Aveva ancora negli occhi le splendide immagini dell'Olimpiade di Torino il presidente Ciampi, quando ieri alle dieci del mattino ha firmato il decreto di scioglimento delle Camere. La legislatura è finalmente conclusa, sicché è tempo di farne un bilancio e tracciare un preventivo politico e programmatico dei bisogni e delle frustrate speranze degli italiani. Ma prima un'osservazione preliminare. La festa olimpica di Torino era un appuntamento atteso con comprensibile ansia dagli organizzatori del Comitato olimpico e soprattutto dalle istituzioni italiane coinvolte in quella manifestazione: il capo dello Stato, grande sponsor dei Giochi, il ministro dell'Interno, le forze di pubblica sicurezza, il Comune di Torino e
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Questa legislatura, se si vuole compilarne un giudizio consuntivo, è nata con un vizio di origine; è partita fin dall'inizio col piede sbagliato puntando non sulla coesione sociale ma sulla divisione del paese, una sorta di lotta di classe alla rovescia che mettesse una volta per tutte sotto schiaffo i lavoratori definiti privilegiati perché garantiti da un posto di lavoro fisso che in quanto tale bloccava la mobilità, la produttività, la competitività, penalizzando i giovani, i disoccupati, i pensionati futuri. La strategia del governo e della sua maggioranza vittoriosa alle elezioni del 2001 fu chiarissima fin dall'inizio: bisognava azzerare la politica dei redditi basata sulla concertazione e questo fu fatto. E poi bisognava battere i sindacati confederali e dividerli, accrescere la flessibilità già introdotta largamente dal governo Prodi con la legge Treu, creare per quanto possibile una rete di ammortizzatori sociali, proteggere i redditi dei lavoratori autonomi e delle partite Iva tollerandone l'ampia fascia di evasione fiscale. Infine sferrare la battaglia - simbolica ma anche sostanziale - contro l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori accrescendo i limiti di licenziabilità senza giusta causa con l'intento di favorire l'evoluzione delle piccole aziende verso imprese di maggiori dimensioni. Il tutto innaffiato da una robusta diminuzione delle aliquote delle imposte sul reddito favorendo in misura più che proporzionale le fasce superiori ai 20mila euro di reddito annuo. Perché dico che questo programma era condannato da un peccato originale? Perché le condizioni dell'economia mondiale lo rendevano di impossibile attuazione ed anche perché molte delle premesse erano inesistenti. Per esempio l'ipotesi di far crescere le dimensioni delle piccole imprese: nel quinquennio esse non sono aumentate ma anzi drasticamente diminuite. Per esempio l'ipotesi di migliorare la competitività: dalla posizione 26 siamo scivolati alla posizione 43 nella classifica mondiale. Per esempio l'ipotesi di un aumento della produttività, reso vano dalla stasi dell'innovazione di prodotto. E poi la stagnazione della domanda mondiale con le sue drammatiche ripercussioni sui nostri mercati. Conseguenza: stasi del Pil, aumento del deficit, aumento del fabbisogno, aumento del debito pubblico, azzeramento dell'avanzo primario, crescita della spesa e diminuzione delle entrate. Per far fronte a queste falle i previsti ammortizzatori sociali furono rinviati a miglior tempo e così pure la restituzione ai lavoratori del "fiscal drag"; il credito d'imposta che favoriva la creazione di nuovi posti di lavoro fu abolito. Per fortuna, grazie all'euro, i tassi di interesse sui prestiti e sui mutui si mantennero bassi, ma la conversione dei prezzi dalla lira all'euro dimezzò il potere d'acquisto dei ceti più deboli. Berlusconi parla a vanvera del cambio lira-euro. Ci sarebbe voluto, dice il premier, un cambio a 1500 lire anziché a 1936. Cioè una follia, ammesso che fosse possibile (e non lo era): con 1500 lire contro 1'euro le esportazioni si sarebbero bloccate, la domanda di merci e servizi italiani a cominciare dal turismo sarebbe crollata. Insomma una vera catastrofe, come lo fu la famosa "quota novanta" voluta da Mussolini, che fece precipitare nel disastro l'economia italiana di allora. Per sostenere in qualche modo la finanza pubblica si ricorse ai condoni e alla svendita dei beni patrimoniali. E a tutti gli artifici della cosiddetta finanza creativa. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Il governo conclude l'opera sua consegnando al prossimo Parlamento una finanza ipotecata e un'economia stagnante. È migliorato, è vero, il livello dell'occupazione, dovuto per un terzo alla regolarizzazione di mezzo milione di immigrati. È aumentato però il lavoro precario. Sono peggiorate le prospettive dei giovani. Il sommerso ha toccato la percentuale record del 40 per cento e con esso l'evasione fiscale. Infine il potere d'acquisto è crollato mentre il governo ha buttato dalla finestra 12 miliardi di minori aliquote sull'Irpef, peraltro più che compensate da un drastico aumento delle imposte indirette e dei tributi locali. Questo è lo stato dei fatti nella finanza e nell'economia.
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Gli elettori che votarono per Berlusconi cinque anni fa non volevano questo. Volevano e speravano in un paese in cui la burocrazia fosse ridotta all'essenziale e guadagnasse in efficienza (non fatto); una giustizia più rapida (non fatto); una sicurezza personale più garantita (non fatto); una lotta vittoriosa contro la criminalità organizzata (non fatto); trasporti più agevoli e veloci (non fatto); mercati più liberi e concorrenziali (non fatto); scuola moderna e capace di formare i giovani (non fatto); un po' più di agio familiare e individuale (non fatto). Questo volevano coloro che votarono per il centrodestra nel 2001. Per ottenere queste necessarie riforme chiusero gli occhi sul più clamoroso conflitto d'interessi mai verificatosi in Italia, in Europa, nelle democrazie del mondo intero. Sperarono che il titolare di quel conflitto non ne profittasse, come aveva solennemente promesso, e che non ne traesse beneficio a danno della comunità. Poi, man mano che il tempo passava, che l'arricchimento della famiglia "Fininvest" diventava clamoroso, che le leggi in favore del "clan" fioccavano in un parlamento bulgaro, quegli elettori cominciarono a disertare fino a quando il disincanto diventò un fenomeno di massa. Ma purtroppo i guasti morali oltre che materiali sono stati immensi. La perdita di prestigio all'estero così profonda che ci vorrà una generazione per recuperare. Il titolare del potere esecutivo è convinto (lo è veramente e questo è il dramma suo e nostro) di essere il meglio, di aver lui creato il G8, d'esser lui l'amico numero uno di Bush, di Putin e di Blair, d'aver guidato a fianco dell'America la politica dell'intero Occidente. Ieri sera, davanti ad un allibito conduttore, ha detto di sentirsi secondo solo di fronte a Napoleone, ma se vincerà il 9 aprile supererà anche l'imperatore. È una battuta? Non lo è. Chi conosce Silvio Berlusconi sa che le cose in cui veramente crede lui le dice sotto forma di battuta. Mai stato così serio. Lo ripeto: questa legislatura è partita col piede sbagliato. Ma i danni maggiori li ha fatti a partire dal 2003. Nel 2004 avrebbe dovuto già concludersi per risparmiare altri danni al paese. Nel 2005 sono emersi in tutta la loro gravità con il Pil a livello zero e l'avanzo primario del bilancio cancellato. A gennaio c'è stato l'assalto alle televisioni a dispetto d'ogni regola scritta o di semplice buonsenso. L'Europa ride di lui e di noi. Bush e Putin lo accontentano con le pacche. Pacche a lui patacche a noi. Non vi sembra ora di farla finita con questa buffonata che dopo cinque anni è diventata un incubo nazionale?
EUGENIO SCALFARI (12 febbraio 2006)
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