Matteo Renzi sta cambiando non
solo la legge elettorale, ma anche il modello di democrazia che contrassegna il
nostro Paese. Si tratta, in fondo, di un'osservazione scontata, perché il
sistema elettorale è il "primo principio" della democrazia rappresentativa.
Attraverso cui i cittadini partecipano alla scelta delle assemblee parlamentari
e, quindi, del governo.
L'Italicum , però, delinea, al
tempo stesso, una modifica della "forma di governo", perché conduce e
induce all'elezione diretta del Presidente del Consiglio. E, insieme, al
rafforzamento dei poteri dell'esecutivo a spese del legislativo. Di fatto,
anche se non formalmente. Lo ha chiarito, in Commissione Affari costituzionali,
alla Camera, Roberto D'Alimonte. Autore della versione originaria dell'Italicum.
E l'ha ribadito ieri, sul Sole
24 ore: capo del governo e maggioranza parlamentare saranno decisi direttamente
dai cittadini.
D'altronde, se, con le nuove
regole, le elezioni garantiranno la maggioranza assoluta non a una coalizione
ma a un partito, risulta evidente come il leader del partito vincitore
diverrebbe automaticamente "premier". E disporrebbe di una
maggioranza "fedele", visto che i capilista di circoscrizione, come
prevede l'Italicum, sono pre-definiti. Bloccati. E, dunque, sostanzialmente, scelti dal
"centro". Non si tratta, peraltro, di una novità, perché, da quasi 15
anni, i candidati premier vengono indicati nelle stesse schede elettorali.
Insieme e accanto al nome del partito. O della lista. Giovanni Sartori, non per
caso, ne ha sempre denunciato l'in-costituzionalità. Perché si tratta di un
metodo attraverso il quale si modifica la base "parlamentare" della
nostra democrazia. Naturalmente, come hanno chiarito alcuni autorevoli giuristi
(Barbera, Ceccanti, Clementi), l'Italicum non prevede cambiamenti sul piano
"costituzionale". Ma ne produrrà, sicuramente, sul piano
"istituzionale" e politico. Perché il potere legislativo, la fiducia
al governo e al premier spetterebbero ancora al Parlamento. Tuttavia, a
differenza del passato, anche recente, il leader del partito vincitore non solo
diverrebbe, automatica- premier. Ma non dovrebbe più sottostare ai vincoli e ai
condizionamenti di coalizioni instabili e frammentate. Di leader di piccoli
partiti, ma con un grande potere di "ricatto". Si tratti di Mastella,
Bertinotti. Di Rifondazione, dell'Udeur oppure della Lega.
È, dunque, lecito parlare di
"premierizzazione". Una tendenza che, nel caso dell'Italia del nostro
tempo, verrebbe accentuata dalla marcata personalizzazione dei partiti.
Divenuti, ormai da tempo, "personali" (per citare la nota formula
coniata da Mauro Calise). Tanto più nel caso del Partito democratico di Renzi,
sempre più identificato e accentrato nella persona del Capo. Almeno quanto
Forza Italia lo è nei confronti di Silvio Berlusconi. Con una differenza
sostanziale, sul piano politico e parlamentare. Che, come si è detto, se il Pd
vincesse le prossime elezioni, Renzi potrebbe governare senza il
condizionamento degli alleati, con i quali, invece, Berlusconi ha sempre dovuto
fare i conti.
Naturalmente, il Pd non è Forza
Italia. Non è stato "creato" e modellato da "un" solo
leader - da solo. Il Pd viene da lontano. Incrocio e confluenza dei
partiti di massa che hanno segnato la storia e la politica della nostra
Repubblica, per cinquant'anni e oltre. Tuttavia, il Pd, in questa fase, è
cambiato profondamente, in tempi molto rapidi. E oggi coincide sempre più con
la figura del leader. Dunque, del premier. È divenuto PdR (come ho scritto
altre volte). Il Partito democratico di Renzi. O, più semplicemente, il Partito
di Renzi. In quanto il leader si sovrappone - in senso letterale:
si "pone sopra" - al Pd. In modo aperto. In Parlamento e
fuori. Come sottolinea la sostituzione, in Commissione Affari Costituzionali
della Camera, di tutti gli esponenti della minoranza interna al Pd. Un
orientamento confermato in occasione della festa nazionale dell'Unità di
Bologna, capitale storica dell'Italia Rossa. Dove non sono stati invitati, fra
gli altri, Gianni Cuperlo (poi, sembra, "recuperato") e, soprattutto,
Pier Luigi Bersani. Una biografia politica trascorsa nella famiglia del Pci e
dei partiti post-comunisti. In Emilia Romagna. Dov'è stato governatore (fra il
1993 e il 1996). Un segno esplicito e perfino sfrontato di sopravvento sul
passato. Tanto più perché l'Unità, il giornale a cui si ispira la Festa, è la
testata storica del Pci. Bandiera della tradizione e della militanza comunista.
Oggi "sottomessa" simbolicamente, e non solo, dal (e al) PdR. Matteo
Renzi, peraltro, accompagna questo percorso accentuando lo stile e il
linguaggio del "leader che fa e decide". E viceversa: "decide e
fa". Così, nei giorni scorsi, ha dichiarato che "se l'Italicum non
passa, il governo cade". Detto senza enfasi. Non una minaccia, ma,
piuttosto, un annuncio. Quasi una constatazione. Perché "se il governo,
nato per fare le cose, viene messo sotto, allora vuol dire che i parlamentari
dicono: andate a casa". E, dunque, suggerisce Renzi, implicitamente:
"vi manderò a casa". Tutti.
Se si guarda "oltre"
l'Italicum, dunque, dentro alla riforma elettorale si scorge l'elezione diretta
del premier. Il quale riassumerebbe e concentrerebbe ruolo e poteri del leader
del partito. A conferma di una tendenza in atto da tempo, ma che ora verrebbe
istituzionalizzata. Per Matteo Renzi si tratterebbe della conclusione
- coerente e conseguente - del percorso condotto nell'ultimo
anno e mezzo. Durante il quale ha governato in "solitudine". Il PdR e
l'Italia. Renzi, dunque, si appresta a diventare il Premier Italicum.
Ilvo
Diamanti (La Repubblica – 27 aprile 2015)
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