E’ stata tipicamente “bergogliana” la sferzata di mons. Galantino alla classe
politica italiana incapace di impegnarsi in un normale confronto parlamentare
per correggere una legge elettorale nata male.
Bergogliana, nel senso che il pontefice ritiene da sempre – anche prima di
essere eletto – che la gerarchia ecclesiastica non debba mettersi a fare politica
partitica, ma ciò non significa rinunciare a parlare chiaro di fronte
a gravi storture sociali, politiche o morali.
Che la magistratura debba sostituirsi al
legislatore “è normale?”, si è chiesto il segretario della Cei.
No, non è normale. Come non è normale – bisogna aggiungere – che la Corte
Costituzionale nel bocciare e correggere l’Italicum
abbia lasciato in piedi la vergogna dei capilista bloccati e delle candidature
plurime. Meccanismi confliggenti, a ben vedere, con l’articolo 48 della
Costituzione, che assicura la libertà del voto: non solo nel
senso che nessuno deve guidare la mia mano mentre traccio la crocetta sulla
scheda, ma che devo poter indicare liberamente chi intendo sia eletto. Non è
così con i capilista bloccati. E meno che mai con le pluricandidature, dove la
mia indicazione di voto verrà gettata nel calderone di un sorteggio. Una
vergogna.
Nel frattempo si è scoperto che i partiti del
“voto subito e comunque”, estendendo al Senato la legge elettorale risultante
dall’ibrido tra il progetto Renzi e la sentenza della Corte Costituzionale, si
troverebbero nelle urne un risultato che non darebbe alcun governo
stabile nemmeno con le coalizioni Pd-Forza Italia o Cinque Stelle e
Lega/Fratelli d’Italia.
Un ulteriore schiaffo ai partiti presenti in Parlamento, persistentemente incapaci di sedersi seriamente ad un tavolo con spirito di responsabilità nazionale.
Un ulteriore schiaffo ai partiti presenti in Parlamento, persistentemente incapaci di sedersi seriamente ad un tavolo con spirito di responsabilità nazionale.
Questo avvilupparsi delle forze politiche in
tatticismi puerili, sognando le elezioni come “rivincita e diversivo”
(copyright Galantino), finirà per aprire la strada in Italia all’avvento di un
“uomo forte”? La domanda non è peregrina alla luce del sondaggio
Demos&Pi illustrato pochi giorni fa su Repubblica da Ilvo
Diamanti. I dati sono netti. I giovani sono a favore
di una guida del Pese affidata a un “uomo forte”. L’83 per cento
dei molto giovani (tra i 18 e 29 anni) e l’82 pc della generazione fra
i 30 e i 44 anni (e comunque tutte le altre fasce d’età concordano con
valori che oscillano tra il 73 e il 79 pc).
E tuttavia l’analisi deve essere più sofisticata.
In mezzo c’è il referendum. Un rasoio di Occam, che ha
mostrato crudamente chi aveva intuito il polso del Paese e chi no. Ha avuto
ragione l’ex premier Monti e non l’ex premier Prodi. Ha colto il senso dei
tempi Ferruccio De Bortoli e non Eugenio Scalfari.
Ha visto giusto il mite Zagrebelsky più del mite Pisapia.
In quel referendum, i cui risultati troppi si
affrettano a rimuovere, l’80 per cento dei giovani ha coniugato compattamente
la difesa della Costituzione con la protesta per un disagio sociale a cui il
governo Renzi in tre anni non ha saputo opporre nessuna politica
efficace. Non è un mistero che Renzi si illuda di essere lui il leader
decisionista a cui possano guardare le giovani generazioni. I suoi fan sono
convinti che il 40 per cento dei voti referendari siano roba sua.
Se lui ci crede, si sbaglia clamorosamente. In ogni caso è patetico il
suo rifiuto di analizzare seriamente il significato del voto referendario.
Ancora l’altro ieri sul suo blog ha ripetuto che “con le
riforme, volevamo un paese più semplice e più forte”, lasciando intendere che
la colpa sia degli elettori che non hanno capito.
Invece il 4 dicembre i giovani hanno scelto con
oculatezza. Guai a considerarli stupidi arrabbiati. L’80 per
cento degli italiani assetati di futuro ha votato massicciamente contro una
riforma costituzionale pasticciata, contro una legge elettorale
incostituzionale, contro un governo inadeguato rispetto ai nodi cruciali, della
povertà, della disoccupazione, della dignità di chi lavora.
Renzi si illude. Quando i giovani italiani guardano i telegiornali e vedono i terremotati privi delle casette di legno promesse solennemente per Natale, è a lui che pensano: al suo decisionismo vuoto. Alla retorica da imbonitore e capetto arrogante.
Renzi si illude. Quando i giovani italiani guardano i telegiornali e vedono i terremotati privi delle casette di legno promesse solennemente per Natale, è a lui che pensano: al suo decisionismo vuoto. Alla retorica da imbonitore e capetto arrogante.
Quei giovani, che nel sondaggio Demos aspirano ad
una leadership forte, non la identificano più – a differenza, forse, delle
elezioni europee del 2014 – nel rottamatore così evidentemente
attaccato alla poltrona di premier da volerla rioccupare disperatamente il più
presto possibile. Matteo dal 2015 ha perso in crescendo nelle due tornata di
amministrative e regionali: un milione di voti solo nel 2016. Poi la disfatta
nel referendum. L’uomo forte, che (dicono) potrebbe far sognare, non è
lui. Ci pensi. E ci pensi il Pd, che con Renzi ha ormai un
allontana voti.
Vale la pena di piluccare ancora una citazione dell’apartitico monsignor Galantino, secondo cui gli italiani hanno bisogno di “risposte concrete alle domande drammatiche” della nostra società. Non serve né il populismo delle opposizioni né meno che mai il populismo di palazzo, di cui Renzi è stato il giocoliere.
Marco Politi (Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2017)
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