Il Fatto ha dato un grande spazio allo scandalo che per
comodità chiameremo “Palamara” ma che in realtà coinvolge l’intero
sistema giudiziario. Ed è comprensibile per l’importanza che hanno in
uno Stato di diritto l’indipendenza e la credibilità della Magistratura
che la nostra Costituzione, dopo l’esperienza fascista, volle
indipendente da ogni altro potere. Per non farne però un organo lontano
dalla società i nostri Padri costituenti vollero che il Csm, da cui
dipendono “le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le
promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”,
fosse composto per due terzi da giudici ‘togati’, cioè da magistrati, e
per un terzo dai cosiddetti ‘laici’ scelti dal Parlamento fra
“professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati
dopo quindici anni di esercizio”. Furono ingenui i nostri Padri
costituenti perché non potevano immaginare la presa che i partiti
avrebbero assunto nella società per cui questi stessi partiti immisero
nel Csm ‘laici’ non per la loro esperienza in campo giudiziario ma per
la loro dipendenza da l’una o dall’altra formazione politica. E questo è
stato il primo tarlo che ha cominciato a corrodere la Magistratura
italiana nell’era repubblicana.
E qui bisogna fare un passo indietro. La storia della nostra
Magistratura dopo l’unificazione del Paese è, sostanzialmente, una buona
storia. I magistrati erano talmente gelosi della propria indipendenza,
considerando il loro lavoro più che una professione una vocazione, che
il fascismo non riuscì a piegarli ai suoi fini e dovette ricorrere ai
Tribunali Speciali. Erano altri tempi. Altri uomini. Mi ricordo un
bell’articolo di Salvatore Scarpino dove raccontava l’isolamento dei
magistrati nella cittadina dove era nato, Cosenza, che limitavano al
massimo le proprie frequentazioni sociali per non dare adito a dubbi
sulla loro attività.
Nel dopoguerra, dopo una prima fase di euforia generale dovuta alla
ricostruzione e con uomini politici di notevole spessore perché forgiati
da quel conflitto, la nostra classe dirigente comincia a corrompersi e
per uscire indenne dalle proprie malefatte cerca di mettere le mani
anche sulla Magistratura. Tentativo in buona parte riuscito. Tutti
ricordiamo che il Tribunale di Roma, cui erano affidati i processi più
scottanti, era chiamato “il porto delle nebbie” per la sua abilità
nell’insabbiarli. Ma attraverso l’istituto dell’avocazione, cioè la
possibilità del Procuratore capo da cui dipendono i Pubblici ministeri,
molte istruttorie venivano tolte ai titolari perché non ficcassero
troppo il naso in vicende delicate. E questo accadeva non solo a Roma ma
in Procure di città anche meno importanti. Di fatto la classe
dirigente, politica e imprenditoriale, si era assicurata, salvo rari
casi, l’impunità. Il momento del riscatto venne con Mani Pulite. Mani
Pulite è frutto di un avvenimento storico estraneo al nostro Paese ma
che vi ha inciso profondamente: il collasso dell’Unione Sovietica. I
voti dei cittadini non più costretti a votare Democrazia cristiana
perché il pericolo comunista non esisteva più (il “turatevi il naso” di
Montanelli) si diressero verso un movimento nuovo e sostanzialmente
antipartitocratico, la Lega di Umberto Bossi. Cioè nasceva finalmente un
vero partito di opposizione, in quanto quello ufficiale, rappresentato
dal Pci, si era consociato con la Dc e ne condivideva sostanzialmente
gli interessi, anche nell’ambito dell’autodifesa della classe dirigente
dalla Magistratura.
Con la Lega in campo simili sporchi giochetti non erano più
possibili. La Lega liberò le mani ai magistrati milanesi che per la
prima volta nella storia repubblicana poterono richiamare la classe
dirigente, politica e imprenditoriale, al rispetto di quella legge cui
noi cittadini, diciamo così, normali, siamo obbligati. Non ci furono e
non ci sono ombre sui componenti di quel formidabile pool, dal
Procuratore capo Francesco Saverio Borrelli a Ilda Boccassini a
Piercamillo Davigo a Gherardo Colombo e allo stesso Antonio Di Pietro,
particolarmente bersagliato, soprattutto dal mondo berlusconiano allora
vincente, e sottoposto a sette processi da cui è uscito regolarmente
assolto. Fu l’ultima stagione in cui noi cittadini, perlomeno quelli,
diciamo così, normali, potemmo avere piena fiducia nella Magistratura.
Ma l’illusione durò poco. Nel giro di pochissimi anni, con l’appoggio
dell’intera stampa nazionale, e non solo di quella berlusconiana, i
magistrati divennero i veri colpevoli e i ladri le vittime e spesso,
proprio attraverso il Csm zeppo di politici mascherati da professionisti
dello ‘iure’, giudici dei loro giudici. Fu un segnale. Decisivo per la
nostra storia successiva. Era un ‘liberi tutti’ per la corruzione di
lorsignori che poi, discendendo giù per gli rami, ha finito per
coinvolgere anche noi cittadini, diciamo così, normali. Inoltre la
corruzione, morale e non solo, si è incistata negli altri corpi
istituzionali, non solo nella Magistratura, finendo per sfiorare anche
le Forze Armate dove circola un’aria di insubordinazione. Non si era mai
visto che un ministro della Difesa, in questo caso Elisabetta Trenta,
fosse messo sotto accusa da importanti generali che sia pur da poco
pensionati evidentemente respirano qualche cosa che bolle in pentola
nelle nostre Forze Armate. Non si capisce come il nostro Paese possa
uscire da una simile confusione generale che assomiglia molto a quello
che in termini psichiatrici si chiama “marasma senile”. Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2019)
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