"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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mercoledì 13 giugno 2012

Editoriale di Eugenio Scalfari del 10 giugno 2012 e risposta del Primo Ministro Mario Monti

Il cantiere per la costruzione dell’Europa e per la messa in sicurezza dell’euro è stato finalmente aperto e registra alcune novità di notevole importanza. Per comprendere che cosa stia accadendo occorre anzitutto distinguere due diversi livelli operativi: quello dell’emergenza, con obiettivi di breve e brevissimo termine, e quello a più lungo raggio della nascita di un’Unione europea molto più integrata e con maggiore sovranità politica.

I protagonisti che operano su entrambi i campi di gioco sono la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese Hollande, il presidente del Consiglio italiano Mario Monti, il presidente della Bce, Mario Draghi, e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Cinque leader di diverso peso divisi in due schiere: la Merkel da un lato, gli altri quattro dall’altro. Ma le novità verificatesi negli ultimissimi giorni è la cancelliera tedesca ad averle messe in campo: la Germania esce dall’angolo in cui era stata chiusa dai fautori d’una politica europea di sviluppo e propone l’obiettivo di costruire lo Stato federale europeo attraverso la necessaria cessione di sovranità da parte degli Stati nazionali per quanto riguarda i bilanci, il fisco, il ruolo della Banca centrale.

Viceversa la Merkel concede pochissimo spazio ai provvedimenti dettati dall’emergenza: nessuna federalizzazione dei debiti sovrani, nessun mutamento nel ruolo della Banca centrale, limitatissime concessioni sui bond a progetto e sul finanziamento degli investimenti transfrontalieri.

Nessun allentamento del rigore, approvazione immediata del “fiscal compact” e della riduzione dei debiti sovrani eccedenti il 60 per cento del rapporto con il Pil.

Su un solo punto importante tra quelli imposti dall’emergenza anche Berlino sembra d’accordo: il Fondo europeo di stabilità è pronto a finanziare le banche spagnole purché il governo di quel Paese dia garanzie di adottare in tempi rapidi i provvedimenti di riforma già concordati con le autorità europee ma non ancora resi esecutivi. La risposta positiva di Madrid renderà possibile l’intervento che finanzierebbe le banche spagnole fino a cento miliardi di euro. A fronte di quest’operazione la “proprietà” di quelle banche passerà temporaneamente al Fondo europeo separando il debito sovrano spagnolo dal debito del suo sistema bancario e interrompendo così il perverso circuito che rappresenta una minaccia diretta contro l’intera architettura finanziaria dell’eurozona.

La strategia della Merkel può essere letta da due diversi punti di vista: la manifestazione di una decisa volontà della Germania di mettersi finalmente alla guida della costruzione d’un vero Stato federale europeo con tutte le implicazioni che riguardano il rafforzamento delle istituzioni dell’Unione, dal Parlamento ai poteri della Commissione e a quelli del presidente del Consiglio europeo dei ministri. Oppure lo si può guardare come un bluff utilizzato per coprire l’ennesimo “niet” sui provvedimenti di emergenza e di rilancio dello sviluppo. La costruzione dello Stato federale europeo richiederà almeno cinque anni; la Merkel avrebbe perciò lanciato la palla in tribuna solo per guadagnar tempo fino alle elezioni politiche che avverranno nel suo Paese nell’autunno del 2013. Poi si vedrà.

Gli altri quattro protagonisti del quintetto europeo hanno a questo punto una sola strada da battere: prendere la Merkel in parola per quanto riguarda l’obiettivo di lungo termine e ottenere il massimo possibile per fronteggiare l’emergenza e salvare l’euro e le banche europee. Draghi ha guadagnato all’Europa sette mesi di tempo iniettando fino al 15 ottobre del 2013 (con scadenza finale nel gennaio 2014) liquidità illimitata nel sistema bancario dell’eurozona. Ha evitato in questo modo che i depositanti facciano ressa agli sportelli delle banche per trasferire i loro capitali verso i titoli pubblici tedeschi. Sette mesi e una capsula d’ossigeno dentro la quale custodire i depositi bancari facendo migliorare lo “spread” e l’andamento delle Borse. Sempre che le elezioni greche del 17 prossimo non portino all’uscita di quel Paese dall’euro con le devastanti conseguenze che ne seguirebbero. Non credo che ciò avverrà sicché continuo a restare ottimista per quanto riguarda la tenuta dell’euro e - spero - la costruzione dell’Europa federale. Talvolta dal male nasce il bene e dopo la tempesta arriva la quiete.

Vale la pena di ricordare che nel quintetto europeo ci sono due italiani: Mario Draghi, che opera a tutto campo e con strumenti che gli consentono interventi immediati e concreti, e Mario Monti (con Giorgio Napolitano alle spalle) che rappresenta nel concerto europeo uno dei Paesi fondatori dell’Unione, dell’euro e della Comunità che ebbe inizio nel 1957 e da cui tutto cominciò.

Monti è alla guida d’un governo sorretto dalla “strana maggioranza” di tre partiti. Uno di essi, quello fondato a suo tempo da Berlusconi, è in una fase di implosione confusionale e in calo verticale dei consensi. Gli altri due - Udc e Pd - sono il vero appoggio su cui si regge questo governo. Il Pd in particolare, che è tuttora stimato attorno al 25-30 per cento dei consensi degli elettori decisi a votare, che a loro volta però rappresentano soltanto uno scarso 50 per cento del corpo elettorale.

In questa situazione una parte del Pd, alla vigilia dei vertici europei dei quali abbiamo già sottolineato l’importanza, ha dichiarato la sua propensione ad accorciare la vita del governo andando al voto nell’autunno prossimo anziché nel maggio del 2013. Il segretario Bersani ha ribadito che l’appoggio dei democratici al governo durerà, come stabilito, fino alla scadenza naturale della legislatura, ma i fautori delle elezioni anticipate hanno proseguito la loro azione in raccordo con Vendola e Di Pietro. Questa situazione non è sostenibile soprattutto perché i “guastatori” fanno parte della segreteria del partito. La logica vorrebbe che, acclarato il loro contrasto con il segretario, si fossero dimessi dalla segreteria. In mancanza di questa doverosa decisione, spetterebbe al segretario stesso di sollecitare quelle dimissioni o alla direzione costringerli a darle ma il tema non è stato neppure accennato nella riunione dell’altro ieri della direzione, come si trattasse d’una questione di secondaria importanza.

È presumibile perciò che continueranno a svolgere il loro ruolo di guastatori con la conseguenza di indebolire il governo in carica.

La stessa coltre di silenzio è caduta sul caso Penati di cui è imminente il rinvio a giudizio. Questa era l’ultima occasione utile per separare le responsabilità del partito dal gruppo dirigente del Pd in Lombardia. Non si invochi la presunzione d’innocenza fino a sentenza definitiva: è una giusta garanzia che non si applica però al giudizio politico che un partito ha l’obbligo di emettere: o fa corpo con l’imputato fino in fondo o lo espelle fin dall’inizio dai propri ranghi.

Ma c’era un terzo tema di cui il Pd avrebbe dovuto discutere e che ha anch’esso sepolto invece sotto un silenzio tombale ed era quello dell’elezione dei membri dell’Agcom e della Privacy, due importanti Autorità pubbliche che hanno il compito di esercitare il controllo sui rispettivi e importantissimi settori di competenza.

Si sperava che i partiti avrebbero scelto - secondo quanto prescrive la legge istitutiva di quelle agenzie - persone di provata indipendenza e di specifica competenza nei settori sottoposti alla vigilanza. Ma non è stato così. C’è stato tra i tre partiti in questione un ignobile pateracchio di stampo tipicamente partitocratico. Veltroni ha sollevato la questione in direzione e Bersani si è doluto di quanto era accaduto impegnandosi a riscrivere la legge. Ma in realtà la legge sulla nomina di quelle agenzie è chiarissima ed è stata violata dalle scelte dei partiti.

Le nomine hanno la durata di sette anni e quindi se ne riparlerà soltanto nel 2019.

Sulle altre questioni, programma, legge elettorale, rinnovamento del gruppo dirigente, eventuali liste civiche collegate al partito e infine elezioni primarie per l’elezione del capo del partito, Bersani è stato chiaro e determinato riscuotendo a buon diritto l’unanimità dei consensi.

Il governo Monti, come ripetiamo ormai da tempo, ha fatto molto per evitare che l’Italia fosse travolta dalla crisi mondiale in corso ormai da cinque anni, alla quale il governo del suo predecessore non aveva opposto alcun rimedio negandone anzitutto l’esistenza e praticando poi una politica economica di totale immobilismo.

Negli ultimi tempi tuttavia è sembrato che Monti abbia perso smalto, in parte per l’ovvia impopolarità dei sacrifici che ha dovuto imporre e in parte per alcuni errori compiuti, anche ed anzi soprattutto sul piano della comunicazione.

A questo riguardo gli rivolgiamo qui due domande che ci riserviamo di ripetergli quando lo incontreremo al “meeting” di Repubblica sabato 16 a Bologna dove ha cortesemente accettato di intervenire.

1. Esiste in Italia una questione morale? La domanda non riguarda, o non soltanto, i casi di disonestà di singoli uomini politici. Purtroppo ce ne sono stati e ce ne sono molti in tutti i partiti. La domanda riguarda soprattutto le istituzioni dello Stato e degli enti pubblici che sono state da gran tempo occupate dai partiti e che debbono essere liberate da quell’occupazione e restituite alla loro autonomia istituzionale. Il caso delle autorità è tipico di quest’occupazione, la Rai è un altro esempio desolante (alla quale Monti ha posto parziale rimedio proprio ieri). E così le Asl e ogni sorta di enti della Pubblica amministrazione. È stupefacente che l’Unità di venerdì scorso pubblichi un articolo in cui si difende l’intervento politico dei partiti nelle nomine dei componenti dell’Agcom e della Privacy. Stupefacente che si teorizzi il criterio della supremazia partitocratica anche sugli enti “terzi” chiamati a garantire il controllo e l’efficienza della Pubblica amministrazione. Questo quadro non configura una questione morale da affrontare da un governo che giustamente vorrebbe cambiare i comportamenti degli italiani?

2. L’ex ministro dell’Economia Vincenzo Visco formulò qualche anno fa un progetto di grande interesse che prevedeva il conferimento ad un Fondo europeo di quella parte dei debiti sovrani eccedenti il rapporto del 60 per cento con il Pil di quel Paese. Il Fondo avrebbe applicato un interesse ottenuto dalla media ponderata degli interessi vigenti nei singoli Paesi i quali sarebbero comunque rimasti titolari dei propri debiti. Piacerebbe sapere dal nostro presidente del Consiglio se un progetto del genere rientri tra le proposte per la costruzione dell’Europa federale. Sembrerebbe infatti molto strana un’Unione federale senza una messa in comune anche se parziale del debito degli Stati membri della federazione.

Concludiamo richiamando quanto detto da Monti l’altro giorno a Palermo al convegno delle Casse di risparmio a proposito dei “poteri forti” che avrebbero abbandonato il suo governo schierandoglisi contro.
Non sappiamo quanto sia pertinente questa denuncia con la politica del governo, ma una cosa è certa: alcuni “poteri forti” sono insediati fin dall’inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica.

Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi, Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano. Forse il presidente Monti dovrebbe risolvere questo problema. Spesso la paralisi governativa viene perfino da quegli uffici.

Eugenio Scalfari (La Repubblica - 10 giugno 2012)

***

CARO direttore, la ringrazio per l’invito, che ho accolto volentieri, ad un’intervista pubblica con lei, Eugenio Scalfari e Claudio Tito per sabato prossimo a Bologna, nell’ambito della “Repubblica delle idee”.

Nel suo bell’editoriale di ieri (“Draghi, Bersani, varie ed eventuali”), Eugenio Scalfari ha voluto farmi conoscere in anticipo due delle domande che potrebbero venirmi rivolte in quell’occasione: se esista in Italia una “questione morale”; se un’Europa federale comporti la messa in comune di una parte del debito pubblico degli Stati membri. Implicitamente, ha anche accennato ad un terzo tema che immagino verrà evocato: i cosiddetti “poteri forti”. Sarò lieto di discutere con voi su questi ed altri argomenti. Mi preme tuttavia replicare fin d’ora in merito ad alcune esemplificazioni che Scalfari ha ritenuto di fare a proposito del terzo tema. Per comodità dei lettori, cito l’intero passaggio.

“… Alcuni ‘poteri fortì sono insediati fin dall’inizio nella struttura del governo stesso e quelli sì, remano sistematicamente contro la sua politica. Qualche nome per non esser generici: il capo di gabinetto di Palazzo Chigi [in realtà, del ministero dell'Economia e delle finanze], Vincenzo Fortunato; il sottosegretario alla Presidenza, Antonio Catricalà; il ragioniere generale del Tesoro, Mario Canzio, sono certamente abili conoscitori della
Pubblica amministrazione, ma hanno un difetto assai grave: sono creature di Gianni Letta (Catricalà) e di Giulio Tremonti (Fortunato, Canzio). Sono sicuramente poteri forti e sono sicuramente contrari alla linea del governo come ogni giorno i loro comportamenti dimostrano”.

Quando ho nominato sottosegretario Catricalà e confermato nelle loro posizioni Fortunato e Canzio, non ero certo all’oscuro dei loro rispettivi percorsi di carriera, né di chi avesse avuto un ruolo decisivo nel valorizzarli in passato. Ma si tratta di qualificati funzionari dello Stato e nel decidere di avvalermi della loro collaborazione li ho valutati alla luce di quelle che, dopo attento esame, mi sono parse le loro caratteristiche di competenza, integrità, autorevolezza nell’esercitare le funzioni ad essi attribuite, lealtà. Lealtà allo Stato e alle linee programmatiche del Governo, non ad una “mia” parte politica (che, come è noto, non esiste).

Certo, le due posizioni al ministero dell’Economia e delle finanze – oltre, beninteso, a quella di sottosegretario – rientrano nello “spoil system”. Avrei perciò potuto modificarne a mia discrezione i titolari, magari per il fatto che il Ministro che li aveva nominati non sempre aveva mostrato particolare rispetto per le mie tesi di politica economica (o per la mia persona) nel corso degli anni. Ma non credo che sia questo il modo corretto di intendere lo “spoil system”. Soprattutto se si è a capo di un governo sostenuto da una maggioranza che è composta da forze politiche antagoniste tra loro, con anime culturali e ambienti di riferimento spesso antitetici. Devo cercare, è stata la mia convinzione fin dall’inizio, di estrarre il meglio da ogni forza e di rendere compatibile ciò che “in natura” (cioè nei molti anni di acceso bipolarismo che ci hanno portato alla crisi del novembre 2011) ha mostrato di non esserlo.

In altre parole, non avrei potuto – ma neppure voluto – evitare di prendere in considerazione professionalità di valore solo perché erano “creature” di Gianni Letta o di Tremonti. O di Bersani, Casini o Alfano.
Nel caso di Catricalà, Fortunato e Canzio (il quale in più, come Ragioniere generale dello Stato, deve essere visto e rispettato dallo stesso ministro dell’Economia e perfino dal presidente del Consiglio, oltre che ovviamente da ciascun ministro, come imparziale garante della credibilità dei conti pubblici), non ho avuto finora alcun motivo per rammaricarmi delle scelte che ho fatto nel novembre scorso. Ho anzi apprezzato le loro qualità e il loro spirito di servizio.

Naturalmente, nel caso riscontrassi in loro, come in qualsiasi altro collaboratore, anche un solo caso di mancata correttezza o lealtà, non esiterei a privarmi della loro collaborazione. Nei primi mesi del mio mandato di Commissario europeo, nel 1995, un direttore generale si mise d’accordo con il governo del suo Paese, in una procedura di infrazione, senza riferirmene preventivamente, come avrebbe dovuto. Quell’alto funzionario, pur appartenente ad un grande Stato membro, venne rimosso dal servizio.

Mario Monti (La Repubblica - 11 giugno 2012)

***

Grazie, ma io resto preoccupato

Ringrazio il presidente Mario Monti per le gentili parole che mi ha indirizzato 1 e attendo con interesse le risposte che darà alle domande che gli rivolgeremo nel nostro incontro a Bologna nel corso del meeting su la Repubblica delle Idee 2 del 16 giugno prossimo.

Il presidente si intrattiene sull’ultima parte del mio articolo di ieri e sulle osservazioni che ho rivolto ad alcuni importanti componenti del suo staff: il sottosegretario alla presidenza Antonio Catricalà e il suo capo di gabinetto Vincenzo Fortunato, nonché il segretario generale del Tesoro, Mario Canzio. Per quest’ultimo il professor Monti ricorda che il ragioniere generale esercita con scrupolo il suo ruolo di controllore della pubblica spesa e della sua corretta copertura. Non metto in dubbio quel ruolo ma osservo che il tema della copertura contiene inevitabilmente una dose di discrezionalità che in alcuni casi deve essere sottoposta al ministro del Tesoro, il quale di quella copertura ha comunque la responsabilità politica oltre che tecnica. Se così non fosse il ministro del Tesoro verrebbe scavalcato proprio nella sua funzione più gelosamente esclusiva. Il professor Canzio segue – così mi sembra – la filosofia tremontiana dei tagli lineari che è stata ritenuta esiziale dallo stesso Monti, che è per l’appunto titolare
del Tesoro.

Per quanto riguarda le altre due personalità da me indicate comprendo bene le ragioni politiche fatte presenti dal presidente Monti; faccio però dal canto mio due osservazioni a proposito di Catricalà.

1) Mentre il governo era ancora in fase di formazione si parlò di due vicepresidenti del Consiglio “politici”, nelle persone di Gianni Letta e di Giuliano Amato. In corso d’opera quest’ipotesi fu abbandonata e la candidatura di Letta, spostata al sottosegretariato alla Presidenza, fu rifiutata dallo stesso interessato. Nel frattempo era stata avanzata la proposta di nominare Giuliano Amato ministro degli Esteri mentre al posto di Letta veniva indicato Catricalà. Il Partito democratico chiese allora che quella carica fosse divisa tra due persone aggiungendo che Giuliano Amato sarebbe certamente stato un ottimo ministro degli Esteri ma non rappresentava il Pd. Amato si ritirò, Catricalà rimase e la conseguenza fu che l’equilibrio politico risultò sbilanciato.

2) Il sottosegretario Catricalà propose un disegno di legge che tutti i costituzionalisti hanno giudicato ad altissimo rischio di incostituzionalità; esso modificava le proporzioni tra membri togati e membri laici a favore di questi ultimi negli organi disciplinari della magistratura. Inizialmente esso riguardava anche il Csm, cioè la giustizia ordinaria ma le proteste immediate del vicepresidente di quell’organo di autogoverno indussero il governo ad escludere quella norma dal disegno di legge preparato dal sottosegretario. Quest’ultimo però proseguì nella sua iniziativa per quanto riguardava la magistratura amministrativa e quella contabile (Consiglio di Stato e Corte dei conti). A questo punto l’intera vicenda venne alla luce, scoppiò un vero e proprio scandalo e Catricalà ammise (in una lettera a noi indirizzata e da noi pubblicata) d’aver fatto un errore e ritirò il disegno di legge che aveva già inoltrato alle magistrature interessate e che dal canto loro dissero che non avrebbero mai dato parere favorevole a quelle disposizioni che contrastano palesemente con l’ordinamento costituzionale.
Il minimo che il sottosegretario doveva fare sarebbe stato di dimettersi ma non lo fece.

Ho già detto che mi rendo ben conto che il nostro presidente del Consiglio deve tener conto della “strana maggioranza” che sostiene il suo governo ma il fatto che il suo segretario proceda così leggermente in una materia delicatissima è motivo di preoccupazione per tutti coloro che seguono con attenzione l’operato d’un governo prezioso in questo momento per tutta la collettività. Sul capo di gabinetto Fortunato non aggiungo nulla. Che sia un tremontiano di stretta osservanza lo sanno tutti ed anche questo, trattandosi della persona più vicina al presidente del Consiglio, ci lascia molto perplessi.

Eugenio Scalfari (La Repubblica - 11 giugno 2012)




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