Difendo
i ‘furbetti del cartellino’. Intanto nel decreto legge le misure
punitive non sono graduate e rischiano di dar luogo a sperequazioni e a
iniquità sostanziali. Un conto è se io sono un assenteista cronico, ed è
giusto quindi che sia sanzionato, altro è se, ‘una tantum’, bigio un
giorno di lavoro o, eludendo il controllo del dirigente, esco un’ora per
prendere una boccata d’aria e un caffè sfuggendo alle mefitiche
macchinette aziendali. In questi casi essere sospeso dal lavoro entro 48
ore e avviato in termini molto rapidi a una procedura di licenziamento
che mi butterà sulla strada mi pare un provvedimento eccessivo e
sproporzionato. Provvedimenti del genere possono essere presi, forse, in
Germania o in Svizzera. Non in Italia dove, per fare solo un esempio
fra i tantissimi, l’onorevole Giancarlo Galan condannato in via
definitiva nel luglio del 2015 per corruzione, scontata ai comodi
arresti domiciliari, continua a prendere una cospicua parte dello
stipendio parlamentare (5 mila euro) conserva il vitalizio e la sua
posizione di presidente della commissione Cultura alla Camera nonostante
sia un’assenteista, benché forzato, dato che non può partecipare ad
alcuna riunione.
Ma
è l’intero sistema del ‘cartellino’ a essere psicologicamente
sbagliato. Perché sottintende una totale sfiducia nel lavoratore che si
ripagherà ricorrendo a ogni sorta di gherminella per far fessa l’azienda
che così poco considerandolo lo umilia. Ho lavorato due anni alla
Pirelli e so quel che mi dico (andavo alle raccolte dell’Avis, che
l’azienda organizzava di frequente, non per spirito di volontariato ma
perché un mezzo litro di sangue dava diritto, oltre che a un bicchiere
di vino e a una fetta di panettone, a un agognato pomeriggio di
libertà). Ho fatto il liceo classico al Berchet di Milano. In quarta e
quinta ginnasio noi somari copiavamo a manetta le versioni di latino dai
compagni più bravi e non c’era insegnante, per quanto cerbero, che
riuscisse a scoprirci. In prima liceo venne uno straordinario
professore, si chiamava Lazzaro, che oltre a saper comunicare il suo
sapere conosceva bene la psicologia dei ragazzi e, più in generale,
degli uomini. Dettava la versione di latino e poi usciva di classe.
Nessuno copiò più perché il suo modo di fare ci toglieva il piacere
della trasgressione e ci faceva capire quanto sciocco e autolesionista
fosse il nostro comportamento.
Non
c’è niente di più umiliante del ‘cartellino’ perché ti fa capire, in
modo tangibile, che sei solo uno ‘schiavo salariato’ mentre intorno a te
prilla un’opulenza sfacciata acquisita a volte in modo legale ma più
spesso, soprattutto nella classe dirigente, illegale. Scrive bene
Nietzsche: “una società che postula l’uguaglianza avendo bisogno di una
moltitudine di schiavi salariati ha perso la testa”. Così infatti si
innescano meccanismi di frustrazione e rancore che, oltre a farci viver
male, possono diventare pericolosi.
Nella
società preindustriale non esistevano cartellini di sorta. Era formata
al 90 per cento da contadini e artigiani. Il contadino lavorava sul suo,
viveva del suo e quindi autoregolava i propri ritmi di lavoro. Lo
stesso valeva per l’artigiano. In quanto a quel 10 per cento, e anche
meno, di nobili fainéant
oltre ad avere alcuni obblighi (difendere il territorio e amministrare
giustizia nel proprio feudo) partecipavano a un altro campionato e
quindi il meccanismo della frustrazione e dell’invidia su cui si regge
la nostra società spingendoci a raggiungere un’impossibile uguaglianza
non scattava. Non è colpa mia se non sono nato Re. Non è colpa mia se
non sono nato nobile.
E’
avvilente per un impiegato, per un operaio, per la cassiera di un
supermarket, per un ragazzo o una ragazza dei call center sapere, o
comunque intuire, di essere un paria, un ciandala, all’ultimo o al
penultimo posto della scala delle caste, funzionale a quello che un
tempo si chiamava ‘il sistema’.
Ribellati
‘popolo dei cartellini’, pubblici o privati. Distruggi quelle carte,
quei timbri, quelle macchinette che certificano, in modo simbolico
quanto concreto, la tua servitù. Insorgi.
Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 27 gennaio 2016)
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