La contestazione interna si ispirava naturalmente, in gran parte, anche a modelli stranieri. Ed è chiaro che la congiuntura internazionale del periodo rivoluzionò, fra gli italiani, la scelta dei punti di riferimento. La guerra del Vietnam, con le immagini dei villaggi bombardati più volte trasmesse in tv, incrinò - per la prima volta dalla fine della guerra - il mito dell'America. I vietcong diventarono così il simbolo della lotta per il comunismo e contro l'imperialismo del grande capitale; le marce e gli slogan anti-Usa («Creare uno, due, tre, cento Vietnam») furono una costante soprattutto all'inizio del decennio della contestazione. L'America, certo, forniva ancora miti ed eroi; che non erano più, però, interpreti del «sogno americano», ma al contrario rappresentanti della rivolta contro quel sistema: gli studenti dei campus occupati, le comuni californiane, la controcultura, il Black Power e Malcolm X. La grande potenza-modello diventò così la Cina, dove la Rivoluzione culturale del 1966-67 sembrava aver indicato una nuova strada per la costruzione del socialismo: non più l'organizzazione gerarchica e centralistica dell'Unione Sovietica, ma – finalmente - un movimento di massa spontaneo e antiautoritario. Ma nulla e nessuno colpi l'immaginazione dei giovani come il personaggio di Ernesto Guevara, detto il «Che». Argentino, nato nel 1928 da Ernesto Guevara Linch (figlio di un'irlandese) e da Cella de La Serna, laureato in medicina a Buenos Aires nel 1953, il «Che» aveva cominciato a costruire la sua leggenda nel 1955, quando si era arruolato nel corpo rivoluzionario cubano di Fidel Castro. Arrestato, liberato, ferito in battaglia, il 31 dicembre 1958 vinse la battaglia (decisiva) di Santa Clara, costringendo alla fuga il leader cubano Batista. Era la vittoria della rivoluzione castrista, e il «Che» divenne prima cittadino cubano, poi ambasciatore, poi capo del dipartimento dell'industrializzazione dell'istituto per la riforma agraria, quindi presidente del Banco Nacional, infine ministro dell'Industria. Ma anziché godersi poltrone e successo, Che Guevara continuò il suo sogno di rivoluzionario al servizio non di una patria, ma di un'idea: e girò il mondo che riteneva oppresso, dall'America Latina all'Algeria, per organizzare guerriglie e rivolte. L'8 ottobre 1967 venne ferito e catturato in Bolivia, il cui governo era andato, appunto, a combattere. Interrogato, si rifiutò di rispondere. Il giorno dopo, 9 ottobre 1967, alle 13.10 il sergente Mario Teran lo uccise con una raffica di mitra. Come sempre, morto l'uomo nacque il mito. «Perché ci piaceva tanto, perché ci piaceva più di tutti?» ha scritto Massimo Fini. «Perché il "Che", con i suoi ideali, con il suo agire totalmente disinteressato, nobilitava e mascherava alcune inconfessabili pulsioni della mia generazione: la voglia di violenza, la voglia di guerra. (...) Noi, come tutti i giovani, amavamo la violenza, rimpiangevamo la guerra, anche se non potevamo dirlo nemmeno a noi stessi. E il "Che" legittimava se non la guerra perlomeno la guerriglia, se non le armi almeno i bastoni e i cubetti di porfido.» Naturalmente Che Guevara piaceva molto meno alla sinistra ortodossa, quella del Partito comunista e del socialismo reale. Che Guevara era per loro un rompiscatole che avrebbe messo in discussione anche lo status quo raggiunto dopo la rivoluzione, un teorico della trotzkiana «rivolta permanente», un personaggio difficilmente addomesticabile. Molto tempo dopo, verso la metà degli anni Ottanta, non pochi si sorpresero quando il «Che» venne celebrato anche dalla Nuova Destra. Ma se la sorpresa era giustificata dal fatto che, politicamente, Che Guevara è da collocare fra i nemici, cioè fra i marxisti, per altri versi l'ammirazione che certi elementi della destra estrema hanno nutrito per lui è più che comprensibile. Che Guevara era un paladino di quell'antiamericanismo che è una delle poche cose che uniscono sinistra extraparlamentare con destra radicale; combatteva le odiate plutocrazie, e soprattutto incarnava quel mito dell'eroe, del guerriero romantico tanto celebrato dalla mistica fascista. La storia gli ha dato torto. Non tanto perché la Cuba di Castro si è rivelata ben diversa da quel paradiso terrestre che i rivoluzionari credevano e volevano far credere. Ma perché Che Guevara rappresenta la massima espressione dell'utopista, di colui che non vuole accettare né l'impossibilità del sistema perfetto né l'ineluttabilità di un lungo e duro lavoro per un lento (e peraltro sempre parziale) miglioramento delle cose. Rappresenta l'utopista che si illude di cambiare tutto con un solo atto risolutivo, e che ritiene, secondo l'insegnamento di Jean-Jacques Rousseau, che cambiato il regime tutti gli uomini diventeranno buoni. L'illusorio mito dell'«uomo nuovo» è stato spinto alle estreme conseguenze da questo guerrigliero che, una volta constatati i limiti del sistema che lui stesso aveva contribuito a edificare, anziché fermarsi a lavorare per migliorare il regime ha sempre preferito andare alla caccia di altre rivoluzioni, e quindi di altri paradisi terrestri. Ha scritto l'insospettabile Giulio Savelli nel venticinquesimo anniversario della morte: «Avrei preferito che Guevara, uomo onesto, fosse ancora vivo (avrebbe solo sessantaquattro anni): per spiegarci dove i rivoluzionari cubani avevano sbagliato e per distogliere i giovani dal seguirne l'esempio. Ma fino a questo punto Guevara non ebbe coraggio. Come molti suoi compagni dell'originario gruppo guerrigliero che, per continuare a tacere, hanno preferito togliersi la vita». Così scrive oggi l'ex editore-rivoluzionario Savelli. Ma per anni il volto del guerrigliero Guevara, con basco e stella rossa, è stato un'icona immancabile nelle case di centinaia di migliaia di giovani.
Michele BRAMBILLA (Dieci anni di illusioni. Storia del Sessantotto - Rizzoli - 1994)
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