C'è rimasto
solo un faro, a illuminare questa lunga notte della Repubblica. Negli
ultimi giorni del suo settennato, Giorgio Napolitano deve guidare il
Paese fuori dalla crisi. Il "peso" di questa consapevolezza ispira ogni
riga del comunicato con il quale il Capo dello Stato invita la politica e
la magistratura a ritrovare il senso della "comune responsabilità
istituzionale", in uno dei tornanti più critici della storia
repubblicana. Ma questa volta l'appello del Colle, insieme alla
condivisione istituzionale, riflette una "sproporzione" politica.
La condivisione istituzionale è ovvia. In un'Italia lacerata dal conflitto permanente tra i poteri dello Stato, innescato negli anni Novanta da Tangentopoli ed esasperato nel quasi Ventennio berlusconiano dalle torsioni cesariste del Cavaliere, il "ristabilimento di un clima corretto e costruttivo nei rapporti tra politica e giustizia" è davvero il minimo che si possa esigere. Napolitano non si è mai stancato di chiederlo, con equilibrio e con determinazione, nell'intera traiettoria del suo mandato. Che ci riprovi oggi è logico e giusto.
È giusto invocare che politici e magistrati non si percepiscano come "mondi ostili". È giusto pretendere che si evitino "tensioni destabilizzanti per il nostro sistema democratico", vista soprattutto "l'estrema importanza e delicatezza degli adempimenti istituzionali che stanno venendo a scadenza". È giusto ricordare al Cavaliere e ai "caimani" in grisaglia schierati davanti al tribunale di Milano che nessuna "investitura popolare ricevuta" può esonerare un politico dal "più severo controllo di legalità", che è e deve restare "un imperativo assoluto per la salute della Repubblica". Ed è altrettanto giusto rammentare ai magistrati che non si devono mai sentire depositari di "missioni improprie", ma devono limitarsi al rispetto scrupoloso dei "principi del giusto processo sanciti dal 1999 nell'articolo 111 della Costituzione".
Parole incontestabili. Suggerite dal buon senso e dal senso dello Stato. Ma Napolitano non si ferma qui. Questa volta pronuncia altre parole, che nella contesa in atto tra la "destra di piazza" e la magistratura configurano un'evidente sproporzione politica. Il presidente della Repubblica, sia pur respingendo quasi con disprezzo "l'aberrante ipotesi" del complotto delle toghe rosse evocato dal Cavaliere e dalle sue truppe cammellate, giudica "comprensibile" la preoccupazione del Pdl di "veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento".
Il movente che spinge Napolitano ad accogliere questa "preoccupazione" è chiaro. Di qui alla metà di aprile si susseguiranno appuntamenti fondamentali, per trovare una via d'uscita dalla crisi. L'insediamento delle nuove Camere, l'avvio delle consultazioni, l'elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento. Il messaggio implicito ai giudici che stanno indagando o processando Berlusconi è il seguente: fate in modo che gli appuntamenti giudiziari che lo riguardano non intralcino o non si sovrappongano con queste scadenze, dal buon esito delle quali dipendono le sorti politiche della nazione.
L'effetto pratico di questo "monito" è rilevante. Nei fatti, è come riconoscere al Cavaliere un "legittimo impedimento" automatico, o un "Lodo Alfano" provvisorio, che da qui ai prossimi mesi gli fa scudo ai processi nei quali è ancora coinvolto, e dai quali ancora sistematicamente si sottrae, non più nella sua veste di presidente del Consiglio, ma in quella di leader "dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio".
L'effetto politico è ancora più eclatante. E non è un caso che gli "arditi" del Pdl, appena rientrati dalla "marcia su Milano", ora festeggino il comunicato del Colle. Gli "atti sediziosi" di questa destra italiana, pronta a sfidare un Palazzo di giustizia per salvare il suo leader dai "giudici-cancro da estirpare", non solo non vengono sanzionati come meriterebbero. Ma alla fine risultano addirittura premiati. Il comunicato del Quirinale arriva il giorno dopo quella che Christopher Lasch definirebbe un'impensabile "rivolta delle élite". Un "assedio" simbolico, ma fino a un certo punto, di un gruppo di eletti del popolo che si ribellano contro un potere dello Stato. Un fatto enorme, mai accaduto dal 1948 ad oggi, che avrebbe dovuto sollevare una reazione sdegnata di tutte le istituzioni e di tutte le forze politiche.
E invece il presidente della Repubblica ha ricevuto una delegazione del Pdl guidata da Alfano, salito sul Colle per chiedere provvedimenti punitivi contro la magistratura e per annunciare altrimenti l'Aventino della destra. Quasi un ricatto, al Paese e alle sue istituzioni. Comunque un "atto di forza" intollerabile, che andava respinto con sdegno e con altrettanto forza. E che invece ha raggiunto il suo scopo. Assicurare un improprio "salvacondotto" a un cittadino che, per quanto "popolare", è e dovrebbe essere uguale a tutti gli altri di fronte alla legge. Rilanciare il padre-padrone di questa destra, impresentabile perché irresponsabile, dentro uno schema politico che ora gli consente persino di rivendicare il Quirinale, oltre che di giocare a viso aperto la partita delle "larghe intese". Nel silenzio, assordante e colpevole, della sinistra e del Pd, che difende il suo fortino mentre i vecchi "arci-nemici" e i nuovi "falsi-amici" saccheggiano quel che resta dell'Italia.
La condivisione istituzionale è ovvia. In un'Italia lacerata dal conflitto permanente tra i poteri dello Stato, innescato negli anni Novanta da Tangentopoli ed esasperato nel quasi Ventennio berlusconiano dalle torsioni cesariste del Cavaliere, il "ristabilimento di un clima corretto e costruttivo nei rapporti tra politica e giustizia" è davvero il minimo che si possa esigere. Napolitano non si è mai stancato di chiederlo, con equilibrio e con determinazione, nell'intera traiettoria del suo mandato. Che ci riprovi oggi è logico e giusto.
È giusto invocare che politici e magistrati non si percepiscano come "mondi ostili". È giusto pretendere che si evitino "tensioni destabilizzanti per il nostro sistema democratico", vista soprattutto "l'estrema importanza e delicatezza degli adempimenti istituzionali che stanno venendo a scadenza". È giusto ricordare al Cavaliere e ai "caimani" in grisaglia schierati davanti al tribunale di Milano che nessuna "investitura popolare ricevuta" può esonerare un politico dal "più severo controllo di legalità", che è e deve restare "un imperativo assoluto per la salute della Repubblica". Ed è altrettanto giusto rammentare ai magistrati che non si devono mai sentire depositari di "missioni improprie", ma devono limitarsi al rispetto scrupoloso dei "principi del giusto processo sanciti dal 1999 nell'articolo 111 della Costituzione".
Parole incontestabili. Suggerite dal buon senso e dal senso dello Stato. Ma Napolitano non si ferma qui. Questa volta pronuncia altre parole, che nella contesa in atto tra la "destra di piazza" e la magistratura configurano un'evidente sproporzione politica. Il presidente della Repubblica, sia pur respingendo quasi con disprezzo "l'aberrante ipotesi" del complotto delle toghe rosse evocato dal Cavaliere e dalle sue truppe cammellate, giudica "comprensibile" la preoccupazione del Pdl di "veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento".
Il movente che spinge Napolitano ad accogliere questa "preoccupazione" è chiaro. Di qui alla metà di aprile si susseguiranno appuntamenti fondamentali, per trovare una via d'uscita dalla crisi. L'insediamento delle nuove Camere, l'avvio delle consultazioni, l'elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento. Il messaggio implicito ai giudici che stanno indagando o processando Berlusconi è il seguente: fate in modo che gli appuntamenti giudiziari che lo riguardano non intralcino o non si sovrappongano con queste scadenze, dal buon esito delle quali dipendono le sorti politiche della nazione.
L'effetto pratico di questo "monito" è rilevante. Nei fatti, è come riconoscere al Cavaliere un "legittimo impedimento" automatico, o un "Lodo Alfano" provvisorio, che da qui ai prossimi mesi gli fa scudo ai processi nei quali è ancora coinvolto, e dai quali ancora sistematicamente si sottrae, non più nella sua veste di presidente del Consiglio, ma in quella di leader "dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio".
L'effetto politico è ancora più eclatante. E non è un caso che gli "arditi" del Pdl, appena rientrati dalla "marcia su Milano", ora festeggino il comunicato del Colle. Gli "atti sediziosi" di questa destra italiana, pronta a sfidare un Palazzo di giustizia per salvare il suo leader dai "giudici-cancro da estirpare", non solo non vengono sanzionati come meriterebbero. Ma alla fine risultano addirittura premiati. Il comunicato del Quirinale arriva il giorno dopo quella che Christopher Lasch definirebbe un'impensabile "rivolta delle élite". Un "assedio" simbolico, ma fino a un certo punto, di un gruppo di eletti del popolo che si ribellano contro un potere dello Stato. Un fatto enorme, mai accaduto dal 1948 ad oggi, che avrebbe dovuto sollevare una reazione sdegnata di tutte le istituzioni e di tutte le forze politiche.
E invece il presidente della Repubblica ha ricevuto una delegazione del Pdl guidata da Alfano, salito sul Colle per chiedere provvedimenti punitivi contro la magistratura e per annunciare altrimenti l'Aventino della destra. Quasi un ricatto, al Paese e alle sue istituzioni. Comunque un "atto di forza" intollerabile, che andava respinto con sdegno e con altrettanto forza. E che invece ha raggiunto il suo scopo. Assicurare un improprio "salvacondotto" a un cittadino che, per quanto "popolare", è e dovrebbe essere uguale a tutti gli altri di fronte alla legge. Rilanciare il padre-padrone di questa destra, impresentabile perché irresponsabile, dentro uno schema politico che ora gli consente persino di rivendicare il Quirinale, oltre che di giocare a viso aperto la partita delle "larghe intese". Nel silenzio, assordante e colpevole, della sinistra e del Pd, che difende il suo fortino mentre i vecchi "arci-nemici" e i nuovi "falsi-amici" saccheggiano quel che resta dell'Italia.
Massimo Giannini (La Repubblica - 13 marzo 2013)
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“Gentile Direttore,
nell'articolo "Un premio ai sediziosi", Massimo
Giannini ha dato una versione arbitraria e falsa dell'incontro con una
delegazione del Pdl da me tenuto in Quirinale martedì mattina. E' falso che mi
siano stati chiesti "provvedimenti punitivi contro la magistratura":
nessuna richiesta di impropri interventi nei confronti del potere giudiziario
mi è stata rivolta, come era stato subito ben chiarito nel comunicato diramato
alle ore 13.00 dalla Presidenza della Repubblica. Comunicato che Giannini ha
ritenuto di poter di fatto scorrettamente smentire sulla base di non si sa
quale ascolto o resoconto surrettizio. Né la delegazione del Pdl mi ha
"annunciato" o prospettato alcun "Aventino della destra".
L'incontro mi era stato richiesto dall'on. Alfano la domenica sera
nell'annunciarmi l'annullamento della manifestazione al Palazzo di Giustizia di
Milano (poi svoltasi la mattina seguente senza preavviso, da me valutata
"senza precedenti" per la sua gravità).
L'incontro in Quirinale con i rappresentanti della
coalizione cui è andato il favore del 29 per cento degli elettori, era stato
confermato dopo mie vibrate reazioni - di cui, del resto, il suo giornale aveva
ieri dato conto - espresse direttamente ai principali esponenti del Pdl per la
loro presa di posizione.
Quel rammarico, ovvero deplorazione, è stato da me
rinnovato, insieme con un richiamo severo a principi, regole e interessi
generali del paese che, solo con tendenziosità tale da fare il giuoco di quanti
egli intende colpire, Giannini ha potuto presentare come "riconoscimento
al Cavaliere di un legittimo impedimento automatico, o di un 'lodo Alfanò
provvisorio". Nell'incontro di ieri sera (martedì sera-ndr) con il
Comitato di Presidenza del Csm - incontro da me promosso, in segno del mio
costante rispetto verso la magistratura e il suo organo di autogoverno (e
semplicemente omesso nell'articolo di Giannini) - è risultato ben chiaro che
nessuno "scudo" è stato offerto a chi è imputato in procedimenti
penali da cui non può sentirsi "esonerato in virtù dell'investitura
popolare ricevuta".
Mi auguro che da parte di Giannini, anziché deplorare
aggressivamente il Capo dello Stato per non avere manifestato lo
"sdegno" e la "forza" che il bravo giornalista avrebbe
potuto suggerirgli, ci siano in ogni occasione rigore e zelo nei confronti di
tutti i sediziosi, dovunque collocati e comunque manifestatisi.
Cordialmente.
Giorgio Napolitano”
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