"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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sabato 5 novembre 2016

Gustavo Zagrebelsky: "La democrazia di Barabba"



 
l. La democrazia pare aver guadagnato alla sua causa, in Italia, perfino l'ultimo partito, che le resisteva in nome della fedeltà alle sue conclamate radici totalitarie. Tuttavia è oggi diffuso tra molti un sentimento di incertezza. Possiamo pensare che non si tratti che di un abbaglio, e che la nostra democrazia non abbia mai goduto migliore salute. Ma se questo non crediamo, è forse perché si avverte che le stanno attorno, oltre ai veri, molti falsi amici.
Nell'età della democrazia i suoi nemici non si possono mai presentare come tali. Devono mascherarsi da democratici.
Per questo ci può essere e c'è molta ambiguità e diffidenza nella cittadella della democrazia. La domanda discriminante è: la democrazia è un fine o è solo un mezzo? Chi la ritiene un fine la serve, chi soltanto un mezzo se ne serve finché gli serve. La distinzione è tutta qui, chiara in astratto ma oscura in concreto. In concreto, il falso amico è infatti sempre l'avversario. L'accusa che viene lanciata è sempre ritorta. Un tempo veniva palleggiata tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Oggi, con il sistema maggioritario imperfetto, fra chi sta di là e chi sta di qua. E coloro che stanno al centro la rivolgono simultaneamente a destra e a sinistra, candidandosi come unici autentici difensori della democrazia.
Non possiamo pensare che la disputa sia oziosa, che si tratti di una di quelle controversie prive di contenuto che alimentano la lotta fra i partiti con lo scopo di impressionare il pubblico. La questione è reale, e la posta in gioco è grande. Ma per renderla effettivamente intelligibile, per sottrarla al moralismo istituzionale un terreno su cui non si è mai costruito niente e si è sempre solo fomentata la confusione abbiamo bisogno di categorie chiare e precise. A questo fine possiamo servirci del processo a Gesù, come ci viene narrato dai Vangeli. Esso rappresenta un simbolo tragico della democrazia.

2. Vi sono molti modi di rivolgersi alla Bibbia. Vi si possono ricercare valori artistico letterari, indicazioni storiografiche per la ricostruzione della vita politica e sociale del tempo, insegnamenti morali o argomenti teologici. Qui interessa invece il valore paradigmatico di quel racconto.
Raramente come nella narrazione del processo e della passione di Gesù esiste nei Vangeli una tale varietà di versioni, di differenze e persino di contraddizioni. Non è per nulla sorprendente. La condanna di Gesù, la sua morte e la sua resurrezione sono argomenti d'importanza cruciale per il messaggio cristiano. Ogni particolare collegato a queste vicende fu probabilmente rivissuto e pensato nelle menti dei credenti, detto e ripetuto mille volte. Ogni volta, il contenuto iniziale fu rielaborato e si produssero diverse versioni della storia originaria, per la quale mancavano i testimoni diretti.
Il medesimo processo continua oggi, perlopiù attraverso nuove interpretazioni, spesso straordinariamente innovative, di un testo ormai fissato in un canone definito. Del resto i Vangeli non furono scritti come resoconti a fini storiografici, ma come documenti di una fede. Se anche il nucleo storico incontrovertibile fosse limitato a quanto accenna brevemente Tacito dovendo spiegare il significato della parola «cristiano» e cioè l'esistenza ai tempi di Tiberio di un uomo chiamato Gesù e soprannominato il Cristo, messo a morte in Palestina sotto il governo del procuratore Ponzio Pilato resterebbe pur sempre il fatto di una narrazione che per duemila anni ha parlato allo spirito umano. Anzi, se tutto fosse costruito su quell'unico nucleo iniziale, il racconto evangelico sarebbe ancora più sorprendentemente dotato di significato eloquente.
Tutta la vicenda è scandalosa e simbolica, tanto più in quanto si ammette che nessuno degli attori di quel dramma fu mosso da animo pravo, che anzi ognuno faceva ciò che il suo dovere richiedeva. Se si concede a quelli che agirono sulla scena del processo di Gesù di aver agito senza intenzione e inconsapevolmente, se li si imputa di una «colpa incolpevole», gli eventi si privano di ogni senso soggettivo per assumere il valore di paradigma.
Si era determinato un conflitto tra Pilato, il procuratore romano della Giudea, e il Sinedrio, la massima autorità ebraica. La posta in gioco era la vita di Gesù. Per uscirne Pilato si appellò al popolo. Tra l'imposizione di una decisione unilaterale, la liberazione cioè di Gesù con un atto d'imperio, che al procuratore di Roma era certamente consentito, e la resa ai notabili del Sinedrio, Pilato scelse un'altra possibilità: apri una procedura «democratica» appellandosi al popolo. La decisione finale fu presa nel crescendo impressionante di fanatismo che Marco, fra tutti gli evangelisti, racconta nel modo più vivido: «La moltitudine gridando cominciò a domandare che facesse come sempre aveva fatto (allusione alla presunta consuetudine di liberare un condannato a morte in occasione della Pasqua, il cosiddetto privilegium paschale del procuratore, n.d.a.) e Pilato rispose loro dicendo: «Volete voi che io vi liberi il re dei Giudei?». Riconosceva infatti bene che i principali sacerdoti lo avevano messo nelle sue mani per invidia. Ma i principali sacerdoti incitarono la moltitudine a chiedere che piuttosto liberasse loro Barabba. E Pilato, rispondendo, da capo disse loro: «Che volete dunque che io faccia di colui che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi gridarono di nuovo: «Crocifiggilo!». E Pilato disse loro: «Ma pure, che male vi ha fatto?». Ed essi vieppiù gridavano: «Crocifiggilo!».
Che cosa si può vedere in questo grido della folla? A prima vista un argomento contro la democrazia. Per allontanare lo scandalo di questo grido, possiamo solo rifiutare il contenuto di valore del dilemma che la narrazione evangelica ci presenta. In breve, dobbiamo trovare equivalenti Gesù e Barabba, e indifferente la vita dell'uno o dell'altro. E’ quanto ha fatto Hans Kelsen nell'ambito della sua riflessione sulla democrazia. In un breve paragrafo dal titolo «Gesù e la democrazia», che chiude il saggio famoso su Essenza e valore della democrazia, egli vede in questo evento l'incontro tra la verità, impersonata da Gesù, e la democrazia, impersonata da Pilato, e prende posizione con queste parole: «Per coloro che credono il Figlio di Dio e re dei Giudei come testimone della Verità assoluta, questo plebiscito è certamente un serio argomento contro la democrazia. Noi scienziati della politica dobbiamo accettare questo argomento, ma solo a una condizione. Di essere tanto sicuri della nostra verità politica da imporla, se necessario, con lacrime e sangue. Di essere tanto sicuri della nostra verità quanto il Figlio di Dio era sicuro della propria». In breve la condanna di Gesù potrebbe essere un argomento solo per chi è certo della verità ed è disposto a imporla ad ogni costo. Essa allora sarebbe la riprova storica più eloquente dell'insensatezza di rimettere al numero e alle opinioni la decisione di ciò che è vero o falso. Altrimenti sarebbe solo uno pseudoargomento che non prova nulla, né a favore né contro la democrazia.
In questo modo si finisce per oscillare tra due estremi, dal dogma alla scepsi, dall'assolutismo al relativismo. La democrazia inammissibile per lo spirito dogmatico, in quanto si rivolge alle oscillazioni e alle decisioni del numero si giustificherebbe solo in un contesto spirituale scettico. Democrazia e scetticismo verrebbero così intimamente collegati, essendo la prima la conseguenza del secondo.
E una conclusione che non mi pare accettabile. La tesi che mi pare si possa sostenere a partire dalla narrazione evangelica è diversa. E cioè che sia il dogma che la scepsi possono convivere con la democrazia. Ma entrambi strumentalizzandola. Sia il dogmatico che lo scettico possono apparire amici della democrazia, ma solo come falsi amici, in quanto se ne servono. Il dogmatico può accettare la democrazia se essa e fino a quando essa serve alla verità. Lo scettico, a sua volta, siccome non crede in nulla, può accettarla quanto ripudiarla. Dal punto di vista dei principi, se è davvero scettico, non troverà nessuna ragione per preferire la democrazia all'autocrazia. Troverà invece questa ragione non nella fede in quanto principio ma nella convenienza particolare. Egli potrà essere democratico, fino a quando lo sarà, non per idealismo, ma per realismo.

3. Sono così abbozzati due mentalità, due modi di pensare. Il primo si rifà alla verità, alla quale si aderisce. Il secondo si rifà alla realtà, cui ci si piega. Avremo nel primo caso una concezione dogmatica, nel secondo una concezione scettica della democrazia. Il processo di Gesù ci dimostra che l'una e l'altra sono possibili. Manca la concezione che a me pare sola assumere la democrazia non semplicemente come mezzo ma anche come fine, che è la concezione critica. Su di essa ritornerò alla fine dell'esame del processo di Gesù. Un esame necessariamente ridotto ai minimi termini, agli aspetti rilevanti per il nostro discorso.
Gesù innanzitutto. La sua figura è presentata in antitesi radicale a quella di Barabba. Barabba non è un nome proprio, è un patronimico. Barabba, figlio del padre: c'è un significato simbolico in questo. Gesù Figlio di Dio contro Barabba figlio del padre, cioè di nessuno (di N.N. diremmo oggi). Gesù come la personificazione della Verità, Gesù come il Sommo Giusto, il Sommo Bene; Barabba come rappresentazione del malvagio, del delinquente.
Possiamo trascurare tutte le raffigurazioni correnti su Barabba come capopopolo, come animatore di un moto sedizioso di tipo nazionalistico. La contrapposizione fra Gesù e Barabba risulterebbe anche più evidente se , si accettasse quanto si trae da manoscritti estranei al corpo degli Evangeli, e cioè che il nome completo di Barabba sarebbe stato Gesù Barabba: quindi due Gesù uno di fronte all'altro, uno Figlio di Dio l'altro figlio di nessuno. Nel racconto evangelico questa contrapposizione serve a illustrare nel modo più evidente e radicale il disconoscimento di Gesù operato dal suo popolo. In una discussione sulla democrazia quella contrapposizione sta a indicare la perversione del contenuto della decisione presa dalla folla.
Un aspetto saliente del comportamento di Gesù nel processo a suo carico, tanto di fronte al Sinedrio che ad Erode e infine a Pilato, è il suo silenzio. Un comportamento così diverso da quello tenuto da Socrate. Il quale non solo non tacque, ma si difese con eloquenza nella sua apologia. Di fronte all'accusa Gesù, dunque, tace. Perché? L'interpretazione più diffusa è questa: Gesù è la personificazione della Verità. La Verità o la si accetta o la si combatte. La Verità dogmatica non può essere sostenuta con argomenti, perché questi possono essere ribattuti con altri argomenti, dunque relativizzati. «Chi non è con me è contro di me», dice Gesù nel Vangelo di Matteo. La Verità divide il campo a metà: per questo Gesù tace. Il suo silenzio è una testimonianza dell'integralità della Verità.
Se il Regno di Gesù fosse stato di questo mondo, egli avrebbe proclamato lo status belli contro i negatori della Verità. Ma siccome il suo Regno non è di questo mondo, l'atteggiamento suo è un altro. Egli compatisce i suoi accusatori, pregando per loro perché non sanno quello che fanno. E in più preannuncia l'avvento di una più alta giustizia: «Voi vedrete il Figliuolo dell'Uomo sedere alla destra della Potenza e venire con le nuvole del Cielo», dice il Vangelo di Marco. Dunque Gesù come testimone della Verità non si difende perché non può accettare il processo. La Verità glielo impedisce, anzi lo costringe addirittura a cooperare con i suoi accusatori. Gesù, di fronte alle contestazioni, è costretto a dichiararsi colpevole. A Caifa che gli chiede se è il Cristo, Gesù è costretto dalla Verità che incarna a rispondere sì. Con ciò segnando la propria condanna. E analogamente, quando Pilato gli domanda se è il re dei Giudei, Gesù non può che confermare, aggiungendo che il suo Regno non è di questo mondo.
Ma c'è un'altra e forse più profonda interpretazione del silenzio di Gesù. Essa si basa su studi recenti relativi al sistema giudiziario dell'epoca in Israele. Sarebbero infatti esistite due forme processuali. L'una, simile alla nostra, basata su uno schema tripartito, nel quale accusato e accusatore sì fronteggiavano davanti a un terzo imparziale. Lo scopo del processo era di stabilire la giustizia attraverso sanzioni di tipo compensativo. Il secondo schema, che si chiama rip o riv, è di tipo duale. In esso manca il terzo, il giudice imparziale. Questo processo si svolge in un rapporto diretto tra accusato e accusatore. Il suo scopo non è di ristabilire la giustizia attraverso pene, ma ristabilire il rapporto che il delitto ha temporaneamente rotto: dunque la riconciliazione tra i contendenti.
Gli strumenti attraverso i quali l'offeso cerca di ristabilire il rapporto con l'offensore possono essere di molti tipi. Dal rimprovero all'ira, all'uso della forza della verga, come si racconta nell'Antico Testamento ma anche alle tecniche per commuovere l'offensore, come il pianto, il lamento e perfino il silenzio, ove questo possa essere interpretato come un appello alla coscienza dell'offensore. Il silenzio dunque come forma estrema di comunicazione, di cui esempio molto evidente è il padre del figliol prodigo nella parabola evangelica, il quale tace e soffre silenziosamente in attesa del pentimento del figlio. Tutta la storia di Israele è stata interpretata come un grande rip (riv). Una storia fatta tra Dio e il suo popolo, in una sequenza di tradimenti, di punizioni, di rimproveri, in vista della riconciliazione. Gli strumenti del rip sono alla fine tutti interpretati come mezzi di amore, in quanto volti a ristabilire un rapporto.
In questo senso, Gesù non sarebbe l'accusato, ma il giudice. I veri colpevoli colpevoli di non aver ascoltato l'appello che il silenzio di Gesù conteneva sarebbero stati i suoi accusatori.
Il secondo grande attore del processo di Gesù è il Gran Sinedrio di Gerusalemme. Esso era un collegio tripartito. In primo luogo i massimi sacerdoti, rappresentanti il potere politico religioso in Israele; in secondo luogo gli anziani, rappresentanti i possidenti, i proprietari terrieri; in terzo luogo gli scribi, i custodi dell'ortodossia della fede. Sono dunque rappresentati nel Sinedrio i tre poteri fondamentali: quello politico, quello economico e quello culturale ideologico.
Sappiamo che nei territori sottoposti alla dominazione romana venivano in qualche misura preservate forme di organizzazione dell'autorità locale, cui si sovrapponeva il potere dirimente del procuratore, rappresentante dell'imperatore. Il quale rispettava l'autonomia del potere locale fintanto che questo non interferisse con gli interessi dì Roma. Questo era anche il caso della Palestina ai tempi di Pilato.
Noi possiamo pensare che il comportamento del Sinedrio nei confronti di Gesù sia stato determinato sia da ragioni politiche che da ragioni religiose, conformemente alla sua duplice vocazione. Esistevano certo preoccupazioni relative all'ordine e al potere costituito. Le folle accorrevano da tutta la Palestina per seguire Gesù. Quando Gesù arriva a Gerusalemme, il popolo lo acclama re di Israele. Il Sinedrio poteva temere che le folle radunate intorno a Gesù costituissero un pericolo sia per il potere aristocratico del Sinedrio stesso sia più in generale per l'autonomia di cui godeva la Palestina e che era rispettata dall'autorità romana a condizione che non si creassero disordini Gesù rappresentava un pericolo e doveva dunque morire per questa ragione. I Vangeli narrano che dopo il grande miracolo della resurrezione di Lazzaro il Sinedrio aveva deciso, per bocca di Caifa, che la morte di un solo uomo, Gesù, era necessaria per salvare la nazione intera.
Il Sinedrio agiva poi anche per ragioni religiose. Esso doveva difendere il dogma, mantenere integra l'identità religiosa monoteista del popolo d'Israele. Del resto, dogma e potere si intrecciavano, allora come sempre: è difficile dire se il dogma serva al mantenimento del potere o viceversa, ma certo sono strettamente interrelati. Sotto questo punto di vista, Gesù appariva non solo più il sobillatore delle folle, ma il falso Messia, un seduttore delle folle, che le allontanava dall'ortodossia.
La questione del riconoscimento dell'identità di Gesù è la questione capitale di tutto il Nuovo Testamento. Allora come oggi, per una religione dell'attesa come l'ebraismo, il problema essenziale era distinguere il Messia dagli impostori. E Gesù, con la sua potenza taumaturgica, poneva con impellenza la questione della sua vera identità.
In un passo di Giovanni si riportano alcune domande pressanti a Gesù, che passeggiava nel Tempio: «Coloro che lo attorniarono gli dissero: "Fino a quando terrai sospesa l'anima nostra? Se tu sei il Cristo diccelo apertamente"». Gesù operava miracoli e si proponeva come il realizzatore dei grandi annunci messianici contenuti nelle profezie, ma questi strumenti di riconoscimento erano di per sé controvertibili. Nel miracolo della liberazione degli indemoniati, gli astanti sollevano il dubbio: egli libera gli uomini dai demoni perché forse è amico dei demoni; dunque può essere che sia mandato da Belzebù e non da Dio. E per quel che riguarda le profezie, chi può garantire che egli stesso deliberatamente non le strumentalizzi a suo favore, adempiendole artificiosamente?
In sostanza, come ci riporta Giovanni valeva questa obiezione: tu testimoni di te stesso, la tua testimonianza non è verace. Noi oggi lo definiremmo un caso di autoreferenzialità.
Un’autoproclamazione non è decisiva perché essa dovrebbe essere convalidata da un'autorità più alta e riconosciuta.
L’identità di Gesù era dunque una questione di fede, non il riconoscimento di un dato evidente. E del resto Gesù come Messia, come inviato da Dio per compiere profezie, era una figura dubbia. Egli poteva apparire non come colui nel quale le Scritture si compivano ma come il traditore delle Scritture. I Vangeli ci riportano lo sconcerto della gente di fronte al modo in cui Gesù trascurava precetti importantissimi della legge mosaica. Primo fra tutti, quello relativo al riposo del sabato. Si sbaglierebbe oggi a svalutare l'importanza di tale precetto, il cui rispetto era considerato elemento della stessa identità del popolo ebraico. E Gesù era giunto a proclamare, con il massimo orgoglio, che il sabato serve all'uomo, non l'uomo al sabato. Egli si era dunque collocato al di sopra del precetto.
Ma soprattutto e questa è forse stata la ragione dogmatica della condanna di Gesù da parte del Sinedrio Gesù rappresentava una contraddizione palese del nucleo fondamentale della religione ebraica, il monoteismo. Gesù aveva detto: «Io e il Padre siamo la stessa cosa». E gli era stato ribattuto che, essendo uomo, egli si proclamava Dio.

4. Di fronte al Sinedrio si pone Pilato. In Filone Alessandrino e in Flavio Giuseppe, Pilato è rappresentato come un uomo crudele e corrotto. Ciò che rende difficilmente attendibile il racconto evangelico centrato sulle perplessità e gli scrupoli di Pilato durante il processo a Gesù. Del resto si può pensare che la «rivalutazione» del procuratore sia voluta dagli evangelisti per accentuare le ombre che circondano le autorità religiose ebraiche. Facendo così ricadere su di loro e sul popolo d'Israele tutto l'accusa terribile di deicidio. In ogni caso noi dobbiamo prendere Pilato per quello che ci è descritto dai Vangeli e secondo l'immagine che è diventata paradigmatica.
Davanti a Pilato si svolge la seconda parte del processo di Gesù. La prima, di fronte al Sinedrio, aveva avuto uno svolgimento legato al significato teologico della figura di Gesù; questa seconda parte riguarda l'aspetto politico della vicenda. Mentre presso il Sinedrio l'accusa era di aver sedotto il popolo, di fronte a Pilato l'accusa è di sedizione, crimen lesae majestatis. Gesù come fautore di disordini, come istigatore a non pagare il tributo a Cesare. Soprattutto nel Vangelo di Giovanni risulta chiara l'incredulità di Pilato di fronte all'accusa. Un pover'uomo in ceppi, ridotto in uno stato pietoso, non poteva immaginarsi come un pretendente al trono. Si sarebbe potuto dire che la non colpevolezza di Gesù si mostrava dall'impossibilità di commettere il crimine di cui era accusato.
Ma invece di liberarlo, usando dell'autorità di cui disponeva, Pilato segue una via diversa. Dapprima egli cerca di sbarazzarsi del problema, invitando gli accusatori di Gesù a occuparsene loro. Con questo dando implicitamente via libera a coloro che, sul versante dell'autorità religiosa giudaica, agivano per la morte del Cristo. Tale indicazione tuttavia non ha seguito, perché gli uomini del Sinedrio non vogliono essi stessi farsi carico dell'esecuzione della sentenza di condanna di Gesù. Si può spiegare questo timore in vario modo, e si può ritenere che l'autorità ebraica volesse coinvolgere Pilato per non assumersi direttamente la responsabilità della morte del Cristo di fronte alle masse dei giudei. Ecco che Pilato tenta allora una mediazione. Così spera di accontentare il Sinedrio facendo flagellare Gesù. E lo presenta poi alla folla, credendo che essa fosse così soddisfatta. Non aveva capito che all'autorità ebraica non interessava la punizione di Gesù ma la sua morte. La mediazione dunque non poteva riuscire.
Pilato tenta allora un'altra strada, lo scambio con Barabba. Egli spera che la folla salvi Gesù a scapito di Barabba, con il che metterebbe il Sinedrio con le spalle al muro, di fronte alla forza scatenata della folla; o, nel caso invece in cui la folla si pronunci in favore di Barabba, si metterebbe egli stesso con le spalle al muro, e in tal modo taciterebbe la propria coscienza di fronte alla forza della realtà alla quale ci si deve piegare. E quando il Sinedrio lo minaccia, sostenendo che se avesse salvato Gesù si sarebbe per ciò stesso ribellato al suo Cesare, Pilato rompe gli indugi. Perché piegandosi alla volontà manifestata dalla folla davanti al Sinedrio Pilato considera di garantirsi il potere.
Noi possiamo pensare che la decisione finale di Pilato corrispondesse al suo dovere di funzionario. E’ difficile pensare che il dovere principale del rappresentante della potenza occupante fosse la giustizia. Il suo compito fondamentale era il mantenimento dell'ordine. E la sua scelta è conforme a questa esigenza. Ma la figura di Pilato come colui che si piega alla forza delle cose è caratterizzata ulteriormente dal dialogo con Gesù sulla Verità e dalla scena della lavanda delle mani di fronte alla folla. Il primo, narrato da Giovanni, ci mostra Pilato come uno scettico (lo «scettico relativista» di cui parla anche Hans Kelsen), un uomo per il quale la parola «verità» non ha alcun significato. Di fronte alla proclamazione di Gesù che si dice venire dalla Verità, Pilato replica con la domanda retorica «che cosa è la verità», e senza attendere risposta lascia Gesù e si rivolge alla folla.
Egli resta così in una zona d'indifferenza teoretica (rispetto alla Verità) e pratica (rispetto alla verità). Questa indifferenza, ch'egli avrebbe voluto fosse la neutralità dell'uomo superiore, lo rende esposto senza difesa all'intensità del dramma. Avendo mancato di ascoltare la verità (maiuscola o minuscola che sia) e di decidersi a suo favore, egli come tutti quelli che lo imitano finisce inevitabilmente per subire la pressione degli eventi, per piegarsi alla forza della realtà. Questa filosofia della vita è che, di fronte alla realtà, non c'è da fare nient'altro che «lasciarsi portare». Questa è forse la comprensione profonda di Pilato secondo Giovanni: la tragedia di una storia d'indecisione.
Lasciarsi portare: Pilato non era semplicemente un succubo, un rassegnato. Era anche un approfittatore. Come nella decisione popolare il Sinedrio aveva un interesse (il dogma da difendere), così anche Pilato aveva il suo: il potere da salvaguardare. Egli ci appare allora non solo come il realista che si rassegna di fronte alla necessità, ma anche come l'opportunista che cerca di trarne il proprio vantaggio. Con un'aggravante: il rifiuto di ogni responsabilità. La scena della lavanda delle mani davanti alla folla aggiunge un dettaglio psicologico pertinente. Molti e in ogni circostanza sono coloro che si possono riconoscere in questo atteggiamento che si piega al flusso degli avvenimenti, rinunciando a determinarli e convincendosi che non c'è altro da fare, e cerca piuttosto, conformandosi, di trarne i possibili vantaggi, facendo ricadere su altri la responsabilità degli accadimenti.
Dal punto di vista non della rassegnazione ma dell'opportunismo, Pilato è un simbolo dell'adattamento interessato, un simbolo altamente rappresentativo di una fauna politica molto diffusa, sempre capace del più spregiudicato camaleontismo per restare sulla cresta dell'onda.

5. La questione che a questo punto ci interessa in un discorso sulla democrazia è come due autorità quella del Sinedrio e quella di Pilato, l'una ancorata al dogma, l'altra all'opportunismo abbiano potuto rivolgersi al popolo e riconoscerne la decisione. Una convergenza nella folla e partire da posizioni radicalmente opposte.
Per analizzare questo paradosso, conviene dunque spostare l'attenzione sui caratteri della folla decidente. Il primo aspetto che spiega questa sorta di coincidentia oppositorum consiste nel fatto che alla folla non è stata riconosciuta un'autorità; essa è stata usata da una parte e dall'altra e ne è stata sfruttata piuttosto la forza. Per entrambe le parti, Sinedrio e Pilato, si trattava di scatenare il popolo per vincere gli ostacoli. Il Sinedrio intendeva superare i dubbi di Pilato. Il quale invece cercava di salvare Gesù a danno di Barabba, mettendo il Sinedrio di fronte all'evidenza della scelta imposta dalla folla. Fallito questo tentativo, lo scopo di Pilato era semplicemente quello di capire che cosa volesse il popolo per potersi poi conformare alla sua decisione. Il fine ultimo restando quello di mantenere l'ordine e conservarsi al potere. Insomma, Pilato ha tentato una sorta di sondaggio, per adeguarsi e rimanere in sella.
Quella folla era chiamata soltanto a pronunciarsi su quel che le veniva richiesto. Essa non avrebbe potuto uscire dal dilemma propostole. Non avrebbe potuto decidere, per esempio, per la vita o per la morte e di Gesù e di Barabba. Né avrebbe potuto pretendere di farsi valere in altre questioni. In termini diversi, non era una forza agente, ma semplicemente reagente. Era un corpo normalmente morto (come la rana di Galvani, che si anima di vita solo apparente quando viene scossa da una forza esterna). Essa non era padrona, per usare una formula di oggi, della propria agenda. Se avesse preteso di diventarlo, l'autorità del Sinedrio e di Pilato sarebbe stata distrutta. Se il popolo capace di agire è il popolo della democrazia e quello che subisce è il popolo delle autocrazie, quello chiamato soltanto a reagire è il popolo di quale forma di governo? Forse, conformemente all'etimo, il popolo della demagogia.
In più conviene notare che il processo di Gesù si svolge di fronte a una folla che costituisce una parte e, per quanto potesse essere numerosa, una parte infima del popolo tutto intero. Se la sua voce si intende come quella dell'insieme, è solo perché a essa si attribuisce il valore di un «campione rappresentativo». In effetti, è nella logica del popolo reagente, nell'impossibilità di suscitarlo nel suo insieme, che ci si rimetta a una parte per il tutto, attraverso tecniche che oggi denomineremmo demoscopiche. Ma quella parte è determinata in che modo? E riunita da chi? Sulla base di quali informazioni? Tutte questioni che mettono in luce la posizione di oggetto, non di soggetto del popolo, o della parte dì popolo cui viene data la parola. C'è un secondo aspetto della convergenza Pilato Sinedrio: l'appello al popolo viene concepito come istanza decisiva. Vox populi, vox Dei: era come se ad essa si fosse riconosciuta l'infallibilità. Questa folla era dunque adulata. Ogni volta che al popolo viene attribuita la facoltà della decisione in ultima istanza, si può essere sicuri che esso viene usato. Infatti, se al popolo si dicesse: «Puoi decidere, ma la tua scelta può non essere la migliore», allora e solo allora il popolo si vedrebbe riconosciuta la sua autonomia di decisione.
In terzo luogo, quella folla era sobillata dal Sinedrio. Era dunque una folla guidata, sotto tutela. Quella era poi una folla ondivaga, passata nel giro di pochi giorni dagli osanna ai crucifige. Era così perché incapace di un orientamento proprio, e dunque era esposta alle influenze esterne. Di fronte al miracolo, vuole proclamare Gesù re; quando Gesù rifiuta di compiere miracoli ed è ridotto a una larva umana, si ritorce contro di lui e lo vuole crocifiggere.
Quarto punto: la folla che decide opera senza procedure, senza dibattito, oggi diremmo: in tempo reale. E infine, la folla si pronuncia senza dissenso, come corpo unitario, come massa omogenea che ha «un'anima sola» (secondo la formula di Le Bon). In mancanza di regole e di tempo che potessero consentire un distacco dello spirito e una trattazione adeguata dei «pro» e dei «contro» presenti nel caso da decidere, prevalse l'umore emozionale sulla valutazione razionale.
Ci si può chiedere se la sorte di Gesù sarebbe stata diversa nel caso fosse stato possibile esprimere un dissenso. Dissidenti potenziali esistevano: Nicodemo, Giuseppe di Arimatea, e gli stessi discepoli di Gesù. Ma tutti furono indotti al silenzio dalla paura della folla.
La conclusione è dunque che la folla è stata usata perché aveva queste caratteristiche. Non un popolo decidente, ma una massa messa in movimento. Credeva di decidere, ma in realtà decideva quello che altri avevano disposto per lei. Se le è stata data la parola è solo per sostenere la verità del Sinedrio o gli interessi di Pilato: uno scontro fra due autorità autocratiche nel quale il ricorso alla folla è solo un'arma nelle mani di tali autorità. Se vogliamo parlare di «democrazia» dobbiamo sottolineare che questa ne è la forma corrotta. 0 meglio, una forma solo apparente, cui possono aderire tanto coloro che sono vincolati al dogma quanto coloro che si ispirano al potere.
Entrambi praticano concezioni puramente strumentali della democrazia. Entrambi sono falsi amici della democrazia perché intendono solo farsi sgabello della folla.

6. A queste due concezioni si deve opporre la visione critica della democrazia. Essa è quella di coloro che non si ispirano né alla verità né allo scetticismo. La loro etica è semmai quella della possibilità. In ogni situazione esistono possibilità positive e altre negative. Chi si ispira a una versione critica della democrazia abbandona tanto la sicurezza di chi crede di disporre della verità quanto l'indifferenza di chi crede che una cosa valga l'altra. La democrazia critica non guarda avanti ma si guarda attorno, è sempre pronta a tornare sulle proprie decisioni, per migliorarle. Per questo non accetterebbe mai la massima vox populi, vox Dei. E rifiuta le decisioni irreversibili, perché non ammettono di essere migliorate.
In ogni decisione c'è infatti sempre necessariamente anche un difetto, qualcosa che manca e che può essere vantaggiosamente corretto per andare più in là e, per questo, l'infallibilità che impedisce i ripensamenti e quindi, alla fine, esautora chi si lascia adulare credendosi infallibile come non appartiene alla politica, non riguarda nemmeno la democrazia. Si può dunque anzi si deve, per non cadere nell'adulazione criticare la democrazia, in nome della democrazia stessa. Non brandendo la verità, perché ciò sarebbe una contraddizione, un atteggiamento da falso amico; ma prospettando possibilità preferibili.
L’esigenza della correggibilità rende manifesto il fatto che, nella democrazia critica e solo in essa, vi sono decisioni da evitare: quelle irrimediabili, rispetto alle quali, per l'appunto, è impossibile il ripensamento. Il processo di Gesù ci parla di una risoluzione sulla morte di un uomo. Questo è un caso incompatibile con l'ethos della possibilità e non è senza significato che le forme di governo che si ispirano a qualcosa di simile a ciò di cui si sta trattando, come le democrazie liberali, sono per lo più orientate contro la pena di morte. Ma, a questo esempio, altri si possono aggiungere: le decisioni che comportano eventi senza ritorno, come la guerra, la distruzione di risorse della natura non rinnovabili eccetera. In certe circostanze della vita collettiva, ci si può trovare a dover prendere decisioni su queste materie e di questo tipo; ma il buon governo e la prudenza richiedono che si agisca a oltranza affinché a tali circostanze non si arrivi.
Affinché la democrazia critica si renda possibile occorre in concreto che il popolo decidente assuma caratteristiche opposte a quelle della folla protagonista del processo a Gesù.
Primo: il popolo non sia usato. Il che significa combattere tutti i poteri separati, palesi o occulti, che possono rivolgersi alla folla come massa di manovra.
Secondo: occorre che la volontà popolare non sia assunta come definitiva, ma sia sempre sottoponibile a verifica, a controllo.
Terzo: la folla non deve essere sotto tutela, sobillabile, manipolabile, e quindi ondivaga e instabile. A questo fine occorre che sia capace di autoorganizzazione intorno a progetti politici.
Quarto: non deve trattarsi di una folla reagente ma agente, capace di iniziativa propria.
Quinto: bisogna garantire il diritto al dissenso, e quindi combattere ogni forma di omologazione.
Infine, la decisione popolare non può essere l'urlo immediato, senza dibattito. Essa deve seguire le sue procedure, in cui sia garantito il diritto di tutti di esprimersi, in un confronto di posizioni destinato a non terminare mai.
In questo senso, la visione critica della democrazia potrebbe essere interpretata, non tanto paradossalmente, dal silenzio di Gesù, inteso come l'atteggiamento di colui che è sempre disposto a riprendere il dialogo non appena gli altri gliene diano la possibilità.
La democrazia critica non è però la concezione più congeniale agli uomini della politica, o almeno a coloro che fanno della politica il loro mestiere. L'arena della politica di professione è quella del potere e delle ideologie. Oggi più del potere che delle ideologie. Quell'arena è occupata da coloro che della democrazia hanno una visione dogmatica o scettica. Chi siano costoro nell'Italia di oggi è da lasciare alle conclusioni di ciascuno di noi. Ma quello che si deve notare qui è che chi si impegna oggi in politica lo fa per uno di quei due fini. La democrazia è per costoro solo un mezzo.

7. Perché i cittadini non restino folla, dunque servono istituzioni. Le istituzioni classiche del popolo capace di azione politica sono i partiti. Essi conoscono oggi un tempo di crisi e non è detto che esistano le possibilità di superarlo. Ma che siano i partiti nelle loro forme conosciute, o possano essere altre forme d'integrazione sociale a fini politici come potrebbero essere nuove istituzioni di comunicazione attiva e circolare tra cittadini (non direttamente tra i singoli e i detentori del potere), rese possibili dalle tecniche informatiche la democrazia critica, unica forma di democrazia non ridotta a strumento in mani aliene, di essi non può fare a meno.
L’istituzionalizzazione sociale della politica, come sempre quando si tratti di istituzioni, toglie necessariamente qualcosa alla spontaneità soggettiva e la costringe in una cornice obiettiva di lunga durata e di ampia portata. Comporta dunque sacrifici per i singoli. Ma queste rinunce sono la condizione affinché le energie individuali si indirizzino in una prospettiva costruttiva, non si insteriliscano in gesti dimostrativi, occasionali e irrazionali e, soprattutto, non cadano preda di coloro che le volessero utilizzare strumentalmente ai loro fini. L’attuale generalizzato sentimento contrario alla politica organizzata, l'appello ad una presunta naturale sapienza della gente comune che non supera la soglia dei giudizi e dei pregiudizi individuali, la tendenza a dare voce immediata in politica a umori prepolitici, superando d'un balzo ogni istanza organizzata intermedia, sentita come impaccio, diaframma e tradimento, sono tutti segni attuali dell'adulazione del popolo.
Abbasso le istituzioni, viva il popolo! Questo potrebbe essere il motto dei demagoghi del nostro tempo: un motto che è un'arma potente perché assume il linguaggio della democrazia e si rivolge, per travolgerlo, contro tutto ciò che parlamento, istanze e procedure di discussione, controllo e garanzia fa perder tempo e sembra disperdere e vanificare la forza che proviene dal popolo. Quando il popolo si è espresso si dice nessun intralcio è lecito. Tutte le altre autorità, comprese quelle deputate alla garanzia della legalità dell'azione di governo non hanno altra scelta che piegarsi o andarsene. Viene così messa in questione la complessa articolazione costituzionale, basata su istanze indipendenti di garanzia, bilanciamento e compensazione. Tali istanze, o rinunciano alla loro indipendenza, assecondando il movimento impresso dalla decisione. popolare e negando così se medesime, oppure perdono quello che è il loro diritto costituzionale alla durata, affinché siano sempre sintonizzate alla volontà popolare. Scioglimento anticipato degli organi rappresentativi e dimissioni imposte in corso d'opera sono gli strumenti di questa perdita.
La democrazia critica non può accettare nulla di questo iperdemocraticismo. Essa non ambisce di operare «in tempo reale» rispetto ai problemi da risolvere e rispetto agli umori popolari cangianti. Richiede invece di poter prendersi il suo tempo: tempo per decidere e tempo per durare, perché sa che dove non c'è tempo, li c'è emotività, instabilità, suggestionabilità e quindi strumentalizzabilità. In più, sa che inevitabilmente c'è omologazione. Solo il tempo che si diffonde ed espande attraverso procedure nelle quali siano garantite tutte le voci, di consenso e di dissenso, della maggioranza come delle minoranze, può garantire che il popolo non si richiuda su se stesso, soffocando per paura chi non si riconosce nel coro. Il popolo senza tempo dà luogo, con l'andar del tempo. a una democrazia della massa indistinta e perciò totalitaria che, condannando coloro che non le sono conformi, si priva della critica e della facoltà autocritica, cioè della possibilità di emendarsi dai suoi propri errori.
Chi allora saprà far crescere una democrazia critica? La risposta è che forse tocca a coloro che non vivono di politica e sono interessati alla democrazia. Ad essi spetta il compito di tenere le mani su di essa. Perché occorre essere consapevoli che solo nella democrazia critica può valere ciò che Aristotele, rispetto alla sua politeia, rimproverava ad Alessandro il Macedone di non considerare. E cioè doversi garantire che la democrazia è quella forma di governo in cui tutti sono trattati come uomini, e non alcuni come uomini e altri come animali e piante, come oggetti da usare a piacimento. Il che vuol dire che la democrazia critica è quella forma di governo in cui gli uomini sono fini e non mezzi.
La difesa della democrazia come fine spetta perciò alla società civile, e non deve stupire che le libere forze intellettuali che essa produce siano per natura portate alla diffidenza nei confronti dei governanti. Di tutti i governanti di turno, perché in tutti esiste sempre la stessa vocazione latente all'opportunismo. E questo non è sabotaggio nei confronti del governo, ma è il compito di ogni cittadino. Infine, la democrazia critica ci obbliga a rivedere continuamente le nostre scelte, a impedire che le decisioni sbagliate come quella evocata in queste pagine diventino irrevocabili. E ci aiuta a non credere di vivere in una repubblica di angeli che contemplano la verità, a non cadere ancora una volta nella trappola del serpente tentatore, che prometteva la conoscenza, una volta per tutte, del bene e del male. D'altra parte, però, ci impedisce di cadere nel nichilismo della repubblica dei demoni, di coloro che non credono in nulla. Non è forse tutto ciò che desidereremmo, ma è già qualcosa. Ed è probabilmente il massimo che nella sfera politica possiamo desiderare.

8. Consideriamo ancora per un momento il processo di Gesù: quella folla era esattamente così come si è detto ora. Essa condannava Gesù per bestemmia, non volendo essere indotta ad aprire gli occhi su se stessa. Gesù, a sua volta, tentava l'operazione opposta con l'eloquenza del suo silenzio tenuto fino alla fine, cioè fino alla croce.
Potremmo chiederci allora chi, in quella scena, occupasse la parte del vero amico della democrazia. Hans Kelsen rispondeva: Pilato. Questa ricostruzione dice piuttosto: Gesù. Egli era interamente preso dalla sua Verità. Ma non per questo ha cercato d'imporla. Il suo tentativo silenzioso e «fino alla fine» di allacciare un dialogo dimostra la compatibilità tra la fede e la democrazia, a condizione che ciò che appare costringente e categorico nel proprio foro interno diventi una proposta nella dimensione collettiva, nella quale in democrazia non c'è posto per Verità assolute ma per opinioni che si confrontano.
La morte di Gesù suona per noi certamente come una condanna della democrazia, ma di quella «democrazia» che prevalse allora, dogmatica e scettica, la «democrazia» del Sinedrio e di Pilato. Della democrazia critica tentata, se si vuole pensare così, da Gesù silente fu non la condanna ma una sconfitta: una sconfitta (di nuovo contro Kelsen) che ancora oggi ha molto da dire per evitare che possa ripetersi.

Gustavo Zagrebelsky [da MicroMega, 1/95] - http://www.pbmstoria.it/fonti1600


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