Mica facile salvare capra e cavoli, anzi Zagre e Scalfari. Ieri Ezio Mauro ha provato, con abilità dialettica e qualche maligna allusione al Fatto, a mettere d’accordo gl’illustri litiganti di Repubblica: il fondatore Eugenio Scalfari e il presidente emerito della Consulta Gustavo Zagrebelsky. Ma, a nostro modesto avviso, ci è riuscito solo in parte. Perché ha dovuto sacrificare un bel po’ di quell’“obbligo alla verità” e al “giornalismo” a cui si è richiamato.
1. Duello a uno
“Il caso della trattativa Stato-mafia e del contrasto tra la Procura di Palermo e il Quirinale… La manovra contro il Quirinale…”. Non c’è mai stato alcun “contrasto” tra Procura e Quirinale, né tantomeno alcuna “manovra” contro il Colle. Anzi, tutto il contrario. La Procura ha chiesto e ottenuto dal Gip di intercettare Nicola Mancino, applicando la legge e scoprendo poi che Mancino parlava col consigliere giuridico di Napolitano, Loris D’Ambrosio, e con lo stesso Napolitano. E’ stato Napolitano ad attaccare la Procura di Palermo, accusandola di aver leso sue presunte prerogative costituzionali e trascinandola dinanzi alla Consulta.
2. Nessun attacco
“L’indagine è meritoria, come dicevo due mesi fa. Ma oggi – aggiungo – chi la ostacola? La Procura l’ha conclusa con le richieste di rinvio a giudizio, in piena libertà, com’è giusto, ora tocca al Gip decidere sugli indagati eccellenti. E allora? È un falso palese dire che si vuole bloccare il lavoro di Palermo, anzi è un inganno ai cittadini in buona fede”. Quindi i 130mila e più cittadini (compresi Zagrebelsky, Barbara Spinelli e altri editorialisti di Repubblica) che hanno firmato l’appello del Fatto a favore dei pm siciliani sono stati ingannati: la Procura di Palermo ha potuto indagare “in piena libertà” e quel che è accaduto dopo non ha alcun riflesso sul processo, che ormai è in mano al Gup (non al Gip) e che proseguirà serenamente senza intoppi. Le cose non stanno così. Contro l’indagine “meritoria”, Scalfari ha scritto parole di fuoco, accusando i pm che l’hanno condotta di ogni sorta di “abusi”, “illegalità”, “scarsa professionalità” e soprattutto di non aver combinato nulla in vent’anni di lotta alla mafia (“Ci sarebbero da esaminare i risultati delle inchieste che da vent’anni si svolgono a Palermo e Caltanissetta e che finora hanno dato assai magri risultati”). Inoltre, dalle telefonate fra Mancino e D’Ambrosio risulta che D’Ambrosio – che diceva di agire in nome e per conto, anzi su disposizione del “Presidente” Napolitano – si dava da fare per neutralizzare l’inchiesta di Palermo tramite il Pg della Cassazione e il procuratore antimafia Grasso. E solo il diniego di Grasso a quelle pressioni ha consentito che l’inchiesta si chiudesse “in piena libertà”. Non lo diciamo noi: l’hanno scritto su Repubblica Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo (“D’Ambrosio seguiva l’inchiesta sulla trattativa, sperava in un ‘coordinamento’ che di fatto sfilasse ogni potere d’indagine ai pm siciliani e ragionava sul da farsi con Mancino… Le telefonate intercettate stanno scoprendo un eccessivo attivismo al Quirinale sulla delicata inchiesta di Palermo e sfiorano più di una volta il nome di Napolitano”). Inoltre Mauro dimentica che, appena chiusa l’indagine, il Colle ha trascinato la Procura alla Consulta tramite l’Avvocatura dello Stato con accuse gravissime. E i pm Messineo e Di Matteo si son visti aprire dal Pg della Cassazione (lo stesso attivato da Napolitano e D’Ambrosio) un fascicolo disciplinare. Lo scorso anno Berlusconi trascinò alla Consulta il Tribunale di Milano che pretendeva di giudicarlo per il caso Ruby, anziché passare la palla al Tribunale dei ministri (anzi alla Camera, che avrebbe negato l’autorizzazione a procedere), in quanto Ruby era la nipote di Mubarak e il reato era ministeriale.
Bene, anzi male: anche allora l’inchiesta era già stata conclusa “in piena libertà” e spettava al Gip prendere le sue decisioni. Eppure Repubblica polemizzò giustamente col Cavaliere e col centrodestra, accusandoli di attaccare, isolare e delegittimare i magistrati milanesi. Evidentemente perché è difficile per un magistrato celebrare un processo “in piena libertà” sapendo di aver contro il governo e il Parlamento (caso Ruby), e a maggior ragione sapendo di avere contro il governo, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Pg della Cassazione, un pezzo del Csm, l’Avvocatura dello Stato e la grande stampa (caso trattativa). Infatti non il Fatto, ma Zagrebelsky, ha scritto che, senza volerlo, Napolitano col suo conflitto è divenuto il “perno di un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la ‘trattativa’ tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia”.
3. Improprio a chi?
“Il comportamento dei consiglieri di Napolitano secondo quelle telefonate è imprudente e improprio perché sembrano consigliare più il testimone Mancino che il Presidente”. Già, ma siccome i consiglieri (che poi sono uno soltanto: D’Ambrosio, poi scomparso) confidano a Mancino di agire su ordine del “Presidente”, che poi firma una lettera ufficiale ma segreta al Pg della Cassazione, ne dovrebbe derivare che “imprudente e improprio” non è il consigliere che obbedisce agli ordini, ma il Presidente che li dà.
4. La fuga che non c’è
“Il Presidente non ritiene che i testi delle sue conversazioni private debbano essere divulgati, a tutela delle sue prerogative più che del caso specifico”. Intanto, nessuno li ha divulgati: la Procura li ha segretati e non se n’è saputo nulla. Quindi la prerogativa della riservatezza, ove mai esistesse, non sarebbe stata violata da nessuno. Il caso però vuole, come ha spiegato e rispiegato Franco Cordero su Repubblica, che quella prerogativa non esista. Nessuna norma costituzionale o procedurale vieta di intercettare né direttamente, né tantomeno indirettamente il capo dello Stato. E’ vietato soltanto processarlo per gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione”: e infatti nessuno l’ha neppure indagato. Ma lo dice lo stesso Mauro che quelle tra Mancino e Napolitano sono “conversazioni private”: dunque non rientrano nell’esercizio delle funzioni presidenziali. Dunque i magistrati potevano benissimo intercettarle, sul telefono di Mancino. Ma avrebbero potuto intercettarle anche su quello del Presidente se, per assurdo, avessero sospettato un Presidente della Repubblica di reati commessi al di fuori dell’esercizio delle funzioni (puta caso: bancarotta, omicidio, traffico di droga o di armi).
5. Il buco che non c’è
“(Napolitano) solleva un conflitto di attribuzione su un ‘buco’ normativo: può il Capo dello Stato essere intercettato, sia pure indirettamente?”. Abbiamo già spiegato, sulla scia di Cordero, che non esiste alcun buco normativo: il costituente e il legislatore non hanno proibito di indagare sul Capo dello Stato per fatti estranei alle sue funzioni non per una dimenticanza, ma perché convinti che sia giusto così. Ma paradossalmente quel “buco” normativo lo nega anche Napolitano. Il quale, sollevando il conflitto contro la Procura di Palermo, sostiene che la norma che vieta le sue intercettazioni indirette, la loro valutazione da parte dei pm, il loro esame in contraddittorio fra le parti davanti al gip, esista eccome e la Procura di Palermo l’abbia violata. Nel decreto del 16 luglio, accusa i pm di “lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione”.
6. Intercettata la Merkel?
“Sollevo una questione di semplice buon senso repubblicano… Il lavoro del Presidente della Repubblica, fuori dagli impegni istituzionali solenni e pubblici, è in gran parte fatto di colloqui, incontri, conversazioni (anche telefoniche)… E’ interesse di Napolitano (posto che non si parla in alcun modo di reati) o è interesse della Repubblica che queste conversazioni non vengano divulgate? Secondo me è interesse di tutti, con buona pace di chi allude senza alcuna sostanza a misteriosi segreti da proteggere, già esclusi da tutti gli inquirenti. Facciamo un’ipotesi astratta, di scuola. Quante telefonate avrà dovuto fare il Capo dello Stato nelle due settimane che hanno preceduto le dimissioni di Berlusconi da palazzo Chigi? Quante conversazioni avrà avuto, quando le cancellerie europee non parlavano più con il governo, i mercati impazzivano, il Paese era allo sbando senza una guida esecutiva e molti di noi temevano il colpo di coda del Caimano? Se quelle conversazioni – che hanno necessariamente preceduto e preparato l’epilogo istituzionale di vent’anni di berlusconismo – fossero diventate pubbliche, quell’esito sarebbe stato più facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a rivelarsi impossibile?”. A parte il fatto che, ripetiamo, le due telefonate Mancino-Napolitano non sono state divulgate, ancora una volta lo dice Mauro stesso: conversazioni nell’ambito del “lavoro del Presidente… fuori dagli impegni istituzionali solenni e pubblici”. La risposta è nella Costituzione: fuori dall’esercizio delle funzioni, il Presidente è un cittadino come gli altri. E non è affatto una minaccia, anzi è una garanzia per i cittadini e per la democrazia tutta il fatto che il capo dello Stato sappia di poter essere intercettato dalla magistratura: così sa in partenza che un giorno potrebbe dover rispondere di quel che fa e dice, e starà molto attento ad attenersi a uno stile e a un contegno consoni all’alta carica che ricopre.
Male non fare, paura non avere. Non abbiamo sempre detto, citando i paesi anglosassoni (negli Usa tutti i colloqui del Presidente vengono addirittura registrati), che le istituzioni sono “case di vetro” sottoposte alla massima trasparenza? Perché questo, improvvisamente, non dovrebbe valere per il Quirinale? Se per caso fossero stati legittimamente intercettati colloqui del Presidente relativi all’ultima crisi di governo che ha portato alla fine del terzo governo Berlusconi, noi non troveremmo nulla di scandaloso che fossero resi noti: anzi se, come Napolitano ha sempre assicurato, si è attenuto scrupolosamente al dettato costituzionale, sarebbe suo interesse dimostrare che le cose stanno davvero così e che abbiamo almeno un politico che dice in privato le stesse cose che dice in pubblico. L’obiezione è nota: e se il Presidente affronta temi di sicurezza nazionale, insomma segreti di Stato? Ma intanto le intercettazioni non avvengono a opera dello Spirito Santo: per essere intercettati bisogna essere sospettati di un reato o parlare con qualcuno coinvolto in un reato. Dunque si può tranquillamente parlare con la Merkel e con Hollande senza essere ascoltati (da un pm, almeno). Qui però Napolitano non parlava con Hollande o Merkel, ma con Mancino: e sarebbe stato sommamente incauto a trattare questioni di Stato al telefono, peggio ancora con un privato cittadino (qual è Mancino, per giunta coinvolto nel caso trattativa).
Peraltro lo stesso problema si pone per i membri del governo: quanti segreti trattano il presidente del Consiglio, i ministri dell’Interno, della Difesa e degli Esteri che oltretutto, a differenza del Capo dello Stato, sono responsabili dei loro atti? Eppure nessuno di essi è coperto da alcuna immunità, in quanto membro del governo (salvo che sia parlamentare). Tranne Monti (senatore a vita), tutti i ministri dell’attuale governo sono intercettabili, indirettamente e anche direttamente, e le eventuali intercettazioni, quando cade il segreto, possono essere divulgate. Tutti i giornali, Repubblica in testa, hanno diffuso fiumi di “conversazioni private” dell’ex premier indirettamente intercettate (direttamente non si poteva, lui è deputato). E non abbiamo cambiato idea, noi: era giusto pubblicarle, perché avevano, anche quelle sulla sua vita sessuale, un rilievo pubblico.
7. Diversamente concordi
Su un punto Mauro ha ragione: “Fare di ogni erba un fascio” e dire che “destra e sinistra sono uguali” è qualunquismo. Ma se chi ha difeso il diritto-dovere della stampa di diffondere conversazioni private e in certi casi prive di rilevanza penale, ma di enorme interesse pubblico, quando c’era di mezzo Berlusconi, oggi sostiene il contrario solo perché la voce intercettata è quella di Napolitano, beh, la tentazione di fare di ogni erba un fascio e dire “tutti uguali” sorge spontanea.
8. Diversamente alti
Può darsi che in quella che Mauro recinta come “la nostra metà del campo (che noi chiamiamo sinistra)”, “il campo ‘democratico’” (tutti gli altri sono totalitari), si siano infiltrate in nome dell’antiberlusconismo “forze, linguaggi comportamenti e pulsioni oggettivamente di destra”. Direbbe Troisi: “Mo’ me lo segno”. Ma è un po’ ingeneroso, oltreché falso, affermare che per costoro “Berlusconi non è mai stato il vero avversario, ma semplicemente lo strumento per suonare la propria musica”. In questi vent’anni han fatto molto più male a Berlusconi avversari irriducibili non di sinistra come Montanelli, Sartori e l’Economist che la sinistra politica e giornalistica, troppo impegnata nelle libagioni bicamerali da cui non s’è mai riavuta (non sto a ricordare chi fu il primo a raccontare in tv i rapporti fra Berlusconi e la mafia e tra Schifani e alcuni tipetti poi condannati per mafia, e l’atteggiamento assunto nelle due circostanze da Repubblica). Quanto a chi “canzonava il Cavaliere in un linguaggio da Bagaglino, con un ‘calandrinismo’ che rompeva la cornice drammatica in cui stava avvenendo quella prova di forza, deridendo i nomi (incolpevoli, almeno loro) delle persone, scherzando coi loro difetti fisici”, ullallà, che seriosità. Suvvia, Ezio, un po’ di satira non ha mai fatto male a nessuno. E per trovare chi deride i nomi (te lo dice un Travaglio) o i difetti fisici, non c’è bisogno di scomodare “la destra peggiore” del “Borghese degli anni più torvi”: bastano le vignette di Forattini su Repubblica (Fanfani basso, Andreotti gobbo e Spadolini grasso); i migliori spettacoli di Benigni su Ferrara ciccione e Berlusconi nano; e le strepitose collezioni del Cuore diretto da Michele Serra, coniatore di definizioni memorabili come “Bottino Craxi”, “Craxitustra”, “Mario Seni”, la Dc “Grande Troia”, i politici con “la faccia come il culo”, fino al “nano ridens” e al “fratello scemo”. Comunque giuriamo solennemente che in futuro ci atterremo al più rigoroso politically correct stile Repubblica: mai più nani e Cainani, solo verticalmente svantaggiati e diversamente alti.
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano - 25 agosto 2012)
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