Machiavelli fa una specie di cronaca delle sue giornate, che risultano come divise in due parti. Vediamo la prima:
Transferiscomi poi in su la strada, nell'osteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de' paesi loro, intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d'uomini. Vienne in questo mentre l'ora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell'osteria: quivi è l'oste, per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a tócche trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole ingiuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosi, rinvolto entra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Fine della prima parte in questa mia capziosa suddivisione, che ha il solo scopo di accrescere la sorpresa per le righe che seguono, poiché lì è l'essenza e, ai miei fini, lo scopo della citazione. Prosegue dunque il segretario:
Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto i panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte.
Il racconto di questo rito fonda, a mio parere, una vera etica della lettura, ci introduce in un mondo «altro», riferisce di un incantamento, restituisce con forza straordinaria il trasferimento in una dimensione diversa da quella ordinaria: «non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte». L'avvertenza del Petrarca, che metteva in guardia il suo lettore dicendogli: quando leggi le mie cose, non devi pensare alla notte con l'amante, alle trame dei nemici, a una causa in tribunale, alla terra o ai soldi,
Machiavelli la mette in pratica, rivelandosi anche lettore ideale: concentrato, serio, totale.
Fra le numerose osservazioni che questo brano straordinario suscita, mi preme far notare il modo in cui Machiavelli legge, così simile al nostro: è solo, in silenzio, seduto, immerso nella pagina in una luce, immagino, fioca, forse quella della tremolante fiamma d'una lucerna. Non è sempre stato così. Il modo in cui gli esseri umani hanno letto è molto cambiato nel corso dei secoli e quello ormai adottato dalla maggioranza di noi è relativamente recente. A parte le letture per dir così specializzate, come quella meditata della Torah o quella ripetitiva del breviario, i libri sono via via stati letti ora declamando, ora sussurrando, raramente nel totale silenzio.
Agostino d'Ippona, cioè sant'Agostino, rivela con sorpresa nelle sue Confessioni come leggesse il «dottore della Chiesa» sant'Ambrogio da Milano:
«Quando leggeva, gli occhi scorrevano lungo la pagina e la mente ne coglieva il senso, ma voce e lingua restavano immobili. Spesso, trovandosi lì -chiunque poteva entrare, e non si usava annunciargli l'arrivo di un visitatore -, lo vedevamo leggere così, in silenzio, mai in altro modo».
Questa maniera di leggere contraddiceva quella allora più usuale (siamo nel IV secolo) che consisteva nell'accompagnare la decifrazione delle parole e delle frasi biascicandole a mezza bocca, sicché entrando, per esempio, in una biblioteca si udiva «come un ronzio incessante di api».
Noi siamo abituati a dare a parole come «silenzio» e «solitudine» un significato di malinconia, negativo. Nel caso della lettura non è così, al contrario quel silenzio e quella solitudine segnano la condizione orgogliosa dell'essere umano solo con i suoi pensieri, capace di dimenticare per qualche ora «ogni affanno».
Elogi della lettura silenziosa se ne trovano, del resto, parecchi; uno, recente, è nel bel romanzo di Paul Auster Follie di Brooklyn, libro che fortemente consiglio. Dice il protagonista: «Leggere per me era evasione e conforto, era la mia consolazione, il mio stimolante preferito: leggere per il puro gusto della lettura, per il meraviglioso silenzio che ti circonda quando ascolti le parole di un autore riverberate dentro la tua testa».
Un altro aspetto della lettura è quello, molto controverso, del rapporto fra l'opera e il suo autore. Questione lungamente dibattuta e che non ha mai trovato una risposta davvero definitiva, anche perché molto probabilmente è impossibile trovarla. J.D. Salinger, nel suo celebre romanzo di «culto» Il giovane Holden, fa dire al protagonista:
I libri che mi piacciono di più sono quelli che almeno ogni tanto sono un po' da ridere. Leggo un sacco di classici, come II ritorno dell'indigeno e via discorrendo, e mi piacciono, e leggo un sacco di libri di guerra e di gialli e via discorrendo, ma non è che mi lascino proprio senza fiato. Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.
Il punto è proprio nelle parole finali: vorremmo davvero avere come amico, per la
pelle o no, un autore che amiamo? Non lo so, anzi non credo. Per spiegare questa diffidenza devo richiamare brevemente una famosa polemica originata nell'Ottocento da Charles-Augustin de Sainte-Beuve, poeta ma, in primo luogo, critico letterario. Il suo metodo dichiarato consisteva nell'analizzare un'opera soprattutto mettendola in relazione al suo autore.
«Tale l'albero, tale il frutto» soleva dire, ovvero: se non conosciamo bene chi ha scritto qualcosa, e come e perché, come potremo valutare ciò che ha scritto? Indicava così un metodo critico molto romantico in cui, avvalendosi di ogni possibile strumento, compresi quelli storici, si cercava di mettersi in sintonia con le inquietudini di un artista, la sua ispirazione profonda.
Sainte-Beuve era tanto convinto della bontà della sua intuizione che riteneva di poterla applicare non solo agli individui, ma anche ai gruppi umani e alle correnti letterarie.
Contro tale metodo si pronunciò Marcel Proust con una celebre opera che ha per titolo appunto Contre Sainte-Beuve. Che cosa obietta l'autore della Recherche? Sostiene che è assurdo tentare di giudicare l'opera di un poeta o di uno scrittore, filtrandola attraverso l'uomo che egli è o è stato. L'uomo è solo un uomo, e può addirittura ignorare il poeta che vive in lui. Chi osserva dall'esterno dev'essere in grado di scovare certe qualità nell'opera di un autore valutando, per conseguenza, quale valore dare all'autore stesso e, addirittura, quale dovrebbe essere il suo comportamento. Nelle parole di Proust, «c'est notre raisonnement qui, dégageant de l'oeuvre du poète sa grandeur, dit: c'est un roi, et le voit roi, et voudrait qu'il se conduisìt en roi».
Nella mia esperienza, sono rimasto molte volte deluso dalla conoscenza diretta di un autore del quale avevo apprezzato l'opera. Tanto che spesso ho evitato di invitare uno scrittore in televisione nel timore che, comportandosi in modo inadatto, si danneggiasse da solo; avendo amato il suo libro, ho preferito chiamare qualcuno che parlasse in sua vece.
Una volta, a Londra, mi è pure capitato di essere invitato a un party dove, mi dissero, sarebbe stato presente anche Philip Roth, a mio giudizio il più grande scrittore vivente. Ho risposto che ero già impegnato per il timore che, conoscendolo di persona, l'uomo avrebbe potuto danneggiare l'immagine dello scrittore, tanto più in un'occasione come quella, in cui, con un bicchiere in mano e nel cicaleccio generale, non si sa più bene che cosa dire dopo le prime frasi di rito.
Corrado Augias (Leggere - Mondadori 2007)
Io voglio che il mio lettore, chiunque egli sia, pensi solo a me e non stia a pensare alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l'amante, alle trame dei suoi nemici, alla causa in tribunale, alla terra o ai soldi, e almeno mentre legge voglio che sia solo con me.
Mi piace moltissimo questa pretesa così «professionale» che, del resto, il poeta giustifica subito dopo, precisandone le ragioni:
Io non voglio che nello stesso tempo faccia i suoi affari e studi, non voglio che si impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto.
Sul fatto che la «conoscenza» costi comunque fatica quando si tratti sia di trasmetterla sia di apprenderla, vorrei raccontare una versione scherzosa del celebre episodio del serpente, di Eva e della mela nel paradiso terrestre, che un giorno mi raccontò il mio amico rabbino. Mi disse, dunque, il sant'uomo che il Signore del Tempo e dello Spazio, vedendo che Eva e quell'altro scervellato di Adamo pensavano che per acquisire la conoscenza bastasse mordere una mela colta dall'albero giusto, chiamò indignato l'arcangelo e gli ordinò: «Vedi quei due laggiù? Per favore toglimeli dai piedi. Va' e scaccia per sempre quei due scemi dall'Eden, non li voglio più vedere».
Nell'episodio, quindi, non ci sarebbe alcuna allusione al sesso o ad altri peccati. La cacciata sarebbe la semplice e meritata punizione per una stupidità senza rimedio. Infatti, eccoci quaggiù, ridotti come siamo. L'interpretazione è scherzosa, tipica di quell'umorismo ebraico che si caratterizza spesso per una notevole capacità autoironica. È probabile che il mito del paradiso perduto sia nato, piuttosto, da vicende o sentimenti molto più drammatici, che hanno a che fare con la nostra finitezza, l'umana presunzione, la consapevolezza della fine.
Per tornare a Petrarca, l'atteggiamento che il poeta esigeva dal suo lettore possiamo vederlo riflesso, direi «in controcampo», rubando un'espressione al cinema, in un lettore di eccezione, nonché autore fra i più geniali: Niccolò Machiavelli.
Siamo nel dicembre 1513, ser Niccolò, segretario fiorentino compromesso proprio a causa di quel segretariato al servizio del governo repubblicano della città, si trova a
malpartito con il ritorno dei Medici. È un uomo già oltre la quarantina, viene prima incarcerato poi confinato nella sua villa in un paesino vicino a San Casciano in Val di Pesa. Qui passa giornate forzatamente oziose, delle quali, però, approfitta per mettere mano ad alcuni dei suoi testi maggiori, compreso il suo capolavoro, Il Principe.
L'opera, prima nel mondo, svela la natura della politica, in qual modo, con quali strumenti, si possa perseguire l'utile e conquistare o mantenere il potere. Di tale lavoro, in corso o appena terminato, dà notizia al suo amico Francesco Vettori, che in quel momento è, come recita l'intestazione della missiva, «Magnifico ambasciadore fiorentino presso il Sommo Pontefice [si tratta di Leone X] suo Patrono e benefattore in Roma».
Per la prima volta, nel suo splendido italiano, Machiavelli espone una concezione che svincola l'attività politica dalle leggi morali. Il che non vuol dire, sia chiaro, che per il politico sia lecito intascare il denaro pubblico, vuol dire che la reale «virtù» d'un principe consiste nel tenere presente l'utilità generale dello Stato anche quando questa comporti il ricorso alla doppiezza, all'inganno e perfino al delitto. Sempre, però, avendo come fine supremo il bene dei sudditi. Gli uomini sono malvagi e avidi, dice Machiavelli con sacrosanta ragione; ecco perché i reggitori di un principato possono essere costretti, se vogliono operare nel mondo, ad allontanarsi dalla moralità corrente.
Molte altre cose dice il segretario, fondando con quel piccolo libro ogni posteriore scienza della politica. Una sopra tutte, per quel che ancora oggi ci interessa: che le divisioni hanno fatto la rovina dell'Italia, che la frammentazione in piccoli Stati, mentre in Europa si vanno formando le grandi monarchie nazionali, rischia di togliere alla penisola ogni possibilità di supremazia, che o l'Italia saprà ritrovare un'unità politica o sarà condannata al declino. Veda chi legge se il segretario non aveva colto già allora l'eterna radice del nostro problema. Infatti, l'Italia, che aveva primeggiato fra Quattro e Cinquecento nella finanza e nei commerci, riuscirà a comporre un'unità nazionale solo nella seconda metà dell'Ottocento, in un momento, cioè, di debolezza economica e culturale, che ne segnerà il successivo destino.
È l'ennesima digressione, lo so. In realtà ho richiamato Machiavelli per via della lettera a Francesco Vettori e a quella devo tornare, però chiedo ancora qualche riga. Prima vorrei dare un piccolo esempio della prosa con cui II Principe è scritto, perché l'italiano di Machiavelli è quanto di più vicino io conosca alla mirabile concisione del latino. Le prime righe dell'opera ne offrono buona testimonianza:
Tutti gli stati, tutti e' dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati. E' principati sono, o ereditarli, de' quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e' sono nuovi. E' nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi dominii così acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi a essere liberi; et acquistonsi o con le armi d'altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.
Ma torniamo alla lettera a Vettori. Siamo, come dicevo, nel dicembre 1513 e si può
immaginare quali fossero le condizioni materiali di vita di messer Niccolò in quel borgo sperduto. Quale freddo, quali disagi, quale povero cibo (come egli stesso scrive), quali umili compagnie e occupazioni, lui che aveva spirito vivace ed era amante della buona cucina e della compagnia femminile, senza escludere, all'occasione, quella maschile (il famoso «vizio fiorentino»).
Sempre a Vettori, in un'altra lettera, vedendolo attraversare un momento di tristezza e di astinenza, aveva rivolto questo scherzoso rimprovero: «Ambasciadore, voi ammalerete; e non mi pare che vi pigliate spasso alcuno; qui non ci è garzone, qui non sono femmine; che casa di cazzo è questa?». Dove si vede, fra l'altro, che la celebre espressione, oggi di uso così frequente, può accampare nobile e antica attestazione.
La lettera, dunque. Nel corpo centrale della missiva Machiavelli fa una specie di cronaca delle sue giornate, che risultano come divise in due parti. Vediamo la prima:
Transferiscomi poi in su la strada, nell'osteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de' paesi loro, intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d'uomini. Vienne in questo mentre l'ora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell'osteria: quivi è l'oste, per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dì giuocando a cricca, a tócche trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole ingiuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosi, rinvolto entra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Fine della prima parte in questa mia capziosa suddivisione, che ha il solo scopo di accrescere la sorpresa per le righe che seguono, poiché lì è l'essenza e, ai miei fini, lo scopo della citazione. Prosegue dunque il segretario:
Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto i panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte.
Il racconto di questo rito fonda, a mio parere, una vera etica della lettura, ci introduce in un mondo «altro», riferisce di un incantamento, restituisce con forza straordinaria il trasferimento in una dimensione diversa da quella ordinaria: «non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte». L'avvertenza del Petrarca, che metteva in guardia il suo lettore dicendogli: quando leggi le mie cose, non devi pensare alla notte con l'amante, alle trame dei nemici, a una causa in tribunale, alla terra o ai soldi,
Machiavelli la mette in pratica, rivelandosi anche lettore ideale: concentrato, serio, totale.
Fra le numerose osservazioni che questo brano straordinario suscita, mi preme far notare il modo in cui Machiavelli legge, così simile al nostro: è solo, in silenzio, seduto, immerso nella pagina in una luce, immagino, fioca, forse quella della tremolante fiamma d'una lucerna. Non è sempre stato così. Il modo in cui gli esseri umani hanno letto è molto cambiato nel corso dei secoli e quello ormai adottato dalla maggioranza di noi è relativamente recente. A parte le letture per dir così specializzate, come quella meditata della Torah o quella ripetitiva del breviario, i libri sono via via stati letti ora declamando, ora sussurrando, raramente nel totale silenzio.
Agostino d'Ippona, cioè sant'Agostino, rivela con sorpresa nelle sue Confessioni come leggesse il «dottore della Chiesa» sant'Ambrogio da Milano:
«Quando leggeva, gli occhi scorrevano lungo la pagina e la mente ne coglieva il senso, ma voce e lingua restavano immobili. Spesso, trovandosi lì -chiunque poteva entrare, e non si usava annunciargli l'arrivo di un visitatore -, lo vedevamo leggere così, in silenzio, mai in altro modo».
Questa maniera di leggere contraddiceva quella allora più usuale (siamo nel IV secolo) che consisteva nell'accompagnare la decifrazione delle parole e delle frasi biascicandole a mezza bocca, sicché entrando, per esempio, in una biblioteca si udiva «come un ronzio incessante di api».
Noi siamo abituati a dare a parole come «silenzio» e «solitudine» un significato di malinconia, negativo. Nel caso della lettura non è così, al contrario quel silenzio e quella solitudine segnano la condizione orgogliosa dell'essere umano solo con i suoi pensieri, capace di dimenticare per qualche ora «ogni affanno».
Elogi della lettura silenziosa se ne trovano, del resto, parecchi; uno, recente, è nel bel romanzo di Paul Auster Follie di Brooklyn, libro che fortemente consiglio. Dice il protagonista: «Leggere per me era evasione e conforto, era la mia consolazione, il mio stimolante preferito: leggere per il puro gusto della lettura, per il meraviglioso silenzio che ti circonda quando ascolti le parole di un autore riverberate dentro la tua testa».
Un altro aspetto della lettura è quello, molto controverso, del rapporto fra l'opera e il suo autore. Questione lungamente dibattuta e che non ha mai trovato una risposta davvero definitiva, anche perché molto probabilmente è impossibile trovarla. J.D. Salinger, nel suo celebre romanzo di «culto» Il giovane Holden, fa dire al protagonista:
I libri che mi piacciono di più sono quelli che almeno ogni tanto sono un po' da ridere. Leggo un sacco di classici, come II ritorno dell'indigeno e via discorrendo, e mi piacciono, e leggo un sacco di libri di guerra e di gialli e via discorrendo, ma non è che mi lascino proprio senza fiato. Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.
Il punto è proprio nelle parole finali: vorremmo davvero avere come amico, per la
pelle o no, un autore che amiamo? Non lo so, anzi non credo. Per spiegare questa diffidenza devo richiamare brevemente una famosa polemica originata nell'Ottocento da Charles-Augustin de Sainte-Beuve, poeta ma, in primo luogo, critico letterario. Il suo metodo dichiarato consisteva nell'analizzare un'opera soprattutto mettendola in relazione al suo autore.
«Tale l'albero, tale il frutto» soleva dire, ovvero: se non conosciamo bene chi ha scritto qualcosa, e come e perché, come potremo valutare ciò che ha scritto? Indicava così un metodo critico molto romantico in cui, avvalendosi di ogni possibile strumento, compresi quelli storici, si cercava di mettersi in sintonia con le inquietudini di un artista, la sua ispirazione profonda.
Sainte-Beuve era tanto convinto della bontà della sua intuizione che riteneva di poterla applicare non solo agli individui, ma anche ai gruppi umani e alle correnti letterarie.
Contro tale metodo si pronunciò Marcel Proust con una celebre opera che ha per titolo appunto Contre Sainte-Beuve. Che cosa obietta l'autore della Recherche? Sostiene che è assurdo tentare di giudicare l'opera di un poeta o di uno scrittore, filtrandola attraverso l'uomo che egli è o è stato. L'uomo è solo un uomo, e può addirittura ignorare il poeta che vive in lui. Chi osserva dall'esterno dev'essere in grado di scovare certe qualità nell'opera di un autore valutando, per conseguenza, quale valore dare all'autore stesso e, addirittura, quale dovrebbe essere il suo comportamento. Nelle parole di Proust, «c'est notre raisonnement qui, dégageant de l'oeuvre du poète sa grandeur, dit: c'est un roi, et le voit roi, et voudrait qu'il se conduisìt en roi».
Nella mia esperienza, sono rimasto molte volte deluso dalla conoscenza diretta di un autore del quale avevo apprezzato l'opera. Tanto che spesso ho evitato di invitare uno scrittore in televisione nel timore che, comportandosi in modo inadatto, si danneggiasse da solo; avendo amato il suo libro, ho preferito chiamare qualcuno che parlasse in sua vece.
Una volta, a Londra, mi è pure capitato di essere invitato a un party dove, mi dissero, sarebbe stato presente anche Philip Roth, a mio giudizio il più grande scrittore vivente. Ho risposto che ero già impegnato per il timore che, conoscendolo di persona, l'uomo avrebbe potuto danneggiare l'immagine dello scrittore, tanto più in un'occasione come quella, in cui, con un bicchiere in mano e nel cicaleccio generale, non si sa più bene che cosa dire dopo le prime frasi di rito.
Corrado Augias (Leggere - Mondadori 2007)
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