l.
La democrazia pare aver guadagnato alla sua causa, in Italia, perfino l'ultimo
partito, che le resisteva in nome della fedeltà alle sue conclamate radici
totalitarie. Tuttavia è oggi diffuso tra molti un sentimento di incertezza.
Possiamo pensare che non si tratti che di un abbaglio, e che la nostra
democrazia non abbia mai goduto migliore salute. Ma se questo non crediamo, è
forse perché si avverte che le stanno attorno, oltre ai veri, molti falsi
amici.
Nell'età
della democrazia i suoi nemici non si possono mai presentare come tali. Devono
mascherarsi da democratici.
Per
questo ci può essere e c'è molta ambiguità e diffidenza nella cittadella della
democrazia. La domanda discriminante è: la democrazia è un fine o è solo un
mezzo? Chi la ritiene un fine la serve, chi soltanto un mezzo se ne serve
finché gli serve. La distinzione è tutta qui, chiara in astratto ma oscura in
concreto. In concreto, il falso amico è infatti sempre l'avversario. L'accusa
che viene lanciata è sempre ritorta. Un tempo veniva palleggiata tra la Democrazia cristiana e
il Partito comunista. Oggi, con il sistema maggioritario imperfetto, fra chi
sta di là e chi sta di qua. E coloro che stanno al centro la rivolgono simultaneamente
a destra e a sinistra, candidandosi come unici autentici difensori della
democrazia.
Non possiamo pensare che la disputa sia oziosa, che si tratti di una di quelle controversie prive di contenuto che alimentano la lotta fra i partiti con lo scopo di impressionare il pubblico. La questione è reale, e la posta in gioco è grande. Ma per renderla effettivamente intelligibile, per sottrarla al moralismo istituzionale un terreno su cui non si è mai costruito niente e si è sempre solo fomentata la confusione abbiamo bisogno di categorie chiare e precise. A questo fine possiamo servirci del processo a Gesù, come ci viene narrato dai Vangeli. Esso rappresenta un simbolo tragico della democrazia.
Non possiamo pensare che la disputa sia oziosa, che si tratti di una di quelle controversie prive di contenuto che alimentano la lotta fra i partiti con lo scopo di impressionare il pubblico. La questione è reale, e la posta in gioco è grande. Ma per renderla effettivamente intelligibile, per sottrarla al moralismo istituzionale un terreno su cui non si è mai costruito niente e si è sempre solo fomentata la confusione abbiamo bisogno di categorie chiare e precise. A questo fine possiamo servirci del processo a Gesù, come ci viene narrato dai Vangeli. Esso rappresenta un simbolo tragico della democrazia.
2.
Vi sono molti modi di rivolgersi alla Bibbia. Vi si possono ricercare valori
artistico letterari, indicazioni storiografiche per la ricostruzione della vita
politica e sociale del tempo, insegnamenti morali o argomenti teologici. Qui
interessa invece il valore paradigmatico di quel racconto.
Raramente
come nella narrazione del processo e della passione di Gesù esiste nei Vangeli
una tale varietà di versioni, di differenze e persino di contraddizioni. Non è
per nulla sorprendente. La condanna di Gesù, la sua morte e la sua resurrezione
sono argomenti d'importanza cruciale per il messaggio cristiano. Ogni
particolare collegato a queste vicende fu probabilmente rivissuto e pensato
nelle menti dei credenti, detto e ripetuto mille volte. Ogni volta, il
contenuto iniziale fu rielaborato e si produssero diverse versioni della storia
originaria, per la quale mancavano i testimoni diretti.
Il
medesimo processo continua oggi, perlopiù attraverso nuove interpretazioni,
spesso straordinariamente innovative, di un testo ormai fissato in un canone
definito. Del resto i Vangeli non furono scritti come resoconti a fini
storiografici, ma come documenti di una fede. Se anche il nucleo storico
incontrovertibile fosse limitato a quanto accenna brevemente Tacito dovendo
spiegare il significato della parola «cristiano» e cioè l'esistenza ai tempi di
Tiberio di un uomo chiamato Gesù e soprannominato il Cristo, messo a morte in
Palestina sotto il governo del procuratore Ponzio Pilato resterebbe pur sempre
il fatto di una narrazione che per duemila anni ha parlato allo spirito umano.
Anzi, se tutto fosse costruito su quell'unico nucleo iniziale, il racconto
evangelico sarebbe ancora più sorprendentemente dotato di significato
eloquente.
Tutta
la vicenda è scandalosa e simbolica, tanto più in quanto si ammette che nessuno
degli attori di quel dramma fu mosso da animo pravo, che anzi ognuno faceva ciò
che il suo dovere richiedeva. Se si concede a quelli che agirono sulla scena
del processo di Gesù di aver agito senza intenzione e inconsapevolmente, se li
si imputa di una «colpa incolpevole», gli eventi si privano di ogni senso
soggettivo per assumere il valore di paradigma.
Si
era determinato un conflitto tra Pilato, il procuratore romano della Giudea, e
il Sinedrio, la massima autorità ebraica. La posta in gioco era la vita di
Gesù. Per uscirne Pilato si appellò al popolo. Tra l'imposizione di una
decisione unilaterale, la liberazione cioè di Gesù con un atto d'imperio, che
al procuratore di Roma era certamente consentito, e la resa ai notabili del
Sinedrio, Pilato scelse un'altra possibilità: apri una procedura «democratica»
appellandosi al popolo. La decisione finale fu presa nel crescendo
impressionante di fanatismo che Marco, fra tutti gli evangelisti, racconta nel
modo più vivido: «La moltitudine gridando cominciò a domandare che facesse come
sempre aveva fatto (allusione alla presunta consuetudine di liberare un
condannato a morte in occasione della Pasqua, il cosiddetto privilegium
paschale del procuratore, n.d.a.) e Pilato rispose loro dicendo: «Volete voi
che io vi liberi il re dei Giudei?». Riconosceva infatti bene che i principali
sacerdoti lo avevano messo nelle sue mani per invidia. Ma i principali
sacerdoti incitarono la moltitudine a chiedere che piuttosto liberasse loro
Barabba. E Pilato, rispondendo, da capo disse loro: «Che volete dunque che io
faccia di colui che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi gridarono di
nuovo: «Crocifiggilo!». E Pilato disse loro: «Ma pure, che male vi ha fatto?».
Ed essi vieppiù gridavano: «Crocifiggilo!».
Che
cosa si può vedere in questo grido della folla? A prima vista un argomento
contro la democrazia. Per allontanare lo scandalo di questo grido, possiamo
solo rifiutare il contenuto di valore del dilemma che la narrazione evangelica
ci presenta. In breve, dobbiamo trovare equivalenti Gesù e Barabba, e
indifferente la vita dell'uno o dell'altro. E’ quanto ha fatto Hans Kelsen
nell'ambito della sua riflessione sulla democrazia. In un breve paragrafo dal
titolo «Gesù e la democrazia», che chiude il saggio famoso su Essenza e valore
della democrazia, egli vede in questo evento l'incontro tra la verità,
impersonata da Gesù, e la democrazia, impersonata da Pilato, e prende posizione
con queste parole: «Per coloro che credono il Figlio di Dio e re dei Giudei
come testimone della Verità assoluta, questo plebiscito è certamente un serio
argomento contro la democrazia. Noi scienziati della politica dobbiamo
accettare questo argomento, ma solo a una condizione. Di essere tanto sicuri
della nostra verità politica da imporla, se necessario, con lacrime e sangue.
Di essere tanto sicuri della nostra verità quanto il Figlio di Dio era sicuro
della propria». In breve la condanna di Gesù potrebbe essere un argomento solo
per chi è certo della verità ed è disposto a imporla ad ogni costo. Essa allora
sarebbe la riprova storica più eloquente dell'insensatezza di rimettere al
numero e alle opinioni la decisione di ciò che è vero o falso. Altrimenti
sarebbe solo uno pseudoargomento che non prova nulla, né a favore né contro la
democrazia.
In
questo modo si finisce per oscillare tra due estremi, dal dogma alla scepsi,
dall'assolutismo al relativismo. La democrazia inammissibile per lo spirito
dogmatico, in quanto si rivolge alle oscillazioni e alle decisioni del numero
si giustificherebbe solo in un contesto spirituale scettico. Democrazia e
scetticismo verrebbero così intimamente collegati, essendo la prima la
conseguenza del secondo.
E
una conclusione che non mi pare accettabile. La tesi che mi pare si possa
sostenere a partire dalla narrazione evangelica è diversa. E cioè che sia il
dogma che la scepsi possono convivere con la democrazia. Ma entrambi
strumentalizzandola. Sia il dogmatico che lo scettico possono apparire amici
della democrazia, ma solo come falsi amici, in quanto se ne servono. Il
dogmatico può accettare la democrazia se essa e fino a quando essa serve alla
verità. Lo scettico, a sua volta, siccome non crede in nulla, può accettarla
quanto ripudiarla. Dal punto di vista dei principi, se è davvero scettico, non
troverà nessuna ragione per preferire la democrazia all'autocrazia. Troverà
invece questa ragione non nella fede in quanto principio ma nella convenienza
particolare. Egli potrà essere democratico, fino a quando lo sarà, non per
idealismo, ma per realismo.
3.
Sono così abbozzati due mentalità, due modi di pensare. Il primo si rifà alla
verità, alla quale si aderisce. Il secondo si rifà alla realtà, cui ci si
piega. Avremo nel primo caso una concezione dogmatica, nel secondo una
concezione scettica della democrazia. Il processo di Gesù ci dimostra che l'una
e l'altra sono possibili. Manca la concezione che a me pare sola assumere la
democrazia non semplicemente come mezzo ma anche come fine, che è la concezione
critica. Su di essa ritornerò alla fine dell'esame del processo di Gesù. Un
esame necessariamente ridotto ai minimi termini, agli aspetti rilevanti per il
nostro discorso.
Gesù
innanzitutto. La sua figura è presentata in antitesi radicale a quella di
Barabba. Barabba non è un nome proprio, è un patronimico. Barabba, figlio del
padre: c'è un significato simbolico in questo. Gesù Figlio di Dio contro
Barabba figlio del padre, cioè di nessuno (di N.N. diremmo oggi). Gesù come la
personificazione della Verità, Gesù come il Sommo Giusto, il Sommo Bene;
Barabba come rappresentazione del malvagio, del delinquente.
Possiamo
trascurare tutte le raffigurazioni correnti su Barabba come capopopolo, come
animatore di un moto sedizioso di tipo nazionalistico. La contrapposizione fra
Gesù e Barabba risulterebbe anche più evidente se , si accettasse quanto si
trae da manoscritti estranei al corpo degli Evangeli, e cioè che il nome
completo di Barabba sarebbe stato Gesù Barabba: quindi due Gesù uno di fronte
all'altro, uno Figlio di Dio l'altro figlio di nessuno. Nel racconto evangelico
questa contrapposizione serve a illustrare nel modo più evidente e radicale il
disconoscimento di Gesù operato dal suo popolo. In una discussione sulla
democrazia quella contrapposizione sta a indicare la perversione del contenuto
della decisione presa dalla folla.
Un
aspetto saliente del comportamento di Gesù nel processo a suo carico, tanto di
fronte al Sinedrio che ad Erode e infine a Pilato, è il suo silenzio. Un
comportamento così diverso da quello tenuto da Socrate. Il quale non solo non
tacque, ma si difese con eloquenza nella sua apologia. Di fronte all'accusa
Gesù, dunque, tace. Perché? L'interpretazione più diffusa è questa: Gesù è la
personificazione della Verità. La
Verità o la si accetta o la si combatte. La Verità dogmatica non può
essere sostenuta con argomenti, perché questi possono essere ribattuti con
altri argomenti, dunque relativizzati. «Chi non è con me è contro di me», dice
Gesù nel Vangelo di Matteo. La
Verità divide il campo a metà: per questo Gesù tace. Il suo
silenzio è una testimonianza dell'integralità della Verità.
Se
il Regno di Gesù fosse stato di questo mondo, egli avrebbe proclamato lo status
belli contro i negatori della Verità. Ma siccome il suo Regno non è di questo
mondo, l'atteggiamento suo è un altro. Egli compatisce i suoi accusatori,
pregando per loro perché non sanno quello che fanno. E in più preannuncia
l'avvento di una più alta giustizia: «Voi vedrete il Figliuolo dell'Uomo sedere
alla destra della Potenza e venire con le nuvole del Cielo», dice il Vangelo di
Marco. Dunque Gesù come testimone della Verità non si difende perché non può
accettare il processo. La
Verità glielo impedisce, anzi lo costringe addirittura a
cooperare con i suoi accusatori. Gesù, di fronte alle contestazioni, è
costretto a dichiararsi colpevole. A Caifa che gli chiede se è il Cristo, Gesù
è costretto dalla Verità che incarna a rispondere sì. Con ciò segnando la
propria condanna. E analogamente, quando Pilato gli domanda se è il re dei
Giudei, Gesù non può che confermare, aggiungendo che il suo Regno non è di
questo mondo.
Ma
c'è un'altra e forse più profonda interpretazione del silenzio di Gesù. Essa si
basa su studi recenti relativi al sistema giudiziario dell'epoca in Israele.
Sarebbero infatti esistite due forme processuali. L'una, simile alla nostra,
basata su uno schema tripartito, nel quale accusato e accusatore sì
fronteggiavano davanti a un terzo imparziale. Lo scopo del processo era di
stabilire la giustizia attraverso sanzioni di tipo compensativo. Il secondo
schema, che si chiama rip o riv, è di tipo duale. In esso manca il terzo, il
giudice imparziale. Questo processo si svolge in un rapporto diretto tra
accusato e accusatore. Il suo scopo non è di ristabilire la giustizia
attraverso pene, ma ristabilire il rapporto che il delitto ha temporaneamente
rotto: dunque la riconciliazione tra i contendenti.
Gli
strumenti attraverso i quali l'offeso cerca di ristabilire il rapporto con
l'offensore possono essere di molti tipi. Dal rimprovero all'ira, all'uso della
forza della verga, come si racconta nell'Antico Testamento ma anche alle
tecniche per commuovere l'offensore, come il pianto, il lamento e perfino il
silenzio, ove questo possa essere interpretato come un appello alla coscienza
dell'offensore. Il silenzio dunque come forma estrema di comunicazione, di cui
esempio molto evidente è il padre del figliol prodigo nella parabola
evangelica, il quale tace e soffre silenziosamente in attesa del pentimento del
figlio. Tutta la storia di Israele è stata interpretata come un grande rip
(riv). Una storia fatta tra Dio e il suo popolo, in una sequenza di tradimenti,
di punizioni, di rimproveri, in vista della riconciliazione. Gli strumenti del
rip sono alla fine tutti interpretati come mezzi di amore, in quanto volti a
ristabilire un rapporto.
In
questo senso, Gesù non sarebbe l'accusato, ma il giudice. I veri colpevoli
colpevoli di non aver ascoltato l'appello che il silenzio di Gesù conteneva sarebbero
stati i suoi accusatori.
Il
secondo grande attore del processo di Gesù è il Gran Sinedrio di Gerusalemme.
Esso era un collegio tripartito. In primo luogo i massimi sacerdoti,
rappresentanti il potere politico religioso in Israele; in secondo luogo gli
anziani, rappresentanti i possidenti, i proprietari terrieri; in terzo luogo
gli scribi, i custodi dell'ortodossia della fede. Sono dunque rappresentati nel
Sinedrio i tre poteri fondamentali: quello politico, quello economico e quello
culturale ideologico.
Sappiamo
che nei territori sottoposti alla dominazione romana venivano in qualche misura
preservate forme di organizzazione dell'autorità locale, cui si sovrapponeva il
potere dirimente del procuratore, rappresentante dell'imperatore. Il quale
rispettava l'autonomia del potere locale fintanto che questo non interferisse
con gli interessi dì Roma. Questo era anche il caso della Palestina ai tempi di
Pilato.
Noi
possiamo pensare che il comportamento del Sinedrio nei confronti di Gesù sia
stato determinato sia da ragioni politiche che da ragioni religiose,
conformemente alla sua duplice vocazione. Esistevano certo preoccupazioni
relative all'ordine e al potere costituito. Le folle accorrevano da tutta la Palestina per seguire
Gesù. Quando Gesù arriva a Gerusalemme, il popolo lo acclama re di Israele. Il
Sinedrio poteva temere che le folle radunate intorno a Gesù costituissero un
pericolo sia per il potere aristocratico del Sinedrio stesso sia più in
generale per l'autonomia di cui godeva la Palestina e che era rispettata dall'autorità
romana a condizione che non si creassero disordini Gesù rappresentava un
pericolo e doveva dunque morire per questa ragione. I Vangeli narrano che dopo
il grande miracolo della resurrezione di Lazzaro il Sinedrio aveva deciso, per
bocca di Caifa, che la morte di un solo uomo, Gesù, era necessaria per salvare
la nazione intera.
Il
Sinedrio agiva poi anche per ragioni religiose. Esso doveva difendere il dogma,
mantenere integra l'identità religiosa monoteista del popolo d'Israele. Del
resto, dogma e potere si intrecciavano, allora come sempre: è difficile dire se
il dogma serva al mantenimento del potere o viceversa, ma certo sono
strettamente interrelati. Sotto questo punto di vista, Gesù appariva non solo
più il sobillatore delle folle, ma il falso Messia, un seduttore delle folle,
che le allontanava dall'ortodossia.
La questione del riconoscimento dell'identità di Gesù è la questione capitale di tutto il Nuovo Testamento. Allora come oggi, per una religione dell'attesa come l'ebraismo, il problema essenziale era distinguere il Messia dagli impostori. E Gesù, con la sua potenza taumaturgica, poneva con impellenza la questione della sua vera identità.
La questione del riconoscimento dell'identità di Gesù è la questione capitale di tutto il Nuovo Testamento. Allora come oggi, per una religione dell'attesa come l'ebraismo, il problema essenziale era distinguere il Messia dagli impostori. E Gesù, con la sua potenza taumaturgica, poneva con impellenza la questione della sua vera identità.
In
un passo di Giovanni si riportano alcune domande pressanti a Gesù, che
passeggiava nel Tempio: «Coloro che lo attorniarono gli dissero: "Fino a
quando terrai sospesa l'anima nostra? Se tu sei il Cristo diccelo apertamente"».
Gesù operava miracoli e si proponeva come il realizzatore dei grandi annunci
messianici contenuti nelle profezie, ma questi strumenti di riconoscimento
erano di per sé controvertibili. Nel miracolo della liberazione degli
indemoniati, gli astanti sollevano il dubbio: egli libera gli uomini dai demoni
perché forse è amico dei demoni; dunque può essere che sia mandato da Belzebù e
non da Dio. E per quel che riguarda le profezie, chi può garantire che egli
stesso deliberatamente non le strumentalizzi a suo favore, adempiendole
artificiosamente?
In
sostanza, come ci riporta Giovanni valeva questa obiezione: tu testimoni di te
stesso, la tua testimonianza non è verace. Noi oggi lo definiremmo un caso di
autoreferenzialità.
Un’autoproclamazione
non è decisiva perché essa dovrebbe essere convalidata da un'autorità più alta
e riconosciuta.
L’identità
di Gesù era dunque una questione di fede, non il riconoscimento di un dato
evidente. E del resto Gesù come Messia, come inviato da Dio per compiere
profezie, era una figura dubbia. Egli poteva apparire non come colui nel quale
le Scritture si compivano ma come il traditore delle Scritture. I Vangeli ci
riportano lo sconcerto della gente di fronte al modo in cui Gesù trascurava
precetti importantissimi della legge mosaica. Primo fra tutti, quello relativo
al riposo del sabato. Si sbaglierebbe oggi a svalutare l'importanza di tale
precetto, il cui rispetto era considerato elemento della stessa identità del
popolo ebraico. E Gesù era giunto a proclamare, con il massimo orgoglio, che il
sabato serve all'uomo, non l'uomo al sabato. Egli si era dunque collocato al di
sopra del precetto.
Ma
soprattutto e questa è forse stata la ragione dogmatica della condanna di Gesù
da parte del Sinedrio Gesù rappresentava una contraddizione palese del nucleo
fondamentale della religione ebraica, il monoteismo. Gesù aveva detto: «Io e il
Padre siamo la stessa cosa». E gli era stato ribattuto che, essendo uomo, egli
si proclamava Dio.
4.
Di fronte al Sinedrio si pone Pilato. In Filone Alessandrino e in Flavio
Giuseppe, Pilato è rappresentato come un uomo crudele e corrotto. Ciò che rende
difficilmente attendibile il racconto evangelico centrato sulle perplessità e
gli scrupoli di Pilato durante il processo a Gesù. Del resto si può pensare che
la «rivalutazione» del procuratore sia voluta dagli evangelisti per accentuare
le ombre che circondano le autorità religiose ebraiche. Facendo così ricadere
su di loro e sul popolo d'Israele tutto l'accusa terribile di deicidio. In ogni
caso noi dobbiamo prendere Pilato per quello che ci è descritto dai Vangeli e
secondo l'immagine che è diventata paradigmatica.
Davanti
a Pilato si svolge la seconda parte del processo di Gesù. La prima, di fronte
al Sinedrio, aveva avuto uno svolgimento legato al significato teologico della
figura di Gesù; questa seconda parte riguarda l'aspetto politico della vicenda.
Mentre presso il Sinedrio l'accusa era di aver sedotto il popolo, di fronte a
Pilato l'accusa è di sedizione, crimen lesae majestatis. Gesù come fautore di
disordini, come istigatore a non pagare il tributo a Cesare. Soprattutto nel
Vangelo di Giovanni risulta chiara l'incredulità di Pilato di fronte
all'accusa. Un pover'uomo in ceppi, ridotto in uno stato pietoso, non poteva
immaginarsi come un pretendente al trono. Si sarebbe potuto dire che la non
colpevolezza di Gesù si mostrava dall'impossibilità di commettere il crimine di
cui era accusato.
Ma
invece di liberarlo, usando dell'autorità di cui disponeva, Pilato segue una
via diversa. Dapprima egli cerca di sbarazzarsi del problema, invitando gli
accusatori di Gesù a occuparsene loro. Con questo dando implicitamente via
libera a coloro che, sul versante dell'autorità religiosa giudaica, agivano per
la morte del Cristo. Tale indicazione tuttavia non ha seguito, perché gli
uomini del Sinedrio non vogliono essi stessi farsi carico dell'esecuzione della
sentenza di condanna di Gesù. Si può spiegare questo timore in vario modo, e si
può ritenere che l'autorità ebraica volesse coinvolgere Pilato per non assumersi
direttamente la responsabilità della morte del Cristo di fronte alle masse dei
giudei. Ecco che Pilato tenta allora una mediazione. Così spera di accontentare
il Sinedrio facendo flagellare Gesù. E lo presenta poi alla folla, credendo che
essa fosse così soddisfatta. Non aveva capito che all'autorità ebraica non
interessava la punizione di Gesù ma la sua morte. La mediazione dunque non
poteva riuscire.
Pilato
tenta allora un'altra strada, lo scambio con Barabba. Egli spera che la folla
salvi Gesù a scapito di Barabba, con il che metterebbe il Sinedrio con le
spalle al muro, di fronte alla forza scatenata della folla; o, nel caso invece
in cui la folla si pronunci in favore di Barabba, si metterebbe egli stesso con
le spalle al muro, e in tal modo taciterebbe la propria coscienza di fronte
alla forza della realtà alla quale ci si deve piegare. E quando il Sinedrio lo
minaccia, sostenendo che se avesse salvato Gesù si sarebbe per ciò stesso
ribellato al suo Cesare, Pilato rompe gli indugi. Perché piegandosi alla
volontà manifestata dalla folla davanti al Sinedrio Pilato considera di
garantirsi il potere.
Noi
possiamo pensare che la decisione finale di Pilato corrispondesse al suo dovere
di funzionario. E’ difficile pensare che il dovere principale del rappresentante
della potenza occupante fosse la giustizia. Il suo compito fondamentale era il
mantenimento dell'ordine. E la sua scelta è conforme a questa esigenza. Ma la
figura di Pilato come colui che si piega alla forza delle cose è caratterizzata
ulteriormente dal dialogo con Gesù sulla Verità e dalla scena della lavanda
delle mani di fronte alla folla. Il primo, narrato da Giovanni, ci mostra
Pilato come uno scettico (lo «scettico relativista» di cui parla anche Hans
Kelsen), un uomo per il quale la parola «verità» non ha alcun significato. Di
fronte alla proclamazione di Gesù che si dice venire dalla Verità, Pilato
replica con la domanda retorica «che cosa è la verità», e senza attendere
risposta lascia Gesù e si rivolge alla folla.
Egli
resta così in una zona d'indifferenza teoretica (rispetto alla Verità) e
pratica (rispetto alla verità). Questa indifferenza, ch'egli avrebbe voluto
fosse la neutralità dell'uomo superiore, lo rende esposto senza difesa
all'intensità del dramma. Avendo mancato di ascoltare la verità (maiuscola o
minuscola che sia) e di decidersi a suo favore, egli come tutti quelli che lo
imitano finisce inevitabilmente per subire la pressione degli eventi, per
piegarsi alla forza della realtà. Questa filosofia della vita è che, di fronte
alla realtà, non c'è da fare nient'altro che «lasciarsi portare». Questa è
forse la comprensione profonda di Pilato secondo Giovanni: la tragedia di una
storia d'indecisione.
Lasciarsi
portare: Pilato non era semplicemente un succubo, un rassegnato. Era anche un
approfittatore. Come nella decisione popolare il Sinedrio aveva un interesse
(il dogma da difendere), così anche Pilato aveva il suo: il potere da
salvaguardare. Egli ci appare allora non solo come il realista che si rassegna
di fronte alla necessità, ma anche come l'opportunista che cerca di trarne il
proprio vantaggio. Con un'aggravante: il rifiuto di ogni responsabilità. La
scena della lavanda delle mani davanti alla folla aggiunge un dettaglio
psicologico pertinente. Molti e in ogni circostanza sono coloro che si possono
riconoscere in questo atteggiamento che si piega al flusso degli avvenimenti,
rinunciando a determinarli e convincendosi che non c'è altro da fare, e cerca
piuttosto, conformandosi, di trarne i possibili vantaggi, facendo ricadere su altri
la responsabilità degli accadimenti.
Dal
punto di vista non della rassegnazione ma dell'opportunismo, Pilato è un
simbolo dell'adattamento interessato, un simbolo altamente rappresentativo di
una fauna politica molto diffusa, sempre capace del più spregiudicato
camaleontismo per restare sulla cresta dell'onda.
5.
La questione che a questo punto ci interessa in un discorso sulla democrazia è
come due autorità quella del Sinedrio e quella di Pilato, l'una ancorata al
dogma, l'altra all'opportunismo abbiano potuto rivolgersi al popolo e
riconoscerne la decisione. Una convergenza nella folla e partire da posizioni
radicalmente opposte.
Per
analizzare questo paradosso, conviene dunque spostare l'attenzione sui
caratteri della folla decidente. Il primo aspetto che spiega questa sorta di
coincidentia oppositorum consiste nel fatto che alla folla non è stata
riconosciuta un'autorità; essa è stata usata da una parte e dall'altra e ne è
stata sfruttata piuttosto la forza. Per entrambe le parti, Sinedrio e Pilato,
si trattava di scatenare il popolo per vincere gli ostacoli. Il Sinedrio
intendeva superare i dubbi di Pilato. Il quale invece cercava di salvare Gesù a
danno di Barabba, mettendo il Sinedrio di fronte all'evidenza della scelta
imposta dalla folla. Fallito questo tentativo, lo scopo di Pilato era
semplicemente quello di capire che cosa volesse il popolo per potersi poi
conformare alla sua decisione. Il fine ultimo restando quello di mantenere
l'ordine e conservarsi al potere. Insomma, Pilato ha tentato una sorta di
sondaggio, per adeguarsi e rimanere in sella.
Quella
folla era chiamata soltanto a pronunciarsi su quel che le veniva richiesto.
Essa non avrebbe potuto uscire dal dilemma propostole. Non avrebbe potuto
decidere, per esempio, per la vita o per la morte e di Gesù e di Barabba. Né
avrebbe potuto pretendere di farsi valere in altre questioni. In termini
diversi, non era una forza agente, ma semplicemente reagente. Era un corpo
normalmente morto (come la rana di Galvani, che si anima di vita solo apparente
quando viene scossa da una forza esterna). Essa non era padrona, per usare una
formula di oggi, della propria agenda. Se avesse preteso di diventarlo,
l'autorità del Sinedrio e di Pilato sarebbe stata distrutta. Se il popolo
capace di agire è il popolo della democrazia e quello che subisce è il popolo
delle autocrazie, quello chiamato soltanto a reagire è il popolo di quale forma
di governo? Forse, conformemente all'etimo, il popolo della demagogia.
In
più conviene notare che il processo di Gesù si svolge di fronte a una folla che
costituisce una parte e, per quanto potesse essere numerosa, una parte infima
del popolo tutto intero. Se la sua voce si intende come quella dell'insieme, è
solo perché a essa si attribuisce il valore di un «campione rappresentativo».
In effetti, è nella logica del popolo reagente, nell'impossibilità di
suscitarlo nel suo insieme, che ci si rimetta a una parte per il tutto,
attraverso tecniche che oggi denomineremmo demoscopiche. Ma quella parte è
determinata in che modo? E riunita da chi? Sulla base di quali informazioni?
Tutte questioni che mettono in luce la posizione di oggetto, non di soggetto
del popolo, o della parte dì popolo cui viene data la parola. C'è un secondo
aspetto della convergenza Pilato Sinedrio: l'appello al popolo viene concepito
come istanza decisiva. Vox populi, vox Dei: era come se ad essa si fosse
riconosciuta l'infallibilità. Questa folla era dunque adulata. Ogni volta che
al popolo viene attribuita la facoltà della decisione in ultima istanza, si può
essere sicuri che esso viene usato. Infatti, se al popolo si dicesse: «Puoi
decidere, ma la tua scelta può non essere la migliore», allora e solo allora il
popolo si vedrebbe riconosciuta la sua autonomia di decisione.
In terzo luogo, quella folla era sobillata dal Sinedrio. Era dunque una folla guidata, sotto tutela. Quella era poi una folla ondivaga, passata nel giro di pochi giorni dagli osanna ai crucifige. Era così perché incapace di un orientamento proprio, e dunque era esposta alle influenze esterne. Di fronte al miracolo, vuole proclamare Gesù re; quando Gesù rifiuta di compiere miracoli ed è ridotto a una larva umana, si ritorce contro di lui e lo vuole crocifiggere.
In terzo luogo, quella folla era sobillata dal Sinedrio. Era dunque una folla guidata, sotto tutela. Quella era poi una folla ondivaga, passata nel giro di pochi giorni dagli osanna ai crucifige. Era così perché incapace di un orientamento proprio, e dunque era esposta alle influenze esterne. Di fronte al miracolo, vuole proclamare Gesù re; quando Gesù rifiuta di compiere miracoli ed è ridotto a una larva umana, si ritorce contro di lui e lo vuole crocifiggere.
Quarto
punto: la folla che decide opera senza procedure, senza dibattito, oggi diremmo:
in tempo reale. E infine, la folla si pronuncia senza dissenso, come corpo
unitario, come massa omogenea che ha «un'anima sola» (secondo la formula di Le
Bon). In mancanza di regole e di tempo che potessero consentire un distacco
dello spirito e una trattazione adeguata dei «pro» e dei «contro» presenti nel
caso da decidere, prevalse l'umore emozionale sulla valutazione razionale.
Ci
si può chiedere se la sorte di Gesù sarebbe stata diversa nel caso fosse stato
possibile esprimere un dissenso. Dissidenti potenziali esistevano: Nicodemo,
Giuseppe di Arimatea, e gli stessi discepoli di Gesù. Ma tutti furono indotti
al silenzio dalla paura della folla.
La
conclusione è dunque che la folla è stata usata perché aveva queste
caratteristiche. Non un popolo decidente, ma una massa messa in movimento.
Credeva di decidere, ma in realtà decideva quello che altri avevano disposto
per lei. Se le è stata data la parola è solo per sostenere la verità del
Sinedrio o gli interessi di Pilato: uno scontro fra due autorità autocratiche
nel quale il ricorso alla folla è solo un'arma nelle mani di tali autorità. Se
vogliamo parlare di «democrazia» dobbiamo sottolineare che questa ne è la forma
corrotta. 0 meglio, una forma solo apparente, cui possono aderire tanto coloro
che sono vincolati al dogma quanto coloro che si ispirano al potere.
Entrambi
praticano concezioni puramente strumentali della democrazia. Entrambi sono
falsi amici della democrazia perché intendono solo farsi sgabello della folla.
6.
A queste due concezioni si deve opporre la visione critica della democrazia.
Essa è quella di coloro che non si ispirano né alla verità né allo scetticismo.
La loro etica è semmai quella della possibilità. In ogni situazione esistono
possibilità positive e altre negative. Chi si ispira a una versione critica
della democrazia abbandona tanto la sicurezza di chi crede di disporre della
verità quanto l'indifferenza di chi crede che una cosa valga l'altra. La
democrazia critica non guarda avanti ma si guarda attorno, è sempre pronta a tornare
sulle proprie decisioni, per migliorarle. Per questo non accetterebbe mai la
massima vox populi, vox Dei. E rifiuta le decisioni irreversibili, perché non ammettono
di essere migliorate.
In
ogni decisione c'è infatti sempre necessariamente anche un difetto, qualcosa
che manca e che può essere vantaggiosamente corretto per andare più in là e,
per questo, l'infallibilità che impedisce i ripensamenti e quindi, alla fine,
esautora chi si lascia adulare credendosi infallibile come non appartiene alla
politica, non riguarda nemmeno la democrazia. Si può dunque anzi si deve, per
non cadere nell'adulazione criticare la democrazia, in nome della democrazia
stessa. Non brandendo la verità, perché ciò sarebbe una contraddizione, un
atteggiamento da falso amico; ma prospettando possibilità preferibili.
L’esigenza
della correggibilità rende manifesto il fatto che, nella democrazia critica e
solo in essa, vi sono decisioni da evitare: quelle irrimediabili, rispetto alle
quali, per l'appunto, è impossibile il ripensamento. Il processo di Gesù ci
parla di una risoluzione sulla morte di un uomo. Questo è un caso incompatibile
con l'ethos della possibilità e non è senza significato che le forme di governo
che si ispirano a qualcosa di simile a ciò di cui si sta trattando, come le
democrazie liberali, sono per lo più orientate contro la pena di morte. Ma, a
questo esempio, altri si possono aggiungere: le decisioni che comportano eventi
senza ritorno, come la guerra, la distruzione di risorse della natura non
rinnovabili eccetera. In certe circostanze della vita collettiva, ci si può
trovare a dover prendere decisioni su queste materie e di questo tipo; ma il
buon governo e la prudenza richiedono che si agisca a oltranza affinché a tali
circostanze non si arrivi.
Affinché
la democrazia critica si renda possibile occorre in concreto che il popolo
decidente assuma caratteristiche opposte a quelle della folla protagonista del
processo a Gesù.
Primo:
il popolo non sia usato. Il che significa combattere tutti i poteri separati, palesi
o occulti, che possono rivolgersi alla folla come massa di manovra.
Secondo:
occorre che la volontà popolare non sia assunta come definitiva, ma sia sempre
sottoponibile a verifica, a controllo.
Terzo:
la folla non deve essere sotto tutela, sobillabile, manipolabile, e quindi
ondivaga e instabile. A questo fine occorre che sia capace di autoorganizzazione
intorno a progetti politici.
Quarto:
non deve trattarsi di una folla reagente ma agente, capace di iniziativa
propria.
Quinto:
bisogna garantire il diritto al dissenso, e quindi combattere ogni forma di
omologazione.
Infine,
la decisione popolare non può essere l'urlo immediato, senza dibattito. Essa
deve seguire le sue procedure, in cui sia garantito il diritto di tutti di
esprimersi, in un confronto di posizioni destinato a non terminare mai.
In
questo senso, la visione critica della democrazia potrebbe essere interpretata,
non tanto paradossalmente, dal silenzio di Gesù, inteso come l'atteggiamento di
colui che è sempre disposto a riprendere il dialogo non appena gli altri gliene
diano la possibilità.
La
democrazia critica non è però la concezione più congeniale agli uomini della
politica, o almeno a coloro che fanno della politica il loro mestiere. L'arena
della politica di professione è quella del potere e delle ideologie. Oggi più
del potere che delle ideologie. Quell'arena è occupata da coloro che della
democrazia hanno una visione dogmatica o scettica. Chi siano costoro
nell'Italia di oggi è da lasciare alle conclusioni di ciascuno di noi. Ma quello
che si deve notare qui è che chi si impegna oggi in politica lo fa per uno di
quei due fini. La democrazia è per costoro solo un mezzo.
7.
Perché i cittadini non restino folla, dunque servono istituzioni. Le
istituzioni classiche del popolo capace di azione politica sono i partiti. Essi
conoscono oggi un tempo di crisi e non è detto che esistano le possibilità di
superarlo. Ma che siano i partiti nelle loro forme conosciute, o possano essere
altre forme d'integrazione sociale a fini politici come potrebbero essere nuove
istituzioni di comunicazione attiva e circolare tra cittadini (non direttamente
tra i singoli e i detentori del potere), rese possibili dalle tecniche
informatiche la democrazia critica, unica forma di democrazia non ridotta a
strumento in mani aliene, di essi non può fare a meno.
L’istituzionalizzazione
sociale della politica, come sempre quando si tratti di istituzioni, toglie
necessariamente qualcosa alla spontaneità soggettiva e la costringe in una
cornice obiettiva di lunga durata e di ampia portata. Comporta dunque sacrifici
per i singoli. Ma queste rinunce sono la condizione affinché le energie
individuali si indirizzino in una prospettiva costruttiva, non si
insteriliscano in gesti dimostrativi, occasionali e irrazionali e, soprattutto,
non cadano preda di coloro che le volessero utilizzare strumentalmente ai loro
fini. L’attuale generalizzato sentimento contrario alla politica organizzata,
l'appello ad una presunta naturale sapienza della gente comune che non supera
la soglia dei giudizi e dei pregiudizi individuali, la tendenza a dare voce
immediata in politica a umori prepolitici, superando d'un balzo ogni istanza
organizzata intermedia, sentita come impaccio, diaframma e tradimento, sono
tutti segni attuali dell'adulazione del popolo.
Abbasso
le istituzioni, viva il popolo! Questo potrebbe essere il motto dei demagoghi
del nostro tempo: un motto che è un'arma potente perché assume il linguaggio
della democrazia e si rivolge, per travolgerlo, contro tutto ciò che
parlamento, istanze e procedure di discussione, controllo e garanzia fa perder
tempo e sembra disperdere e vanificare la forza che proviene dal popolo. Quando
il popolo si è espresso si dice nessun intralcio è lecito. Tutte le altre
autorità, comprese quelle deputate alla garanzia della legalità dell'azione di
governo non hanno altra scelta che piegarsi o andarsene. Viene così messa in
questione la complessa articolazione costituzionale, basata su istanze
indipendenti di garanzia, bilanciamento e compensazione. Tali istanze, o
rinunciano alla loro indipendenza, assecondando il movimento impresso dalla
decisione. popolare e negando così se medesime, oppure perdono quello che è il
loro diritto costituzionale alla durata, affinché siano sempre sintonizzate
alla volontà popolare. Scioglimento anticipato degli organi rappresentativi e
dimissioni imposte in corso d'opera sono gli strumenti di questa perdita.
La
democrazia critica non può accettare nulla di questo iperdemocraticismo. Essa
non ambisce di operare «in tempo reale» rispetto ai problemi da risolvere e
rispetto agli umori popolari cangianti. Richiede invece di poter prendersi il
suo tempo: tempo per decidere e tempo per durare, perché sa che dove non c'è
tempo, li c'è emotività, instabilità, suggestionabilità e quindi strumentalizzabilità.
In più, sa che inevitabilmente c'è omologazione. Solo il tempo che si diffonde
ed espande attraverso procedure nelle quali siano garantite tutte le voci, di
consenso e di dissenso, della maggioranza come delle minoranze, può garantire
che il popolo non si richiuda su se stesso, soffocando per paura chi non si
riconosce nel coro. Il popolo senza tempo dà luogo, con l'andar del tempo. a
una democrazia della massa indistinta e perciò totalitaria che, condannando
coloro che non le sono conformi, si priva della critica e della facoltà
autocritica, cioè della possibilità di emendarsi dai suoi propri errori.
Chi
allora saprà far crescere una democrazia critica? La risposta è che forse tocca
a coloro che non vivono di politica e sono interessati alla democrazia. Ad essi
spetta il compito di tenere le mani su di essa. Perché occorre essere
consapevoli che solo nella democrazia critica può valere ciò che Aristotele,
rispetto alla sua politeia, rimproverava ad Alessandro il Macedone di non
considerare. E cioè doversi garantire che la democrazia è quella forma di
governo in cui tutti sono trattati come uomini, e non alcuni come uomini e
altri come animali e piante, come oggetti da usare a piacimento. Il che vuol
dire che la democrazia critica è quella forma di governo in cui gli uomini sono
fini e non mezzi.
La
difesa della democrazia come fine spetta perciò alla società civile, e non deve
stupire che le libere forze intellettuali che essa produce siano per natura
portate alla diffidenza nei confronti dei governanti. Di tutti i governanti di
turno, perché in tutti esiste sempre la stessa vocazione latente
all'opportunismo. E questo non è sabotaggio nei confronti del governo, ma è il
compito di ogni cittadino. Infine, la democrazia critica ci obbliga a rivedere
continuamente le nostre scelte, a impedire che le decisioni sbagliate come
quella evocata in queste pagine diventino irrevocabili. E ci aiuta a non
credere di vivere in una repubblica di angeli che contemplano la verità, a non
cadere ancora una volta nella trappola del serpente tentatore, che prometteva
la conoscenza, una volta per tutte, del bene e del male. D'altra parte, però,
ci impedisce di cadere nel nichilismo della repubblica dei demoni, di coloro
che non credono in nulla. Non è forse tutto ciò che desidereremmo, ma è già
qualcosa. Ed è probabilmente il massimo che nella sfera politica possiamo
desiderare.
8.
Consideriamo ancora per un momento il processo di Gesù: quella folla era
esattamente così come si è detto ora. Essa condannava Gesù per bestemmia, non
volendo essere indotta ad aprire gli occhi su se stessa. Gesù, a sua volta,
tentava l'operazione opposta con l'eloquenza del suo silenzio tenuto fino alla
fine, cioè fino alla croce.
Potremmo
chiederci allora chi, in quella scena, occupasse la parte del vero amico della
democrazia. Hans Kelsen rispondeva: Pilato. Questa ricostruzione dice
piuttosto: Gesù. Egli era interamente preso dalla sua Verità. Ma non per questo
ha cercato d'imporla. Il suo tentativo silenzioso e «fino alla fine» di allacciare
un dialogo dimostra la compatibilità tra la fede e la democrazia, a condizione
che ciò che appare costringente e categorico nel proprio foro interno diventi
una proposta nella dimensione collettiva, nella quale in democrazia non c'è
posto per Verità assolute ma per opinioni che si confrontano.
La
morte di Gesù suona per noi certamente come una condanna della democrazia, ma
di quella «democrazia» che prevalse allora, dogmatica e scettica, la
«democrazia» del Sinedrio e di Pilato. Della democrazia critica tentata, se si
vuole pensare così, da Gesù silente fu non la condanna ma una sconfitta: una
sconfitta (di nuovo contro Kelsen) che ancora oggi ha molto da dire per evitare
che possa ripetersi.
Gustavo Zagrebelsky [da
MicroMega, 1/95] - http://www.pbmstoria.it/fonti1600
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