La
Scienza, nel suo inesausto tentativo di spazzar via dalla nostra vita
tutto ciò che è umano, sta preparando altri piatti tanto appetitosi
quanto avvelenati. Al lettore non sarà certamente sfuggito (sul Fatto
ne ha parlato Caterina Soffici) il caso della ragazzina londinese di
quattordici anni che si è fatta ibernare nella speranza di poter un
giorno risuscitare attraverso la tecnica chiamata della criogenesi.
Ma non è la sola, negli Stati Uniti ci sono già 200 persone
criogenicamente ibernate e duemila in attesa di poter accedere a questa
pratica.
Si
è parlato di costi, di profitti, di truffe nell’alimentare speranze
illusorie. Ma il tema è assai più profondo. La nostra è la prima società
che rifiuta la morte, la morte biologica, s’intende, che è inevitabile,
da quella violenta si può sempre sperare di scapolarsela. La verità è
che nella nostra società la morte è stata scomunicata, interdetta,
proibita, dichiarata pornografica. La morte è diventata il Grande Tabù,
“il Vizio che non osa dire il suo nome” (altro che la pederastia di
vittoriana memoria) tanto che non si osa chiamarla col suo nome nemmeno
là dove parrebbe inevitabile. Basta leggere i necrologi: “la scomparsa”,
“la perdita”, “la dipartita”, “si è spento”, “ci ha lasciati”, “è
mancato all’affetto dei suoi cari”, “i parenti piangono”, “è terminata
la giornata terrena” c’è di tutto tranne la parola morte
ad indicare ciò che è realmente avvenuto (quando morì mio padre il
necrologio fu affidato, non so perché dato che ero il più giovane della
famiglia, a me e io ribellandomi a queste ipocrisie scrissi: “è morto
Tal dei Tali”).
Tutti
questi interdetti e scomuniche significano una cosa sola: una paura
della morte sconosciuta, in ugual misura, nelle società che ci hanno
preceduto. E come diceva il vecchio e saggio Epicuro “muore mille volte
chi ha paura della morte”.
Nella
società agricola, premoderna, l’uomo viveva in intimo contatto con la
Natura e, attraverso il ciclo seme-pianta-seme, era consapevole che la
morte non è solo la conclusione inevitabile della vita, ma ne è la precondizione.
Sapeva che non c’è la vita senza la morte. Sentiva di far parte di un
tutto, di un destino più ampio, della sua famiglia, della comunità,
della specie, della natura stessa, in cui la sua vita e la sua morte si
scioglievano nell’eterno gioco del passaggio di testimone fra
generazioni, fra i vecchi e i giovani. E quindi, anche se a nessuno è
mai piaciuto morire, accettava, insieme alla vecchiaia (altro tabù
contemporaneo), questo nucleo tragico dell’esistenza come lo chiamavano i filosofi quando esistevano ancora.
Ma
questi motivi che consentivano all’uomo di ieri di accettare la morte
con una certa serenità, sono, capovolti, gli stessi che lo impediscono a
noi. Noi viviamo lontani dalla Natura, a contatto con oggetti che non
si riproducono ma semmai si sostituiscono, e alla cui sorte ci sentiamo
sinistramente omologhi, abbiamo perso il senso di un destino collettivo e
quindi sentiamo la nostra morte come un evento radicale, definitivo,
assoluto, esclusivamente individuale e quindi totalmente inaccettabile.
Ma
poniamo che i nuovi Frankenstein realizzino il loro obbiettivo. Ciò
avverrebbe gradualmente. All’inizio ci sarebbero alcune centinaia di
individui ‘resuscitati’, poniamo, dopo qualche decennio. Come ha notato
anche il padre della sfortunata ragazza si troverebbero in un totale
spaesamento, a fianco di figli lasciati bambini e ora ottantenni. Ma
andiamo ancora avanti in questo delirio seguendo il mito
dell’immortalità (almeno le religioni, un po’ più sapienti, l’avevano
pensata metafisica, noi la pretendiamo fisica) e che gli scienziati
completino la loro opera per tutti. Alla fine, se non altro per mancanza
di spazio, non ci sarebbe più alcun rinnovo. Ci troveremmo di fronte ad
una umanità pietrificata. E quindi, paradossalmente, l’immortalità
porterebbe alla morte.
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